La Terza Guerra Mondiale

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camillobenso
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Da Regeni all’Airbus: demolire l’Egitto che si oppone all’Isis
Scritto il 24/5/16 • nella Categoria: segnalazioni


Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo».

E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.Con l’abbattimento dell’aereo russo s’è già persa una bella quota di quel 20%, continua Grimaldi sul blog “Mondo Cane”. «Extra bonus, uomo avvisato mezzo salvato, con riferimento a Putin e Al Sisi che al Cairo avevano firmato ampi accordi commerciali, militari e di investimenti». Della “bomba a grappolo Regeni”, «tutti si ostinano a ignorare il torbido romanzo di formazione negli Usa dell’intelligence e l’approdo alla società di spionaggio Oxford Analytica, diretta da tre specialisti del terrorismo su vasta scala: Mc Coll, già capo dei servizi britannici, David Young, ex-galeotto per il complotto Watergate e John Negroponte, sterminatore di civili in Centroamerica e Iraq con i suoi squadroni della morte. Le ricadute dell’ordigno umano sono state un’altra fetta di turismo andata e, soprattutto, un gigantesco business Italia-Eni-Egitto, attorno al più grande giacimento di gas del Mediterraneo, messo a repentaglio, forse definitivamente».Addio gas all’Italia e alla Francia. «Diversamente dall’orrido Tap (Trans Adriatic Pipeline) imposto da Shell, Obama e Renzi, che devasterà le coste del Salento e degraderà la Puglia in hub energetico europeo, ma che parte dall’amerikano e filo-Erdogan Azerbaijan (ultimamente meritevole anche per l’aggressione al filo-russo Nagorno), quel gas egiziano, insieme all’altro arabo dall’Algeria, pure malvisto, ci avrebbe dato un sacco di soddisfazioni energetiche senza deturpare nulla, ma anche senza mano Usa sul rubinetto». Sicché, «dopo aver spento la musica al valzer Egitto-Italia, era arrivato in sala da ballo il castigamatti dell’Africa francofona, il restauratore della mai dimenticata FranceAfrique in Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad, Rca e giù giù fino al Gabon e oltre. Ma se al clown da circo dell’orrore, Hollande, il diversivo neocolonialista dai disastri nella metropoli poteva essere consentito nella FranceAfrique (dopottutto si muoveva anche nel nome della Nato), il suo precipitarsi in Egitto a concordare con Al Sisi la sostituzione del partner francese a quello italiano costituiva invasione di campo».Intollerabile, l’attivismo francese in Egitto, per gli anglosassoni, «inventori e poi padrini dei Fratelli Musulmani e dei loro apprendisti stregoni Daish». Quanto al Cairo, il problema si chiama Abdel Fatah Al Sisi, il generale che sfrattò Mohamed Morsi su richiesta di 33 milioni di egiziani, dopo la rivoluzione del 2011 che aveva insediato i Fratelli Musulmani. Una rivolta «infiltrata e manipolata dai soliti esperti di “regime change” statunitensi perchè fingesse un superamento della dittatura di Mubaraq attraverso un regime di musulmani “moderati”». Alle presidenziali votò il 35% degli aventi diritto e solo il 17% si espresse per Morsi. «Vibranti furono le congratulazioni di Washington. L’intera amministrazione dello Stato fu occupata dai Fm. Gli assassini del presidente Sadat furono ricevuti da Morsi e messi a capo del Consiglio dei Diritti Umani. L’autore del famoso massacro di Luxor fu nominato governatore di quella provincia. Seguirono gli arresti degli oppositori laici di Mubaraq e i pogrom anticristiani. Tutte le maggiori imprese dello Stato vennero privatizzate e fu annunciata la possibile vendita del Canale di Suez al Qatar, una specie di Vaticano dei Fm, sponsor dell’Isis».Morsi, continua Grimaldi, inviò una delegazione ufficiale dal capo dell’Isis, Al Baghdadi, e ordinò alle forze armate di essere pronte ad attaccare la Siria, cosa che suscitò vivissime reazioni contrarie tra i militari. Morsi rimediò inviando “volontari” a supporto dei jihadisti. Questi e altri provvedimenti innescarono quella che sarebbe stata la più grande manifestazione di massa contro un presidente egiziano. I Fratelli Musulmani reagirono con le armi e per un mese si succedettero scontri sanguinosi. Il Qatar e la Turchia di Erdogan furono i primi a denunciare il “colpo di Stato”. La guerra civile fu evitata grazie alle elezioni, boicottate dagli islamisti, e in cui Al Sisi riportò il 96% dei voti. «Da quel momento inizia la campagna degli attentati terroristici. I media occidentali parlano di arresti e condanne di oppositori. Quasi sempre si tratta di Fm responsabili degli attentati con centinaia di vittime».Chi è Abdel Fatah Al Sisi? A dispetto del terrorismo islamista, con Al Sisi l’Egitto conosce una certa pace sociale: vengono liberati prigionieri politici e ricostruite le chiese copte bruciate. Ma l’economia è a pezzi, l’ostilità dell’Occidente e del Qatar provoca isolamento. «Tanto più che il Cairo si propone come autorevole mediatore nel conflitto libico e come forza effettivamente capace di debellare, con il legittimo governo di Tobruk (che aveva vinto le elezioni ed era aperto ai gheddafiani) e il generale Haftar, i mercenari Isis spediti dalla Turchia, beneaccetti dai Fratelli di Tripoli e dai tagliatori di teste di Misurata e finanziati dal Qatar. Solito pretesto per l’intervento Nato». E non è tutto: «Con l’aiuto della Cina, imperdonabile, l’Egitto raddoppia la capacità del Canale di Suez e quindi le entrare che ne derivano. Dovrebbe essere un segmento cruciale della nuova temutissima Via della Seta e dell’interscambio tra Africa e Cina. Nell’estate del 2015 l’Eni rivela la scoperta dell’enorme giacimento di gas e di altri idrocarburi nell’area marina di Zohr, che permetterebbe al Cairo di ricavarne l’equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio.Anche per questo, contemporaneamente, dilaga il terrorismo dei Fratelli Musulmani: vengono uccisi il procuratore generale della Repubblica e altri alti funzionari e magistrati. Ne segue un’ondata di arresti che fa gridare in Occidente alla brutale repressione del nuovo Pinochet. Mohammed Hassanein Heikal, il più brillante e cosmopolita giornalista egiziano, già portavoce di Nasser e direttore del primo quotidiano egiziano, “Al Ahram”, sollecita Al Sisi a denunciare la macelleria saudita nello Yemen (e difatti le truppe egiziane verranno ritirate), di sostenere la resistenza del presidente siriano Assad e di cercare un riavvicinamento con l’Iran. «A 87 anni, Heikal, che anni fa avevo intervistato per il “Nouvel Observateur” scoprendovi uno dei più colti e appassionati intellettuali arabi incontrati in mezzo secolo, muore», racconta Grimaldi, «prima che Al Sisi possa portare avanti quel discorso».Nella notte dall’11 al 12 aprile, si viene a sapere che l’Egitto ha ceduto due isolotti nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Nelle stesse ore re Salman è al Cairo e annuncia investimenti per 25 miliardi di dollari. Sulle due isole, Tiran e Sanafir, si dovrebbe posare il grande ponte che, nei progetti sauditi ed egiziani, unirebbe le due coste del Golfo di Aqaba. Intanto gli Usa offrono rinnovate forniture d’armi. «Se non si riesce a far tornare Morsi, meglio provare a non lasciare campo aperto a russi, italiani, francesi, cinesi». La cessione delle isole provoca una serie di manifestazioni di protesta dei nazionalisti egiziani che si chiedono dove Al Sisi stia andando, tra Russia, Cina, Usa, Libia e Arabia Saudita. «La risposta sta nelle condizioni economiche in cui l’Egitto è stato ridotto da una guerra economica, terroristica e mediatica, partita appena il nuovo presidente è arrivato al potere e si è dichiarato ispirato da Nasser. La sua pare la mossa della disperazione prima che la società egiziana precipiti nel baratro e della nazione araba non rimangano che brandelli, spettri alitanti tra le rovine di Aleppo, nella polvere dell’ultima bomba Isis a Baghdad, tra le immagini di Gheddafi sepolte in cassetti segreti di case che non dimenticano».E mentre gli altri megafoni della demonizzazione dell’Egitto e del suo “Pinochet” si stavano acquietando, anche di fronte all’evidenza del carattere “schiumogeno” che le accuse contro gli inquirenti sul caso Regeni stavano rivelando, insieme alla «ambigua identità del giovanotto, rilevata da molta stampa estera», il “Manifesto” «accentuava il suo bombardamento di contumelie, congetture, illazioni, accuse senza fondamento», denuncia Grimaldi. «Personaggi da assegnare alle categorie degli utili idioti o degli amici del giaguaro, a seconda della percezione di ognuno, tra i quali un magistrato disertore e fallito politico come Ingroia, il compare di Sofri Manconi, vari dirittoumanisti di complemento, cantanti, nani e ballerine, invocavano sull’Egitto di Al Sisi i fulmini di Giove, Marte, Saturno, Urano, Diopadre, sanzioni, embargo, interventi Onu, magari, sotto sotto, bombe alla libica. Neanche uno di questa compagnia di giro cripto-Nato che si fosse chiesto cosa caXXo ci facesse Regeni con criminali come Young, Negroponte e McColl», conclude Grimaldi. «Non è solo malafede. E’ complicità con chi usa altri mezzi per distruggere l’Egitto. Complicità, in ogni caso, con chi è comunque peggio di Al Sisi».
camillobenso
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Orrendo segreto della Turchia: bimbi schiavi nelle fabbriche
Un reportage di Piazzapulita smaschera il business del lavoro minorile nelle fabbriche turche di abbigliamento al confine con la Siria: centinaia i piccoli operai in fuga dalla guerra sfruttati e pagati stipendi da fame



Rachele Nenzi - Mar, 24/05/2016 - 18:22
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Bambini in fuga dalla guerra resi schiavi e costretti a lavorare dodici ore al giorno per paghe da fame.


Succede in Turchia, in quella Turchia che da anni preme per entrare nell'Unione Europea e cui la stessa Ue ha appena dato sei miliardi di euro per trattenere i migranti irregolari. Grazie a un notevole reportage di Valentina Petrini e Gabriele Zagni per PiazzaPulita, scopriamo una realtà da tempo denunciata da molte associazioni che si battono per il rispetto dei diritti umani.

Nelle città turche più vicine al confine siriano le fabbriche di abbigliamento impiegano bimbi di appena otto anni in lavori pericolosi e senza alcuna tutela. Bambini in fuga dalla guerra civile siriana seduti per ore alla macchina da cucire o al banco per produrre scarpe da ginnastica poi rivendute nei nostri mercati a pochi euro.

Il mercato è fiorente perché la manodopera non manca e un bambino può costare fino a sette volte meno di un lavoratore adulto. Le telecamere del programma di Formigli smascherano un imprenditore turco che confessa candido "la polizia qui non entra". Difficile stupirsi, considerando che il tessile rappresenta il 7% del Pil della Mezzaluna.

Peccato che questa ricchezza, almeno in parte, sia prodotta da bambini-schiavi con le mani blu per le tinture tossiche che sono costretti a maneggiare ogni giorno. Che mormorano: "Vorrei diventare dottore, ma ora devo mantenere la mia famiglia. Studierò alla fine della guerra."
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I GIORNI DEL KAOS

Ognuno tira la coperta dalla sua parte e comprendere cosa succedererà con una scelta, o l'altra, diventa complicato.

Tyler Durden, risponde così: “Il Progetto Paura di Cameron: vota No alla Brexit o affronta la Terza Guerra Mondiale”, da “Zero Hedge” il 9 maggio 2016, post ripreso da “Voci dall’Estero”




Col Brexit, una guerra mondiale: il piano-paura di Cameron

Scritto il 28/5/16 • nella Categoria: segnalazioni


Proprio come il governo ha già fatto nell’avvicinarsi al referendum scozzese del 2014, sembra che David Cameron stia intensificando il cosiddetto “Progetto paura”. In una sorprendente dichiarazione volta alla pura e semplice “creazione di timore”, che chiaramente riflette il panico dell’establishment di fronte alla crescita nei sondaggi del fronte favorevole alla Brexit, il Telegraph riporta che il primo ministro del Regno Unito David Cameron ha avvertito che la Gran Bretagna pagherà un costo elevato se “volta le spalle” alla Ue, invocando Sir Winston Churchill e portando le battaglie di Trafalgar, Blenheim, Waterloo e le due guerre mondiali come prova che la Gran Bretagna non può fingere di essere “immune da conseguenze”. Come riporta il “Daily Mirror”, David Cameron ha chiesto che la Gran Bretagna resti nella Ue, per aiutare a impedire che il continente sia lacerato da un altro conflitto.David Cameron ha sottolineato il ruolo del Regno Unito nel mantenere la pace in Europa, confermando la strada tracciata dalla campagna referendaria – appena poche ore prima di un discorso del rivale, il deputato Tory Boris Johnson. Parlando al British Museum di Londra, introdotto dall’ex segretario agli Esteri del Labour, David Miliband, Cameron ha detto: «Possiamo essere così sicuri che la pace e la stabilità nel nostro continente siano assicurate senza alcuna ombra di dubbio? È un rischio che vale la pena di correre? Non sarei così imprudente da darlo per scontato». Cameron ha anche evocato l’immagine delle file di tombe di soldati britannici caduti nel continente. Ha fatto inoltre riferimento al ruolo della Gran Bretagna in «momenti cruciali della storia europea: Blenheim, Trafalgar, Waterloo, l’eroismo del nostro paese nella Grande Guerra e, soprattutto, la nostra resistenza da soli nel 1940». Ha poi aggiunto: «Quello che accade intorno a noi è importante per la Gran Bretagna. Questo era vero nel 1914, nel 1940, nel 1989… ed è vero nel 2016».E ha ricordato come Winston Churchill «ha sostenuto con passione l’unità dell’Europa occidentale, per promuovere il libero scambio e creare istituzioni durature, che impedissero al nostro continente di dover rivedere mai più simili spargimenti di sangue». Il primo ministro ha aggiunto che restano molti rischi per la stabilità – da una “Russia recentemente aggressiva” al cosiddetto Stato Islamico alla crisi degli emigranti. Qualche ora dopo, è stato attaccato da Johnson, che sostiene la Brexit, e che ha detto: «Bisognerebbe pensarci molto bene prima di lanciare questo tipo di avvertimenti. No, non credo la Gran Bretagna lasciando l’Ue provocherebbe l’esplodere della Terza Guerra Mondiale nel continente europeo». Ma, infine, quello che ragionevolmente toglie forza alla retorica fatta per mettere paura del premier, è che il governo non ha preparato alcun piano per affrontare la Brexit – benché David Cameron sostenga che potrebbe scatenare la guerra: il portavoce di David Cameron ha ammesso che il governo non ha approntato alcun piano di emergenza nel caso che il 23 giugno al referendum vinca il voto per l’uscita – e questo nonostante mettano in guardia contro il pericolo di una guerra. Forse è questo il motivo per cui Cameron ci è andato giù così duro…

(Tyler Durden, “Il Progetto Paura di Cameron: vota No alla Brexit o affronta la Terza Guerra Mondiale”, da “Zero Hedge” il 9 maggio 2016, post ripreso da “Voci dall’Estero”).
camillobenso
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Isis, “Califfato verso la fine. Ma i jihadisti potrebbero fare nuovi attacchi in Europa per salvarlo”

Mondo
Il generale Carlo Jean, esperto di geopolitica e strategie militari: "La caduta di Raqqa è imminente, poi toccherà a Fallujah e Mosul". Ma i miliziani potrebbero avere un "piano B" per fare sopravvivere lo Stato Islamico: "In questo caso aumenteranno attentati in Europa e nelle aree alawite della Siria"
di Gianni Rosini | 28 maggio 2016
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Milizie curde, eserciti della coalizione occidentale e forze governative sono ormai alle porte del Califfato, pronti a sfondare i bastioni delle più importanti roccaforti dello Stato Islamico. Con la campagna di Mosul annunciata da mesi, quella di Raqqa ormai imminente e la città irachena di Fallujah accerchiata dai militari di Baghdad, potrebbe bastare solo l’ultimo colpo di acceleratore per sancire la fine dell’autoproclamato Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. “Stiamo assistendo allo sgretolamento di Isis, almeno per quanto riguarda la sua entità statale – commenta il generale Carlo Jean, esperto di geopolitica e strategie militari –. Rimane da vedere se i jihadisti hanno un piano B. La perdita di queste città avrebbe conseguenze negative sull’immagine del gruppo e sul morale dei combattenti. Per risollevarlo, dobbiamo aspettarci un aumento degli attacchi in Europa e nelle aree alawite della Siria”.


Prima Raqqa e Fallujah, poi toccherà anche a Mosul
Le 300mila persone in fuga dalla capitale siriana del Califfato, secondo l’agenzia nazionale turca Anadolu che cita fonti locali, e le 4.200 scappate da Mosul solo nel mese di maggio, secondo l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), sono fattori che indicano come la situazione nelle due roccaforti delle bandiere nere stia cambiando. Un cambiamento annunciato dalla coalizione stessa, con il lancio di volantini sulla capitale del Califfato con i quali si invita la popolazione ad andarsene, in vista dei nuovi e più intensi attacchi aerei che hanno colpito Raqqa dal 23 maggio. Se a questo si aggiungono le continue ritirate dei jihadisti di fronte all’avanzare di milizie curde ed eserciti governativi in entrambi i Paesi, si capisce come la resistenza dello Stato Islamico abbia toccato il suo punto più basso. “Stiamo assistendo allo sgretolamento del Califfato – dice Jean – e le prime città a cadere saranno Raqqa e Fallujah che sono più piccole. Più complicata la questione di Mosul, una città da 1,5 milioni di abitanti, soprattutto a causa delle tecniche di combattimento di Isis che non risparmierà attacchi suicidi e autobombe”.

Lo sgretolamento dell’entità statale non significherebbe necessariamente la fine dello Stato Islamico. “Rimane da capire se al-Baghdadi e i suoi uomini hanno pensato a un piano B – spiega il generale –. La cancellazione dell’emirato potrebbe riportare Isis alla sua struttura originaria, organizzata in cellule sparse per il territorio, simile a quella che ancora oggi caratterizza al-Qaeda”. La fine del “sogno” estremista di uno Stato islamico, unito alla perdita di importanti roccaforti e aree fondamentali per l’autofinanziamento del gruppo terroristico, avrebbe delle conseguenze negative anche sull’immagine del gruppo. “Perdere città come Raqqa o Mosul – continua Jean – significherebbe anche perdere prestigio e rispetto internazionale e tra i propri sostenitori. Il rischio per al-Baghdadi è quello di assistere a un aumento del numero di disertori, indebolendo così anche la macchina militare degli uomini in nero. Per limitare il danno al brand, dobbiamo aspettarci un aumento degli attentati in Europa e nelle aree alawite della Siria”.

Usa, boots on the ground alle porte di Raqqa. Ma la Turchia protesta
Altro segnale di un possibile attacco imminente viene dalle immagini di militari statunitensi al fianco delle milizie dell’Ypg (Unità di Protezione Popolare curda, ndr) diffuse nei giorni scorsi. Trecento membri delle forze speciali americane che indossano le mimetiche delle milizie curde, pronti a sferrare gli ultimi affondi decisivi per la caduta Raqqa. Si tratta dei soldati che Barack Obama aveva annunciato di voler inviare in Siria a sostegno delle forze del Rojava, gli stessi che il Pentagono ha sostenuto non essere impegnati in prima linea, spiegando, però, che il concetto di “frontline” è difficilmente definibile. “Questi 300 elementi – commenta Jean – sono stati inviati per rendere più efficaci i raid aerei con un sostegno da terra. Raid che, negli ultimi mesi, si sono intensificati in un contesto di ‘concorrenza’ tra le truppe statunitensi e russe impegnate nel Paese”.

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La scelta del Pentagono, però, non è piaciuta ad alcuni alleati interni alla coalizione anti-Isis. Chi l’ha definita un’azione “inaccettabile” è la Turchia, preoccupata per ogni forma di sostegno data ai combattenti curdi operanti lungo il confine con la Siria. Il governo di Ankara considera i combattenti dell’Ypg legati a doppio filo con il gruppo terroristico del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan): “Si tratta di un doppio standard che denota ipocrisia perché attuato da uno dei nostri alleati nella lotta al terrore”, ha commentato il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu.

Il Califfato potrebbe cadere senza accordo sulla Siria. “Rischio nuova Libia”
L’idea diffusa fino ad oggi era quella che prevedeva l’intensificazione della campagna anti-Isis una volta raggiunto un accordo sul futuro della Siria e del suo presidente, Bashar al-Assad. Stretta di mano che, però, tarda a comparire all’orizzonte. “L’accordo sembra ancora lontano – conclude Jean –e l’azione militare degli Usa può essere interpretata anche come un modo per imporsi al tavolo dei negoziati, una sorta di risposta all’intervento russo al fianco di Assad. Rischio di una nuova Libia? È un pericolo concreto in Siria, visto che non si è ancora deciso come riorganizzare il Paese internamente, equilibrando le varie fazioni protagoniste”.

Twitter: @GianniRosini

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/05 ... o/2774004/
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“Colpo di Stato contro l’esercito israeliano”


http://www.occhidellaguerra.it/un-colpo ... sraeliano/
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Re: La Terza Guerra Mondiale

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False flag: usano terroristi per ucciderci sotto falsa bandiera
Scritto il 12/6/16 • nella Categoria: Recensioni


Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.Come diceva il maiale Napoleone nella “Fattoria degli animali” di Orwell: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». E oggi i governanti sembrano dirci: «Tutte le libertà sono in vigore, ma alcune sono meno vigenti delle altre». Il prezzo da pagare può essere altissimo. Il preavviso passa attraverso i secoli e ci viene da uno dei padri costituenti degli Stati Uniti d’America, Benjamin Franklin: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza». Il libro che avete in mano ricostruisce una serie impressionante di vicende diverse, attribuibili a differenti Stati e legate a circostanze storiche non sempre connesse direttamente fra di loro, ma accomunate da un metodo che sembra essere uno strumento essenziale della moderna “arte di governo”. Enrica Perucchietti entra in dettaglio sui misteri e le scoperte che rivelano da un’altra prospettiva decine di incidenti militari, attentati, azioni terroristiche: di fronte a tanti gialli politici per i quali i governi forniscono su due piedi spiegazioni piatte, sprovviste di profondità, riduttive, banali, riferite a killer solitari e a gruppi isolati che non godrebbero di indecenti connivenze dentro gli apparati dello Stato fra chi potrebbe bloccarli, l’autrice del saggio fa invece affiorare indizi, prove, collegamenti clamorosi, fino a raccontare le storie che la censura di tipo moderno aveva eclissato in mezzo alla sua immensa produzione di notizie inutili.Perciò viene citato regolarmente il saggista statunitense Webster Tarpley, che ha coniato un concetto efficacissimo per descrivere questo sistema, ossia «terrorismo sintetico», che altro non è che «il mezzo con cui le oligarchie scatenano contro i popoli guerre segrete, che sarebbe impossibile fare apertamente. L’oligarchia, a sua volta, ha sempre lo stesso programma politico […] Il programma dell’oligarchia è di perpetuare l’oligarchia». In tante pagine il vostro sguardo potrà posarsi su un secolo intero di vicende storiche innescate o favorite dalle flase flag, fino a notare come queste diventino sempre più numerose. Episodi più lontani nel tempo, come l’affondamento del Lusitania, l’incendio del Reichstag, l’incidente del Tonchino, diventano – decennio dopo decennio – una prassi rodata e frequente, che si moltiplica nel corso degli ultimi 15 anni. E cosa ha inaugurato quest’ultimo periodo? Esattamente la più spettacolare e visionaria delle false flag, lo scenario apocalittico dell’11 settembre 2001. Quel che è venuto dopo – ossia la “guerra infinita”, la “guerra al terrorismo”, lo spionaggio totalitario coperto dal Patriot Act e altre leggi liberticide – una volta illuminato dalla luce terribile dell’11/9, si è avvalso di una sorta di “terapia di mantenimento” a base di attentati piccoli e grandi, perpetrati da gruppi di terroristi presso i quali sono sempre riconoscibili l’ombra e l’impronta dei servizi segreti.I servizi segreti sono il grande convitato di pietra, sempre più ingombrante eppure ancora sottovalutato nelle analisi politiche, storiche e giornalistiche. Anche se gli apparati di intelligence sono formalmente subordinati al potere politico ed esecutivo, hanno risorse enormi in grado di sfuggire ai deboli criteri di trasparenza che possono mettere in campo le eventuali commissioni parlamentari di controllo. Pertanto sono capaci di costruire reti di interessi che in tutta autonomia possono condizionare sia l’agenda politica sia l’agenda dei media. Settori interi di questi servizi giocano partite autosufficienti grazie a budget incontrollabili ed enormi, in grado di mettere in campo forze pervasive. All’interno di quello che certi politologi definiscono “lo Stato profondo” esistono settori ombra del governo, dotati di proprie catene di comando presso le forze armate, di budget non rendicontabili che uniscono risorse pubbliche e autofinanziamento in simbiosi con le attività criminali delle mafie, provvisti di idee proprie in merito al modo di intendere l’interesse nazionale, portati a costruire ogni tipo di rapporto con gruppi terroristici che poi manovrano con “leve lunghe” e irriconoscibili.Le attività sono organizzate e adempiute mascherando ogni responsabilità riconducibile ai governi, tanto che immense risorse sono spese per depistare e neutralizzare le eventuali scoperte con il noto principio della «plausible deniability», ossia la smentita plausibile. Ove rimanesse ancora una notizia impossibile da smentire, la si potrà disinnescare grazie all’immenso arbitrio in mano ai dirigenti dei media più importanti, che hanno mille intrecci con il mondo dei servizi. Il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, che ha a lungo lavorato per la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, uno dei principali quotidiani tedeschi, ha scritto un saggio bestseller, “Gekaufte Journalisten” (giornalisti venduti), in cui rivela che per molti anni la Cia lo aveva pagato per manipolare le notizie, e che questa è la consuetudine ancora attuale nei media germanici. Tutto fa pensare che la consuetudine sia identica anche altrove. Di certo non leggerete su “La Repubblica” una recensione sul libro di Ulfkotte, mentre leggerete le geremiadi dei suoi editorialisti su dove andremo a finire con questi complottisti, signora mia…Come spiegarsi altrimenti il silenzio che circonda certe notizie, che vengono pur date per salvarsi la coscienza, ma non hanno un prosieguo, una campagna di inchieste, nessun impegno? Eppure perfino Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato: «L’agenzia Fbi pagava dei musulmani per compiere attentati». Secondo un’indagine su 27 processi e 215 interviste, l’agenzia di intelligence interna americana «ha creato dei terroristi sollecitando i loro obiettivi ad agire e compiere atti di terrorismo». Notare bene: “creato dei terroristi”. In che modo? «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto. «Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», ha detto Andrea Prasow, vice direttore di Hrw a Washington. «Ma se si osserva da vicino si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagate». La notizia, se non la vogliamo ignorare, è semplice e terribile: gran parte degli attentati terroristici sul suolo Usa sono indotti dalla stessa organizzazione che li dovrebbe combattere, cioè l’Fbi.Gli organi di informazione che hanno lasciato appesa al nulla questa notizia impressionante, sono gli stessi che per anni – ad ogni attentato avvenuto o sventato – avevano ripetuto i comunicati dell’Fbi senza chiedere spiegazioni. Queste veline diventavano titoli urlati in prima pagina, notizie di apertura dei telegiornali. Quando la verità emerge, spesso molti anni dopo, non gode certo degli stessi spazi, rimanendo confinata in qualche insignificante pagina interna, in taglio basso. Chi aveva voluto raggiungere un certo effetto con i titoli cubitali, lo aveva già ottenuto. Resta viceversa la prima impressione dell’allarme, quando l’annuncio strillato e falso si deposita nella coscienza di lettori e spettatori. Ed è per responsabilità di questa informazione – che si è curata solo di aizzare (quando gli è stato comandato), o di “sopire e troncare” (quando era comodo) – che ogni giorno ci è stato depredato un pezzo di libertà, di sovranità, e infine imposto lo spionaggio totalitario della Nsa, l’agenzia che perfino di ciascun lettore di questo libro, in nome della sicurezza, possiede tutte le tracce delle sue comunicazioni, tutte le e-mail, i suoi orientamenti, i segreti personali. Ed è naturalmente in grado di ricattare ogni politico-maggiordomo occidentale, esposto al tempismo di qualche scandalo che lo potrebbe colpire e affondare se dovesse ribellarsi ai padroni dei segreti.Enrica Perucchietti ricompone un vasto mosaico di “false flag” che nell’insieme disegnano un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio di massa indiscriminato oltre ad aver reintrodotto gli arresti extralegali assieme alla tortura. In questo quadro emerge chiaramente che il terrorismo sintetico è un’interminabile catena di azioni in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’intelligence, che li manipola per i propri fini. Quel che nel senso comune si chiama terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei media mainstream, i quali sono adibiti a organizzare a comando gli isterismi collettivi e a rinfrescare la paura, ricordando certe vittime innocenti e dimenticandone altre.Nel saggio si sottolinea ad esempio come ci sia una notevole compartecipazione tra servizi segreti e gruppi islamisti, compresa l’Isis/Daesh. Enrica Perucchietti pone la domanda che nella maggior parte dei nostri media è tabù: «Spuntando dal nulla nel giro di pochi mesi, l’Isis si è assicurata un gran numero di risorse, armi, attrezzature multimediali high-tech e specialisti in propaganda. Da dove provengono i soldi e le tecniche di guerriglia?». L’Isis, cioè lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Siria), è uno stato-non-stato che nel costituire per definizione un’entità terrorista si prende il “diritto” di non attenersi ad alcuna legalità, come se fossero i corsari dei giorni nostri. Nell’epoca dei paradossi, gli Usa – con buone ragioni – definiscono l’Isis e altre organizzazioni della galassia jihadista come “organizzazioni terroriste”; ma quando sentiamo vecchi astri della politica imperiale statunitense come Zbigniew Brzezinski e John McCain definire i jihadisti come «i nostri asset», sembra quasi che definirli terroristi implichi proprio il diritto-dovere di essere terroristi. Catalogarli così somiglia quasi a una “lettera di corsa” da parte della superpotenza nordamericana, simile a quelle autorizzazioni con cui le potenze di un tempo abilitavano i corsari ad attaccare e razziare navi di altre potenze.Mentre i soldati “normali” sarebbero in una certa misura esposti al dovere di rispettare le Convenzioni di Ginevra e altri elementi del diritto internazionale, i terroristi/corsari, viceversa, costituiscono una legione che infrange questi limiti nascondendo la catena delle responsabilità. Quelli dell’Isis condividono valori oscurantisti e l’uso delle decapitazioni con la dinastia saudita che li appoggia e foraggia. Ma siccome l’Arabia Saudita è «un’Isis che ce l’ha fatta», come dice il “New York Times”: il ruolo della canaglia rimane comodamente attaccato solo alla manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo, senza estendersi ai mandanti occulti. Ma poi è arrivato l’intervento in Siria dell’aeronautica russa. Gli aerei di Mosca hanno distrutto quasi tutte le migliaia di autobotti con cui il petrolio razziato dai nuovi corsari veniva smerciato in un paese Nato, la Turchia, proprio con il consenso di Ankara (altro grande sponsor dell’Isis). La mossa strategica di Mosca ha perciò aperto una nuova fase che spinge molti paesi a porsi un semplice problema: che rapporto devo avere adesso con la Russia di Vladimir Putin, ora che i miei alibi sono stati bruciati? Non è un caso che dopo l’intervento russo gli attentati jihadisti, con tutto il loro tipico fumo di false flag, si stiano intensificando drammaticamente, aumentando la pressione e il ricatto sui sistemi politici di mezzo mondo e mostrandosi come una presenza ormai permanente della scacchiera internazionale. Una scacchiera che possono demolire.Sarebbe il momento giusto per fare chiarezza, ma le istituzioni si chiudono a riccio, come nel caso dell’inchiesta sulla strage di Charlie Hebdo: mentre emergevano particolari inquietanti su quell’attentato e i suoi torbidi contorni, il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha deciso che l’inchiesta doveva essere subito insabbiata. Perché? “Segreto militare”. Il che implica – come il lettore vedrà poi in dettaglio in questo saggio – che l’evento terroristico, ancora una volta, andava oltre l’attentato “islamico”, perché erano coinvolti organi di Stato che agivano da complici, se non da pianificatori dell’atto, corresponsabili quindi di un delitto che sacrificava propri cittadini. Le nuove norme eccezionali approvate in Francia si presentano come l’annuncio di una tendenza generale, e già ci sono le avvisaglie del fatto che queste norme saranno usate per restringere le libertà e i diritti, ad esempio di lavoratori o cittadini che manifestino per rivendicare migliori condizioni di vita.Gran parte degli intellettuali – freschi reduci di un’indigestione retorica di “Je suis Charlie” – non leva una sola voce contro le restrizioni della libertà, nemmeno quando toccano in modo massiccio un paese Nato come la Turchia, che ha praticamente schiacciato un’intera generazione di giornalisti che osavano indagare sulle complicità del governo con il terrorismo. Per colmo, accusandoli di terrorismo. Occorre un risveglio intellettuale e morale che accompagni un rinnovamento politico, occorre spostare il pendolo del potere dalle istituzioni modellate dall’«eccezione» e dalla paura verso le istituzioni ispirate alla sovranità popolare e alla corretta informazione. Smascherare il sistema fondato sulle false flag non è una condizione sufficiente per questo risveglio (che ha bisogno anche di coraggio e partecipazione di massa). Ma rivelare ai molti cittadini obnubilati dalla bolla mediatica dominante la verità sugli inganni che hanno subito è una condizione necessaria per difendere e ampliare le proprie libertà. Questo è un buon punto di partenza.

(Pino Cabras, prefazione al libro “False flag. Sotto falsa bandiera”, di Enrica Perucchietti, pubblicata sul blog di Cabras. Il libro: Enrica Perucchietti, “False flag. Sotto falsa bandiera”, Arianna Editrice, 256 pagine, euro 12,50).
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Turchia, esplosioni e spari all’aeroporto Ataturk di Istanbul. Kamikaze in azione: “50 morti e 60 feriti”

Aeroporto Istanbul (1)
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06 ... i/2867987/
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Mondo
Il ministro della Giustizia turco, Bekir Bozdag, ha spiegato che tre attentatori si sono fatti saltare in aria durante uno scontro a fuoco con la polizia. I terroristi erano armati di kalashnikov e hanno aperto il fuoco sulle persone. Per gli investigatori l'attacco è opera di Isis. Secondo i media locali però il commando era composto da sette elementi di cui tre in fuga
di F. Q. | 28 giugno 2016
COMMENTI
Più informazioni su: Aeroporti, Istanbul
Il settimo attentato del 2016 in Turchia colpisce ancora Istanbul. Come a marzo a Bruxelles, è il maggiore aeroporto del paese a finire nel mirino dei terroristi che, armati di kalashnikov, hanno aperto il fuoco ai varchi dove si effettuano i controlli di sicurezza nella zona degli arrivi dello scalo Ataturk. E come per il Belgio l’ipotesi degli investigatori è che l’attacco porti il sigillo di Isis. Lo Stato Islamico però non ha rivendicato l’azione. Il commando entrato in azione, secondo i media locali, sarebbe stato composto da sette elementi: uno sarebbe stato arrestato, altri tre sarebbero in fuga, oltre ai tre kamikaze. Fonti ufficiali però parlano di tre attentatori entrati.

Commando in azione: “quasi 50 morti e 60 feriti”
Gli spari e le esplosioni hanno lasciato a terra “28 morti” ma secondo un alto funzionario turco le vittime sono “quasi 50“: 60 le persone soccorse e sei quelle considerate in condizioni disperate. Lo scalo Ataturk ha un doppio sistema di controlli di sicurezza, il primo dei quali all’ingresso dello scalo, ancor prima di arrivare ai banchi di accettazione. È lì che è avvenuto l’attacco, mentre spari sono stati uditi anche in un parcheggio vicino. Gli assalitori hanno innescato le bombe e si sono fatti esplodere mentre la polizia reagiva all’assalto armato.

Immediatamente è scattata la macchina dei soccorsi. Il personale di una trentina di ambulanze ha trasportato i feriti negli ospedali cittadini e anche alcuni tassisti, secondo alcuni testimoni, si sono improvvisati soccorritori e hanno utilizzato le loro macchine per portar via chi era stato colpito.

Ten killed, many wounded in suicide attack at Istanbul airport https://t.co/Vj1MzgUTEC @Reuters aracılığıyla

— TOPRAK (@emrecavdar) 28 giugno 2016

Aeroporto evacuato e chiuso. Censura delle immagini
Ingressi e uscite dell’aeroporto sono stati sigillati, mentre diversi voli in arrivo sono stati dirottati altrove e quelli in partenza cancellati. Tutti i passeggeri sono stati trasferiti negli alberghi. Un funzionario della Turkish Airlines ha informato che gli aerei sono autorizzati ad atterrare nello scalo turco fino alle 23.10 di martedì. L’aeroporto resterà chiuso fino alle 20 di mercoledì.

L’azione terroristica è stata parzialmente ricostruita dal ministro della Giustizia turco, Bekir Bozdag che ha confermato che gli assalitori hanno sparato sulla folla. Un agente avrebbe atterrato uno degli attentatori prima che l’assalitore facesse esplodere la bomba che aveva con sé, ma la notizia non ha trovato per ora riscontri ufficiali. Non definitivo il numero delle vittime e ancora poco chiara la dinamica. Le autorità hanno anche imposto il divieto dei trasmissione delle immagini dal luogo dell’attentato, come avviene di prassi in Turchia in casi simili.

Farnesina attivata, Alitalia blocca volo
L’unità di crisi della Farnesina è stata immediatamente attivata ed è in contatto con la sede per le verifiche per la presenza di italiani. Alitalia ha bloccato un suo volo in partenza da Roma per Istanbul. Un equipaggio della compagnia era in città ma in un albergo, e non c’era personale di terra all’aeroporto Ataturk al momento della sparatoria e delle esplosioni.

Da Sultanahmet a Istanbul: sette attentati in sei mesi
Sono stati sette nel corso del 2006 gli attentati in Turchia. Sempre a Istanbul il 7 giugno scorso un’autobomba era esplosa al passaggio di autobus della polizia causando 12 morti. Il 27 aprile una donna si era fatta saltare in aria a Bursa, quarta città del Paese, vicino alla Grande Moschea e a un bazar. Probabile un’esplosione anticipata: muore solo la kamikaze, 13 i feriti. Lo scorso 19 marzo un kamikaze si era fatto esplodere provocando cinque morti (tra cui l’attentatore) e 36 feriti sul viale Istikal in una delle zone dello shopping della città a poca distanza da piazza Taksim. L’attentatore fu identificato un militante turco dell’Isis. Una settimana prima un convoglio militare era stato colpito ad Ankara: l’attacco aveva provocato 39 morti. Il 17 febbraio furono 29 vittime per un’altra autobomba esplosa ad Ankara vicino a un complesso militare. Il 12 gennaio un kamikaze a Sultanahmet, nel centro storico di Istanbul, fece strage di 12 turisti tedeschi; 16 i feriti.

Renzi e leader europei condannano attentato
“Volevo esprimere un sentimento di vicinanza profondo al governo e al popolo turco per ciò che è appena avvenuto ad Istanbul. Siamo stati raggiunti dalla notizia durante il vertice europeo, eventi di questo tipo a maggior ragione confermano la necessità di una risposta forte e coesa tutti insieme contro la minaccia del terrorismo” dice premier Matteo Renzi. I leader europei hanno condannato l’assalto. Diversi primi ministri hanno espresso la loro “vicinanza alle famiglie delle vittime e l’orrore per l’ennesimo atroce atto di violenza”.
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Re: La Terza Guerra Mondiale

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I killer di Dacca benestanti, giovani e istruiti
“È gruppo locale, indagini su legami con Isis”

“Il figlio di un membro del partito di governo” nel commando che ha ucciso 20 persone, tra cui 9 italiani
Centinaia di persone alla veglia per le vittime. Cacciato da Falluja, Califfato punta su massacri
(leggi)

Mondo
Giovani, bengalesi, colti, appartenenti alla classe media. E già ricercati da anni dalle forze dell’ordine. Questo il ritratto che le autorità del Bangladesh hanno fornito dei sette attentatori che venerdì notte hanno attaccato il ristorante Holey Artisan Bakery di Dacca, uccidendo almeno 20 persone, fra cui nove italiani (leggi le loro storie). Gli autori dell’eccidio, sostiene il ministro degli Interni bengalese, appartenevano a un gruppo jihadista locale e non facevano capo direttamente a Isis o al Qaeda, anche se la polizia sta indagando sui legami con le reti terroristiche internazionali


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Bangladesh, ecco gli attentatori: benestanti, bengalesi e istruiti. “Tra loro figlio di membro del partito di governo”

Mondo
Gli autori dell'eccidio, sostiene il ministro degli Interni bengalese, appartenevano al gruppo jihadista locale Jamaat-ul-Mujahideen Bangladesh: la polizia sta indagando sui legami con le reti terroristiche internazionali. Tra i terroristi, riferisce il Daily Star, anche Rohan Imtiaz, figlio di uno dei leader a Dacca del partito Awami league
di F. Q. | 3 luglio 2016
COMMENTI (672)

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Re: La Terza Guerra Mondiale

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LA DESTRA DI SALUSTI VEDE DA SEMPRE TUTTO IN CHIAVE RELIGIOSA.

VOI MUSSULMANI, NOI CATTOLICI(PENSARE CHE LA DESTRA POSSA ESSERE CRISTIANA E' UN ABOMINIO).


SUI MUSSULMANI NON PERDE UN COLPO.


PENSARE CHE LE DUE RELIGIONI SI RIFERISCANO ALLO STESSO DIO, FA ALQUANTO SORRIDERE.


Musulmani, basta ipocrisie:
curate il cancro che vi divora

Dopo Istanbul, ora Dacca. Siamo allo scontro di civiltà. Chi non sa il Corano viene sacrificato come un animale impuro

Renato Farina - Dom, 03/07/2016 - 21:36



Risultato: Italiani=cristiani=morte. Dopo Istanbul ora Dacca! In realtà, casa nostra. Istanbul e Dacca sono metropoli islamiche, entrambe hanno circa 15 milioni di abitanti. La prima ai confini con l'Europa, anzi già Europa. La seconda è Asia monsonica. Ma queste città sono parenti di Bruxelles, Parigi: occidentali, laicissime. Hanno una cosa in comune: segnalano la presenza di un esercito che sta combattendo una guerra mondiale che ormai non si può proprio più dire a pezzi. Il Califfato ha una presenza capillare in tutto il globo, che è un piccolo villaggio. E dire che ci avevano appena detto che lo Stato Islamico era in ritirata. L'annuncio poche ore prima di 250 guerriglieri dell'Isis fatti fuori dai droni americani in Iraq somiglia sempre di più ai bollettini di vittoria dei marines in Vietnam. Poi si è visto com'è finita. È vero: il Daesh, nome arabo dello Stato Islamico, sta subendo pesanti sconfitte, l'avanzata che pareva inarrestabile, quanto a conquista del territorio in Asia Minore e in Libia, si sta trasformando in una Caporetto. Ma non significa affatto resa, bensì ritirata strategica, che coincide con lo spostamento delle risorse e delle energie distruttive fuori dai confini. Con due scopi: uno militare, demoralizzando chi pensava fosse almeno l'inizio della fine della Jihad e scopre invece che è solo la fine dell'inizio; e uno propagandistico, consistente nell'attirare con successi orribili nuovi seguaci e catturare il tifo di fasce larghissime di giovani islamici di ogni parte del mondo. Dobbiamo renderci conto che la guerra scatenata dal Daesh nuota senza trovare ostacoli nella moltitudine di un miliardo e seicento milioni di fedeli del Profeta. Fin qui, nulla di nuovo. Ma c'è un secondo mare in cui nuotano. Quello dell'altro miliardo che vive nell'ateismo pratico e relativista, nella nullificazione del valore del proprio io e di quello del prossimo: parlo di noi. Una constatazione, riguardo a «loro». Non c'è nessuno, dentro quel mondo che proclama «Allah akbar», che paia in grado di fermare questa massa cancerosa che si riferisce a Dio e onora il Diavolo. I ragazzi che frequentano moschee e internet e si preparano a incontrare settanta vergini, non hanno davanti a sé alcun autentico leader musulmano pacificatore che abbia un fascino anche lontanamente paragonabile a quello di Osama Bin Laden, eletto a mito che veglia dall'aldilà sui kamikaze, e quello vivente di Abu Bakr al Baghdadi. Uno, datemene uno, che sia noto nelle periferie di Bruxelles e nelle moschee di Milano, che sia stato disegnato sulla maglietta, e mi ritirerò dandomi torto. Perché? Due ragioni. Una attiene alla natura dell'islam. Erdogan urla: «Non sono veri islamici». Se è lui l'alternativa, stiamo freschi. Chi lo ascolta? Nessuno. Oltretutto non è certo uno che ami la libertà. L'altra riguarda la natura vile dell'Occidente. Preferisce l'appaisement (termine colto per dire inciucio) con i duri, che la valorizzazione delle menti riformiste. Esempi. In Italia, chi c'è? Se c'è, se ne sta coperto, e dorme, prima che lo uccidano. Chi ha osato, come Souad Sbai, vive sotto scorta. Abbiamo visto che per quieto vivere Giuseppe Sala, sindaco di Milano, preferisce flirtare con gli estremisti emarginando e trattando come una mentitrice, consegnando certo involontariamente a un rischio mortale, chi come Maryan Ismail, italiana di una grande famiglia pacifista somala, che ha pagato già con la vita questo suo credo, il pericolo insito in certe moschee milanesi vellicate dai compagni. Che fare? La domanda si deve intrecciare con un altra: chi siamo, chi vogliamo essere? Di certo, più che mai, occorre una grande alleanza delle potenze politiche e militari contro il totalitarismo assassino, ma anche e soprattutto occorre una fraternità ecumenica di tutte le famiglie ideali e spirituali capaci di mitezza e forza cattolici, laici, ebrei, islamici ribelli che abbiano a cuore la verità dell'essere uomini. Ma oggi se i terroristi islamici fanno coincidere la missione della loro vita con l'assassinio per affermare e allargare la «Casa dell'Islam», quanti sono (anzi siamo!) disponibili a dare la vita per un ideale che somigli non al me-ne-frego ma non dirò all'amore ma almeno alla benevolenza? Prepariamoci ad altri sacrifici cruenti. Senza terrore, ma provando a guardare e a seguire chi tiene alta la fiaccola di qualcosa di più bello e più forte della resa al male. Ci sono tanti sconosciuti che ci insegnano questa capacità di donazione, di affetto gratuito. Ma siamo così ciechi, così occupati a pettinarci e a sistemare il televisore per la partita, a ricordare la password, che per forza dimentichiamo qualcosa di essenziale. O no
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Re: La Terza Guerra Mondiale

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ATTENTATO A NIZZA, TIR TRAVOLGE LA FOLLA
Almeno 84 i morti, “molti di loro sono bambini”
Camion si scaglia a zig zag tra la gente che assisteva ai fuochi per la festa del 14 luglio. Spari sulla folla
18 feriti in condizioni critiche. Autista ucciso: “E’ 31enne franco-tunisino, aveva noleggiato il mezzo”

Mondo
Era appena finito lo spettacolo dei fuochi artificiali sul lungomare di Nizza, affollato di francesi e turisti per la festa nazionale del 14 luglio. All’improvviso un camion è partito a tutta velocità e per due chilometri ha percorso la Promenade des Anglais. Dal mezzo spari contro la folla. Sono almeno 84 i morti e centinaia i feriti, di questi 18 in condizioni critiche. Confermata l’ipotesi di attentato. La polizia chiede agli abitanti di restare barricati in casa. Hollande rientra a Parigi, rafforzati controlli alla frontiera con l’Italia


Strage a Nizza, camion contro la folla. Cazanueve: “80 morti, 100 i feriti”. Prefettura: “Attentato terroristico” (foto e video)

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07 ... a/2906028/
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