elezioni amministrative 2016
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Re: elezioni amministrative 2016
oggi su vota chiedo ai compagni di questo forum è in particolare
al conte Camillo una condivisione ma anche una discussione aperta su queste mie opinioni.
questo forum sta dalla parte della sinistra e della sinistra socialista quindi sta dalla parte
di Basilio Rizzo Fassina De Magistris Airaudo il compagno di Bologna e tanti altri impegnati in questa difficile campagna elettorale.
indipendentemente da come siamo arrivati alla nomina dei candidati .
del resto il tempo per far votare i consigli dei delegati soviet non c era. in verità non c erano neanche i consigli dei delegati.
la difficoltà di questo forum è di avere una anima.... peccato.
a mio avviso la missione di questo forum è essere un ponte tra sinistra, sinistra socialista e movimento 5 stelle si tratta di strategia grande politica ma anche banalmente di secondi turni.
sul dialogo con il movimento 5 stelle il forum è in crisi nera .
ma e colpa nostra ? oppure per fare politica devi partire studiando Hegel e poi Marx Lenin Riccardo Lombardi keynes ecc.
no a neoliberismo no a questa Europa si alla moneta parallela si al reddito minimo garantito si a un piano lavoro pubblico e privato per la piena occupazione .
personalmente penso che dobbiamo insistere e andare avanti nonostante le evidenti difficoltà.
quindi compagni avanti le elezioni amministrative non sono il fine ma il mezzo,
si
diamo una anima militante e vincente a questo forum.
la Francia dimostra che siamo sulla strada giusta.
al conte Camillo una condivisione ma anche una discussione aperta su queste mie opinioni.
questo forum sta dalla parte della sinistra e della sinistra socialista quindi sta dalla parte
di Basilio Rizzo Fassina De Magistris Airaudo il compagno di Bologna e tanti altri impegnati in questa difficile campagna elettorale.
indipendentemente da come siamo arrivati alla nomina dei candidati .
del resto il tempo per far votare i consigli dei delegati soviet non c era. in verità non c erano neanche i consigli dei delegati.
la difficoltà di questo forum è di avere una anima.... peccato.
a mio avviso la missione di questo forum è essere un ponte tra sinistra, sinistra socialista e movimento 5 stelle si tratta di strategia grande politica ma anche banalmente di secondi turni.
sul dialogo con il movimento 5 stelle il forum è in crisi nera .
ma e colpa nostra ? oppure per fare politica devi partire studiando Hegel e poi Marx Lenin Riccardo Lombardi keynes ecc.
no a neoliberismo no a questa Europa si alla moneta parallela si al reddito minimo garantito si a un piano lavoro pubblico e privato per la piena occupazione .
personalmente penso che dobbiamo insistere e andare avanti nonostante le evidenti difficoltà.
quindi compagni avanti le elezioni amministrative non sono il fine ma il mezzo,
si
diamo una anima militante e vincente a questo forum.
la Francia dimostra che siamo sulla strada giusta.
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Re: elezioni amministrative 2016
ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2016
Elezioni Amministrative 2016: l’astensionismo e la logica del ‘tanto non cambia nulla’
di PierGiorgio Gawronski | 5 giugno 2016
Ilvo Diamanti su Repubblica presenta qualche dato sulla declinante partecipazione degli italiani alle consultazioni elettorali, poi ci rassicura: “Non c’è nulla di cui allarmarsi. L’astensione non è una minaccia che incombe sulla nostra democrazia. È, invece, fisiologica. Anche se, fino agli anni Novanta, in Italia votavano tutti… A Londra, di recente, è stato eletto sindaco il laburista di origine pachistana Sadiq Khan. Ha votato meno della metà degli aventi diritto. Ma a nessuno è venuto in mente di discutere legittimità del voto. Né il fondamento della democrazia in Inghilterra”.
Aggiunge Diamanti: “Se votare è un diritto e lo è anche non votare. Chi non vota accetta – e subisce – la scelta di chi vota”, e su questo siamo d’accordo. Ma è difficile condividere l’ottimismo di Diamanti sulle cause dell’astensionismo e sui suoi effetti.
Le elezioni sono il meccanismo principe della democrazia. Consentono al popolo non solo di scegliere i propri rappresentanti, ma anche di premiarli o punirli con la riconferma o meno, quindi di sottometterli ai loro interessi, valori, priorità. La somma dell’interesse di tanti fa l’interesse generale. Ma se i tanti diventano pochi, gli interessi rappresentati saranno sempre più ristretti, con grave danno per l’equità e la crescita economica. Negli Usa le classi popolari votano poco: le tasse sui ricchi sono molto basse e le disuguaglianze marcate. Inoltre il non voto può indurre qualche politico a pensare di abolire le elezioni (dirette dei rappresentanti nelle assemblee legislative), magari per una sola camera (per iniziare).
Ma oltre ad essere dannoso per il sistema politico, un basso tasso di affluenza può essere la spia di qualcosa che non va nella democrazia. Certo le cause possibili sono diverse; perciò i trend in atto si prestano a varie legittime interpretazioni. Basta ricordare che in molti regimi non democratici la partecipazione elettorale è alta grazie alla coercizione e alla mobilitazione di regime.
Tuttavia, in generale, l’astensione cresce quando gli elettori percepiscono o che la posta in gioco è bassa, oppure che il voto popolare non avrà molta influenza sulle scelte dei politici. Il primo caso è quello che ha in mente Diamanti: “Fino agli anni 90… il voto rifletteva ideologie politiche profonde e radicate. Poi è caduto il muro di Berlino…”. Insomma: oggi le nostre società sono più coese, non ci sono scelte drammatiche da fare, la libertà è al sicuro, perciò pochi si prendono la briga di votare. Può valere per la Gran Bretagna ed altri paesi, ma qui da noi (e non solo) questa spiegazione rischia di nascondere una strisciante crisi di rappresentanza.
Quando il grado di democrazia è basso e il grado di autoritarismo alto, quando la democrazia è solo formale, le istanze popolari vengono ignorate. Mi pare che questo possa essere un po’ il caso dell’Italia. Per esempio: se chiedete agli italiani se ritengono che “i politici”, o “i parlamentari” o “i parlamentari europei” guadagnano troppo, oltre il 90% vi risponderà di sì. C’è da anni (almeno dal 2007, quando uscì il libro ‘La Casta’) su queste cose una forte domanda di cambiamento degli elettori, e ciononostante gli stipendi dei politici a tutti i livelli di governo non scendono, anzi. Si può dire che, in un paese dove l’interesse e la volontà dei governanti prevale su quella degli elettori, ci sia un alto tasso di democrazia? Non credo. Ed è solo un piccolo esempio. Ma se la volontà del popolo non orienta le decisioni dei cosiddetti rappresentanti, se ‘tanto nulla cambia’, perché uno dovrebbe votare?
Dove la divisione fra i poteri dello Stato è scarsa – i controlli sull’Esecutivo sono scarsi perché l’Esecutivo ‘controlla’ gli altri Poteri -, i politici tendono ad abusare del potere, a fare i propri interessi, la corruzione è endemica in ogni livello di governo, le riforme non sono quelle annunciate in campagna elettorale, le elezioni sono l’unico momento che conta e le cordate locali, i capibastone, e il voto di scambio, oltre al rapporto diretto fra leader e popolo sui mass media, ne determinano l’esito. In queste situazioni si deteriorano la qualità della governance e il senso civico (Schedler et al., 1999).
?
Fortunatamente in Italia queste cose non succedono. Ma a scanso di rischi, l’astensionismo forte, che si registra in alcune città, dovrebbe suggerire riforme istituzionali volte a rafforzare la rappresentanza, la separazione fra assemblee elettive e poteri esecutivi, la democrazia nei partiti, l’informazione sui candidati, e altri controlli di varia natura sui politici eletti.
Elezioni Amministrative 2016: l’astensionismo e la logica del ‘tanto non cambia nulla’
di PierGiorgio Gawronski | 5 giugno 2016
Ilvo Diamanti su Repubblica presenta qualche dato sulla declinante partecipazione degli italiani alle consultazioni elettorali, poi ci rassicura: “Non c’è nulla di cui allarmarsi. L’astensione non è una minaccia che incombe sulla nostra democrazia. È, invece, fisiologica. Anche se, fino agli anni Novanta, in Italia votavano tutti… A Londra, di recente, è stato eletto sindaco il laburista di origine pachistana Sadiq Khan. Ha votato meno della metà degli aventi diritto. Ma a nessuno è venuto in mente di discutere legittimità del voto. Né il fondamento della democrazia in Inghilterra”.
Aggiunge Diamanti: “Se votare è un diritto e lo è anche non votare. Chi non vota accetta – e subisce – la scelta di chi vota”, e su questo siamo d’accordo. Ma è difficile condividere l’ottimismo di Diamanti sulle cause dell’astensionismo e sui suoi effetti.
Le elezioni sono il meccanismo principe della democrazia. Consentono al popolo non solo di scegliere i propri rappresentanti, ma anche di premiarli o punirli con la riconferma o meno, quindi di sottometterli ai loro interessi, valori, priorità. La somma dell’interesse di tanti fa l’interesse generale. Ma se i tanti diventano pochi, gli interessi rappresentati saranno sempre più ristretti, con grave danno per l’equità e la crescita economica. Negli Usa le classi popolari votano poco: le tasse sui ricchi sono molto basse e le disuguaglianze marcate. Inoltre il non voto può indurre qualche politico a pensare di abolire le elezioni (dirette dei rappresentanti nelle assemblee legislative), magari per una sola camera (per iniziare).
Ma oltre ad essere dannoso per il sistema politico, un basso tasso di affluenza può essere la spia di qualcosa che non va nella democrazia. Certo le cause possibili sono diverse; perciò i trend in atto si prestano a varie legittime interpretazioni. Basta ricordare che in molti regimi non democratici la partecipazione elettorale è alta grazie alla coercizione e alla mobilitazione di regime.
Tuttavia, in generale, l’astensione cresce quando gli elettori percepiscono o che la posta in gioco è bassa, oppure che il voto popolare non avrà molta influenza sulle scelte dei politici. Il primo caso è quello che ha in mente Diamanti: “Fino agli anni 90… il voto rifletteva ideologie politiche profonde e radicate. Poi è caduto il muro di Berlino…”. Insomma: oggi le nostre società sono più coese, non ci sono scelte drammatiche da fare, la libertà è al sicuro, perciò pochi si prendono la briga di votare. Può valere per la Gran Bretagna ed altri paesi, ma qui da noi (e non solo) questa spiegazione rischia di nascondere una strisciante crisi di rappresentanza.
Quando il grado di democrazia è basso e il grado di autoritarismo alto, quando la democrazia è solo formale, le istanze popolari vengono ignorate. Mi pare che questo possa essere un po’ il caso dell’Italia. Per esempio: se chiedete agli italiani se ritengono che “i politici”, o “i parlamentari” o “i parlamentari europei” guadagnano troppo, oltre il 90% vi risponderà di sì. C’è da anni (almeno dal 2007, quando uscì il libro ‘La Casta’) su queste cose una forte domanda di cambiamento degli elettori, e ciononostante gli stipendi dei politici a tutti i livelli di governo non scendono, anzi. Si può dire che, in un paese dove l’interesse e la volontà dei governanti prevale su quella degli elettori, ci sia un alto tasso di democrazia? Non credo. Ed è solo un piccolo esempio. Ma se la volontà del popolo non orienta le decisioni dei cosiddetti rappresentanti, se ‘tanto nulla cambia’, perché uno dovrebbe votare?
Dove la divisione fra i poteri dello Stato è scarsa – i controlli sull’Esecutivo sono scarsi perché l’Esecutivo ‘controlla’ gli altri Poteri -, i politici tendono ad abusare del potere, a fare i propri interessi, la corruzione è endemica in ogni livello di governo, le riforme non sono quelle annunciate in campagna elettorale, le elezioni sono l’unico momento che conta e le cordate locali, i capibastone, e il voto di scambio, oltre al rapporto diretto fra leader e popolo sui mass media, ne determinano l’esito. In queste situazioni si deteriorano la qualità della governance e il senso civico (Schedler et al., 1999).
?
Fortunatamente in Italia queste cose non succedono. Ma a scanso di rischi, l’astensionismo forte, che si registra in alcune città, dovrebbe suggerire riforme istituzionali volte a rafforzare la rappresentanza, la separazione fra assemblee elettive e poteri esecutivi, la democrazia nei partiti, l’informazione sui candidati, e altri controlli di varia natura sui politici eletti.
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Re: elezioni amministrative 2016
Se si sa qualche mese prima chi deve vincere è logico che uno non è spinto a votare uno o un partito che è tenuto fuori dai mezzi d'informazione e dai deificati sondaggi.
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Re: elezioni amministrative 2016
Disastro PD.
Torino e Bologna vanno al secondo turno ma dovrebbero tenere.
A Milano si sono buttati al vento 5 ottimi anni di governo Pisapia con questo
renziano Sala che è alla pari col CDX moderato Parisi.
E avendoli sentiti parlare persino io sarei tentato di dare il voto a Parisi.
Programmi praticamente identici, con Parisi che ha una personalità nettamente
più solida.
A Roma Giachetti paga malamente gli scandali di mafia capitale e il defenestramento
indegno di Marino ad opera di Renzi.
A Napoli De Magistris fa il pieno e il PD manco al ballottaggio.
Renzi a forza di "gufi, rosiconi, professoroni" è rimasto con le urne vuote.
La "sinistra de sinistra" inesistente ovunque.
E adesso?
soloo42001
Torino e Bologna vanno al secondo turno ma dovrebbero tenere.
A Milano si sono buttati al vento 5 ottimi anni di governo Pisapia con questo
renziano Sala che è alla pari col CDX moderato Parisi.
E avendoli sentiti parlare persino io sarei tentato di dare il voto a Parisi.
Programmi praticamente identici, con Parisi che ha una personalità nettamente
più solida.
A Roma Giachetti paga malamente gli scandali di mafia capitale e il defenestramento
indegno di Marino ad opera di Renzi.
A Napoli De Magistris fa il pieno e il PD manco al ballottaggio.
Renzi a forza di "gufi, rosiconi, professoroni" è rimasto con le urne vuote.
La "sinistra de sinistra" inesistente ovunque.
E adesso?
soloo42001
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Re: elezioni amministrative 2016
A prima vista il PD , se non è motivato a sinistra, non vince più, l'unico nelle città capoluogo a farcela AL PRIMO TURNO è quello di Cagliari ex SEL.
La destra ha il grosso problema , visto che ormai le decisioni importanti si prendono in Europa, come sia possibile unire FI - Lega- Frd'I quando in Europa sono divise.
M5S , dovrà decidere se guardare a destra o a sinistra.
La sinistra guarda a De Magistris ?
La destra ha il grosso problema , visto che ormai le decisioni importanti si prendono in Europa, come sia possibile unire FI - Lega- Frd'I quando in Europa sono divise.
M5S , dovrà decidere se guardare a destra o a sinistra.
La sinistra guarda a De Magistris ?
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Re: elezioni amministrative 2016
Il PD non è più centrosinistra ma solo centro e in costante decadimento, forse terrà Bologna e Torino, perde Roma e forse anche Milano, abbandona ogni speranza anche per il futuro su Napoli.
Le destre alla Le Pen non sfondano in Italia (dove la minaccia dell'UE di ritorsioni economiche è ben più forte che in altri stati) e devono cambiare programmi e modo di agire se non vogliono ridursi a minoranze extra parlamentari.
FI non esiste praticamente più come la Sinistra. Per i primi è l'inevitabile declino del Caimano mentre per i secondi è un'assenza di programmi moderni che pur mantenendo i concetti del marxismo devono anche capire le esigenze geopolitiche e i poco controllabili flussi migratori e le loro ripercussioni sulla società civile, come anche capire l'evoluzione del mondo del lavoro che non potrà mai ritornare quello di 20/30 anni fa.
Il M5S adesso dovrà provare a gestire Roma e questo potrà essere o la sua definitiva affermazione che lo lancia verso il governo del Paese o la sua sconfitta finale. Nel frattempo non sfonda come ci si aspettava nel resto dell'Italia.
In conclusione una tornata elettorale dove la disillusione e la mancanza di rappresentatività l'ha fatta ancora da padrona; in ottica referendum di Ottobre penso si vada verso un recupero dei NO se non altro per dare un calcio nel di dietro a Renzi. Il problema è che se non ritroviamo idee e programmi sia a destra che al centro che a sinistra, l'unica vera sconfitta sarà l'Italia che perderà forse l'ultima occasione di eliminare il parassitismo che dai tempi del trio delle meraviglie CAF la divora.
Le destre alla Le Pen non sfondano in Italia (dove la minaccia dell'UE di ritorsioni economiche è ben più forte che in altri stati) e devono cambiare programmi e modo di agire se non vogliono ridursi a minoranze extra parlamentari.
FI non esiste praticamente più come la Sinistra. Per i primi è l'inevitabile declino del Caimano mentre per i secondi è un'assenza di programmi moderni che pur mantenendo i concetti del marxismo devono anche capire le esigenze geopolitiche e i poco controllabili flussi migratori e le loro ripercussioni sulla società civile, come anche capire l'evoluzione del mondo del lavoro che non potrà mai ritornare quello di 20/30 anni fa.
Il M5S adesso dovrà provare a gestire Roma e questo potrà essere o la sua definitiva affermazione che lo lancia verso il governo del Paese o la sua sconfitta finale. Nel frattempo non sfonda come ci si aspettava nel resto dell'Italia.
In conclusione una tornata elettorale dove la disillusione e la mancanza di rappresentatività l'ha fatta ancora da padrona; in ottica referendum di Ottobre penso si vada verso un recupero dei NO se non altro per dare un calcio nel di dietro a Renzi. Il problema è che se non ritroviamo idee e programmi sia a destra che al centro che a sinistra, l'unica vera sconfitta sarà l'Italia che perderà forse l'ultima occasione di eliminare il parassitismo che dai tempi del trio delle meraviglie CAF la divora.
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Re: elezioni amministrative 2016
ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2016
Elezioni Amministrative 2016 – Al Pd il governo Renzi fa male
Elezioni Amministrative 2016
di Antonello Caporale | 6 giugno 2016
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Antonello Caporale
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Dietro ai numeri e ai volti dei candidati sconfitti e di quelli ancora in gara, c’è un dato enorme che spunta dalle cifre ancora sommerse di questo turno amministrativo: al Pd il governo Renzi fa male, al centrodestra fa invece bene, ai cinquestelle ancora meglio. Come sia possibile che due anni abbondanti di un governo cosiddetto del fare, che ha iniziato la sua corsa con lo slogan “una riforma al mese”, tanto per farci capire di quale fenomenale travolgente capacità fosse detentore, debba raccogliere cocci un po’ dappertutto è questione che si apre oggi.
Mettiamo tra parentesi i risultati di Milano e Roma. La crisi di tenuta di questo partito è evidente a Torino, dove Piero Fassino raggiunge la soglia più che minima di quelle che erano le proprie aspirazioni, e a Bologna dove gli elettori tradizionali rifiutano di andare a votare (l’astensione lì è più alta che altrove) e se ci vanno regalano a Virginio Merola un risultato modestissimo. Si avvia al ballottaggio con i consensi al lumicino. Renzi non guadagna neanche Ravenna (città dove aveva chiuso la campagna elettorale) al primo turno. Nel Mezzogiorno è addirittura ecatombe: sparisce quasi a Napoli, ininfluente a Cosenza dove il suo candidato viene asfaltato dal centrista Occhiuto. In due città, Salerno e Cagliari, vede la luce ma è merito altrui. A Salerno la vittoria è di Vincenzo De Luca, in Sardegna il sindaco uscente non è un ragazzo di bottega ma proviene dall’esperienza di Sel.
Se aggiungessimo il livello del Pd romano (quattordici per cento) e il bottino raccolto da chi doveva essere il campione del renzismo a Milano (Sala praticamente pareggia con Parisi) avremmo la somma di quel che resta al partito del Nazareno: poco più che un pugno di mosche. Certo, Roberto Giachetti salva almeno la faccia ma non cambia la declinazione politica di questo risultato.
E il centrodestra? Dopo anni di assenza, astenia e forse di più, con fenomeni di vero e proprio ascarismo nei confronti di Renzi (da Verdini in giù è stato tutto un fuggi fuggi in soccorso del premier) si ritrova con la pancia piena di voti. Voti che cambiano proprietario ma danno l’esatto risultato finale. Appena il centrodestra troverà un leader minimamente credibile (Stefano Parisi?) palazzo Chigi tornerà ad essere la destinazione plausibile, credibile e soprattutto probabile malgrado lo sfascio prodotto dal ventennio berlusconiano.
E’ questa la più grande e forse la più desolante novità.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06 ... e/2801295/
Elezioni Amministrative 2016 – Al Pd il governo Renzi fa male
Elezioni Amministrative 2016
di Antonello Caporale | 6 giugno 2016
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Antonello Caporale
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Dietro ai numeri e ai volti dei candidati sconfitti e di quelli ancora in gara, c’è un dato enorme che spunta dalle cifre ancora sommerse di questo turno amministrativo: al Pd il governo Renzi fa male, al centrodestra fa invece bene, ai cinquestelle ancora meglio. Come sia possibile che due anni abbondanti di un governo cosiddetto del fare, che ha iniziato la sua corsa con lo slogan “una riforma al mese”, tanto per farci capire di quale fenomenale travolgente capacità fosse detentore, debba raccogliere cocci un po’ dappertutto è questione che si apre oggi.
Mettiamo tra parentesi i risultati di Milano e Roma. La crisi di tenuta di questo partito è evidente a Torino, dove Piero Fassino raggiunge la soglia più che minima di quelle che erano le proprie aspirazioni, e a Bologna dove gli elettori tradizionali rifiutano di andare a votare (l’astensione lì è più alta che altrove) e se ci vanno regalano a Virginio Merola un risultato modestissimo. Si avvia al ballottaggio con i consensi al lumicino. Renzi non guadagna neanche Ravenna (città dove aveva chiuso la campagna elettorale) al primo turno. Nel Mezzogiorno è addirittura ecatombe: sparisce quasi a Napoli, ininfluente a Cosenza dove il suo candidato viene asfaltato dal centrista Occhiuto. In due città, Salerno e Cagliari, vede la luce ma è merito altrui. A Salerno la vittoria è di Vincenzo De Luca, in Sardegna il sindaco uscente non è un ragazzo di bottega ma proviene dall’esperienza di Sel.
Se aggiungessimo il livello del Pd romano (quattordici per cento) e il bottino raccolto da chi doveva essere il campione del renzismo a Milano (Sala praticamente pareggia con Parisi) avremmo la somma di quel che resta al partito del Nazareno: poco più che un pugno di mosche. Certo, Roberto Giachetti salva almeno la faccia ma non cambia la declinazione politica di questo risultato.
E il centrodestra? Dopo anni di assenza, astenia e forse di più, con fenomeni di vero e proprio ascarismo nei confronti di Renzi (da Verdini in giù è stato tutto un fuggi fuggi in soccorso del premier) si ritrova con la pancia piena di voti. Voti che cambiano proprietario ma danno l’esatto risultato finale. Appena il centrodestra troverà un leader minimamente credibile (Stefano Parisi?) palazzo Chigi tornerà ad essere la destinazione plausibile, credibile e soprattutto probabile malgrado lo sfascio prodotto dal ventennio berlusconiano.
E’ questa la più grande e forse la più desolante novità.
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Re: elezioni amministrative 2016
Cominciano le prime valutazioni per quanto accaduto Domenica scorsa.
Piovono Rane
di Alessandro Gilioli
07 giu Cosa si è mosso tra Pd, 5 Stelle e sinistra
A Roma, tre anni fa, Ignazio Marino prese 512 mila voti, al primo turno. Di questi - secondo l'analisi dei flussi fatta da Swg - il 35 per cento è passato a Virginia Raggi.
Sala a Milano ha lasciato per strada un terzo dei voti che nel 2011 andarono a Pisapia, finiti quasi tutti al M5S e all'astensione.
Sempre a Roma, nella fascia di elettori tra i 18 e i 24 anni Virginia Raggi ha avuto un consenso bulgaro (45 per cento al lordo degli astensionisti, quindi maggioranza assoluta tra chi è andato a votare); Giachetti, per contro è al 9 per cento tra gli under 25 e ha la sua area di consenso più alta tra gli over 64 (il 18 per cento, sempre al lordo del non voto), fascia d'età in cui batte tutti.
Nella capitale a questo giro gli astensionisti sono stati il 42 per cento; ma nella fascia d'età tra i 18 e i 24 anni, questo dato si dimezza (21 per cento). L'astensionismo quindi non è un dato ontologico e irreversibile: i giovani votano più degli altri se c'è un proposta che li interessa. Qualcosa di simile, del resto, sta accadendo con Bernie Sanders negli Stati Uniti ed è già accaduto con Podemos in Spagna.
A proposito di Podemos e Sanders: tutti questi dati (spostamento da Marino a Raggi e successo del M5S tra gli under 25) possono essere messi in relazione con gli esiti pessimi delle varie candidature della cosiddetta sinistra radicale, a Roma e non solo.
Nella capitale Stefano Fassina ha preso, con le sue due liste, il 4,5 per cento, contro l'8,4 ottenuto due anni fa da Sel (6,2) più le liste di sinistra in appoggio a Sandro Medici (2,2). Anche alle europee, due anni fa, la lista Tsipras in città ottenne il 6,2. Quest'anno, ripeto, quest'area ha preso il 4,5. A cui se volete potete aggiungere lo 0,7 preso dal minuscolo Partito comunista di Mustillo, ma non cambia molto. Sempre nicchia è, e in restringimento.
A Torino domenica scorsa Giorgio Airaudo ha preso il 3,7 per cento, mentre nel 2011 Sel e Rifondazione assommati facevano il 6,5. Stessa percentuale, 6,5, presa nel capoluogo piemontese dalla lista Tsipras due anni fa.
Uguale il risultato del buon Basilio Rizzo a Milano, 3,6 per cento. Nel capoluogo lombardo, nel 2011, Sel più Rifondazione fecero un totale del 7,2 per cento, quindi il doppio; due anni fa la lista Tsipras prese il 6,5. Di nuovo: sempre più nicchia e sempre più ristretta.
È andato un po' meglio a Bologna il candidato sindaco della sinistra radicale Federico Martelloni, con il suo 7 per cento. Tuttavia nella stessa città Sel prese, nel 2011, il 10,2. E due anni fa la lista Tsipras l'8,9.
Tra le maggiori città resta fuori da questo discorso solo Napoli, dove De Magistris incarna quello che nel resto d'Italia è il M5S. E infatti secondo Swg ha incamerato il 20 per cento dei voti del Pd e il 40 per cento dei voti del M5S rispetto alle regionali di pochi mesi fa.
Questi dati, messi tutti insieme, ci raccontano un interessante paradosso.
E cioè che il Pd perde quando vira al centro o addirittura a destra; ma i voti che il Pd perde spostandosi verso il centrodestra non vanno quasi mai alla sua sinistra, bensì ai Cinque Stelle.
In altre parole: il vecchio teorema secondo il quale "il Pd vince guardando al centro" è una sciocchezza - o quanto meno non vale più. I voti di sinistra se ne vanno senza che se ne aggiungano altrettanti di centro e di destra.
Tuttavia, è infondata anche la conseguenza in apparenza più intuitiva: cioè che essendo di sinistra, quei consensi persi dal Pd vadano alle forze che stanno alla sinistra del Pd. Vanno, invece, o al M5S o (in misura minore) all'astensione.
Questo fenomeno è particolarmente evidente nella fascia sotto i 25-30 anni. Mentre in Inghilterra i giovani delusi dal blairismo votano Corbyn, mentre negli Stati Uniti i ragazzi di Occupy Wall Street scelgono Sanders, mentre in Spagna il movimento degli Indignados ha generato Podemos, da noi il voto contro la ex sinistra diventata di centro va al M5S.
Perché questo accade, beh, è tema che meriterebbe ben più di un altro post.
Alcune motivazioni sono storiche: per anni in Italia la cosiddetta sinistra radicale è rimasta ambiguamente limitrofa al Pd e alle poltrone che questa alleanza garantiva. E questo si paga, in termini di reputazione. Chi ha rotto subito (come de Magistris) non subisce questo destino, anzi strappa voti al M5S.
Altre cause hanno invece a che fare con il presente: a tutt'oggi, con poche eccezioni, nell'area della sinistra radicale si parlano linguaggi, si implementano pratiche e si venerano simbologie che somigliano più agli Anni Settanta che a Podemos o a Occupy Wall Street.
Questo è, questo accade.
E se accade, i miei amici del Pd possono pure passare le prossime due settimane come i due ultimi mesi, cioè a spiegarci che Raggi "è di destra" perché ha lavorato da Previti o perché abita a Roma Nord: resta che i voti di sinistra passano dal Pd al M5s, essendo il Pd diventato di centro ed essendo la sinistra radicale quella che è.
E i voti passati dal Pd al M5S sono 180 mila, qui a Roma.
E costituiscono uno dei motivi (non l'unico, ma non l'ultimo) per cui fra due settimane avremo un sindaco del M5S e non più del Pd.
http://gilioli.blogautore.espresso.repu ... -sinistra/
Piovono Rane
di Alessandro Gilioli
07 giu Cosa si è mosso tra Pd, 5 Stelle e sinistra
A Roma, tre anni fa, Ignazio Marino prese 512 mila voti, al primo turno. Di questi - secondo l'analisi dei flussi fatta da Swg - il 35 per cento è passato a Virginia Raggi.
Sala a Milano ha lasciato per strada un terzo dei voti che nel 2011 andarono a Pisapia, finiti quasi tutti al M5S e all'astensione.
Sempre a Roma, nella fascia di elettori tra i 18 e i 24 anni Virginia Raggi ha avuto un consenso bulgaro (45 per cento al lordo degli astensionisti, quindi maggioranza assoluta tra chi è andato a votare); Giachetti, per contro è al 9 per cento tra gli under 25 e ha la sua area di consenso più alta tra gli over 64 (il 18 per cento, sempre al lordo del non voto), fascia d'età in cui batte tutti.
Nella capitale a questo giro gli astensionisti sono stati il 42 per cento; ma nella fascia d'età tra i 18 e i 24 anni, questo dato si dimezza (21 per cento). L'astensionismo quindi non è un dato ontologico e irreversibile: i giovani votano più degli altri se c'è un proposta che li interessa. Qualcosa di simile, del resto, sta accadendo con Bernie Sanders negli Stati Uniti ed è già accaduto con Podemos in Spagna.
A proposito di Podemos e Sanders: tutti questi dati (spostamento da Marino a Raggi e successo del M5S tra gli under 25) possono essere messi in relazione con gli esiti pessimi delle varie candidature della cosiddetta sinistra radicale, a Roma e non solo.
Nella capitale Stefano Fassina ha preso, con le sue due liste, il 4,5 per cento, contro l'8,4 ottenuto due anni fa da Sel (6,2) più le liste di sinistra in appoggio a Sandro Medici (2,2). Anche alle europee, due anni fa, la lista Tsipras in città ottenne il 6,2. Quest'anno, ripeto, quest'area ha preso il 4,5. A cui se volete potete aggiungere lo 0,7 preso dal minuscolo Partito comunista di Mustillo, ma non cambia molto. Sempre nicchia è, e in restringimento.
A Torino domenica scorsa Giorgio Airaudo ha preso il 3,7 per cento, mentre nel 2011 Sel e Rifondazione assommati facevano il 6,5. Stessa percentuale, 6,5, presa nel capoluogo piemontese dalla lista Tsipras due anni fa.
Uguale il risultato del buon Basilio Rizzo a Milano, 3,6 per cento. Nel capoluogo lombardo, nel 2011, Sel più Rifondazione fecero un totale del 7,2 per cento, quindi il doppio; due anni fa la lista Tsipras prese il 6,5. Di nuovo: sempre più nicchia e sempre più ristretta.
È andato un po' meglio a Bologna il candidato sindaco della sinistra radicale Federico Martelloni, con il suo 7 per cento. Tuttavia nella stessa città Sel prese, nel 2011, il 10,2. E due anni fa la lista Tsipras l'8,9.
Tra le maggiori città resta fuori da questo discorso solo Napoli, dove De Magistris incarna quello che nel resto d'Italia è il M5S. E infatti secondo Swg ha incamerato il 20 per cento dei voti del Pd e il 40 per cento dei voti del M5S rispetto alle regionali di pochi mesi fa.
Questi dati, messi tutti insieme, ci raccontano un interessante paradosso.
E cioè che il Pd perde quando vira al centro o addirittura a destra; ma i voti che il Pd perde spostandosi verso il centrodestra non vanno quasi mai alla sua sinistra, bensì ai Cinque Stelle.
In altre parole: il vecchio teorema secondo il quale "il Pd vince guardando al centro" è una sciocchezza - o quanto meno non vale più. I voti di sinistra se ne vanno senza che se ne aggiungano altrettanti di centro e di destra.
Tuttavia, è infondata anche la conseguenza in apparenza più intuitiva: cioè che essendo di sinistra, quei consensi persi dal Pd vadano alle forze che stanno alla sinistra del Pd. Vanno, invece, o al M5S o (in misura minore) all'astensione.
Questo fenomeno è particolarmente evidente nella fascia sotto i 25-30 anni. Mentre in Inghilterra i giovani delusi dal blairismo votano Corbyn, mentre negli Stati Uniti i ragazzi di Occupy Wall Street scelgono Sanders, mentre in Spagna il movimento degli Indignados ha generato Podemos, da noi il voto contro la ex sinistra diventata di centro va al M5S.
Perché questo accade, beh, è tema che meriterebbe ben più di un altro post.
Alcune motivazioni sono storiche: per anni in Italia la cosiddetta sinistra radicale è rimasta ambiguamente limitrofa al Pd e alle poltrone che questa alleanza garantiva. E questo si paga, in termini di reputazione. Chi ha rotto subito (come de Magistris) non subisce questo destino, anzi strappa voti al M5S.
Altre cause hanno invece a che fare con il presente: a tutt'oggi, con poche eccezioni, nell'area della sinistra radicale si parlano linguaggi, si implementano pratiche e si venerano simbologie che somigliano più agli Anni Settanta che a Podemos o a Occupy Wall Street.
Questo è, questo accade.
E se accade, i miei amici del Pd possono pure passare le prossime due settimane come i due ultimi mesi, cioè a spiegarci che Raggi "è di destra" perché ha lavorato da Previti o perché abita a Roma Nord: resta che i voti di sinistra passano dal Pd al M5s, essendo il Pd diventato di centro ed essendo la sinistra radicale quella che è.
E i voti passati dal Pd al M5S sono 180 mila, qui a Roma.
E costituiscono uno dei motivi (non l'unico, ma non l'ultimo) per cui fra due settimane avremo un sindaco del M5S e non più del Pd.
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Re: elezioni amministrative 2016
QUI NON PIOVONO RANE MA SOSTANZA ORGANICA
Il crollo dei Democratici: hanno bruciato 500mila voti
Riprende il trend negativo iniziato con Bersani. E il "miracolo" delle Europee è solo un ricordo
Roberto Scafuri - Gio, 09/06/2016 - 14:54
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Poi dice che uno non dovrebbe andare tanto per il sottile. Però basta guardare (soprattutto ascoltare) Debora Serracchiani la «vice» del Pd, il braccino corto di Matteo, e ti cascano le braccia.
E capisci. Cioè cominci a capire che qualcosa non funziona come dovrebbe. Quindi pensi al braccio destro dell'altro «vice», Lorenzo Guerini, quell'Uggetti sindaco di Lodi tornato giusto ieri in libertà dopo l'ennesimo scandaletto pidino, e il cuore ti si fa piccino. Cerchi rifugio nel ventre di Palazzo Vecchio, magari t'imbatti nel sindaco-ombra inventato da Matteo, Dario Nardella, e avverti violento un buco nello stomaco. Come non farti tornare in mente la sacralità della famiglia, e il papà della Boschi, e quello di Matteo, e il Lotti, e la casa di Carrai... E ti dici che una sequela di sfighe così possono essere un incubo.
C'è del marcio in Danimarca, e non è che al Nazareno si stia così tanto «tonici». Precipitoso il «si stava meglio quando si stava peggio», però non è che questo partito dei giovani rampanti, dei caterpillar, dei Marcucci e dei Carbone, dei Rondolini accucciati a corte, sia poi meglio e più funzionante di quello del Giaguaro. Anzi alla fine, gira e rigira, il campione del marketing elettorale Matteo Renzi ne ha perduti un altro mezzo milioncino, di elettori, e non è affatto detto che li ritrovi. La verità è un piatto crudo: nel 2008, il Pd del primo segretario, Walter Veltroni, prese alla Camera 12 milioni e 95mila voti, circa il 33 per cento. L'affluenza era già in calo, ma ancora sopra la soglia dell' 80 per cento di 47 milioni di aventi diritto. Alle Politiche 2013 la situazione è radicalmente mutata, il centrosinistra è nella sua fase morente. I voti alla Camera sono 8 milioni 642mila, pari a poco più del 25 per cento. L'astensione cresce ancora, il 75 per cento. Quindi eccoci al «miracolo» renziano delle Europee e la moltiplicazione dei pani e dei pesci: solo due milioni di elettori pidini tornano per la conclamata «rottamazione», e fanno un totale di 11 milioni e 200mila (l'astensione però è al 57 per cento e un brillante saggio di un senatore pidino, Fornaro, ha dimostrato che il dato «reale», relativo ai votanti, dà al Pd un 22,7 per cento, in calo sul 2013). E qui viene il bello. In mancanza di meglio, cioè di elezioni, ci si accontenterà dei dati amministrativi in alcune grandi città: quelli del 2011 confrontati con domenica scorsa. Milano: 170.551 voti con Bersani nel 2011; 145 mila con Renzi. Bologna: 72.335 contro 145.792. Napoli: 68.018 contro 40.539. Trieste: 18.483 e 7870. Roma: 267.605 contro 196.901. Potremmo continuare, ma il dato è costante e l'emorragia inarrestabile. Il Pd non funzionava prima, e non funziona adesso. Era alla frutta con Bersani, e adesso all'ammazzacaffè con Renzi. Non è colpa del Partito della Nazione, ma di una nazione che ha cambiato partito. E se Verdini lamenta, «mica potevamo noi risolvere i problemi del Pd», non gli si può dare torto. Forse neppure ragione.
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Roberto Scafuri - Gio, 09/06/2016 - 14:54
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Poi dice che uno non dovrebbe andare tanto per il sottile. Però basta guardare (soprattutto ascoltare) Debora Serracchiani la «vice» del Pd, il braccino corto di Matteo, e ti cascano le braccia.
E capisci. Cioè cominci a capire che qualcosa non funziona come dovrebbe. Quindi pensi al braccio destro dell'altro «vice», Lorenzo Guerini, quell'Uggetti sindaco di Lodi tornato giusto ieri in libertà dopo l'ennesimo scandaletto pidino, e il cuore ti si fa piccino. Cerchi rifugio nel ventre di Palazzo Vecchio, magari t'imbatti nel sindaco-ombra inventato da Matteo, Dario Nardella, e avverti violento un buco nello stomaco. Come non farti tornare in mente la sacralità della famiglia, e il papà della Boschi, e quello di Matteo, e il Lotti, e la casa di Carrai... E ti dici che una sequela di sfighe così possono essere un incubo.
C'è del marcio in Danimarca, e non è che al Nazareno si stia così tanto «tonici». Precipitoso il «si stava meglio quando si stava peggio», però non è che questo partito dei giovani rampanti, dei caterpillar, dei Marcucci e dei Carbone, dei Rondolini accucciati a corte, sia poi meglio e più funzionante di quello del Giaguaro. Anzi alla fine, gira e rigira, il campione del marketing elettorale Matteo Renzi ne ha perduti un altro mezzo milioncino, di elettori, e non è affatto detto che li ritrovi. La verità è un piatto crudo: nel 2008, il Pd del primo segretario, Walter Veltroni, prese alla Camera 12 milioni e 95mila voti, circa il 33 per cento. L'affluenza era già in calo, ma ancora sopra la soglia dell' 80 per cento di 47 milioni di aventi diritto. Alle Politiche 2013 la situazione è radicalmente mutata, il centrosinistra è nella sua fase morente. I voti alla Camera sono 8 milioni 642mila, pari a poco più del 25 per cento. L'astensione cresce ancora, il 75 per cento. Quindi eccoci al «miracolo» renziano delle Europee e la moltiplicazione dei pani e dei pesci: solo due milioni di elettori pidini tornano per la conclamata «rottamazione», e fanno un totale di 11 milioni e 200mila (l'astensione però è al 57 per cento e un brillante saggio di un senatore pidino, Fornaro, ha dimostrato che il dato «reale», relativo ai votanti, dà al Pd un 22,7 per cento, in calo sul 2013). E qui viene il bello. In mancanza di meglio, cioè di elezioni, ci si accontenterà dei dati amministrativi in alcune grandi città: quelli del 2011 confrontati con domenica scorsa. Milano: 170.551 voti con Bersani nel 2011; 145 mila con Renzi. Bologna: 72.335 contro 145.792. Napoli: 68.018 contro 40.539. Trieste: 18.483 e 7870. Roma: 267.605 contro 196.901. Potremmo continuare, ma il dato è costante e l'emorragia inarrestabile. Il Pd non funzionava prima, e non funziona adesso. Era alla frutta con Bersani, e adesso all'ammazzacaffè con Renzi. Non è colpa del Partito della Nazione, ma di una nazione che ha cambiato partito. E se Verdini lamenta, «mica potevamo noi risolvere i problemi del Pd», non gli si può dare torto. Forse neppure ragione.
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QUI NON PIOVONO RANE MA SOSTANZA ORGANICA
Il crollo dei Democratici: hanno bruciato 500mila voti
Riprende il trend negativo iniziato con Bersani. E il "miracolo" delle Europee è solo un ricordo
Roberto Scafuri - Gio, 09/06/2016 - 14:54
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Poi dice che uno non dovrebbe andare tanto per il sottile. Però basta guardare (soprattutto ascoltare) Debora Serracchiani la «vice» del Pd, il braccino corto di Matteo, e ti cascano le braccia.
E capisci. Cioè cominci a capire che qualcosa non funziona come dovrebbe. Quindi pensi al braccio destro dell'altro «vice», Lorenzo Guerini, quell'Uggetti sindaco di Lodi tornato giusto ieri in libertà dopo l'ennesimo scandaletto pidino, e il cuore ti si fa piccino. Cerchi rifugio nel ventre di Palazzo Vecchio, magari t'imbatti nel sindaco-ombra inventato da Matteo, Dario Nardella, e avverti violento un buco nello stomaco. Come non farti tornare in mente la sacralità della famiglia, e il papà della Boschi, e quello di Matteo, e il Lotti, e la casa di Carrai... E ti dici che una sequela di sfighe così possono essere un incubo.
C'è del marcio in Danimarca, e non è che al Nazareno si stia così tanto «tonici». Precipitoso il «si stava meglio quando si stava peggio», però non è che questo partito dei giovani rampanti, dei caterpillar, dei Marcucci e dei Carbone, dei Rondolini accucciati a corte, sia poi meglio e più funzionante di quello del Giaguaro. Anzi alla fine, gira e rigira, il campione del marketing elettorale Matteo Renzi ne ha perduti un altro mezzo milioncino, di elettori, e non è affatto detto che li ritrovi. La verità è un piatto crudo: nel 2008, il Pd del primo segretario, Walter Veltroni, prese alla Camera 12 milioni e 95mila voti, circa il 33 per cento. L'affluenza era già in calo, ma ancora sopra la soglia dell' 80 per cento di 47 milioni di aventi diritto. Alle Politiche 2013 la situazione è radicalmente mutata, il centrosinistra è nella sua fase morente. I voti alla Camera sono 8 milioni 642mila, pari a poco più del 25 per cento. L'astensione cresce ancora, il 75 per cento. Quindi eccoci al «miracolo» renziano delle Europee e la moltiplicazione dei pani e dei pesci: solo due milioni di elettori pidini tornano per la conclamata «rottamazione», e fanno un totale di 11 milioni e 200mila (l'astensione però è al 57 per cento e un brillante saggio di un senatore pidino, Fornaro, ha dimostrato che il dato «reale», relativo ai votanti, dà al Pd un 22,7 per cento, in calo sul 2013). E qui viene il bello. In mancanza di meglio, cioè di elezioni, ci si accontenterà dei dati amministrativi in alcune grandi città: quelli del 2011 confrontati con domenica scorsa. Milano: 170.551 voti con Bersani nel 2011; 145 mila con Renzi. Bologna: 72.335 contro 145.792. Napoli: 68.018 contro 40.539. Trieste: 18.483 e 7870. Roma: 267.605 contro 196.901. Potremmo continuare, ma il dato è costante e l'emorragia inarrestabile. Il Pd non funzionava prima, e non funziona adesso. Era alla frutta con Bersani, e adesso all'ammazzacaffè con Renzi. Non è colpa del Partito della Nazione, ma di una nazione che ha cambiato partito. E se Verdini lamenta, «mica potevamo noi risolvere i problemi del Pd», non gli si può dare torto. Forse neppure ragione.
Il crollo dei Democratici: hanno bruciato 500mila voti
Riprende il trend negativo iniziato con Bersani. E il "miracolo" delle Europee è solo un ricordo
Roberto Scafuri - Gio, 09/06/2016 - 14:54
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Poi dice che uno non dovrebbe andare tanto per il sottile. Però basta guardare (soprattutto ascoltare) Debora Serracchiani la «vice» del Pd, il braccino corto di Matteo, e ti cascano le braccia.
E capisci. Cioè cominci a capire che qualcosa non funziona come dovrebbe. Quindi pensi al braccio destro dell'altro «vice», Lorenzo Guerini, quell'Uggetti sindaco di Lodi tornato giusto ieri in libertà dopo l'ennesimo scandaletto pidino, e il cuore ti si fa piccino. Cerchi rifugio nel ventre di Palazzo Vecchio, magari t'imbatti nel sindaco-ombra inventato da Matteo, Dario Nardella, e avverti violento un buco nello stomaco. Come non farti tornare in mente la sacralità della famiglia, e il papà della Boschi, e quello di Matteo, e il Lotti, e la casa di Carrai... E ti dici che una sequela di sfighe così possono essere un incubo.
C'è del marcio in Danimarca, e non è che al Nazareno si stia così tanto «tonici». Precipitoso il «si stava meglio quando si stava peggio», però non è che questo partito dei giovani rampanti, dei caterpillar, dei Marcucci e dei Carbone, dei Rondolini accucciati a corte, sia poi meglio e più funzionante di quello del Giaguaro. Anzi alla fine, gira e rigira, il campione del marketing elettorale Matteo Renzi ne ha perduti un altro mezzo milioncino, di elettori, e non è affatto detto che li ritrovi. La verità è un piatto crudo: nel 2008, il Pd del primo segretario, Walter Veltroni, prese alla Camera 12 milioni e 95mila voti, circa il 33 per cento. L'affluenza era già in calo, ma ancora sopra la soglia dell' 80 per cento di 47 milioni di aventi diritto. Alle Politiche 2013 la situazione è radicalmente mutata, il centrosinistra è nella sua fase morente. I voti alla Camera sono 8 milioni 642mila, pari a poco più del 25 per cento. L'astensione cresce ancora, il 75 per cento. Quindi eccoci al «miracolo» renziano delle Europee e la moltiplicazione dei pani e dei pesci: solo due milioni di elettori pidini tornano per la conclamata «rottamazione», e fanno un totale di 11 milioni e 200mila (l'astensione però è al 57 per cento e un brillante saggio di un senatore pidino, Fornaro, ha dimostrato che il dato «reale», relativo ai votanti, dà al Pd un 22,7 per cento, in calo sul 2013). E qui viene il bello. In mancanza di meglio, cioè di elezioni, ci si accontenterà dei dati amministrativi in alcune grandi città: quelli del 2011 confrontati con domenica scorsa. Milano: 170.551 voti con Bersani nel 2011; 145 mila con Renzi. Bologna: 72.335 contro 145.792. Napoli: 68.018 contro 40.539. Trieste: 18.483 e 7870. Roma: 267.605 contro 196.901. Potremmo continuare, ma il dato è costante e l'emorragia inarrestabile. Il Pd non funzionava prima, e non funziona adesso. Era alla frutta con Bersani, e adesso all'ammazzacaffè con Renzi. Non è colpa del Partito della Nazione, ma di una nazione che ha cambiato partito. E se Verdini lamenta, «mica potevamo noi risolvere i problemi del Pd», non gli si può dare torto. Forse neppure ragione.
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