Economia
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Re: Economia
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Armi, Made in Italy che vola: “Export 30 milioni in aree in guerra del Nord Africa”
Secondo l'ultimo rapporto dell'istituto "Archivio Disarmo" dal titolo "Armi leggere, guerre pesanti", nel 2014 le esportazioni italiane di pistole, fucili e carabine sono state pari a 453 milioni, lievemente inferiori al 2013, ma superiori alla media del decennio. Proprio nel momento in cui si prepara un intervento armato in Libia di cui l'Italia dovrebbe assumere il comando, l'eventuale coalizione internazionale potrebbe trovarsi puntati contro armamenti fabbricati nella Penisola
di Daniele Martini | 23 maggio 2015
Dal profondo Nord della Val Trompia, terra di fabbriche di armi e di leghisti, non si è mai interrotto il flusso di pistole, fucili e proiettili verso quelle parti dell’Africa che ribollono di tensioni e conflitti e da cui fuggono a decine di migliaia i disperati che cercano di scampare alle carneficine. Anche l’anno passato, con la Libia dilaniata dalle faide tra clan e senza più un potere centrale riconoscibile, e il resto del Maghreb, dall’Algeria alla Tunisia all’Egitto, sempre sul punto di esplodere, sono andati assai bene gli affari delle imprese italiane, Beretta in testa. Nel complesso sono ammontate a circa 30 milioni di euro le esportazioni di pistole, fucili, carabine e simili verso quelle regioni. Insieme al Nord Africa anche il Medio Oriente, dall’Arabia Saudita alla Siria, compresi Iran e Iraq sotto l’attacco degli assassini del Califfato dell’Isis, ha ricevuto dall’Italia un buon numero di pistole e fucili.
Questi dati preoccupanti emergono da un corposo rapporto dell’istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo dal titolo Armi leggere, guerre pesanti curato da Antonio Lamanna e da Maurizio Simoncelli. I dati utilizzati sono quelli ufficiali contenuti nel database dell’Istat. Le conclusioni fanno riflettere: nel 2014 le esportazioni italiane di questi micidiali strumenti sono state pari a 453 milioni, leggermente inferiori a quelle dell’anno precedente, ma superiori alla media delle esportazioni del decennio. In sostanza dallo studio viene fuori che in questa lunga fase di crisi soprattutto delle esportazioni, l’industria italiana delle armi è una delle poche a reggere bene la botta senza subire sostanziali effetti recessivi.
La produzione e l’esportazione di armi ai quattro angoli del pianeta contribuisce alla ricchezza della Val Trompia (provincia di Brescia) e garantisce il lavoro a migliaia di operai di quella zona. Il rovescio della medaglia, però, è che quei prodotti vengono venduti con assoluta disinvoltura (anche se ovviamente nel sostanziale rispetto delle leggi e dei trattati internazionali) pure a paesi dove infuriano le guerre e a quelli segnalati da diverse organizzazioni internazionali come Amnesty International, Human Right e Escola de Pau, per le reiterate violazioni dei diritti umani e per situazioni di tensione o di conflitto armato. Nazioni come l’Ucraina o la Russia, la Colombia e il Messico. In pratica è ragionevole supporre che le armi italiane contribuiscano a rendere ancora più aspri e sanguinosi i conflitti in atto.
Nel caso del Nord Africa c’è un di più. Proprio nel momento in cui a livello internazionale si prepara un intervento armato in Libia di cui l’Italia dovrebbe assumere formalmente il comando con l’intento di interrompere il flusso di migranti organizzato da bande criminali, lo studio di Archivio disarmo attesta che dalla stessa Italia partono a decine di migliaia le armi destinate a quei paesi. Ordigni che con ogni probabilità saranno usati anche e forse soprattutto da quei mercanti di morte contro i quali vengono inviate le nostre missioni militari. C’è il rischio in pratica che da una parte e dall’altra si sparino proprio con le stesse armi made in Italy.
Al primo posto tra i paesi importatori di armi leggere italiane ci sono gli Stati Uniti con il 42% del totale. In Usa le armi italiane sono assai apprezzate, soprattutto dopo che a metà degli anni 80 del secolo passato l’esercito americano decise di adottare per i propri soldati proprio una pistola Beretta, la famosa M9, rimasta in dotazione all’Us Army fino alla fine dell’anno passato. Negli Stati Uniti il possesso di armi per uso di difesa personale è un diritto garantito dalla Costituzione oculatamente protetto dalla Nra (National Rifle Association), ritenuta una delle lobby americane più potenti. Sull’altro piatto della bilancia c’è il fatto che proprio la diffusione di massa di ordigni micidiali è ritenuta la causa principale del numero abnorme di assassinii e di conflitti a fuoco. C’è poi il pericolo che l’enorme quantità di armi in circolazione amplifichi gli effetti dei ricorrenti momenti di tensione, come è successo di recente con il rinfocolarsi dei conflitti razziali.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05 ... a/1710009/
Armi, Made in Italy che vola: “Export 30 milioni in aree in guerra del Nord Africa”
Secondo l'ultimo rapporto dell'istituto "Archivio Disarmo" dal titolo "Armi leggere, guerre pesanti", nel 2014 le esportazioni italiane di pistole, fucili e carabine sono state pari a 453 milioni, lievemente inferiori al 2013, ma superiori alla media del decennio. Proprio nel momento in cui si prepara un intervento armato in Libia di cui l'Italia dovrebbe assumere il comando, l'eventuale coalizione internazionale potrebbe trovarsi puntati contro armamenti fabbricati nella Penisola
di Daniele Martini | 23 maggio 2015
Dal profondo Nord della Val Trompia, terra di fabbriche di armi e di leghisti, non si è mai interrotto il flusso di pistole, fucili e proiettili verso quelle parti dell’Africa che ribollono di tensioni e conflitti e da cui fuggono a decine di migliaia i disperati che cercano di scampare alle carneficine. Anche l’anno passato, con la Libia dilaniata dalle faide tra clan e senza più un potere centrale riconoscibile, e il resto del Maghreb, dall’Algeria alla Tunisia all’Egitto, sempre sul punto di esplodere, sono andati assai bene gli affari delle imprese italiane, Beretta in testa. Nel complesso sono ammontate a circa 30 milioni di euro le esportazioni di pistole, fucili, carabine e simili verso quelle regioni. Insieme al Nord Africa anche il Medio Oriente, dall’Arabia Saudita alla Siria, compresi Iran e Iraq sotto l’attacco degli assassini del Califfato dell’Isis, ha ricevuto dall’Italia un buon numero di pistole e fucili.
Questi dati preoccupanti emergono da un corposo rapporto dell’istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo dal titolo Armi leggere, guerre pesanti curato da Antonio Lamanna e da Maurizio Simoncelli. I dati utilizzati sono quelli ufficiali contenuti nel database dell’Istat. Le conclusioni fanno riflettere: nel 2014 le esportazioni italiane di questi micidiali strumenti sono state pari a 453 milioni, leggermente inferiori a quelle dell’anno precedente, ma superiori alla media delle esportazioni del decennio. In sostanza dallo studio viene fuori che in questa lunga fase di crisi soprattutto delle esportazioni, l’industria italiana delle armi è una delle poche a reggere bene la botta senza subire sostanziali effetti recessivi.
La produzione e l’esportazione di armi ai quattro angoli del pianeta contribuisce alla ricchezza della Val Trompia (provincia di Brescia) e garantisce il lavoro a migliaia di operai di quella zona. Il rovescio della medaglia, però, è che quei prodotti vengono venduti con assoluta disinvoltura (anche se ovviamente nel sostanziale rispetto delle leggi e dei trattati internazionali) pure a paesi dove infuriano le guerre e a quelli segnalati da diverse organizzazioni internazionali come Amnesty International, Human Right e Escola de Pau, per le reiterate violazioni dei diritti umani e per situazioni di tensione o di conflitto armato. Nazioni come l’Ucraina o la Russia, la Colombia e il Messico. In pratica è ragionevole supporre che le armi italiane contribuiscano a rendere ancora più aspri e sanguinosi i conflitti in atto.
Nel caso del Nord Africa c’è un di più. Proprio nel momento in cui a livello internazionale si prepara un intervento armato in Libia di cui l’Italia dovrebbe assumere formalmente il comando con l’intento di interrompere il flusso di migranti organizzato da bande criminali, lo studio di Archivio disarmo attesta che dalla stessa Italia partono a decine di migliaia le armi destinate a quei paesi. Ordigni che con ogni probabilità saranno usati anche e forse soprattutto da quei mercanti di morte contro i quali vengono inviate le nostre missioni militari. C’è il rischio in pratica che da una parte e dall’altra si sparino proprio con le stesse armi made in Italy.
Al primo posto tra i paesi importatori di armi leggere italiane ci sono gli Stati Uniti con il 42% del totale. In Usa le armi italiane sono assai apprezzate, soprattutto dopo che a metà degli anni 80 del secolo passato l’esercito americano decise di adottare per i propri soldati proprio una pistola Beretta, la famosa M9, rimasta in dotazione all’Us Army fino alla fine dell’anno passato. Negli Stati Uniti il possesso di armi per uso di difesa personale è un diritto garantito dalla Costituzione oculatamente protetto dalla Nra (National Rifle Association), ritenuta una delle lobby americane più potenti. Sull’altro piatto della bilancia c’è il fatto che proprio la diffusione di massa di ordigni micidiali è ritenuta la causa principale del numero abnorme di assassinii e di conflitti a fuoco. C’è poi il pericolo che l’enorme quantità di armi in circolazione amplifichi gli effetti dei ricorrenti momenti di tensione, come è successo di recente con il rinfocolarsi dei conflitti razziali.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05 ... a/1710009/
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Re: Economia
Latouche: l’economia, una religione che distrugge la felicità
Scritto il 24/5/15 • LIBRE nella Categoria: idee
Considerare il Pil non ha molto senso: è funzionale solo a logica capitalista, l’ossessione della misura fa parte dell’economicizzazione.
Il nostro obiettivo deve essere vivere bene, non meglio.
Per anni abbiamo pensato proprio che la crescita permettesse di risolvere più o meno tutti i conflitti sociali, anche grazie a stipendi sempre più elevati.
E in effetti abbiamo vissuto un trentennio d’oro, tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio degli anni Settanta.
Un periodo caratterizzato da crescita economica e trasformazioni sociali di un’intensità senza precedenti.
Poi è iniziata la fase successiva, quella dell’accumulazione continua, anche senza crescita.
Una guerra vera, tutti contro tutti.
Sì, un conflitto che ci vede contrapposti gli uni agli altri per accumulare il più possibile, il più rapidamente possibile.
E’ una guerra contro la natura, perché non ci accorgiamo che in questo modo distruggiamo più rapidamente il pianeta.
Stiamo facendo la guerra agli uomini. Anche un bambino capirebbe quello che politici ed economisti fingono di non vedere: per definizione, una crescita infinita è assurda, in un pianeta finito, ma non lo capiremo finché non lo avremo distrutto.
Per fare la pace dobbiamo abbandonarci all’abbondanza frugale, accontentarci.
Dobbiamo imparare a ricostruire i rapporti sociali.
E’ evidente che un certo livello di concorrenza porti beneficio a consumatori, ma deve portarlo a consumatori che siano anche cittadini.
La concorrenza non deve distruggere il tessuto sociale.
Il livello di competitività dovrebbe ricalcare quello delle città italiane del Rinascimento, quando le sfide era sui miglioramenti della vita.
Adesso invece siamo schiavi del marketing e della pubblicità che hanno l’obiettivo di creare bisogni che non abbiamo, rendendoci infelici.
Invece non capiamo che potremmo vivere serenamente con tutto quello che abbiamo.
Basti pensare che il 40% del cibo prodotto va direttamente nella spazzatura: scade senza che nessuno lo comperi.
La globalizzazione estremizza la concorrenza, perché superando i confini azzera i limiti imposti dallo Stato sociale e diventa distruttiva.
Sapersi accontentare è una forma di ricchezza: non si tratta di rinunciare, ma semplicemente di non dare alla moneta più dell’importanza che ha realmente.
Dalla concorrenza, i consumatori possono trarre benefici effimeri: in cambio di prezzi più bassi, ottengono salari sempre più bassi.
Penso al tessuto industriale italiano distrutto dalla concorrenza cinese e poi agli stessi contadini cinesi messi in crisi dall’agricoltura occidentale.
Stiamo assistendo a una guerra.
Non possiamo illuderci che la concorrenza sia davvero libera e leale, non lo sarà mai: ci sono leggi fiscali e sociali.
E per i piccoli non c’è la possibilità di controbilanciare i poteri.
Siamo di fronte a una violenza incontrollata.
Il Ttip, il trattato di libero scambio da Stati Uniti ed Europa, sarebbe solo l’ultima catastrofe: il libero scambio è il protezionismo dei predatori.
Come si fa la pace?
Dobbiamo decolonizzare la nostra mente dall’invenzione dell’economia.
Dobbiamo ricordare come siamo stati economicizzati.
Abbiamo iniziato noi occidentali, fin dai tempi di Aristotele, creando una religione che distrugge le felicità.
Dobbiamo essere noi, adesso, a invertire la rotta.
Il progetto economico, capitalista, è nato nel Medioevo, ma la sua forza è esplosa con la rivoluzione industriale e la capacità di fare denaro con il denaro.
Eppure lo stesso Aristotele aveva capito che così si sarebbe distrutta la società.
Ci sono voluti secoli per cancellare la società pre-economica, ci vorranno secoli per tornare indietro.
Preferisco definirmi filosofo, anche se nasco come economista, perché ho perso la fede nell’economia.
Ho capito che si tratta di una menzogna.
L’ho capito in Laos, dove la gente vive felice senza avere una vera economia perché quella serve solo a distruggere l’equilibrio.
E’ una religione occidentale che ci rende infelici.
Ai vertici della politica gli economisti sono molti.
Io mi sono allontanato dalla politica politicante, anche perché il progetto della decrescita non è politico, ma sociale.
Per avere successo ha bisogno soprattutto di un movimento dal basso come quello neozapatista in Chiapas che poi si è diffuso anche in Ecuador e in Bolivia.
Ma ci sono esempi anche in Europa: “Syriza” in Grecia e “Podemos” in Spagna si avvicinano alla strada.
L’Expo? Non mi interessa.
Non è una vera esposizione dei produttori, è una fiera per le multinazionali come CocaCola.
Mi sarebbe piaciuto se l’avesse fatto il mio amico Carlo Petrini.
Si poteva fare un evento come Terra Madre: vado sempre a Torino al Salone del Gusto, ma questo no, non mi interessa.
E’ il trionfo della globalizzazione, non si parla della produzione.
E poi non si parla di alimentazione: noi, per esempio, mangiamo troppa carne.
Troppa, e di cattiva qualità.
(Serge Latouche, dichiarazioni rilasciate a Giuliano Balestreri per l’intervista “L’economia ha fallito, il capitalismo è guerra, la globalizzazione violenza”, pubblicata da “Repubblica” il 10 maggio 2015).
Scritto il 24/5/15 • LIBRE nella Categoria: idee
Considerare il Pil non ha molto senso: è funzionale solo a logica capitalista, l’ossessione della misura fa parte dell’economicizzazione.
Il nostro obiettivo deve essere vivere bene, non meglio.
Per anni abbiamo pensato proprio che la crescita permettesse di risolvere più o meno tutti i conflitti sociali, anche grazie a stipendi sempre più elevati.
E in effetti abbiamo vissuto un trentennio d’oro, tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio degli anni Settanta.
Un periodo caratterizzato da crescita economica e trasformazioni sociali di un’intensità senza precedenti.
Poi è iniziata la fase successiva, quella dell’accumulazione continua, anche senza crescita.
Una guerra vera, tutti contro tutti.
Sì, un conflitto che ci vede contrapposti gli uni agli altri per accumulare il più possibile, il più rapidamente possibile.
E’ una guerra contro la natura, perché non ci accorgiamo che in questo modo distruggiamo più rapidamente il pianeta.
Stiamo facendo la guerra agli uomini. Anche un bambino capirebbe quello che politici ed economisti fingono di non vedere: per definizione, una crescita infinita è assurda, in un pianeta finito, ma non lo capiremo finché non lo avremo distrutto.
Per fare la pace dobbiamo abbandonarci all’abbondanza frugale, accontentarci.
Dobbiamo imparare a ricostruire i rapporti sociali.
E’ evidente che un certo livello di concorrenza porti beneficio a consumatori, ma deve portarlo a consumatori che siano anche cittadini.
La concorrenza non deve distruggere il tessuto sociale.
Il livello di competitività dovrebbe ricalcare quello delle città italiane del Rinascimento, quando le sfide era sui miglioramenti della vita.
Adesso invece siamo schiavi del marketing e della pubblicità che hanno l’obiettivo di creare bisogni che non abbiamo, rendendoci infelici.
Invece non capiamo che potremmo vivere serenamente con tutto quello che abbiamo.
Basti pensare che il 40% del cibo prodotto va direttamente nella spazzatura: scade senza che nessuno lo comperi.
La globalizzazione estremizza la concorrenza, perché superando i confini azzera i limiti imposti dallo Stato sociale e diventa distruttiva.
Sapersi accontentare è una forma di ricchezza: non si tratta di rinunciare, ma semplicemente di non dare alla moneta più dell’importanza che ha realmente.
Dalla concorrenza, i consumatori possono trarre benefici effimeri: in cambio di prezzi più bassi, ottengono salari sempre più bassi.
Penso al tessuto industriale italiano distrutto dalla concorrenza cinese e poi agli stessi contadini cinesi messi in crisi dall’agricoltura occidentale.
Stiamo assistendo a una guerra.
Non possiamo illuderci che la concorrenza sia davvero libera e leale, non lo sarà mai: ci sono leggi fiscali e sociali.
E per i piccoli non c’è la possibilità di controbilanciare i poteri.
Siamo di fronte a una violenza incontrollata.
Il Ttip, il trattato di libero scambio da Stati Uniti ed Europa, sarebbe solo l’ultima catastrofe: il libero scambio è il protezionismo dei predatori.
Come si fa la pace?
Dobbiamo decolonizzare la nostra mente dall’invenzione dell’economia.
Dobbiamo ricordare come siamo stati economicizzati.
Abbiamo iniziato noi occidentali, fin dai tempi di Aristotele, creando una religione che distrugge le felicità.
Dobbiamo essere noi, adesso, a invertire la rotta.
Il progetto economico, capitalista, è nato nel Medioevo, ma la sua forza è esplosa con la rivoluzione industriale e la capacità di fare denaro con il denaro.
Eppure lo stesso Aristotele aveva capito che così si sarebbe distrutta la società.
Ci sono voluti secoli per cancellare la società pre-economica, ci vorranno secoli per tornare indietro.
Preferisco definirmi filosofo, anche se nasco come economista, perché ho perso la fede nell’economia.
Ho capito che si tratta di una menzogna.
L’ho capito in Laos, dove la gente vive felice senza avere una vera economia perché quella serve solo a distruggere l’equilibrio.
E’ una religione occidentale che ci rende infelici.
Ai vertici della politica gli economisti sono molti.
Io mi sono allontanato dalla politica politicante, anche perché il progetto della decrescita non è politico, ma sociale.
Per avere successo ha bisogno soprattutto di un movimento dal basso come quello neozapatista in Chiapas che poi si è diffuso anche in Ecuador e in Bolivia.
Ma ci sono esempi anche in Europa: “Syriza” in Grecia e “Podemos” in Spagna si avvicinano alla strada.
L’Expo? Non mi interessa.
Non è una vera esposizione dei produttori, è una fiera per le multinazionali come CocaCola.
Mi sarebbe piaciuto se l’avesse fatto il mio amico Carlo Petrini.
Si poteva fare un evento come Terra Madre: vado sempre a Torino al Salone del Gusto, ma questo no, non mi interessa.
E’ il trionfo della globalizzazione, non si parla della produzione.
E poi non si parla di alimentazione: noi, per esempio, mangiamo troppa carne.
Troppa, e di cattiva qualità.
(Serge Latouche, dichiarazioni rilasciate a Giuliano Balestreri per l’intervista “L’economia ha fallito, il capitalismo è guerra, la globalizzazione violenza”, pubblicata da “Repubblica” il 10 maggio 2015).
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Re: Economia
da L'Altra Europa con
NONOSTANTE IL JOBS ACT IL CONTO NON TORNA
di Paolo Pini e Roberto Romano – 4 giugno 2015 -
Il lavoro a monetizzazione crescente.
L’aumento dell’occupazione di aprile non coincide con un aumento del Pil e del reddito. C’è il rischio che l’Italia ripeta l’errore delle riforme del lavoro degli anni ’90: decontribuzione e aumento della precarietà non aumentano la competitività. E alla lunga ci rimettono sia lo stato che il sistema produttivo
Commentatori e politici plaudono agli ultimi dati occupazionali diffusi ieri dall’Istat. Ad aprile 2015 rispetto al mese precedente gli occupati salgono di 159mila unità, e ben di 261mila rispetto ad aprile dell’anno prima. Si tratta di incrementi consistenti, +0,7% il primo in un mese e +1,2% il secondo in un anno.
Merito del Jobs Act dagli effetti esplosivi in un mese che si somma al vantaggio decontributivo previsto da tre mesi di ben 8.000 euro annuali e 24.000 triennali, sempre che le imprese non licenzino prima della scadenza dell’incentivo i nuovi assunti a monetizzazione crescente pagando una manciata di euro per l’indennizzo previsto per recedere dal nuovo contratto.
Ma c’è qualcosa, più di una in verità, che non torna in questi plausi.
Alcuni richiamano il rischio di una politica di assunzioni «drogate» della decontribuzione che costituisce un forte incentivo alle imprese a mettere a nuovo contratto lavoratori che possono essere licenziati presto e a basso prezzo appena l’incentivo cessa, e comunque alla bisogna. Una sorta di incentivo alla rovescia, ovvero a licenziare facile.
Altri più cauti non si fidano dei dati congiunturali dell’Istat, men che meno di quelli precedenti del Ministero del Lavoro, perché ritenuti troppo “ballerini” in una fase di cambio di regime delle normative sul lavoro, ed invitano ad aspettare almeno un medio periodo per vedere come occupazione e disoccupazione si stabilizzano “a regime”.
Noi vogliamo segnalare un qualcosa forse altrettanto preoccupante che si cela dietro questi dati, prendendoli per corretti.
Una crescita dello 0,7% in un mese e dell’1,2% su base annuale dell’occupazione richiederebbe un sottostante dato di crescita del Pil che possa portare a ritenere che ciò che vien creato è «buona occupazione» perché dietro c’è «buona produttività» e magari anche, si fa per dire, «buone retribuzioni».
Ma nell’ultimo anno i dati non ci confortano su ciò, anzi. Non abbiamo registrato crescita nell’ordine di più dell’1% del reddito nazionale nel corso dell’ultimo anno, e neppure nell’ultimo trimestre, oppure mese, una crescita sopra lo 0,5%.
Dal marzo 2014 al marzo 2015 il Pil è diminuito dello 0,29%. L’ultimo dato Istat sul Pil ha certo segnalato che su base trimestrale siamo usciti dalla recessione tecnica, ma la crescita si è attestata nell’ordine di un misero 0,3% rispetto al trimestre precedente, ed uno 0,1% rispetto al trimestre dell’anno precedente, a cui si aggiunge la previsione acquisita per il 2015 nell’ordine di una +0,2%. Una cifra un poco modesta se confrontata con il dato occupazionale. Per il 2015 d’altra parte lo stesso governo si tiene cauto, con una previsione di crescita dello 0,8%, rivista peraltro al rialzo, e le stesse istituzioni interazionali non si azzardano a fare previsioni migliori; nessuno va sopra l’1%.
Il dato occupazionale, incrociato con il dato sulla crescita del reddito, con le dovute cautele date dal fatto che non necessariamente il periodo temporale è identico in termini di mesi, segnala, o segnalerebbe per ragioni di cautela, che l’occupazione andrebbe a crescere più del reddito, e se ciò non appare infondato significa che la produttività del lavoro, e quindi, data la dinamica delle retribuzioni, anche la competitività, invece di crescere nel periodo avrebbero la malaugurata tendenza a diminuire.
E se la crescita della produttività, di cui già l’Italia detiene da oltre due decenni la maglia nera tra i paesi industriali, non solo ristagna (crescita zero) ma addirittura decresce, non è facile farsi facili illusioni su «buona occupazione» e «buone retribuzioni» per il presente e l’immediato futuro.
Quei dati occupazionali segnalano purtroppo, se presi come autentici — forse proprio perché son “drogati” dagli incentivi fiscali e dal contratto a monetizzazione crescente e facilità a licenziare — l’altra faccia della medaglia di questa presunta crescita quantitativa, ovvero il suo povero contenuto qualitativo.
Qualcosa di simile lo abbiamo già visto negli anni 2000. Le cosiddette riforme al margine del mercato del lavoro han fatto crescere in quel periodo il precariato, il lavoro a basse tutele e basse retribuzioni, ed a bassa produttività, nei servizi di mercato soprattutto, ma anche nell’industria manifatturiera.
L’esito è stato come è noto un crollo di competitività dell’imprese italiane e delle remunerazioni del lavoro.
Ora con il Jobs Act e l’incentivo decontributivo si intende sostituire quel lavoro precario con altro lavoro comunque a basse tutele con monetizzazione del diritto a licenziare. Purtroppo il rischio è che a pagare queste politiche di corto respiro non sarà solo il singolo lavoratore, ma l’impresa stessa, e il sistema produttivo, con lavoro di scarsa qualità e bassa produttività.
Invece di investire in innovazione con politiche industriali più lungimiranti, il sistema rischia di non uscire dalla sua trappola della stagnazione.
NONOSTANTE IL JOBS ACT IL CONTO NON TORNA
di Paolo Pini e Roberto Romano – 4 giugno 2015 -
Il lavoro a monetizzazione crescente.
L’aumento dell’occupazione di aprile non coincide con un aumento del Pil e del reddito. C’è il rischio che l’Italia ripeta l’errore delle riforme del lavoro degli anni ’90: decontribuzione e aumento della precarietà non aumentano la competitività. E alla lunga ci rimettono sia lo stato che il sistema produttivo
Commentatori e politici plaudono agli ultimi dati occupazionali diffusi ieri dall’Istat. Ad aprile 2015 rispetto al mese precedente gli occupati salgono di 159mila unità, e ben di 261mila rispetto ad aprile dell’anno prima. Si tratta di incrementi consistenti, +0,7% il primo in un mese e +1,2% il secondo in un anno.
Merito del Jobs Act dagli effetti esplosivi in un mese che si somma al vantaggio decontributivo previsto da tre mesi di ben 8.000 euro annuali e 24.000 triennali, sempre che le imprese non licenzino prima della scadenza dell’incentivo i nuovi assunti a monetizzazione crescente pagando una manciata di euro per l’indennizzo previsto per recedere dal nuovo contratto.
Ma c’è qualcosa, più di una in verità, che non torna in questi plausi.
Alcuni richiamano il rischio di una politica di assunzioni «drogate» della decontribuzione che costituisce un forte incentivo alle imprese a mettere a nuovo contratto lavoratori che possono essere licenziati presto e a basso prezzo appena l’incentivo cessa, e comunque alla bisogna. Una sorta di incentivo alla rovescia, ovvero a licenziare facile.
Altri più cauti non si fidano dei dati congiunturali dell’Istat, men che meno di quelli precedenti del Ministero del Lavoro, perché ritenuti troppo “ballerini” in una fase di cambio di regime delle normative sul lavoro, ed invitano ad aspettare almeno un medio periodo per vedere come occupazione e disoccupazione si stabilizzano “a regime”.
Noi vogliamo segnalare un qualcosa forse altrettanto preoccupante che si cela dietro questi dati, prendendoli per corretti.
Una crescita dello 0,7% in un mese e dell’1,2% su base annuale dell’occupazione richiederebbe un sottostante dato di crescita del Pil che possa portare a ritenere che ciò che vien creato è «buona occupazione» perché dietro c’è «buona produttività» e magari anche, si fa per dire, «buone retribuzioni».
Ma nell’ultimo anno i dati non ci confortano su ciò, anzi. Non abbiamo registrato crescita nell’ordine di più dell’1% del reddito nazionale nel corso dell’ultimo anno, e neppure nell’ultimo trimestre, oppure mese, una crescita sopra lo 0,5%.
Dal marzo 2014 al marzo 2015 il Pil è diminuito dello 0,29%. L’ultimo dato Istat sul Pil ha certo segnalato che su base trimestrale siamo usciti dalla recessione tecnica, ma la crescita si è attestata nell’ordine di un misero 0,3% rispetto al trimestre precedente, ed uno 0,1% rispetto al trimestre dell’anno precedente, a cui si aggiunge la previsione acquisita per il 2015 nell’ordine di una +0,2%. Una cifra un poco modesta se confrontata con il dato occupazionale. Per il 2015 d’altra parte lo stesso governo si tiene cauto, con una previsione di crescita dello 0,8%, rivista peraltro al rialzo, e le stesse istituzioni interazionali non si azzardano a fare previsioni migliori; nessuno va sopra l’1%.
Il dato occupazionale, incrociato con il dato sulla crescita del reddito, con le dovute cautele date dal fatto che non necessariamente il periodo temporale è identico in termini di mesi, segnala, o segnalerebbe per ragioni di cautela, che l’occupazione andrebbe a crescere più del reddito, e se ciò non appare infondato significa che la produttività del lavoro, e quindi, data la dinamica delle retribuzioni, anche la competitività, invece di crescere nel periodo avrebbero la malaugurata tendenza a diminuire.
E se la crescita della produttività, di cui già l’Italia detiene da oltre due decenni la maglia nera tra i paesi industriali, non solo ristagna (crescita zero) ma addirittura decresce, non è facile farsi facili illusioni su «buona occupazione» e «buone retribuzioni» per il presente e l’immediato futuro.
Quei dati occupazionali segnalano purtroppo, se presi come autentici — forse proprio perché son “drogati” dagli incentivi fiscali e dal contratto a monetizzazione crescente e facilità a licenziare — l’altra faccia della medaglia di questa presunta crescita quantitativa, ovvero il suo povero contenuto qualitativo.
Qualcosa di simile lo abbiamo già visto negli anni 2000. Le cosiddette riforme al margine del mercato del lavoro han fatto crescere in quel periodo il precariato, il lavoro a basse tutele e basse retribuzioni, ed a bassa produttività, nei servizi di mercato soprattutto, ma anche nell’industria manifatturiera.
L’esito è stato come è noto un crollo di competitività dell’imprese italiane e delle remunerazioni del lavoro.
Ora con il Jobs Act e l’incentivo decontributivo si intende sostituire quel lavoro precario con altro lavoro comunque a basse tutele con monetizzazione del diritto a licenziare. Purtroppo il rischio è che a pagare queste politiche di corto respiro non sarà solo il singolo lavoratore, ma l’impresa stessa, e il sistema produttivo, con lavoro di scarsa qualità e bassa produttività.
Invece di investire in innovazione con politiche industriali più lungimiranti, il sistema rischia di non uscire dalla sua trappola della stagnazione.
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Re: Economia
http://firmiamo.it/inps-truffata-da-fin ... ccianti-NL
Il mondo del lavoro in cui tutti stiamo affogando, nostro malgrado, è un qualcosa di abominevole. Gli scenari in cui ci troviamo noi, i nostri genitori, i nostri figli, sono fuori da ogni umana concezione del rispetto. Per questo la notizia dei finti agricoltori che pagavano i datori di lavoro per simulare un contratto e poi ottenere una disoccupazione mi sorprende il giusto: si tratta della tristemente normale evoluzione di un mondo allo scatafascio.
La notizia, uscita sull'Ansa, è questa: "Falsi braccianti truffano Inps per 1 milione. 479 braccianti nel sud Barese erano fittiziamente assunti allo scopo di ottenere successivamente l'indennità di disoccupazione e beneficiare di copertura contributiva e assicurativa, anche ai fini pensionistici. Secondo l'accusa, erano i finti braccianti a pagare ai finti datori di lavoro 12-15 euro a giornata per ottenere la falsa assunzione" (http://www.ansa.it/puglia/notizie/2015/ ... 1ac17.html).
L'azione di questi uomini è assolutamente da condannare, se tutti facciamo i furbi come possiamo sperare di migliorare il mondo? Ma il vero colpevole è lo Stato che ancora non è riuscito a rendere completamente funzionale il sistema del lavoro. Quanto ancora dovremo andare avanti a contare i 10 euro? Quanto ancora le aziende potranno trattarci come schiavi perché hanno in mano un potere contrattuale? Quanto ancora dovremmo ingegnarci per arrivare a fine mese? Il Governo deve garantire il lavoro ai cittadini, non solo facilitando l'indeterminato, ma anche favorendo l'inserimento in un contesto nuovo senza discriminazione di sesso ed età perché tutti siamo uguali davanti a questa crisi.
Se anche tu la pensi così, firma questa petizione e facciamo sentire.
.........................
Ciao
Paolo11
Il mondo del lavoro in cui tutti stiamo affogando, nostro malgrado, è un qualcosa di abominevole. Gli scenari in cui ci troviamo noi, i nostri genitori, i nostri figli, sono fuori da ogni umana concezione del rispetto. Per questo la notizia dei finti agricoltori che pagavano i datori di lavoro per simulare un contratto e poi ottenere una disoccupazione mi sorprende il giusto: si tratta della tristemente normale evoluzione di un mondo allo scatafascio.
La notizia, uscita sull'Ansa, è questa: "Falsi braccianti truffano Inps per 1 milione. 479 braccianti nel sud Barese erano fittiziamente assunti allo scopo di ottenere successivamente l'indennità di disoccupazione e beneficiare di copertura contributiva e assicurativa, anche ai fini pensionistici. Secondo l'accusa, erano i finti braccianti a pagare ai finti datori di lavoro 12-15 euro a giornata per ottenere la falsa assunzione" (http://www.ansa.it/puglia/notizie/2015/ ... 1ac17.html).
L'azione di questi uomini è assolutamente da condannare, se tutti facciamo i furbi come possiamo sperare di migliorare il mondo? Ma il vero colpevole è lo Stato che ancora non è riuscito a rendere completamente funzionale il sistema del lavoro. Quanto ancora dovremo andare avanti a contare i 10 euro? Quanto ancora le aziende potranno trattarci come schiavi perché hanno in mano un potere contrattuale? Quanto ancora dovremmo ingegnarci per arrivare a fine mese? Il Governo deve garantire il lavoro ai cittadini, non solo facilitando l'indeterminato, ma anche favorendo l'inserimento in un contesto nuovo senza discriminazione di sesso ed età perché tutti siamo uguali davanti a questa crisi.
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Re: Economia
Economia & Lobby
Crescita e Tasi, dall’Ocse uno spot non riuscito
di Stefano Feltri | 11 novembre 2015
A febbraio il capo dell’Ocse Angel Gurria aveva pronunciato giudizi poco scientifici ma lusinghieri sul governo Renzi: “Approccio sorprendente”, piano di riforme “ambizioso”, Jobs Act come “motore del cambiamento”
Questo ottimismo traspare anche dalla prosa dell’Economic Outlook, il documento che il think tank dei Paesi industrializzati ha diffuso l’altro ieri.
Nel complesso la diagnosi dell’Ocse sull’Italia è molto positiva: il deficit scende, i consumi stanno riprendendo, torna la fiducia e molto di questo è merito delle “riforme significative” adottate dal governo.
Ci sono parole di apprezzamento anche per l’Agenzia nazionale del lavoro che deve coordinare le politiche attive contro la disoccupazione, che ancora non è neppure stata costituita.
Tutto molto bene: in questi due anni Matteo Renzi è stato capace di avviare interventi in tutti i campi in cui l’Ocse – come le altre istituzioni internazionali – ha sempre chiesto di agire.
L’unica cosa che neppure l’Ocse riesce a giustificare, creando forse un po’ di imbarazzo al suo ex vice segretario Pier Carlo Padoan, è l’abolizione della Tasi sulla prima casa: tra le raccomandazioni per avere una “crescita economica più duratura, più verde e più inclusiva”, bisognerebbe “spostare il carico fiscale dal lavoro al consumo e agli immobili, oltre ad alzare le tasse ambientali”.
Gli stessi auspici espressi nelle raccomandazioni della Commissione europea emanate dal Consiglio. Che il governo Renzi non rispetta.
Anche le previsioni sono meno rosee di come l’Ocse le presenta, perché sono inferiori a quelle del governo.
Pil 2015: +0,8 per l’Ocse, +0,9 per il Tesoro (con la speranza di arrivare a +1), sui due anni successivi +1,4 invece che +1,6.
Ogni 0,1 vale circa 1,5 miliardi. Come dire: le riforme saranno anche quelle giuste, ma non esagerate l’impatto sull’economia.
il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11 ... o/2207692/
Crescita e Tasi, dall’Ocse uno spot non riuscito
di Stefano Feltri | 11 novembre 2015
A febbraio il capo dell’Ocse Angel Gurria aveva pronunciato giudizi poco scientifici ma lusinghieri sul governo Renzi: “Approccio sorprendente”, piano di riforme “ambizioso”, Jobs Act come “motore del cambiamento”
Questo ottimismo traspare anche dalla prosa dell’Economic Outlook, il documento che il think tank dei Paesi industrializzati ha diffuso l’altro ieri.
Nel complesso la diagnosi dell’Ocse sull’Italia è molto positiva: il deficit scende, i consumi stanno riprendendo, torna la fiducia e molto di questo è merito delle “riforme significative” adottate dal governo.
Ci sono parole di apprezzamento anche per l’Agenzia nazionale del lavoro che deve coordinare le politiche attive contro la disoccupazione, che ancora non è neppure stata costituita.
Tutto molto bene: in questi due anni Matteo Renzi è stato capace di avviare interventi in tutti i campi in cui l’Ocse – come le altre istituzioni internazionali – ha sempre chiesto di agire.
L’unica cosa che neppure l’Ocse riesce a giustificare, creando forse un po’ di imbarazzo al suo ex vice segretario Pier Carlo Padoan, è l’abolizione della Tasi sulla prima casa: tra le raccomandazioni per avere una “crescita economica più duratura, più verde e più inclusiva”, bisognerebbe “spostare il carico fiscale dal lavoro al consumo e agli immobili, oltre ad alzare le tasse ambientali”.
Gli stessi auspici espressi nelle raccomandazioni della Commissione europea emanate dal Consiglio. Che il governo Renzi non rispetta.
Anche le previsioni sono meno rosee di come l’Ocse le presenta, perché sono inferiori a quelle del governo.
Pil 2015: +0,8 per l’Ocse, +0,9 per il Tesoro (con la speranza di arrivare a +1), sui due anni successivi +1,4 invece che +1,6.
Ogni 0,1 vale circa 1,5 miliardi. Come dire: le riforme saranno anche quelle giuste, ma non esagerate l’impatto sull’economia.
il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2015
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Re: Economia
Stabilità, il 73% dei fondi del Mise per lo sviluppo delle imprese finisce ai programmi di armamento della Difesa
Per il 2016 il Ministero per lo Sviluppo Economico ha un budget totale di 4,3 miliardi, di cui 3,76 miliardi destinati alla competitività e allo sviluppo delle imprese: di questi, 2,75 miliardi vanno a Finmeccanica, Fincantieri, Iveco-OtoMelara e alle altre aziende dell'industria bellica. Anche se il comparto si compone di 112 società, 50mila occupati e 13,3 miliardi di fatturato, a fronte delle Pmi, che contano (al netto delle microimprese con meno di 10 dipendenti) 134 mila ditte con 3,9 milioni di occupati e 838 miliardi di fatturato
di Enrico Piovesana | 26 novembre 2015 . da il F.Q.
Cosa direbbero i cittadini italiani, gli imprenditori in difficoltà, i disoccupati, se scoprissero che ogni anno i tre quarti dei fondi pubblici destinati al rilancio economico del Paese sono spesi per costruire carri armati, aerei e navi da guerra destinati alle nostre forze armate? E che per i prossimi anni, sempre a favore della produzione di armamenti, sono stati decisi rifinanziamenti per 3,2 miliardi di euro, a fronte di meno di 2 miliardi destinati al dissesto idrogeologico e 1,7 miliardi all’edilizia sanitaria? Per quanto incredibile, così stanno le cose.
La legge di Stabilità 2016 in discussione alle Camere, seguendo uno schema che si ripete ormai da una decina d’anni, destina infatti 2,7 miliardi di euro al finanziamento di programmi d’armamento della Difesa, vale a dire il 73% dei complessivi 3,7 miliardi di stanziamenti del Ministero dello Sviluppo Economico a sostegno della competitività e dello sviluppo delle imprese. Il rimanente miliardo è destinato in gran parte al fondo incentivi per le imprese (772 milioni al Fondo di Garanzia per le Pmi, prezioso strumento di agevolazione dell’accesso al credito per le imprese).
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Nelle tabelle della nota integrativa al bilancio del Ministero dello Sviluppo Economico allegata alla legge di Stabilità, si trova il capitolo di spesa “Partecipazione al Patto Atlantico e ai programmi europei aeronautici, navali, aerospaziali e di elettronica professionale”, comprendente “lo sviluppo e la costruzione del nuovo velivolo da difesa European Fighter Aircraft (Efa)”, “lo sviluppo e la realizzazione di innovative fregate della classe FREMM (Fregate Europee Multi Missione) e lo sviluppo del programma VBM (Veicolo blindato medio, ndr)”, più “una serie di programmi di particolare valenza industriale per l’impegno in innovazione tecnologica e per lo sviluppo e il consolidamento della competitività dell’industria aerospaziale ed elettronica high tech e nel contempo di elevata priorità ed urgenza per la difesa”.
L’enorme stanziamento per il comparto difesa rappresenta da solo i 2/3 dell’intero bilancio del Mise (4,3 miliardi) e, dato ancor più eclatante, il 99,7% degli stanziamenti per la politica industriale e le piccole e medie imprese: per il sostegno alle Pmi, al Made in Italy, alle aziende in crisi e allo sviluppo sostenibile resta infatti lo 0,3%, pari a 7 milioni. Il restante budget del ministero, poco più di mezzo miliardo, è destinato alla promozione dell’export italiano (169 milioni), allo sviluppo delle telecomunicazioni (117 milioni, di cui solo mezzo milione per la banda larga), alla sicurezza degli approvvigionamenti energetici e lo sviluppo delle fonti alternative (241 milioni) e alla tutela dei consumatori (8 milioni).
Questo è il dettaglio dei programmi militari sostenuti dal Mise: quasi un miliardo e mezzo per programmi aeronautici (cacciabombardieri Eurofighter, velivoli M346, elicotteri Hh101 per l’Aeronautica e Nh90 per Esercito e Marina), circa 900 milioni per le nuove navi da guerra della Marina (fregate Fremm, nuovi pattugliatori/lanciamissili e nuova portaelicotteri), 200 milioni per i blindati Freccia dell’Esercito e altri 100 milioni per il programma Forza Nec di digitalizzazione delle forze terrestri – più una cinquantina di milioni di interessi sui mutui di finanziamento contratti dal Mise con diversi istituti di credito (Intesa, Bbva e Cassa depositi e Prestiti i principali) per il finanziamento di tali programmi.
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Tutta produzione, o coproduzione, dell’industria bellica italiana (Finmeccanica, Fincantieri, Iveco-OtoMelara, Avio, Elt, ecc.) evidentemente ritenuta dai nostri governanti il settore industriale strategico su cui puntare per la ripresa della nostra economia. Una scelta che avvantaggia un settore produttivo, quello della difesa, che conta in Italia 112 aziende, 50mila occupati e 13,3 miliardi di fatturato (dati Aiad), a fronte del comparto delle Pmi, che conta (al netto delle microimprese con meno di 10 dipendenti) 134 mila aziende con 3,9 milioni di occupati e 838 miliardi di fatturato (dati Cerved).
Il Mise, interpellato su questa attenzione preferenziale per l’industria bellica, ha risposto che “gli stanziamenti per la Difesa sui nostri capitoli di bilancio, approvati di anno in anno dal Parlamento, rispondono a una politica industriale che riconosce da un lato l’importanza dell’esigenza di difesa nazionale sancita dalla nostra Costituzione, e dall’altro l’elevato contenuto tecnologico di questo settore industriale che funge da volano per l’intera economia”. E sul sostegno alle Pmi, il ministero rivendica l’importanza degli interventi agevolativi a loro favore (2,7 miliardi di euro nel 2014), finanziati però con risorse di provenienza comunitaria.
Informato alla diplomazia il commento delle Pmi: “In questo momento più che mai le spese per la difesa nazionale rappresentano una priorità – dice Alberto Baban, presidente della Piccola Industria di Confindustria – purtroppo la mancanza di una politica di difesa comune a livello europeo ha impedito in questi anni una effettiva revisione di queste spese per valorizzare le eccellenze dei singoli Paesi eliminando duplicazioni. Tra l’altro le poche risorse dedicate alle imprese, sulle quali più volte siamo intervenuti, sappiamo che corrispondono in realtà ad una mancanza globale di disponibilità di bilancio. Sulla nuova legge di Stabilità siamo soddisfatti e la consideriamo sufficientemente espansiva. Si può fare di più, ma siamo stati abituati da troppo tempo ad avere anche molto meno”.
Lo squilibrio pro-Difesa non riguarda solo il bilancio del Ministero dello Sviluppo Economico, ma più in generale l’intera politica governativa di investimenti pubblici. Come sintetizza la Scheda di lettura della legge di Stabilità (a pag. 450) ricapitolando i settori di spesa interessati da rifinanziamenti per i prossimi anni, sono stati decisi nuovi stanziamenti per 3,2 miliardi sul settore della Difesa (di cui 2,3 miliardi per la difesa aeronautica e 870 per la Marina), a fronte di meno di 2 miliardi destinati al dissesto idrogeologico e 1,7 miliardi all’edilizia sanitaria.
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Povera Europa , povera Italia !!!
Per il 2016 il Ministero per lo Sviluppo Economico ha un budget totale di 4,3 miliardi, di cui 3,76 miliardi destinati alla competitività e allo sviluppo delle imprese: di questi, 2,75 miliardi vanno a Finmeccanica, Fincantieri, Iveco-OtoMelara e alle altre aziende dell'industria bellica. Anche se il comparto si compone di 112 società, 50mila occupati e 13,3 miliardi di fatturato, a fronte delle Pmi, che contano (al netto delle microimprese con meno di 10 dipendenti) 134 mila ditte con 3,9 milioni di occupati e 838 miliardi di fatturato
di Enrico Piovesana | 26 novembre 2015 . da il F.Q.
Cosa direbbero i cittadini italiani, gli imprenditori in difficoltà, i disoccupati, se scoprissero che ogni anno i tre quarti dei fondi pubblici destinati al rilancio economico del Paese sono spesi per costruire carri armati, aerei e navi da guerra destinati alle nostre forze armate? E che per i prossimi anni, sempre a favore della produzione di armamenti, sono stati decisi rifinanziamenti per 3,2 miliardi di euro, a fronte di meno di 2 miliardi destinati al dissesto idrogeologico e 1,7 miliardi all’edilizia sanitaria? Per quanto incredibile, così stanno le cose.
La legge di Stabilità 2016 in discussione alle Camere, seguendo uno schema che si ripete ormai da una decina d’anni, destina infatti 2,7 miliardi di euro al finanziamento di programmi d’armamento della Difesa, vale a dire il 73% dei complessivi 3,7 miliardi di stanziamenti del Ministero dello Sviluppo Economico a sostegno della competitività e dello sviluppo delle imprese. Il rimanente miliardo è destinato in gran parte al fondo incentivi per le imprese (772 milioni al Fondo di Garanzia per le Pmi, prezioso strumento di agevolazione dell’accesso al credito per le imprese).
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Nelle tabelle della nota integrativa al bilancio del Ministero dello Sviluppo Economico allegata alla legge di Stabilità, si trova il capitolo di spesa “Partecipazione al Patto Atlantico e ai programmi europei aeronautici, navali, aerospaziali e di elettronica professionale”, comprendente “lo sviluppo e la costruzione del nuovo velivolo da difesa European Fighter Aircraft (Efa)”, “lo sviluppo e la realizzazione di innovative fregate della classe FREMM (Fregate Europee Multi Missione) e lo sviluppo del programma VBM (Veicolo blindato medio, ndr)”, più “una serie di programmi di particolare valenza industriale per l’impegno in innovazione tecnologica e per lo sviluppo e il consolidamento della competitività dell’industria aerospaziale ed elettronica high tech e nel contempo di elevata priorità ed urgenza per la difesa”.
L’enorme stanziamento per il comparto difesa rappresenta da solo i 2/3 dell’intero bilancio del Mise (4,3 miliardi) e, dato ancor più eclatante, il 99,7% degli stanziamenti per la politica industriale e le piccole e medie imprese: per il sostegno alle Pmi, al Made in Italy, alle aziende in crisi e allo sviluppo sostenibile resta infatti lo 0,3%, pari a 7 milioni. Il restante budget del ministero, poco più di mezzo miliardo, è destinato alla promozione dell’export italiano (169 milioni), allo sviluppo delle telecomunicazioni (117 milioni, di cui solo mezzo milione per la banda larga), alla sicurezza degli approvvigionamenti energetici e lo sviluppo delle fonti alternative (241 milioni) e alla tutela dei consumatori (8 milioni).
Questo è il dettaglio dei programmi militari sostenuti dal Mise: quasi un miliardo e mezzo per programmi aeronautici (cacciabombardieri Eurofighter, velivoli M346, elicotteri Hh101 per l’Aeronautica e Nh90 per Esercito e Marina), circa 900 milioni per le nuove navi da guerra della Marina (fregate Fremm, nuovi pattugliatori/lanciamissili e nuova portaelicotteri), 200 milioni per i blindati Freccia dell’Esercito e altri 100 milioni per il programma Forza Nec di digitalizzazione delle forze terrestri – più una cinquantina di milioni di interessi sui mutui di finanziamento contratti dal Mise con diversi istituti di credito (Intesa, Bbva e Cassa depositi e Prestiti i principali) per il finanziamento di tali programmi.
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Tutta produzione, o coproduzione, dell’industria bellica italiana (Finmeccanica, Fincantieri, Iveco-OtoMelara, Avio, Elt, ecc.) evidentemente ritenuta dai nostri governanti il settore industriale strategico su cui puntare per la ripresa della nostra economia. Una scelta che avvantaggia un settore produttivo, quello della difesa, che conta in Italia 112 aziende, 50mila occupati e 13,3 miliardi di fatturato (dati Aiad), a fronte del comparto delle Pmi, che conta (al netto delle microimprese con meno di 10 dipendenti) 134 mila aziende con 3,9 milioni di occupati e 838 miliardi di fatturato (dati Cerved).
Il Mise, interpellato su questa attenzione preferenziale per l’industria bellica, ha risposto che “gli stanziamenti per la Difesa sui nostri capitoli di bilancio, approvati di anno in anno dal Parlamento, rispondono a una politica industriale che riconosce da un lato l’importanza dell’esigenza di difesa nazionale sancita dalla nostra Costituzione, e dall’altro l’elevato contenuto tecnologico di questo settore industriale che funge da volano per l’intera economia”. E sul sostegno alle Pmi, il ministero rivendica l’importanza degli interventi agevolativi a loro favore (2,7 miliardi di euro nel 2014), finanziati però con risorse di provenienza comunitaria.
Informato alla diplomazia il commento delle Pmi: “In questo momento più che mai le spese per la difesa nazionale rappresentano una priorità – dice Alberto Baban, presidente della Piccola Industria di Confindustria – purtroppo la mancanza di una politica di difesa comune a livello europeo ha impedito in questi anni una effettiva revisione di queste spese per valorizzare le eccellenze dei singoli Paesi eliminando duplicazioni. Tra l’altro le poche risorse dedicate alle imprese, sulle quali più volte siamo intervenuti, sappiamo che corrispondono in realtà ad una mancanza globale di disponibilità di bilancio. Sulla nuova legge di Stabilità siamo soddisfatti e la consideriamo sufficientemente espansiva. Si può fare di più, ma siamo stati abituati da troppo tempo ad avere anche molto meno”.
Lo squilibrio pro-Difesa non riguarda solo il bilancio del Ministero dello Sviluppo Economico, ma più in generale l’intera politica governativa di investimenti pubblici. Come sintetizza la Scheda di lettura della legge di Stabilità (a pag. 450) ricapitolando i settori di spesa interessati da rifinanziamenti per i prossimi anni, sono stati decisi nuovi stanziamenti per 3,2 miliardi sul settore della Difesa (di cui 2,3 miliardi per la difesa aeronautica e 870 per la Marina), a fronte di meno di 2 miliardi destinati al dissesto idrogeologico e 1,7 miliardi all’edilizia sanitaria.
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Re: Economia
questa analisi sembra una copiatura di analisi sviluppate in rete e in parte su questo forum.
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http://www.syloslabini.info/online/prep ... leconomia/
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http://www.syloslabini.info/online/prep ... leconomia/
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Re: Economia
ROMANO PRODI al Fatto Quotidiano
Aprite :
ftp://192.167.9.3/rassegna/DICEMBRE2015/2015-12-01.pdf
e poi cliccate dopo il caricamento di : Rassegna Stampa del 01/12/15 - UNIVERSITA' - PARTHENOPE su:
01/12/15 Il Fatto Quotidiano PRODI 'CARO PADOAN SE L'ECONOMIA VA MALE NON E' COLPA DELL'ISIS
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Re: Economia
camillobenso ha scritto:ROMANO PRODI al Fatto Quotidiano
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L'articolo pubblicato su ilfattoquotidiano.it
Siria, Romano Prodi: “I bombardamenti possono essere strumento provvisorio ma non portano mai pace”
Politica
La strategia russa? "Bombardano le città e non i pozzi e le auto-cisterne". Il Professore parla anche della guerra in Libia del 2011: "Scelta incomprensibile, non so come l'Italia abbia potuto fare una scelta di quel tipo". Sulla guerra in Iraq "le scuse di Blair lasciano un peso enorme". Padoan dice che l'Isis può essere causa della mancata crescita economica? "Lo ritengo poco probabile". Sul Pd: "Sono tre anni che non rinnovo la tessera"
di Giampiero Calapà | 1 dicembre 2015
Commenti
Più informazioni su: Guerra in Libia, Guerra in Siria, Isis, Nato, Palazzo Chigi, Quirinale, Romano Prodi
Ha un grande rammarico Romano Prodi in questi giorni, non è il Quirinale né Palazzo Chigi: “Avrei voluto finire la mia attività aiutando un processo di pace, ma non mi è stato possibile. Forse avrei potuto concretamente dare una mano per tentare di portare la pace in Libia ma non mi è stato permesso”. Nel suo sobrio ufficio, alla Fondazione per la cooperazione dei popoli, a Bologna, legge con preoccupazione le notizie su Sirte e sul tentativo di spostare la capitale del Califfato del terrore da Raqqa, Siria, in Libia, a soli 600 chilometri dalla Sicilia: “Avrei davvero voluto lavorare per impedirlo, ma non me lo hanno permesso”.
Per il New York Times l’intero gruppo dirigente dell’Isis in Libia viene dall’estero, da Siria e Iraq… com’è stato possibile permetterglielo?
Non mi stupisce: Sirte è strutturata per essere sede di un potere centrale, non per niente è stato l’ultimo bastione di Gheddafi. E ha un alto valore simbolico proprio perché era la capitale reale del Colonnello, la città degli incontri bilaterali, delle strette di mano che contavano. L’Isis, a parte Siria e Iraq, ha almeno altre due grandi aree territoriali nelle sue mani che sono il Sahel, a sud della Libia, e il Sinai. Ricordo che quando facevo il giro delle “sette chiese” come inviato Onu per chiedere risorse per il Sahel, l’unico Paese che manifestò la sua opposizione all’argine francese contro i jihadisti fu l’Egitto governato in quel momento dai Fratelli musulmani.
Come andò?
L’allora presidente Morsi in un colloquio mi disse che quella francese in Mali era una guerra coloniale, poi prima di salutarmi, però, preoccupato mi chiese: “Pensa che i terroristi del Sahel possano arrivare nel Sinai?”. Gli risposi che non lo sapevo ma che sapevo bene che quantità grandi di armi si spostavano in Egitto dalla Libia. L’arsenale di Gheddafi ha fornito armi a tutti: gli esperti dell’Onu parlavano di 4 milioni di kalashnikov. La guerra di Libia è stata un totale disastro.
Quella guerra, nel 2011, fu voluta fortemente anche da Giorgio Napolitano.
Non so chi l’abbia voluta perché non ero io al potere. So solo che è incomprensibile e incompreso come l’Italia abbia potuto prendere una decisione di quel tipo.
La consultarono?
Mai stato consultato né prima né durante né dopo.
Intanto in Siria le bombe russe colpiscono mercati, case di civili… La strategia di Putin è quella giusta?
No. I bombardamenti possono essere uno strumento provvisorio ma non ricordo una volta in cui siano davvero serviti a portare la pace. E continuo a non comprendere perché si bombardino le città e non i pozzi e le auto-cisterne. Vorrei ricordare che, Russia a parte, sul fronte Nato il 70% dei bombardamenti rimane americano in Siria e Iraq, questo nonostante l’esposizione e l’impegno della Francia.
E il regime di Erdogan in Turchia incassa 3 miliardi di euro dall’Ue per sigillare i confini ai profughi.
Era l’unica carta in mano agli europei, a cominciare dalla Merkel, per tenere a bada le tensioni interne che possono derivare da un flusso incontrollato di migranti. Una carta, però, giocata in modo spregiudicato. È un errore mettere questo discorso insieme a quello dell’ingresso della Turchia in Europa. Motivare una decisione così seria e importante che prosegue da anni su un’emergenza è sbagliato. Le due cose non vanno messe assieme e si facciano procedere i negoziati secondo le sacre regole dei negoziati stessi.
L’Isis ha bilanci più floridi di molti Paesi arabi.
La metà di quella ricchezza arriva dal petrolio, il resto da estorsioni, traffico di esseri umani e dall’esercizio di un’autorità statale. Poi ci sono i finanziamenti che passano per Fondazioni dei paesi dell’area del Golfo Persico.
Putin, Erdogan, Arabia Saudita, Iran, Assad, Hezbollah: chi i nemici e chi gli amici?
Quando si sbaglia la prima volta, penso alla guerra tra l’Iraq e l’Iran, si continua a sbagliare, errore dopo errore, fino alle guerre a Saddam e Gheddafi. Tutti contro tutti: c’è una vignetta di Kal sull’ultimo numero dell’Economist che rende bene l’idea.
La guerra a Saddam nel 2003. Si racconta di un G8 con un furibondo scontro a cena tra Blair e Putin…
Putin si alzò dal tavolo e gridò a Blair: “You are not God” (tu non sei dio). Vede, la guerra in Iraq spaccò l’Europa, frantumò tutte le alleanze. Io dovetti rinunciare al secondo mandato alla presidenza della Commissione europea. Ascoltare oggi Blair scusarsi perché quelle maledette armi di distruzione di massa non esistevano lascia un peso enorme.
L’Europa esclusa da Israele per i colloqui di pace. Tel Aviv procederà solo con bilaterali con Regno Unito, Francia e Germania. Italia neppure citata. Siamo irrilevanti?Israele pensa non sia importante trattare con l’Italia, è più che essere irrilevanti. Nonostante la nostra natura di Paese del Mediterraneo. È un segno di ingratitudine: tra l’altro le nostre forze armate proteggono i loro confini in Libano. Il discorso così filoisraeliano di Renzi a Gerusalemme nel luglio scorso pensavo che sarebbe servito. Il conflitto israelo-palestinese rimane l’origine e la madre di tutti i conflitti, ma finché al governo di Israele ci sarà Netanyahu la pace è impossibile.
Intanto in Francia crescono i consensi per Marine Le Pen. È più pericolosa lei di suo padre Jean-Marie?
Sì, perché il padre le elezioni le perdeva. Adesso il Front national al populismo di destra (legge, ordine e xenofobia) unisce quello anticasta di sinistra e per farlo Marine ha ucciso politicamente il padre.
Gli Usa hanno “allertato” i loro concittadini in Italia a stare lontani da Colosseo, Vaticano e Scala di Milano.
È isteria collettiva, dopo l’11 settembre non abbiamo sconsigliato i viaggi in America. Serve un rafforzamento dell’intelligence, questo sì: ci vorrebbe un’autorità di coordinamento europea e ne avrebbe bisogno proprio la Francia, che si è sempre opposta a esercito e difesa europea comune.
Che effetto le fa la Capitale d’Italia commissariata nell’anno del Giubileo?
Mi ha scioccato molto. Ma il Giubileo, come l’apertura della Porta Santa a Bangui in Centrafrica mostra, non è un fatto solo romano e va oltre l’esistenza di un sindaco. L’immagine di Roma nel mondo, purtroppo, peggio di così non può essere, non possiamo che risalire.
Per il ministro Padoan la mancata crescita economica e le stime al ribasso sono colpa dell’Isis. È possibile?
Già alla vigilia della strage di Parigi c’erano segnali di allarme. Mi hanno perciò un poco sorpreso le dichiarazioni del ministro Padoan che, in un certo senso, mettono le mani avanti riguardo a un possibile peggioramento dell’economia. Spero che non abbia notizie ancora più cattive. Io ritengo poco probabile che eventi pur così tragici possano avere conseguenze molto negative sull’economia.
Non ha più rinnovato la tessera del Pd?
Da tre anni ormai.
Molti militanti l’hanno seguita, pare che l’emorragia di tessere non si fermi.
Un partito è fatto per dibattere e discutere, il calo delle tessere dipende dal calo politico, non ne è la causa.
Cosa vuol fare da grande, Professore?
Quello che faccio adesso. Sono fuori dalla politica ma posso permettermi il lusso di tenere contatti in giro per il mondo e parlare ai giovani e ai meno giovani di quello che sta accadendo. La rottamazione non mi ha preoccupato perché se sono stato rottamato può volere dire che ero fatto di ferro. Se fossi stato di legno mi avrebbero o segato o bruciato. Ma mai rottamato.
Da Il Fatto Quotidiano del 1 dicembre 2015
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