Diario della caduta di un regime.
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
UN PAZZO SOLO AL COMANDO
La storia si ripete.
Primo LEVI ci ha sempre insegnato che chi dimentica la storia è costretto a riviverla.
Ma sembra completamente inutile per i discendenti dell'IMPERO ROMANO.
Quando la follia diventa religione di Stato, quel popolo è finito.
3 APR 2016 17:33
RENZI, PARLA LO STATISTA: ‘’QUELL'EMENDAMENTO È ROBA MIA" - IL PREMIER CAZZONE CALZA LA MASCHERA DI BERLUSCONI E SFIDA LA MAGISTRATURA: "NOI QUESTO PAESE LO STIAMO TALMENTE CAMBIANDO CHE SE I MAGISTRATI VOGLIONO MI INTERROGHINO NON SOLO SU TEMPA ROSSA MA SU QUELLO CHE VOGLIONO"
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 121898.htm
La storia si ripete.
Primo LEVI ci ha sempre insegnato che chi dimentica la storia è costretto a riviverla.
Ma sembra completamente inutile per i discendenti dell'IMPERO ROMANO.
Quando la follia diventa religione di Stato, quel popolo è finito.
3 APR 2016 17:33
RENZI, PARLA LO STATISTA: ‘’QUELL'EMENDAMENTO È ROBA MIA" - IL PREMIER CAZZONE CALZA LA MASCHERA DI BERLUSCONI E SFIDA LA MAGISTRATURA: "NOI QUESTO PAESE LO STIAMO TALMENTE CAMBIANDO CHE SE I MAGISTRATI VOGLIONO MI INTERROGHINO NON SOLO SU TEMPA ROSSA MA SU QUELLO CHE VOGLIONO"
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 121898.htm
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Renzi teme il referendum contro le sue riforme piduiste
Scritto il 04/1/16 • nella Categoria: idee
Mentre – in piena catastrofe Eurozona – il presidente della Repubblica indica “l’evasione fiscale” come il vero problema del disastro economico che sta retrocedendo l’Italia lontano dal G20 (folle super-tassazione imposta dalla moneta unica, e quindi crollo del Pil, fallimenti, chiusure, licenziamenti), il premier Matteo Renzi completa la narrazione ufficiale, istituzionale, con «l’esaltazione ridicola di quel +0,8% di Pil con cui si chiuderà il 2015 (dopo quattro anni di segni meno, e in presenza di circostanze eccezionalmente favorevoli come il quantitative easing della Bce e il tracollo del prezzo del petrolio)», scrive Dante Barontini, sottolineando che al centro del «soliloquio renziano» di fine anno resta, soprattutto, «il tema “spartiacque” della sua avventura politica», che non sono ovviamente le amministrative di primavera, «ma il referendum confermativo sulla oscena “riforma costituzionale” che sostanzialmente abolisce la Costituzione “nata dalla Resistenza”», quella a cui lo stesso Mattarella non manca di rendere continuamente omaggio.«Inutile star qui a ricordare che alcuni di quelli che Renzi considera “successi” sono in realtà macelleria sociale, a partire dal Jobs Act e dall’abolizione dell’articolo 18, che hanno consegnato la vita e la dignità di ogni singolo lavoratore dipendente al capriccio delle singole imprese o addirittura dei singoli “capetti” e caporali», scrive Barontini su “Contropiano”. «Inutile anche insistere sulla nauseante vicenda delle quattro banche “salvate” sacrificando i correntisti più ingenui, truffati allo sportello con l’offerta di obbligazioni-carta-straccia». Renzi, in realtà, era stato scelto per la bisogna: «Lo abbiamo messo lì noi», rivendicò allegramente Sergio Marchionne quasi agli inizi. Messo lì, Renzi, «per distruggere definitivamente il patto costituzionale del dopoguerra, già duramente sfibrato dal ventennio berlusconiano e dalla lenta scomparsa di una qualsiasi rappresentanza politica “di sinistra” (la cui azione, insomma, fosse coerente con le parole)».E quindi, conclude Barontini, ha perfettamente senso che il premier non-eletto leghi al referendum d’autunno il suo destino politico, «anche se non giureremmo sulle sue effettive dimissioni in caso di sconfitta». Ma attenzione: «Non c’è solo la nefasta grandezza del legare il proprio nome a una svolta reazionaria di portata storica, che manda in soffitta il “patto tra i produttori” (con tutti i compromessi del dopoguerra) e disegna una Terza Repubblica piduista e repubblichina (in combinazione con l’Italicum), in cui soltanto i ceti dominanti possono disporre di rappresentanza e accedere ai palazzi del potere (o quel che ne è rimasto, dopo i molti trasferimenti di sovranità all’Unione Europea)». Secondo l’analista, c’è anche la certezza di una catastrofe del Pd alle elezioni amministrative di primavera. Soprattutto in quelle città dove, per motivi diversi, il partito del premier è quasi scomparso dalla scena politica: Roma e Napoli. «Due città opposte, con la prima che ha visto il Pd gestire l’amministrazione all’interno del sistema chiamato Mafia Capitale, e la seconda che lo aveva espulso già quattro anni fa, scegliendo De Magistris anziché uno dei tanti maneggioni del circo barnum “democratico”».«Il rottamatore quindi lascia che siano i suoi uomini a gestire e perdere la partita di primavera, svalutandone il significato politico generale già cinque mesi prima delle elezioni. E cerchia in rosso la data del referendum per stabilire se la reazione – con lui al balcone – avrà davvero vinto o no». Per Barontini sarà una partita complicata, «perché la retorica del “nuovo” (le riforme, i giovani ministri sempre sorridenti, le facce ignote – più che nuove – che ammoniscono il popolo ogni giorno dallo schermo) ha in genere facile gioco contro tutto quel che – per le ragioni più diverse, dalle nobili alle ignobili – viene comunque racchiuso sotto l’etichetta del “vecchio”». Se non si vuol essere solo spettatori passivi «bisognerebbe saper rovesciare questi termini», perché «non c’è nulla di più “vecchio” di una società in cui chi non possiede un’impresa non ha nemmeno diritto di parola. Non c’è nulla di più “preistorico” di un rapporto di lavoro in cui il “prestatore d’opera” deve essere sempre flessibile e muto, “liquido” e sostituibile in ogni istante. È il mondo disegnato dal capitale multinazionale e dall’Unione Europea, cui Renzi presta temporaneamente la faccia e le battutine».
Mentre – in piena catastrofe Eurozona – il presidente della Repubblica indica “l’evasione fiscale” come il vero problema del disastro economico che sta retrocedendo l’Italia lontano dal G20 (folle super-tassazione imposta dalla moneta unica, e quindi crollo del Pil, fallimenti, chiusure, licenziamenti), il premier Matteo Renzi completa la narrazione ufficiale, istituzionale, con «l’esaltazione ridicola di quel +0,8% di Pil con cui si chiuderà il 2015 (dopo quattro anni di segni meno, e in presenza di circostanze eccezionalmente favorevoli come il quantitative easing della Bce e il tracollo del prezzo del petrolio)», scrive Dante Barontini, sottolineando che al centro del «soliloquio renziano» di fine anno resta, soprattutto, «il tema “spartiacque” della sua avventura politica», che non sono ovviamente le amministrative di primavera, «ma il referendum confermativo sulla oscena “riforma costituzionale” che sostanzialmente abolisce la Costituzione “nata dalla Resistenza”», quella a cui lo stesso Mattarella non manca di rendere continuamente omaggio.
«Inutile star qui a ricordare che alcuni di quelli che Renzi considera “successi” sono in realtà macelleria sociale, a partire dal Jobs Act e dall’abolizione dell’articolo 18, che hanno consegnato la vita e la dignità di ogni singolo lavoratore dipendente al Renzicapriccio delle singole imprese o addirittura dei singoli “capetti” e caporali», scrive Barontini su “Contropiano”. «Inutile anche insistere sulla nauseante vicenda delle quattro banche “salvate” sacrificando i correntisti più ingenui, truffati allo sportello con l’offerta di obbligazioni-carta-straccia». Renzi, in realtà, era stato scelto per la bisogna: «Lo abbiamo messo lì noi», rivendicò allegramente Sergio Marchionne quasi agli inizi. Messo lì, Renzi, «per distruggere definitivamente il patto costituzionale del dopoguerra, già duramente sfibrato dal ventennio berlusconiano e dalla lenta scomparsa di una qualsiasi rappresentanza politica “di sinistra” (la cui azione, insomma, fosse coerente con le parole)».
E quindi, conclude Barontini, ha perfettamente senso che il premier non-eletto leghi al referendum d’autunno il suo destino politico, «anche se non giureremmo sulle sue effettive dimissioni in caso di sconfitta». Ma attenzione: «Non c’è solo la nefasta grandezza del legare il proprio nome a una svolta reazionaria di portata storica, che manda in soffitta il “patto tra i produttori” (con tutti i compromessi del dopoguerra) e disegna una Terza Repubblica piduista e repubblichina (in combinazione con l’Italicum), in cui soltanto i ceti dominanti possono disporre di rappresentanza e accedere ai palazzi del potere (o quel che ne è rimasto, dopo i molti trasferimenti di sovranità all’Unione Europea)». Secondo l’analista, c’è anche la certezza di una catastrofe del Pd alle elezioni amministrative di primavera. Soprattutto in quelle città dove, per motivi diversi, il partito del premier è quasi scomparso dalla scena politica: Roma e Napoli. «Due città opposte, con la prima che ha visto il Pd gestire Sergio Mattarella l’amministrazione all’interno del sistema chiamato Mafia Capitale, e la seconda che lo aveva espulso già quattro anni fa, scegliendo De Magistris anziché uno dei tanti maneggioni del circo barnum “democratico”».
«Il rottamatore quindi lascia che siano i suoi uomini a gestire e perdere la partita di primavera, svalutandone il significato politico generale già cinque mesi prima delle elezioni. E cerchia in rosso la data del referendum per stabilire se la reazione – con lui al balcone – avrà davvero vinto o no». Per Barontini sarà una partita complicata, «perché la retorica del “nuovo” (le riforme, i giovani ministri sempre sorridenti, le facce ignote – più che nuove – che ammoniscono il popolo ogni giorno dallo schermo) ha in genere facile gioco contro tutto quel che – per le ragioni più diverse, dalle nobili alle ignobili – viene comunque racchiuso sotto l’etichetta del “vecchio”». Se non si vuol essere solo spettatori passivi «bisognerebbe saper rovesciare questi termini», perché «non c’è nulla di più “vecchio” di una società in cui chi non possiede un’impresa non ha nemmeno diritto di parola. Non c’è nulla di più “preistorico” di un rapporto di lavoro in cui il “prestatore d’opera” deve essere sempre flessibile e muto, “liquido” e sostituibile in ogni istante. È il mondo disegnato dal capitale multinazionale e dall’Unione Europea, cui Renzi presta temporaneamente la faccia e le battutine».
Scritto il 04/1/16 • nella Categoria: idee
Mentre – in piena catastrofe Eurozona – il presidente della Repubblica indica “l’evasione fiscale” come il vero problema del disastro economico che sta retrocedendo l’Italia lontano dal G20 (folle super-tassazione imposta dalla moneta unica, e quindi crollo del Pil, fallimenti, chiusure, licenziamenti), il premier Matteo Renzi completa la narrazione ufficiale, istituzionale, con «l’esaltazione ridicola di quel +0,8% di Pil con cui si chiuderà il 2015 (dopo quattro anni di segni meno, e in presenza di circostanze eccezionalmente favorevoli come il quantitative easing della Bce e il tracollo del prezzo del petrolio)», scrive Dante Barontini, sottolineando che al centro del «soliloquio renziano» di fine anno resta, soprattutto, «il tema “spartiacque” della sua avventura politica», che non sono ovviamente le amministrative di primavera, «ma il referendum confermativo sulla oscena “riforma costituzionale” che sostanzialmente abolisce la Costituzione “nata dalla Resistenza”», quella a cui lo stesso Mattarella non manca di rendere continuamente omaggio.«Inutile star qui a ricordare che alcuni di quelli che Renzi considera “successi” sono in realtà macelleria sociale, a partire dal Jobs Act e dall’abolizione dell’articolo 18, che hanno consegnato la vita e la dignità di ogni singolo lavoratore dipendente al capriccio delle singole imprese o addirittura dei singoli “capetti” e caporali», scrive Barontini su “Contropiano”. «Inutile anche insistere sulla nauseante vicenda delle quattro banche “salvate” sacrificando i correntisti più ingenui, truffati allo sportello con l’offerta di obbligazioni-carta-straccia». Renzi, in realtà, era stato scelto per la bisogna: «Lo abbiamo messo lì noi», rivendicò allegramente Sergio Marchionne quasi agli inizi. Messo lì, Renzi, «per distruggere definitivamente il patto costituzionale del dopoguerra, già duramente sfibrato dal ventennio berlusconiano e dalla lenta scomparsa di una qualsiasi rappresentanza politica “di sinistra” (la cui azione, insomma, fosse coerente con le parole)».E quindi, conclude Barontini, ha perfettamente senso che il premier non-eletto leghi al referendum d’autunno il suo destino politico, «anche se non giureremmo sulle sue effettive dimissioni in caso di sconfitta». Ma attenzione: «Non c’è solo la nefasta grandezza del legare il proprio nome a una svolta reazionaria di portata storica, che manda in soffitta il “patto tra i produttori” (con tutti i compromessi del dopoguerra) e disegna una Terza Repubblica piduista e repubblichina (in combinazione con l’Italicum), in cui soltanto i ceti dominanti possono disporre di rappresentanza e accedere ai palazzi del potere (o quel che ne è rimasto, dopo i molti trasferimenti di sovranità all’Unione Europea)». Secondo l’analista, c’è anche la certezza di una catastrofe del Pd alle elezioni amministrative di primavera. Soprattutto in quelle città dove, per motivi diversi, il partito del premier è quasi scomparso dalla scena politica: Roma e Napoli. «Due città opposte, con la prima che ha visto il Pd gestire l’amministrazione all’interno del sistema chiamato Mafia Capitale, e la seconda che lo aveva espulso già quattro anni fa, scegliendo De Magistris anziché uno dei tanti maneggioni del circo barnum “democratico”».«Il rottamatore quindi lascia che siano i suoi uomini a gestire e perdere la partita di primavera, svalutandone il significato politico generale già cinque mesi prima delle elezioni. E cerchia in rosso la data del referendum per stabilire se la reazione – con lui al balcone – avrà davvero vinto o no». Per Barontini sarà una partita complicata, «perché la retorica del “nuovo” (le riforme, i giovani ministri sempre sorridenti, le facce ignote – più che nuove – che ammoniscono il popolo ogni giorno dallo schermo) ha in genere facile gioco contro tutto quel che – per le ragioni più diverse, dalle nobili alle ignobili – viene comunque racchiuso sotto l’etichetta del “vecchio”». Se non si vuol essere solo spettatori passivi «bisognerebbe saper rovesciare questi termini», perché «non c’è nulla di più “vecchio” di una società in cui chi non possiede un’impresa non ha nemmeno diritto di parola. Non c’è nulla di più “preistorico” di un rapporto di lavoro in cui il “prestatore d’opera” deve essere sempre flessibile e muto, “liquido” e sostituibile in ogni istante. È il mondo disegnato dal capitale multinazionale e dall’Unione Europea, cui Renzi presta temporaneamente la faccia e le battutine».
Mentre – in piena catastrofe Eurozona – il presidente della Repubblica indica “l’evasione fiscale” come il vero problema del disastro economico che sta retrocedendo l’Italia lontano dal G20 (folle super-tassazione imposta dalla moneta unica, e quindi crollo del Pil, fallimenti, chiusure, licenziamenti), il premier Matteo Renzi completa la narrazione ufficiale, istituzionale, con «l’esaltazione ridicola di quel +0,8% di Pil con cui si chiuderà il 2015 (dopo quattro anni di segni meno, e in presenza di circostanze eccezionalmente favorevoli come il quantitative easing della Bce e il tracollo del prezzo del petrolio)», scrive Dante Barontini, sottolineando che al centro del «soliloquio renziano» di fine anno resta, soprattutto, «il tema “spartiacque” della sua avventura politica», che non sono ovviamente le amministrative di primavera, «ma il referendum confermativo sulla oscena “riforma costituzionale” che sostanzialmente abolisce la Costituzione “nata dalla Resistenza”», quella a cui lo stesso Mattarella non manca di rendere continuamente omaggio.
«Inutile star qui a ricordare che alcuni di quelli che Renzi considera “successi” sono in realtà macelleria sociale, a partire dal Jobs Act e dall’abolizione dell’articolo 18, che hanno consegnato la vita e la dignità di ogni singolo lavoratore dipendente al Renzicapriccio delle singole imprese o addirittura dei singoli “capetti” e caporali», scrive Barontini su “Contropiano”. «Inutile anche insistere sulla nauseante vicenda delle quattro banche “salvate” sacrificando i correntisti più ingenui, truffati allo sportello con l’offerta di obbligazioni-carta-straccia». Renzi, in realtà, era stato scelto per la bisogna: «Lo abbiamo messo lì noi», rivendicò allegramente Sergio Marchionne quasi agli inizi. Messo lì, Renzi, «per distruggere definitivamente il patto costituzionale del dopoguerra, già duramente sfibrato dal ventennio berlusconiano e dalla lenta scomparsa di una qualsiasi rappresentanza politica “di sinistra” (la cui azione, insomma, fosse coerente con le parole)».
E quindi, conclude Barontini, ha perfettamente senso che il premier non-eletto leghi al referendum d’autunno il suo destino politico, «anche se non giureremmo sulle sue effettive dimissioni in caso di sconfitta». Ma attenzione: «Non c’è solo la nefasta grandezza del legare il proprio nome a una svolta reazionaria di portata storica, che manda in soffitta il “patto tra i produttori” (con tutti i compromessi del dopoguerra) e disegna una Terza Repubblica piduista e repubblichina (in combinazione con l’Italicum), in cui soltanto i ceti dominanti possono disporre di rappresentanza e accedere ai palazzi del potere (o quel che ne è rimasto, dopo i molti trasferimenti di sovranità all’Unione Europea)». Secondo l’analista, c’è anche la certezza di una catastrofe del Pd alle elezioni amministrative di primavera. Soprattutto in quelle città dove, per motivi diversi, il partito del premier è quasi scomparso dalla scena politica: Roma e Napoli. «Due città opposte, con la prima che ha visto il Pd gestire Sergio Mattarella l’amministrazione all’interno del sistema chiamato Mafia Capitale, e la seconda che lo aveva espulso già quattro anni fa, scegliendo De Magistris anziché uno dei tanti maneggioni del circo barnum “democratico”».
«Il rottamatore quindi lascia che siano i suoi uomini a gestire e perdere la partita di primavera, svalutandone il significato politico generale già cinque mesi prima delle elezioni. E cerchia in rosso la data del referendum per stabilire se la reazione – con lui al balcone – avrà davvero vinto o no». Per Barontini sarà una partita complicata, «perché la retorica del “nuovo” (le riforme, i giovani ministri sempre sorridenti, le facce ignote – più che nuove – che ammoniscono il popolo ogni giorno dallo schermo) ha in genere facile gioco contro tutto quel che – per le ragioni più diverse, dalle nobili alle ignobili – viene comunque racchiuso sotto l’etichetta del “vecchio”». Se non si vuol essere solo spettatori passivi «bisognerebbe saper rovesciare questi termini», perché «non c’è nulla di più “vecchio” di una società in cui chi non possiede un’impresa non ha nemmeno diritto di parola. Non c’è nulla di più “preistorico” di un rapporto di lavoro in cui il “prestatore d’opera” deve essere sempre flessibile e muto, “liquido” e sostituibile in ogni istante. È il mondo disegnato dal capitale multinazionale e dall’Unione Europea, cui Renzi presta temporaneamente la faccia e le battutine».
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
POLITICA
Matteo Renzi, la sua ‘casa’ ora barcolla visibilmente
di Roberto Marchesi | 4 aprile 2016
COMMENTI (3)
Politologo, studioso di macroeconomia
Il succedersi incalzante degli scandali, e dimissioni, e coinvolgimenti in inchieste giudiziarie, che coinvolgono ‘casa Renzi’, cioè non solo gli uomini e le donne che lui si e’ scelto per formare il suo governo, ma anche quelli che lo sostengono direttamente o indirettamente nel suo partito e nelle aree di potere che lui e’ riuscito a far salire sul suo carrozzone del potere e degli interessi. Potrei continuare a lungo elencando ciò che direttamente o indirettamente è suo oggi in Italia, ovvero ciò che dipende dal suo volere, ma è una lista davvero impressionante e che, a onor del vero, mal si concilia con la distribuzione e l’equilibrio dei poteri di una sana democrazia.
Ma anche solo quelli che ho citato sono già veramente troppi. E si consideri che ho volutamente tralasciato il presidente Mattarella, perché sembra, fin qui almeno, essere persona equilibrata, sinceramente rispettosa dei valori reali della nostra democrazia, e quindi avulso alla concreta area d’influenza attribuibile a “Casa Renzi”.
Verrà presto anche per lui però il momento della verità, perché il (non) piccolo debito di riconoscenza che lui potrebbe aver avuto con Renzi (per la scelta della sua persona al grande incarico) non potrà restare agevolmente coperto quando arriverà il momento di affidare un nuovo incarico di governo a qualcuno. La conferma che quel piccolo debito non sia mai esistito la si avrà quando verrà dato il nuovo incarico per formare un nuovo governo.
È difficile, per la strana e ingarbugliata situazione in cui si è venuto a trovare nel momento della sua salita al Colle, dare qualche colpa al presidente Mattarella, ma francamente, a parte lui, in piena luna di miele col suo mentore, e l’ultra-ottantenne ex capo dello Stato, che avrà certamente dato i dovuti consigli in merito al suo pupillo, che un occhio esperto non abbia visto fin da subito le evidenti forzature (e lacune!) proposte da Renzi a favore di molte (troppe) scelte non sostenute da provata esperienza e capacità personale a formare un gabinetto di così alta levatura e responsabilità.
Visto nel suo insieme si è venuto così a formare attorno a Renzi un carrozzone di potere talmente anomalo che persino le tanto bistrattate “coalizioni” della cosiddetta ‘prima Repubblica’ dovrebbero per forza sembrare ormai, anche ad occhi puri ed esperti, degli esempi di perfetta democrazia.
Non può nemmeno lui però, quando è lontano dai riflettori, far finta di non vedere le profonde crepe che avanzano ogni giorno e che sgretolano la sua ‘casa’ ogni giorno di più. E le ragioni sono molte. Per esempio si sa che, giocando a dama, le piccole pedine possono anche, in certi frangenti della partita, cambiare colore, ma il re non può farlo, con lui finisce la partita. Molti parlamentari stanno facendo, tradendo gli elettori, il “salto della quaglia” ma lui non può perché lui è il leader.
Intendiamoci, non è che lui stia cercando ora di fare il salto della quaglia, quello lo aveva fatto fin dal principio con il famigerato ‘Patto del Nazareno’ (troppo infingardo quel patto per scriverlo ancora con le maiuscole) però gli ha fruttato la massima poltrona di Palazzo Chigi e, come disse Napoleone ‘Parigi vale ben una messa’!
Il fatto è però che un vero leader della ‘sinistra’ mai avrebbe potuto fare un accordo di governo direttamente con il leader della destra per fare tutte riforme di destra. L’ingolfo costituzionale di tre anni fa si sapeva che avrebbe potuto procurare dei guai nell’avvicendamento dei rinnovi istituzionali, e lui ha operato perfettamente affinché quell’ingorgo operasse a suo favore.E’ fin troppo evidente la sua predisposizione al trasformismo (spacciato per pragmatismo). Nessun leader veramente di sinistra avrebbe messo in testa agli adempimenti da completare l’attacco all’art. 18 e allo Statuto dei Lavoratori quando nemmeno la Confidustria lo definiva necessità urgente.
Oggi, pressato da esigenze opposte, cerca di riposizionarsi un po’ a sinistra facendo finta di far la voce grossa a Bruxelles. Ma cosa sta facendo veramente di sinistra? Niente di veramente importante. Le sue “riforme” servono solo (come accade ormai da piu’ di trent’anni ad ogni leader politico) a rafforzare il suo potere, non a risolvere i veri problemi del paese. Ci sono molte riforme che lui potrebbe avviare e che potrebbero veramente spostare a sinistra il paese (la nazionalizzazione di qualche banca per esempio sarebbe un segnale fortissimo), ma lui non ne fa nemmeno una. La sua unica ricetta è esattamente quella del capitalismo più o meno moderato Usa. Ma per quella non ci sono già i partiti della destra? E perché la gente dovrebbe continuare a votare un partito che si veste di sinistra allo scopo di fare i programmi della destra insieme alla destra o a chi ci sta?
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04 ... e/2605798/
Matteo Renzi, la sua ‘casa’ ora barcolla visibilmente
di Roberto Marchesi | 4 aprile 2016
COMMENTI (3)
Politologo, studioso di macroeconomia
Il succedersi incalzante degli scandali, e dimissioni, e coinvolgimenti in inchieste giudiziarie, che coinvolgono ‘casa Renzi’, cioè non solo gli uomini e le donne che lui si e’ scelto per formare il suo governo, ma anche quelli che lo sostengono direttamente o indirettamente nel suo partito e nelle aree di potere che lui e’ riuscito a far salire sul suo carrozzone del potere e degli interessi. Potrei continuare a lungo elencando ciò che direttamente o indirettamente è suo oggi in Italia, ovvero ciò che dipende dal suo volere, ma è una lista davvero impressionante e che, a onor del vero, mal si concilia con la distribuzione e l’equilibrio dei poteri di una sana democrazia.
Ma anche solo quelli che ho citato sono già veramente troppi. E si consideri che ho volutamente tralasciato il presidente Mattarella, perché sembra, fin qui almeno, essere persona equilibrata, sinceramente rispettosa dei valori reali della nostra democrazia, e quindi avulso alla concreta area d’influenza attribuibile a “Casa Renzi”.
Verrà presto anche per lui però il momento della verità, perché il (non) piccolo debito di riconoscenza che lui potrebbe aver avuto con Renzi (per la scelta della sua persona al grande incarico) non potrà restare agevolmente coperto quando arriverà il momento di affidare un nuovo incarico di governo a qualcuno. La conferma che quel piccolo debito non sia mai esistito la si avrà quando verrà dato il nuovo incarico per formare un nuovo governo.
È difficile, per la strana e ingarbugliata situazione in cui si è venuto a trovare nel momento della sua salita al Colle, dare qualche colpa al presidente Mattarella, ma francamente, a parte lui, in piena luna di miele col suo mentore, e l’ultra-ottantenne ex capo dello Stato, che avrà certamente dato i dovuti consigli in merito al suo pupillo, che un occhio esperto non abbia visto fin da subito le evidenti forzature (e lacune!) proposte da Renzi a favore di molte (troppe) scelte non sostenute da provata esperienza e capacità personale a formare un gabinetto di così alta levatura e responsabilità.
Visto nel suo insieme si è venuto così a formare attorno a Renzi un carrozzone di potere talmente anomalo che persino le tanto bistrattate “coalizioni” della cosiddetta ‘prima Repubblica’ dovrebbero per forza sembrare ormai, anche ad occhi puri ed esperti, degli esempi di perfetta democrazia.
Non può nemmeno lui però, quando è lontano dai riflettori, far finta di non vedere le profonde crepe che avanzano ogni giorno e che sgretolano la sua ‘casa’ ogni giorno di più. E le ragioni sono molte. Per esempio si sa che, giocando a dama, le piccole pedine possono anche, in certi frangenti della partita, cambiare colore, ma il re non può farlo, con lui finisce la partita. Molti parlamentari stanno facendo, tradendo gli elettori, il “salto della quaglia” ma lui non può perché lui è il leader.
Intendiamoci, non è che lui stia cercando ora di fare il salto della quaglia, quello lo aveva fatto fin dal principio con il famigerato ‘Patto del Nazareno’ (troppo infingardo quel patto per scriverlo ancora con le maiuscole) però gli ha fruttato la massima poltrona di Palazzo Chigi e, come disse Napoleone ‘Parigi vale ben una messa’!
Il fatto è però che un vero leader della ‘sinistra’ mai avrebbe potuto fare un accordo di governo direttamente con il leader della destra per fare tutte riforme di destra. L’ingolfo costituzionale di tre anni fa si sapeva che avrebbe potuto procurare dei guai nell’avvicendamento dei rinnovi istituzionali, e lui ha operato perfettamente affinché quell’ingorgo operasse a suo favore.E’ fin troppo evidente la sua predisposizione al trasformismo (spacciato per pragmatismo). Nessun leader veramente di sinistra avrebbe messo in testa agli adempimenti da completare l’attacco all’art. 18 e allo Statuto dei Lavoratori quando nemmeno la Confidustria lo definiva necessità urgente.
Oggi, pressato da esigenze opposte, cerca di riposizionarsi un po’ a sinistra facendo finta di far la voce grossa a Bruxelles. Ma cosa sta facendo veramente di sinistra? Niente di veramente importante. Le sue “riforme” servono solo (come accade ormai da piu’ di trent’anni ad ogni leader politico) a rafforzare il suo potere, non a risolvere i veri problemi del paese. Ci sono molte riforme che lui potrebbe avviare e che potrebbero veramente spostare a sinistra il paese (la nazionalizzazione di qualche banca per esempio sarebbe un segnale fortissimo), ma lui non ne fa nemmeno una. La sua unica ricetta è esattamente quella del capitalismo più o meno moderato Usa. Ma per quella non ci sono già i partiti della destra? E perché la gente dovrebbe continuare a votare un partito che si veste di sinistra allo scopo di fare i programmi della destra insieme alla destra o a chi ci sta?
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04 ... e/2605798/
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Repubblica 4.4.16
La sfida solitaria dello sceriffo
di Stefano Folli
ANCORA una volta Renzi fa di se stesso lo scudo che deve proteggere insieme il governo e una linea politica. Affermando «sono io che ho deciso tutto (sulle ricerche petrolifere in Basilicata e sul famoso emendamento, ndr)», il premier alza il livello dello scontro, difende i ministri e in un certo senso sfida i magistrati che conducono l’inchiesta. È molto più difficile colpire il presidente del Consiglio quando invece l’indagine sta scavando nelle pieghe dei conflitti d’interessi, per loro natura opachi e spesso inafferrabili.
Quella del premier è ovviamente una risposta politica a un attacco che senza dubbio si è rivelato il più pesante subito dal governo e da lui stesso nei due anni di mandato. Sono io il solo responsabile, pigliatevela con me se avete il coraggio: una frase di forte impatto mediatico, destinata a diventare subito il titolo dei siti e dei giornali. Ed è una tattica a cui i politici di temperamento ricorrono nei momenti di difficoltà. Quasi sempre ha l’effetto di spegnere l’incendio; quando non ci riesce, ovviamente non c’è più difesa di fronte alla voragine. Ne deriva che Renzi ha fatto la mossa giusta, se il suo obiettivo era drammatizzare per uscire dall’angolo. Ma non basta certo una singola uscita davanti alle telecamere di In mezz’ora per considerare archiviato il caso.
Sul piano immediato, non mancano i risultati. I magistrati di Potenza hanno subito fatto sapere che non pensano di ascoltare la testimonianza del premier: il che non significa che l’inchiesta sia depotenziata, ma vuol dire che il suo profilo politico è molto più basso di quello che vorrebbero i fautori della mozione di sfiducia. Secondo punto, la minoranza interna ha garantito i suoi voti contro la mozione grillina. Salvo colpi di scena poco plausibili, la manovra parlamentare non avrà quindi successo. E se questo sarà l’esito, lo si deve anche alla capacità del presidente del Consiglio di combattere a viso aperto e in prima persona le sue battaglie. S’intende però che l’intera vicenda e ieri le parole di Renzi - suscitano ulteriori dubbi e riserve. Sarebbe il caso, in primo luogo, che il premier si presentasse in Parlamento, e non solo in uno studio televisivo, a esprimere una tesi così impegnativa circa la sua responsabilità personale.
In secondo luogo, l’aspetto di sfida sottintesa alla procura sposta il confronto su un terreno improprio e molto insidioso. L’Italia è rimasta ferma per anni, assistendo al conflitto inesausto fra Berlusconi e la magistratura. Nessuno ha voglia di ritrovarsi in una situazione analoga.
Terzo punto, il più delicato. Assumere il ruolo di sceriffo solitario va bene in casi eccezionali. Ma Renzi mostra la tendenza a entrare in questa parte fin troppo spesso: che si tratti del referendum anti- trivelle o di quello costituzionale; che si parli di voto amministrativo o di scenari politici. Talvolta lo sceriffo solitario si palesa per rimediare a errori precedenti, dovuti a leggerezze o distrazioni nel gestire quello che accade nel governo o ai suoi margini. Se Renzi seguisse l’attività dei suoi collaboratori “a monte”, ossia prima che la matassa s’ingarbugli, dopo non ci sarebbe necessità per lui di addossarsi tutto il peso del mondo, con un novello Atlante.
Il pasticcio del petrolio merita di essere visto per quello che è: l’indizio che qualcosa va registrato in fretta nel governo e anche nei codici comunicativi del premier. Che non può tenere in mano da solo tutti i fili del gioco e non può nemmeno parlare agli italiani come due anni fa. La fase di difficoltà può essere superata soprattutto se gli elettori si convincono che al governo c’è una classe dirigente espressione di una nuova Italia. Non l’onda lunga di vecchi assetti e di antiche pratiche.
La sfida solitaria dello sceriffo
di Stefano Folli
ANCORA una volta Renzi fa di se stesso lo scudo che deve proteggere insieme il governo e una linea politica. Affermando «sono io che ho deciso tutto (sulle ricerche petrolifere in Basilicata e sul famoso emendamento, ndr)», il premier alza il livello dello scontro, difende i ministri e in un certo senso sfida i magistrati che conducono l’inchiesta. È molto più difficile colpire il presidente del Consiglio quando invece l’indagine sta scavando nelle pieghe dei conflitti d’interessi, per loro natura opachi e spesso inafferrabili.
Quella del premier è ovviamente una risposta politica a un attacco che senza dubbio si è rivelato il più pesante subito dal governo e da lui stesso nei due anni di mandato. Sono io il solo responsabile, pigliatevela con me se avete il coraggio: una frase di forte impatto mediatico, destinata a diventare subito il titolo dei siti e dei giornali. Ed è una tattica a cui i politici di temperamento ricorrono nei momenti di difficoltà. Quasi sempre ha l’effetto di spegnere l’incendio; quando non ci riesce, ovviamente non c’è più difesa di fronte alla voragine. Ne deriva che Renzi ha fatto la mossa giusta, se il suo obiettivo era drammatizzare per uscire dall’angolo. Ma non basta certo una singola uscita davanti alle telecamere di In mezz’ora per considerare archiviato il caso.
Sul piano immediato, non mancano i risultati. I magistrati di Potenza hanno subito fatto sapere che non pensano di ascoltare la testimonianza del premier: il che non significa che l’inchiesta sia depotenziata, ma vuol dire che il suo profilo politico è molto più basso di quello che vorrebbero i fautori della mozione di sfiducia. Secondo punto, la minoranza interna ha garantito i suoi voti contro la mozione grillina. Salvo colpi di scena poco plausibili, la manovra parlamentare non avrà quindi successo. E se questo sarà l’esito, lo si deve anche alla capacità del presidente del Consiglio di combattere a viso aperto e in prima persona le sue battaglie. S’intende però che l’intera vicenda e ieri le parole di Renzi - suscitano ulteriori dubbi e riserve. Sarebbe il caso, in primo luogo, che il premier si presentasse in Parlamento, e non solo in uno studio televisivo, a esprimere una tesi così impegnativa circa la sua responsabilità personale.
In secondo luogo, l’aspetto di sfida sottintesa alla procura sposta il confronto su un terreno improprio e molto insidioso. L’Italia è rimasta ferma per anni, assistendo al conflitto inesausto fra Berlusconi e la magistratura. Nessuno ha voglia di ritrovarsi in una situazione analoga.
Terzo punto, il più delicato. Assumere il ruolo di sceriffo solitario va bene in casi eccezionali. Ma Renzi mostra la tendenza a entrare in questa parte fin troppo spesso: che si tratti del referendum anti- trivelle o di quello costituzionale; che si parli di voto amministrativo o di scenari politici. Talvolta lo sceriffo solitario si palesa per rimediare a errori precedenti, dovuti a leggerezze o distrazioni nel gestire quello che accade nel governo o ai suoi margini. Se Renzi seguisse l’attività dei suoi collaboratori “a monte”, ossia prima che la matassa s’ingarbugli, dopo non ci sarebbe necessità per lui di addossarsi tutto il peso del mondo, con un novello Atlante.
Il pasticcio del petrolio merita di essere visto per quello che è: l’indizio che qualcosa va registrato in fretta nel governo e anche nei codici comunicativi del premier. Che non può tenere in mano da solo tutti i fili del gioco e non può nemmeno parlare agli italiani come due anni fa. La fase di difficoltà può essere superata soprattutto se gli elettori si convincono che al governo c’è una classe dirigente espressione di una nuova Italia. Non l’onda lunga di vecchi assetti e di antiche pratiche.
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
La Stampa 4.4.16
La Boschi sui poteri forti scatena una rivolta di tutte le opposizioni
Dalla sinistra Pd Gotor accusa: sindrome da fortino assediato
di Francesca Schianchi
Da destra, c’è chi come Salvini considera il governo Renzi quello «più amico dei banchieri, dei finanzieri, dei petrolieri, della Merkel e dei magistrati»: altro che averci contro i poteri forti. Dal M5S, Roberto Fico dice di sentire «il rumore delle unghie di Renzi sugli specchi, rumore acuto di chi sta arrivando al capolinea». La reazione dei vertici del governo all’inchiesta della Procura di Potenza che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi - l’intervista di ieri della Boschi a «La Stampa», dove sostiene che i poteri forti sono contro l’esecutivo, e il colloquio di Renzi a «In mezz’ora» in cui si è assunto tutta la paternità dell’emendamento galeotto – scatena nuove critiche nelle opposizioni. Ma non convince granché nemmeno la minoranza del Pd: «Vedo una sindrome da fortino assediato a cui stanno rispondendo in modo sgrammaticato, senza umiltà», valuta il senatore bersaniano Miguel Gotor.
A tre giorni dalle dimissioni della Guidi da ministro dello Sviluppo, l’affaire è tutt’altro che chiuso, con le opposizioni pronte alla mozione di sfiducia al governo («i numeri ci sono», per farla passare, calcola il grillino Luigi Di Maio) e la promessa di querela al M5S ribadita in tv da Renzi («una nota d’orgoglio nel mio curriculum», la definisce il giovane vicepresidente della Camera). E non bastano a spegnere le polemiche le repliche di Boschi e Renzi, dall’«orgoglio per Tempa Rossa» (il premier «non s’illuda di cavarsela facendo l’arrogante – intima il forzista Gasparri – dovrà rispondere in Parlamento delle sue scelte») ai «poteri forti» a cui questo governo farebbe «paura», teoria non ribadita da Renzi. «Hanno occupato tutto, lottizzato tutto e osano lamentarsi?», chiede il deputato del gruppo di Fitto Daniele Capezzone, mentre dall’altra parte dell’emiciclo interviene l’ex Pd oggi in Sinistra italiana, Alfredo D’Attorre, per dire che «proprio mentre Renzi inneggia a Marchionne, la ministra Boschi spiega che i poteri forti sono contro il governo, senza pudore».
Critiche che arrivano dalle opposizioni, cioè da chi, come dice il presidente del consiglio fa «legittimamente una battaglia politica contro di noi» (ma, aggiunge, «non definirei Grillo e Berlusconi poteri forti»), ma che covano anche in seno alla sua stessa minoranza. Silente, ieri, dinanzi alle difese del governo, forse avrà occasione di parlarne oggi in Direzione nazionale. Spiegando, come fa il bersaniano Nico Stumpo, che «non si può andare avanti a colpi di slogan: “i poteri forti”, “non ci mandano a casa”, o frasi come “l’emendamento l’ho voluto io”, come a sottintendere “quindi non se ne discuta più”… Serve un po’ più di onestà intellettuale. E, sul caso Guidi, il tema è chiedersi se il Pd ha un impianto di politica industriale per questo Paese». Non solo, il collega Gotor sottolinea anche un altro aspetto: «Mi sembra un errore insistere con una carica per Carrai. Uno sbaglio, proprio in questi giorni, trasmettere l’idea “mi fido solo della purezza del Giglio magico”, sintomo o di poca lucidità, o di arroganza». Scelte che, sospira Gotor, «se le avesse fatte Berlusconi…».
Repubblica 4.4.16
Il compagno della ministra avrebbe ottenuto commesse pure a Augusta. E in cambio l’ammiraglio De Giorgi puntava allo sblocco dei fondi per le nuove navi militari
Guidi, due incontri con i petrolieri poi i “favori” a Gemelli
di Giuliano Foschini e Marco Mensurati
ROMA. Non è stata solo una leggerezza, una telefonata inopportuna a costare il posto a Federica Guidi. Dalle carte di Potenza emerge infatti un attivismo da parte dell’ex ministro che va ben oltre l’ingenuità di una chiamata di troppo. In almeno due occasioni avrebbe incontrato potenti esponenti della “lobby petrolifera”, promettendo loro interventi del governo e, stando a quanto si deduce dalle intercettazioni, ottenendo in cambio “cortesie” destinate a favorire gli affari del compagno.
Il grande regista di questi incontri è Gianluca Gemelli, il fidanzato della Guidi che con le sue due società non solo, come noto, aveva appena ottenuto dalla Total un importante subappalto (2 milioni e mezzo di euro) ma aveva anche intenzione di diventare «fornitore di servizi ingegneristici» per la compagnia del petrolio, per il futuro. Ovviamente sfruttando il ruolo della compagna. La cosa diventa esplicita nella telefonata dell’23 ottobre 2014. Al telefono ci sono Franco Broggi - capo ufficio appalti della Tecnimont l’azienda che gestiva per conto della Total i subappalti in Basilicata – e Gemelli. Quest’ultimo ha appena chiesto di poter «fare tutto ciò che riguarda l’ingegneria per eventuali lavori successivi». Broggi risponde in maniera netta: «Sì. Tu fai. Non ti preoccupare. Se c’è quell’incontro a breve, tra chi sai tu e chi sai tu… Tutto si fa nella vita». Gemelli ringrazia: «Tu sei un mafioso siciliano!».
«Da una telefonata successiva – scrive il gip – si capisce come l’incontro sarebbe dovuto essere tra il ministro Guidi e un rappresentante Tecnimont».
Insomma, l’accordo tra Broggi e Gemelli era chiaro. La coppia Gemelli- Guidi aiutava Tecnimont (intervenendo presso Total, a cui avrebbe poi regalato in cambio l’emendament) e la Tecnimont avrebbe restituito il favore «spingendo» le ditte di Gemelli.
Il 4 novembre, è ancora una telefonata tra Broggi e Gemelli a raccontare gli incontri della Guidi. «Senti – chiede Broggi - sai se Mimì e Cocò si sono incontrati, poi?». «No, non si sono incontrati, questo tizio è allucinante”, risponde Gemelli svelando che «questo tizio», l’uomo di Tecnimont, aveva rinviato l’appuntamento. Che si è tenuto una decina di giorni dopo.
«I due dell’Ave Maria si sono visti», esordisce trionfante Broggi, aggiungendo però di essere un po’ infastidito perché la cosa è «adesso è anche di dominio pubblico, sta circolando corrispondenza interna dove si dice che la persona interverrà a nostro favore verso Total. Da un certo punto di vista va bene, è l’istituzione che dice ‘prendi una società italiana’; però c’è modo e modo”.
L’altro incontro della ministra è con Nathalie Limet (ad Total) e Giuseppe Cobianchi, numero due della compagnia, quest’ultimo è l’interlocutore di Gemelli nella famosa telefonata in cui il fidanzato della ministra annunciava l’inserimento dell’emendamento Tempa Rossa nella Legge di Stablità.
L’incontro avviene presso il Mise. È Colbianchi a parlarne con un collega, il 19 novembre: «Nathalie le ha rappresentato le difficoltà con le Regioni Basilicata e Puglia». «E il ministro – scrive il gip – ha detto che avrebbe convocato le Regioni (…) Poi avrebbe avuto due incontri separati con Eni e Total, infine li avrebbe messi intorno a un Tavolo e li avrebbe stanati». In particolare, dice ancora Cobianchi, il ministro si è detta «assolutamente disponibile a risolvere il problema di Taranto»”.
«L’incontro è andato bene», riferirà in un’altra telefonata, Colbianchi a Gemelli. Anche Federica «a me ha detto che è andato tutto bene», la risposta.
Sull’asse Gemelli-Guidi non si muovono solamente gli interessi dei petrolieri. Ma anche i vari appetiti prodotti dal «programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa». Stiamo parlando del filone di indagine in cui è indagato, tra gli altri, il capo di stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi. L’ipotesi dell’accusa è che Gemelli attraverso Niccolò Colicchi – presidente della Compagnia delle Opere di Roma, consulente della Camera di Commercio di Roma, già indagato dalla procura di Milano per una vecchia storia legata al papavero democristiano Massimo De Carolis – fosse riuscito ad allacciare una proficua relazione con De Giorgi e con il suo amico Valter Pastena, burocrate di Stato, al tempo in servizio presso il ministero della Difesa. «Venne da me Colicchi – racconta Pastena – e mi propose di conoscere Gemelli. Accettai. Del resto era il compagno della Guidi». Secondo la procura, attraverso De Giorgi, Gemelli riuscì a ottenere commesse di lavoro al porto di Augusta. In cambio De Giorgi avrebbe ottenuto lo sblocco dei fondi – che transitavano presso il Mise della Guidi - per il programma navale (a cui teneva). Lo sblocco sarebbe stato agevolato, dal punto di vista burocratico, da Pastena. Il 12 dicembre 2014, proprio nel periodo chiave dell’intera vicenda, la ministra Guidi invia al presidente del Senato, Pietro Grasso, uno «Schema di decreto ministeriale concernente le modalità di utilizzo dei contributi pluriennali relativi al programma navale» (5,4 miliardi di euro in 20 anni), per il «parere preliminare delle Commissioni». Parere che la Guidi definisce «urgente», auspicando che l’iter si concluda «al più presto con la stipula dei contratti e degli impegni formali di spesa». Tre mesi dopo quel documento, a Pastena verrà fatto un contratto come consulente del Mise.
La Boschi sui poteri forti scatena una rivolta di tutte le opposizioni
Dalla sinistra Pd Gotor accusa: sindrome da fortino assediato
di Francesca Schianchi
Da destra, c’è chi come Salvini considera il governo Renzi quello «più amico dei banchieri, dei finanzieri, dei petrolieri, della Merkel e dei magistrati»: altro che averci contro i poteri forti. Dal M5S, Roberto Fico dice di sentire «il rumore delle unghie di Renzi sugli specchi, rumore acuto di chi sta arrivando al capolinea». La reazione dei vertici del governo all’inchiesta della Procura di Potenza che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi - l’intervista di ieri della Boschi a «La Stampa», dove sostiene che i poteri forti sono contro l’esecutivo, e il colloquio di Renzi a «In mezz’ora» in cui si è assunto tutta la paternità dell’emendamento galeotto – scatena nuove critiche nelle opposizioni. Ma non convince granché nemmeno la minoranza del Pd: «Vedo una sindrome da fortino assediato a cui stanno rispondendo in modo sgrammaticato, senza umiltà», valuta il senatore bersaniano Miguel Gotor.
A tre giorni dalle dimissioni della Guidi da ministro dello Sviluppo, l’affaire è tutt’altro che chiuso, con le opposizioni pronte alla mozione di sfiducia al governo («i numeri ci sono», per farla passare, calcola il grillino Luigi Di Maio) e la promessa di querela al M5S ribadita in tv da Renzi («una nota d’orgoglio nel mio curriculum», la definisce il giovane vicepresidente della Camera). E non bastano a spegnere le polemiche le repliche di Boschi e Renzi, dall’«orgoglio per Tempa Rossa» (il premier «non s’illuda di cavarsela facendo l’arrogante – intima il forzista Gasparri – dovrà rispondere in Parlamento delle sue scelte») ai «poteri forti» a cui questo governo farebbe «paura», teoria non ribadita da Renzi. «Hanno occupato tutto, lottizzato tutto e osano lamentarsi?», chiede il deputato del gruppo di Fitto Daniele Capezzone, mentre dall’altra parte dell’emiciclo interviene l’ex Pd oggi in Sinistra italiana, Alfredo D’Attorre, per dire che «proprio mentre Renzi inneggia a Marchionne, la ministra Boschi spiega che i poteri forti sono contro il governo, senza pudore».
Critiche che arrivano dalle opposizioni, cioè da chi, come dice il presidente del consiglio fa «legittimamente una battaglia politica contro di noi» (ma, aggiunge, «non definirei Grillo e Berlusconi poteri forti»), ma che covano anche in seno alla sua stessa minoranza. Silente, ieri, dinanzi alle difese del governo, forse avrà occasione di parlarne oggi in Direzione nazionale. Spiegando, come fa il bersaniano Nico Stumpo, che «non si può andare avanti a colpi di slogan: “i poteri forti”, “non ci mandano a casa”, o frasi come “l’emendamento l’ho voluto io”, come a sottintendere “quindi non se ne discuta più”… Serve un po’ più di onestà intellettuale. E, sul caso Guidi, il tema è chiedersi se il Pd ha un impianto di politica industriale per questo Paese». Non solo, il collega Gotor sottolinea anche un altro aspetto: «Mi sembra un errore insistere con una carica per Carrai. Uno sbaglio, proprio in questi giorni, trasmettere l’idea “mi fido solo della purezza del Giglio magico”, sintomo o di poca lucidità, o di arroganza». Scelte che, sospira Gotor, «se le avesse fatte Berlusconi…».
Repubblica 4.4.16
Il compagno della ministra avrebbe ottenuto commesse pure a Augusta. E in cambio l’ammiraglio De Giorgi puntava allo sblocco dei fondi per le nuove navi militari
Guidi, due incontri con i petrolieri poi i “favori” a Gemelli
di Giuliano Foschini e Marco Mensurati
ROMA. Non è stata solo una leggerezza, una telefonata inopportuna a costare il posto a Federica Guidi. Dalle carte di Potenza emerge infatti un attivismo da parte dell’ex ministro che va ben oltre l’ingenuità di una chiamata di troppo. In almeno due occasioni avrebbe incontrato potenti esponenti della “lobby petrolifera”, promettendo loro interventi del governo e, stando a quanto si deduce dalle intercettazioni, ottenendo in cambio “cortesie” destinate a favorire gli affari del compagno.
Il grande regista di questi incontri è Gianluca Gemelli, il fidanzato della Guidi che con le sue due società non solo, come noto, aveva appena ottenuto dalla Total un importante subappalto (2 milioni e mezzo di euro) ma aveva anche intenzione di diventare «fornitore di servizi ingegneristici» per la compagnia del petrolio, per il futuro. Ovviamente sfruttando il ruolo della compagna. La cosa diventa esplicita nella telefonata dell’23 ottobre 2014. Al telefono ci sono Franco Broggi - capo ufficio appalti della Tecnimont l’azienda che gestiva per conto della Total i subappalti in Basilicata – e Gemelli. Quest’ultimo ha appena chiesto di poter «fare tutto ciò che riguarda l’ingegneria per eventuali lavori successivi». Broggi risponde in maniera netta: «Sì. Tu fai. Non ti preoccupare. Se c’è quell’incontro a breve, tra chi sai tu e chi sai tu… Tutto si fa nella vita». Gemelli ringrazia: «Tu sei un mafioso siciliano!».
«Da una telefonata successiva – scrive il gip – si capisce come l’incontro sarebbe dovuto essere tra il ministro Guidi e un rappresentante Tecnimont».
Insomma, l’accordo tra Broggi e Gemelli era chiaro. La coppia Gemelli- Guidi aiutava Tecnimont (intervenendo presso Total, a cui avrebbe poi regalato in cambio l’emendament) e la Tecnimont avrebbe restituito il favore «spingendo» le ditte di Gemelli.
Il 4 novembre, è ancora una telefonata tra Broggi e Gemelli a raccontare gli incontri della Guidi. «Senti – chiede Broggi - sai se Mimì e Cocò si sono incontrati, poi?». «No, non si sono incontrati, questo tizio è allucinante”, risponde Gemelli svelando che «questo tizio», l’uomo di Tecnimont, aveva rinviato l’appuntamento. Che si è tenuto una decina di giorni dopo.
«I due dell’Ave Maria si sono visti», esordisce trionfante Broggi, aggiungendo però di essere un po’ infastidito perché la cosa è «adesso è anche di dominio pubblico, sta circolando corrispondenza interna dove si dice che la persona interverrà a nostro favore verso Total. Da un certo punto di vista va bene, è l’istituzione che dice ‘prendi una società italiana’; però c’è modo e modo”.
L’altro incontro della ministra è con Nathalie Limet (ad Total) e Giuseppe Cobianchi, numero due della compagnia, quest’ultimo è l’interlocutore di Gemelli nella famosa telefonata in cui il fidanzato della ministra annunciava l’inserimento dell’emendamento Tempa Rossa nella Legge di Stablità.
L’incontro avviene presso il Mise. È Colbianchi a parlarne con un collega, il 19 novembre: «Nathalie le ha rappresentato le difficoltà con le Regioni Basilicata e Puglia». «E il ministro – scrive il gip – ha detto che avrebbe convocato le Regioni (…) Poi avrebbe avuto due incontri separati con Eni e Total, infine li avrebbe messi intorno a un Tavolo e li avrebbe stanati». In particolare, dice ancora Cobianchi, il ministro si è detta «assolutamente disponibile a risolvere il problema di Taranto»”.
«L’incontro è andato bene», riferirà in un’altra telefonata, Colbianchi a Gemelli. Anche Federica «a me ha detto che è andato tutto bene», la risposta.
Sull’asse Gemelli-Guidi non si muovono solamente gli interessi dei petrolieri. Ma anche i vari appetiti prodotti dal «programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa». Stiamo parlando del filone di indagine in cui è indagato, tra gli altri, il capo di stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi. L’ipotesi dell’accusa è che Gemelli attraverso Niccolò Colicchi – presidente della Compagnia delle Opere di Roma, consulente della Camera di Commercio di Roma, già indagato dalla procura di Milano per una vecchia storia legata al papavero democristiano Massimo De Carolis – fosse riuscito ad allacciare una proficua relazione con De Giorgi e con il suo amico Valter Pastena, burocrate di Stato, al tempo in servizio presso il ministero della Difesa. «Venne da me Colicchi – racconta Pastena – e mi propose di conoscere Gemelli. Accettai. Del resto era il compagno della Guidi». Secondo la procura, attraverso De Giorgi, Gemelli riuscì a ottenere commesse di lavoro al porto di Augusta. In cambio De Giorgi avrebbe ottenuto lo sblocco dei fondi – che transitavano presso il Mise della Guidi - per il programma navale (a cui teneva). Lo sblocco sarebbe stato agevolato, dal punto di vista burocratico, da Pastena. Il 12 dicembre 2014, proprio nel periodo chiave dell’intera vicenda, la ministra Guidi invia al presidente del Senato, Pietro Grasso, uno «Schema di decreto ministeriale concernente le modalità di utilizzo dei contributi pluriennali relativi al programma navale» (5,4 miliardi di euro in 20 anni), per il «parere preliminare delle Commissioni». Parere che la Guidi definisce «urgente», auspicando che l’iter si concluda «al più presto con la stipula dei contratti e degli impegni formali di spesa». Tre mesi dopo quel documento, a Pastena verrà fatto un contratto come consulente del Mise.
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Repubblica 4.4.16
Quell’emendamento della discordia bocciato, approvato e sterilizzato
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA. È un emendamento che viaggia di notte quello cui tenevano l’ex ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi e il suo compagno, Gianluca Gemelli. La prima volta che appare è l’ora di cena del 17 ottobre 2014. Quando in commissione Ambiente alla Camera - dove si vota il decreto Sblocca-Italia - il presidente Ermete Realacci avverte che «il rappresentante del Governo ha testé presentato l’emendamento 37.52». A capirne per prima il contenuto è Mirella Liuzzi, deputata 5 stelle che interviene infuriata: «Questo emendamento autorizza e rende strategici Tempa Rossa, Ilva, gli stoccaggi di idrocarburi. È una cosa pericolosissima!». M5S e Sel attaccano. Il capogruppo pd - Enrico Borghi dice di non saperne nulla e chiede che si aggiorni la discussione. Ed è durante la sospensione che, nonostante la presenza di altri esponenti del governo, piomba nella sala Mappamondo l’allora viceministro allo Sviluppo Claudio De Vincenti. Prende da parte Realacci, c’è una discussione concitata che il presidente pd della Commissione non nega: «Lo scontro è stato aspro, ma io quell’emendamento l’ho dichiarato inammissibile - alle quattro di notte - perché era davvero troppo vasto. Potenzialmente sbloccava tutto quel che aveva a che fare con gli idrocarburi». Quel che diceva era che le disposizioni che valgono per le opere strategiche «si applicano altresì alle opere necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria, alle opere necessarie, ai terminali costieri e alle infrastrutture portuali strumentali allo sfruttamento di titoli concessori esistenti». Non poteva essere scritto meglio per sbloccare i lavori che collegheranno Tempa Rossa all’oleodotto che da Viggiano, sempre in Basilicata, arriva a Taranto.
«Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se è d’accordo anche Maria Elena quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte», dice al telefono la Guidi a Gemelli. Che chiama il dirigente della Total Giuseppe Cobianchi: «Pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente, pare ci sia l’accordo con Boschi e compagni. È tutto sbloccato». E in effetti nel maxiemendamento alla stabilità, nella seduta (notturna) del 17 dicembre 2014 in commissione Bilancio al Senato, quella misura ricompare: «Dopo le parole ‘’per le infrastrutture e insediamenti strategici” si aggiunge ‘’nonché per le opere necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria...”». Un mese prima, emerge dall’inchiesta, a novembre 2014, c’era stato un incontro tra il ministro Guidi, i rappresentanti della Total e il sottosegretario Simona Vicari. Il maxiemendamento passa grazie al voto di fiducia e non viene modificato. Le opposizioni protestano. La scheda di lettura che accompagna la legge spiega: «Da notizie di stampa pare che la norma sia tesa a sbloccare la costruzione della base logistica del giacimento petrolifero della Basilicata Tempa Rossa dell’Eni». «L’abbiamo scritta noi all’Economia su input del Mise - racconta il sottosegretario a via XX settembre Pierpaolo Baretta - poi, com’è prassi, l’abbiamo mandata al ministero per i Rapporti col Parlamento per il vaglio finale. Lo ha detto anche Renzi: la linea del governo era quella di completare il ciclo della lavorazione del petrolio estratto a Tempa rossa». Una linea che viaggia di notte. E che, secondo alcuni, è almeno in parte sterilizzata dalle norme inserite nell’ultima Stabilità per evitare i quesiti referendari sulle trivellazioni (ne è rimasto uno su sei), quando si decide «la soppressione del richiamo al potere sostitutivo della presidenza del Consiglio per le infrastrutture energetiche strategiche in caso di mancato raggiungimento delle intese con le Regioni».
Quell’emendamento della discordia bocciato, approvato e sterilizzato
di Annalisa Cuzzocrea
ROMA. È un emendamento che viaggia di notte quello cui tenevano l’ex ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi e il suo compagno, Gianluca Gemelli. La prima volta che appare è l’ora di cena del 17 ottobre 2014. Quando in commissione Ambiente alla Camera - dove si vota il decreto Sblocca-Italia - il presidente Ermete Realacci avverte che «il rappresentante del Governo ha testé presentato l’emendamento 37.52». A capirne per prima il contenuto è Mirella Liuzzi, deputata 5 stelle che interviene infuriata: «Questo emendamento autorizza e rende strategici Tempa Rossa, Ilva, gli stoccaggi di idrocarburi. È una cosa pericolosissima!». M5S e Sel attaccano. Il capogruppo pd - Enrico Borghi dice di non saperne nulla e chiede che si aggiorni la discussione. Ed è durante la sospensione che, nonostante la presenza di altri esponenti del governo, piomba nella sala Mappamondo l’allora viceministro allo Sviluppo Claudio De Vincenti. Prende da parte Realacci, c’è una discussione concitata che il presidente pd della Commissione non nega: «Lo scontro è stato aspro, ma io quell’emendamento l’ho dichiarato inammissibile - alle quattro di notte - perché era davvero troppo vasto. Potenzialmente sbloccava tutto quel che aveva a che fare con gli idrocarburi». Quel che diceva era che le disposizioni che valgono per le opere strategiche «si applicano altresì alle opere necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria, alle opere necessarie, ai terminali costieri e alle infrastrutture portuali strumentali allo sfruttamento di titoli concessori esistenti». Non poteva essere scritto meglio per sbloccare i lavori che collegheranno Tempa Rossa all’oleodotto che da Viggiano, sempre in Basilicata, arriva a Taranto.
«Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se è d’accordo anche Maria Elena quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte», dice al telefono la Guidi a Gemelli. Che chiama il dirigente della Total Giuseppe Cobianchi: «Pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente, pare ci sia l’accordo con Boschi e compagni. È tutto sbloccato». E in effetti nel maxiemendamento alla stabilità, nella seduta (notturna) del 17 dicembre 2014 in commissione Bilancio al Senato, quella misura ricompare: «Dopo le parole ‘’per le infrastrutture e insediamenti strategici” si aggiunge ‘’nonché per le opere necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria...”». Un mese prima, emerge dall’inchiesta, a novembre 2014, c’era stato un incontro tra il ministro Guidi, i rappresentanti della Total e il sottosegretario Simona Vicari. Il maxiemendamento passa grazie al voto di fiducia e non viene modificato. Le opposizioni protestano. La scheda di lettura che accompagna la legge spiega: «Da notizie di stampa pare che la norma sia tesa a sbloccare la costruzione della base logistica del giacimento petrolifero della Basilicata Tempa Rossa dell’Eni». «L’abbiamo scritta noi all’Economia su input del Mise - racconta il sottosegretario a via XX settembre Pierpaolo Baretta - poi, com’è prassi, l’abbiamo mandata al ministero per i Rapporti col Parlamento per il vaglio finale. Lo ha detto anche Renzi: la linea del governo era quella di completare il ciclo della lavorazione del petrolio estratto a Tempa rossa». Una linea che viaggia di notte. E che, secondo alcuni, è almeno in parte sterilizzata dalle norme inserite nell’ultima Stabilità per evitare i quesiti referendari sulle trivellazioni (ne è rimasto uno su sei), quando si decide «la soppressione del richiamo al potere sostitutivo della presidenza del Consiglio per le infrastrutture energetiche strategiche in caso di mancato raggiungimento delle intese con le Regioni».
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
ORMAI E' GUERRA.
Persino Pastrafrolla Cuperlo si è messo l'elmetto.
4 aprile 2016 | di F. Q.
Pd, Renzi attaccato da Cuperlo: “Coltivi l’arroganza dei capi, non c’è la statura del leader”
“Pensi che darai all’italia una democrazia più solida?”. L’attacco della minoranza dem al segretario del Pd parte da Gianni Cuperlo, che nel corso del suo intervento alla direzione nazionale del Partito democratico, sul tema della riforma costituzionale domanda a Renzi: “Chi rimarrà dopo che hai “spazzato via” quelli che non la pensano come te dopo la riforma di un terzo della Costituzione Repubblicana”. E ancora, accusandolo di personalizzare con “contenuti impropri” il referendum di ottobre: “La tua riforma non durerà, perché dopo le tue parole un’altra maggioranza si sentirà legittimata a modificare ancora la Carta”. Cuperlo si dice poi preoccupato per “una disciplina di corrente e di potere” che Renzi avrebbe imposto alla comunità politica da lui ereditata. “Ammirevole la tua passione politica, ma penso che non ti stai mostrando all’altezza del ruolo che ricopri, in questi passaggi delicati e drammatici della vita del Paese e della sinistra non mostri la statura di un leader, anche se coltivi l’arroganza dei capi”
VIDEO
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/04/ ... er/503419/
Persino Pastrafrolla Cuperlo si è messo l'elmetto.
4 aprile 2016 | di F. Q.
Pd, Renzi attaccato da Cuperlo: “Coltivi l’arroganza dei capi, non c’è la statura del leader”
“Pensi che darai all’italia una democrazia più solida?”. L’attacco della minoranza dem al segretario del Pd parte da Gianni Cuperlo, che nel corso del suo intervento alla direzione nazionale del Partito democratico, sul tema della riforma costituzionale domanda a Renzi: “Chi rimarrà dopo che hai “spazzato via” quelli che non la pensano come te dopo la riforma di un terzo della Costituzione Repubblicana”. E ancora, accusandolo di personalizzare con “contenuti impropri” il referendum di ottobre: “La tua riforma non durerà, perché dopo le tue parole un’altra maggioranza si sentirà legittimata a modificare ancora la Carta”. Cuperlo si dice poi preoccupato per “una disciplina di corrente e di potere” che Renzi avrebbe imposto alla comunità politica da lui ereditata. “Ammirevole la tua passione politica, ma penso che non ti stai mostrando all’altezza del ruolo che ricopri, in questi passaggi delicati e drammatici della vita del Paese e della sinistra non mostri la statura di un leader, anche se coltivi l’arroganza dei capi”
VIDEO
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/04/ ... er/503419/
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Inchiesta petrolio, Noe acquisisce migliaia di cartelle cliniche per verificare tumori
Ambiente & Veleni
di F. Q. | 5 aprile 2016
COMMENTI
L’ipotesi è quella di disastro ambientale. Per quel fiume di liquidi inquinanti e rifiuti pericolosi finiti, per la Procura di Potenza, nei pozzi. In campo sono scesi i carabinieri del Noe e sono migliaia le cartelle cliniche acquisite negli ospedali lucani per verificare le patologie presenti nella regione del petrolio, tra cui anche quelle relative ai tumori.
E così dopo aver portato alla luce sistema “illecito” di smaltimento di rifiuti delle attività estrattive in Val d’Agri, ora una parte delle attività degli inquirenti si concentra su quanto e come la lunga serie di reati contestati agli arrestati possa aver fatto male alla salute dell’ambiente e delle persone. I rilievi, per quanto riguarda la parte relativa alle attività del Centro Oli di Viggiano (Potenza), stanno proseguendo in tutta la Basilicata con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti.
È anche in corso una perizia specifica condotta in contradditorio tra le parti. I rilievi, per quanto riguarda la parte relativa alle attività del Centro oli di Viggiano (Potenza), stanno proseguendo in tutta la Basilicata con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori“, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti.
Il filone “ambientale” dell’inchiesta di Potenza aveva già innescato la reazione dell’Eni. Che già nei giorni scorsi, aveva fatto sapere che “lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il centro oli” di Viggiano (Potenza) è “ottimo secondo gli standard normativi vigenti” facendo riferimento ai risultati emersi da “studi commissionati ad esperti di conclamata esperienza professionale e autorevolezza in campo scientifico sia a livello nazionale che internazionale”. Gli stessi studi “sono stati tutti in totale trasparenza – evidenziava il gruppo – depositati nel procedimento penale in corso”.
Quella della Procura di Potenza, già nel filone che riguarda le attività dell’Eni, è stata un’indagine lunga e complessa, iniziata nel 2010: “Dispiace rilevare che per risparmiare denaro ci si riduca ad avvelenare un territorio con meccanismi truffaldini”, aveva detto il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, illustrando l’altro giorno i particolari dell’inchiesta.
Il riferimento è al “risparmio dei costi – come si legge nell’ordinanza del gip – del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli” con “rifiuti speciali pericolosi” che venivano “dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita” con un codice che li indicava come “non pericolosi”, e poi inviati con autobotti agli impianti di smaltimento (come Tecnoparco, in Valbasento), e con “un trattamento non adeguato e notevolmente più economico”.
Dai calcoli degli investigatori, il risparmio ipotizzabile per questo “sistema” sarebbe tra il 22% e il 272% (in base a diversi preventivi acquisiti), e si tradurrebbe in una cifra che oscilla tra i 44 e i 110 milioni di euro ogni anno. La restante parte dei reflui liquidi sarebbe stata trasferita nel pozzo “Costa Molina 2″ (sotto sequestro), in cui “i liquidi venivano reiniettati, sebbene l’attività di reiniezione – precisa il gip – non risultasse ammissibile per la presenza di sostanze pericolose”. Anche su questo punto, dagli studi dell’Eni emerge che “le acque di reiniezione non sono acque pericolose, né da un punto di vista della normativa sui rifiuti, né da un punto di vista sostanziale”, e “l’attività di reiniezione svolta presso il centro oli” è “conforme alla legge italiana e alle autorizzazioni vigenti” e “risponde alle migliori prassi internazionali”.
Poi ci sono le emissioni in atmosfera della struttura, che per il gip è “uno dei settori più sensibili e di maggiore impatto ambientale del ciclo produttivo petrolifero”: in questo caso, per “celare le inefficienze dell’impianto”, “i vertici del centro oli decidevano deliberatamente e in diverse occasioni di comunicare il superamento dei parametri” con una “condotta fraudolenta“, ovvero dando una giustificazione tecnica che “non corrispondeva al vero” o “diversa da quella effettiva”. Gli investigatori ipotizzano “manomissioni” delle comunicazioni agli enti di controllo sui superamenti dei limiti di legge per “non allarmarli”. Dalle intercettazioni tra i dipendenti emerge “un quadro preoccupante”: “Io ora preparo le comunicazioni… ci inventiamo… una motivazione”. E in qualche caso sopraggiunge anche lo spavento: “Mi si è gelato il sangue”, “mi sono cagato sotto”, si dicono a telefono o tramite sms.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04 ... e/2609035/
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Inchiesta petrolio, Noe acquisisce migliaia di cartelle cliniche per verificare tumori
Ambiente & Veleni
di F. Q. | 5 aprile 2016
COMMENTI
L’ipotesi è quella di disastro ambientale. Per quel fiume di liquidi inquinanti e rifiuti pericolosi finiti, per la Procura di Potenza, nei pozzi. In campo sono scesi i carabinieri del Noe e sono migliaia le cartelle cliniche acquisite negli ospedali lucani per verificare le patologie presenti nella regione del petrolio, tra cui anche quelle relative ai tumori.
E così dopo aver portato alla luce sistema “illecito” di smaltimento di rifiuti delle attività estrattive in Val d’Agri, ora una parte delle attività degli inquirenti si concentra su quanto e come la lunga serie di reati contestati agli arrestati possa aver fatto male alla salute dell’ambiente e delle persone. I rilievi, per quanto riguarda la parte relativa alle attività del Centro Oli di Viggiano (Potenza), stanno proseguendo in tutta la Basilicata con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti.
È anche in corso una perizia specifica condotta in contradditorio tra le parti. I rilievi, per quanto riguarda la parte relativa alle attività del Centro oli di Viggiano (Potenza), stanno proseguendo in tutta la Basilicata con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori“, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti.
Il filone “ambientale” dell’inchiesta di Potenza aveva già innescato la reazione dell’Eni. Che già nei giorni scorsi, aveva fatto sapere che “lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il centro oli” di Viggiano (Potenza) è “ottimo secondo gli standard normativi vigenti” facendo riferimento ai risultati emersi da “studi commissionati ad esperti di conclamata esperienza professionale e autorevolezza in campo scientifico sia a livello nazionale che internazionale”. Gli stessi studi “sono stati tutti in totale trasparenza – evidenziava il gruppo – depositati nel procedimento penale in corso”.
Quella della Procura di Potenza, già nel filone che riguarda le attività dell’Eni, è stata un’indagine lunga e complessa, iniziata nel 2010: “Dispiace rilevare che per risparmiare denaro ci si riduca ad avvelenare un territorio con meccanismi truffaldini”, aveva detto il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, illustrando l’altro giorno i particolari dell’inchiesta.
Il riferimento è al “risparmio dei costi – come si legge nell’ordinanza del gip – del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli” con “rifiuti speciali pericolosi” che venivano “dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita” con un codice che li indicava come “non pericolosi”, e poi inviati con autobotti agli impianti di smaltimento (come Tecnoparco, in Valbasento), e con “un trattamento non adeguato e notevolmente più economico”.
Dai calcoli degli investigatori, il risparmio ipotizzabile per questo “sistema” sarebbe tra il 22% e il 272% (in base a diversi preventivi acquisiti), e si tradurrebbe in una cifra che oscilla tra i 44 e i 110 milioni di euro ogni anno. La restante parte dei reflui liquidi sarebbe stata trasferita nel pozzo “Costa Molina 2″ (sotto sequestro), in cui “i liquidi venivano reiniettati, sebbene l’attività di reiniezione – precisa il gip – non risultasse ammissibile per la presenza di sostanze pericolose”. Anche su questo punto, dagli studi dell’Eni emerge che “le acque di reiniezione non sono acque pericolose, né da un punto di vista della normativa sui rifiuti, né da un punto di vista sostanziale”, e “l’attività di reiniezione svolta presso il centro oli” è “conforme alla legge italiana e alle autorizzazioni vigenti” e “risponde alle migliori prassi internazionali”.
Poi ci sono le emissioni in atmosfera della struttura, che per il gip è “uno dei settori più sensibili e di maggiore impatto ambientale del ciclo produttivo petrolifero”: in questo caso, per “celare le inefficienze dell’impianto”, “i vertici del centro oli decidevano deliberatamente e in diverse occasioni di comunicare il superamento dei parametri” con una “condotta fraudolenta“, ovvero dando una giustificazione tecnica che “non corrispondeva al vero” o “diversa da quella effettiva”. Gli investigatori ipotizzano “manomissioni” delle comunicazioni agli enti di controllo sui superamenti dei limiti di legge per “non allarmarli”. Dalle intercettazioni tra i dipendenti emerge “un quadro preoccupante”: “Io ora preparo le comunicazioni… ci inventiamo… una motivazione”. E in qualche caso sopraggiunge anche lo spavento: “Mi si è gelato il sangue”, “mi sono cagato sotto”, si dicono a telefono o tramite sms.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04 ... e/2609035/
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Inchiesta petrolio, Noe acquisisce migliaia di cartelle cliniche per verificare tumori
Ambiente & Veleni
di F. Q. | 5 aprile 2016
COMMENTI
L’ipotesi è quella di disastro ambientale. Per quel fiume di liquidi inquinanti e rifiuti pericolosi finiti, per la Procura di Potenza, nei pozzi. In campo sono scesi i carabinieri del Noe e sono migliaia le cartelle cliniche acquisite negli ospedali lucani per verificare le patologie presenti nella regione del petrolio, tra cui anche quelle relative ai tumori.
E così dopo aver portato alla luce sistema “illecito” di smaltimento di rifiuti delle attività estrattive in Val d’Agri, ora una parte delle attività degli inquirenti si concentra su quanto e come la lunga serie di reati contestati agli arrestati possa aver fatto male alla salute dell’ambiente e delle persone. I rilievi, per quanto riguarda la parte relativa alle attività del Centro Oli di Viggiano (Potenza), stanno proseguendo in tutta la Basilicata con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti.
È anche in corso una perizia specifica condotta in contradditorio tra le parti. I rilievi, per quanto riguarda la parte relativa alle attività del Centro oli di Viggiano (Potenza), stanno proseguendo in tutta la Basilicata con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori“, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti.
Il filone “ambientale” dell’inchiesta di Potenza aveva già innescato la reazione dell’Eni. Che già nei giorni scorsi, aveva fatto sapere che “lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il centro oli” di Viggiano (Potenza) è “ottimo secondo gli standard normativi vigenti” facendo riferimento ai risultati emersi da “studi commissionati ad esperti di conclamata esperienza professionale e autorevolezza in campo scientifico sia a livello nazionale che internazionale”. Gli stessi studi “sono stati tutti in totale trasparenza – evidenziava il gruppo – depositati nel procedimento penale in corso”.
Quella della Procura di Potenza, già nel filone che riguarda le attività dell’Eni, è stata un’indagine lunga e complessa, iniziata nel 2010: “Dispiace rilevare che per risparmiare denaro ci si riduca ad avvelenare un territorio con meccanismi truffaldini”, aveva detto il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, illustrando l’altro giorno i particolari dell’inchiesta.
Il riferimento è al “risparmio dei costi – come si legge nell’ordinanza del gip – del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli” con “rifiuti speciali pericolosi” che venivano “dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita” con un codice che li indicava come “non pericolosi”, e poi inviati con autobotti agli impianti di smaltimento (come Tecnoparco, in Valbasento), e con “un trattamento non adeguato e notevolmente più economico”.
Dai calcoli degli investigatori, il risparmio ipotizzabile per questo “sistema” sarebbe tra il 22% e il 272% (in base a diversi preventivi acquisiti), e si tradurrebbe in una cifra che oscilla tra i 44 e i 110 milioni di euro ogni anno. La restante parte dei reflui liquidi sarebbe stata trasferita nel pozzo “Costa Molina 2″ (sotto sequestro), in cui “i liquidi venivano reiniettati, sebbene l’attività di reiniezione – precisa il gip – non risultasse ammissibile per la presenza di sostanze pericolose”. Anche su questo punto, dagli studi dell’Eni emerge che “le acque di reiniezione non sono acque pericolose, né da un punto di vista della normativa sui rifiuti, né da un punto di vista sostanziale”, e “l’attività di reiniezione svolta presso il centro oli” è “conforme alla legge italiana e alle autorizzazioni vigenti” e “risponde alle migliori prassi internazionali”.
Poi ci sono le emissioni in atmosfera della struttura, che per il gip è “uno dei settori più sensibili e di maggiore impatto ambientale del ciclo produttivo petrolifero”: in questo caso, per “celare le inefficienze dell’impianto”, “i vertici del centro oli decidevano deliberatamente e in diverse occasioni di comunicare il superamento dei parametri” con una “condotta fraudolenta“, ovvero dando una giustificazione tecnica che “non corrispondeva al vero” o “diversa da quella effettiva”. Gli investigatori ipotizzano “manomissioni” delle comunicazioni agli enti di controllo sui superamenti dei limiti di legge per “non allarmarli”. Dalle intercettazioni tra i dipendenti emerge “un quadro preoccupante”: “Io ora preparo le comunicazioni… ci inventiamo… una motivazione”. E in qualche caso sopraggiunge anche lo spavento: “Mi si è gelato il sangue”, “mi sono cagato sotto”, si dicono a telefono o tramite sms.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04 ... e/2609035/
Chi c’è in linea
Visitano il forum: Nessuno e 1 ospite