Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzione?
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
RAPPORTO
Gli sbarchi aumentano, l'Europa arretra
L'ultimo rapporto dell'Organizzazione internazionale delle migrazioni fotografa le ipocrisie della Fortezza Ue. Che ha "ricollocato" poco più di tremila richiedenti asilo. Mentre gli arrivi continuano a crescere. Soprattutto in Italia. Mentre in Libia sono registrate oltre 260mila potenziali richiedenti asilo
DI FRANCESCA SIRONI
01 agosto 2016
Profughi appena sbarcati a Salerno
Nell'ultima settimana, fra il venti e il 27 luglio, seimila e 483 persone sono sbarcate in Italia. Con il sole, e la calma del mare, l'estate mediterranea di speranze e di morti per mare è ricominciata. Impossibile chiamare emergenza una realtà si avvera ogni luglio. La media di arrivi giornalieri sulle nostre coste è salita continuamente: dai 305 al giorno di aprile ai 746 di giugno, ai 698 di adesso. Dall'inizio dell'anno sono arrivati in Sicilia e nelle regioni del Sud quasi 90mila profughi. Tremila sono stati uccisi nella traversata. È quanto ribadisce il nuovo rapporto, appena pubblicato, dall'Organizzazione internazionale per le migrazioni sulle rotte verso l'Europa. Che fotografa disuguaglianze, ipocrisie e realtà della Fortezza europea di quest'estate.
Ibrahima è laureato in turismo. Nel 2012, con alcuni suoi amici, ha partecipato a una manifestazione di protesta contro il governo. Insieme a tanti. Ma è finita male. È stato arrestato. Tenuto in prigione per 20 giorni - «ma a me sono sembrati anni», racconta – ed è stato torturato: «avevo le gambe gonfie per le botte: non mi riuscivo ad alzare». Appena uscito, Ibrahima è scappato. Dal Gambia, il paese dov'era nato e dove sarebbe voluto restare. Come spiega l'Agenzia Agi: I«l progetto #TuNonSaiChiSonoIo intende unire contenuti di approfondimento e modalità di fruizione tipiche dei nuovi media, con l'obiettivo di contribuire al dibattito sul fenomeno delle migrazioni, aggiungendo ai fatti di cronaca ed ai dati statistici anche la conoscenza diretta di chi ha deciso di lasciare il proprio Paese per vivere in Italia e in Europa»
Innanzitutto, aggiorna i dati sul fallimento delle politiche di ricollocamento promesse dall' Agenda di Jean-Claude Juncker: solo 902 richiedenti asilo sono stati trasferiti dall'Italia ad altri paesi della Ue. Dalla Grecia ne sono stati “condivisi” poco meno di tremila, accolti soprattutto in Germania. Per il resto: il vuoto. La Svizzera ha accettato da Roma 34 persone. La Spagna 50. La Slovenia 6. La Repubblica Ceca: 0. E così via. Suona più che un iperbole così la promessa messa per iscritto a settembre del 2015 di ricollocare 160mila rifugiati in soli due anni. Di questo passo, sarà difficile arrivare a 10mila. Spiegando le ragioni di questa débacle, l'Oim nota che la Commissione europea nel suo quinto rapporto sull'Accordo sostiene ci siano ancora molti problemi sui controlli per la sicurezza nel nostro paese. Basta, per evitare risposte comuni?
Il secondo punto riguarda l'accordo con la Turchia. Il paese stretto dalla vendetta del presidente Tayyp Erdogan contro laici e oppositori è infatti ufficialmente il guardiano delle frontiere esterne d'Europa, missione per la quale ha ricevuto oltre tre miliardi di euro dalla Ue. Nel solo mese di luglio, l'esercito turco ha così intercettato e fermato oltre 30mila persone che cercavano di valicare il confine per fuggire dai bombardamenti in Siria. Il tema che preoccupa però di più la Fortezza, riguarda le partenze. In base all'accordo infatti, la Turchia – che già ospita quasi tre milioni di siriani – si impegna a fermare gli imbarchi in gommone verso le isole egee.
Di fatto, queste sono quasi scomparse: a luglio solo 600 persone hanno tentato quella rotta nelle ultime settimane. Inoltre, Bruxelles può respingere ad Ankara i migranti entrati illegalmente, prendendone in carico altrettanti secondo un circuito legale. Ma non è così che ha funzionato finora: dall'inizio del trattato al 27 luglio infatti sono stati respinti in Turchia 468 migranti. Soprattutto pakistani, afghani, bangladeshi e iraniani. L'ultima “riammissione” risale al 16 giugno. Nello stesso periodo l'Europa se ne è fatta carico direttamente, in base allo stesso accordo, del doppio: 842.
Si tratta in ogni caso di numeri minimi, rispetto agli arrivi di profughi in Grecia e in Italia. Dall'inizio dell'anno, in 160mila sono arrivati ad Atene. Dopo aprile, però, la rotta balcanica è stata dimenticata, o quasi. I siriani restano bloccati in Turchia. Il Mediterraneo invece è ritornato la strada della speranza. Ma per una rotta completamente diversa: a cercare l'Europa attraverso Roma non sono siriani. Non c'è stato, ad oggi, alcun "ribaltamento" in quel senso: ad arrivare qui sono nigeriani, eritrei, sudanesi.
In Libia, ha registrato l'Oim, sono ora accampati 264.014 potenziali richiedenti asilo, sparpagliati in 316 località. Di loro solo il tre per cento vive nei centri di detenzione raccontati da diverse inchieste: gli altri bivaccano in luoghi non ufficiali, in attesa di partire. Questi numeri seguono a quelli dei migranti passati dal Niger: dove solo negli ultimi mesi sono passate 216mila persone. È quella la rotta all'Italia. E non cambia. Al 30 giugno del 2015 gli arrivi erano stati gli stessi di quest'anno, anzi, di un leggero uno per cento in più. Sono le politiche a non cambiare. A restare bloccate nell'emergenza. Che non fa che produrne altrettanta.
PER TABELLE VEDI:
http://espresso.repubblica.it/internazi ... =HEF_RULLO
Gli sbarchi aumentano, l'Europa arretra
L'ultimo rapporto dell'Organizzazione internazionale delle migrazioni fotografa le ipocrisie della Fortezza Ue. Che ha "ricollocato" poco più di tremila richiedenti asilo. Mentre gli arrivi continuano a crescere. Soprattutto in Italia. Mentre in Libia sono registrate oltre 260mila potenziali richiedenti asilo
DI FRANCESCA SIRONI
01 agosto 2016
Profughi appena sbarcati a Salerno
Nell'ultima settimana, fra il venti e il 27 luglio, seimila e 483 persone sono sbarcate in Italia. Con il sole, e la calma del mare, l'estate mediterranea di speranze e di morti per mare è ricominciata. Impossibile chiamare emergenza una realtà si avvera ogni luglio. La media di arrivi giornalieri sulle nostre coste è salita continuamente: dai 305 al giorno di aprile ai 746 di giugno, ai 698 di adesso. Dall'inizio dell'anno sono arrivati in Sicilia e nelle regioni del Sud quasi 90mila profughi. Tremila sono stati uccisi nella traversata. È quanto ribadisce il nuovo rapporto, appena pubblicato, dall'Organizzazione internazionale per le migrazioni sulle rotte verso l'Europa. Che fotografa disuguaglianze, ipocrisie e realtà della Fortezza europea di quest'estate.
Ibrahima è laureato in turismo. Nel 2012, con alcuni suoi amici, ha partecipato a una manifestazione di protesta contro il governo. Insieme a tanti. Ma è finita male. È stato arrestato. Tenuto in prigione per 20 giorni - «ma a me sono sembrati anni», racconta – ed è stato torturato: «avevo le gambe gonfie per le botte: non mi riuscivo ad alzare». Appena uscito, Ibrahima è scappato. Dal Gambia, il paese dov'era nato e dove sarebbe voluto restare. Come spiega l'Agenzia Agi: I«l progetto #TuNonSaiChiSonoIo intende unire contenuti di approfondimento e modalità di fruizione tipiche dei nuovi media, con l'obiettivo di contribuire al dibattito sul fenomeno delle migrazioni, aggiungendo ai fatti di cronaca ed ai dati statistici anche la conoscenza diretta di chi ha deciso di lasciare il proprio Paese per vivere in Italia e in Europa»
Innanzitutto, aggiorna i dati sul fallimento delle politiche di ricollocamento promesse dall' Agenda di Jean-Claude Juncker: solo 902 richiedenti asilo sono stati trasferiti dall'Italia ad altri paesi della Ue. Dalla Grecia ne sono stati “condivisi” poco meno di tremila, accolti soprattutto in Germania. Per il resto: il vuoto. La Svizzera ha accettato da Roma 34 persone. La Spagna 50. La Slovenia 6. La Repubblica Ceca: 0. E così via. Suona più che un iperbole così la promessa messa per iscritto a settembre del 2015 di ricollocare 160mila rifugiati in soli due anni. Di questo passo, sarà difficile arrivare a 10mila. Spiegando le ragioni di questa débacle, l'Oim nota che la Commissione europea nel suo quinto rapporto sull'Accordo sostiene ci siano ancora molti problemi sui controlli per la sicurezza nel nostro paese. Basta, per evitare risposte comuni?
Il secondo punto riguarda l'accordo con la Turchia. Il paese stretto dalla vendetta del presidente Tayyp Erdogan contro laici e oppositori è infatti ufficialmente il guardiano delle frontiere esterne d'Europa, missione per la quale ha ricevuto oltre tre miliardi di euro dalla Ue. Nel solo mese di luglio, l'esercito turco ha così intercettato e fermato oltre 30mila persone che cercavano di valicare il confine per fuggire dai bombardamenti in Siria. Il tema che preoccupa però di più la Fortezza, riguarda le partenze. In base all'accordo infatti, la Turchia – che già ospita quasi tre milioni di siriani – si impegna a fermare gli imbarchi in gommone verso le isole egee.
Di fatto, queste sono quasi scomparse: a luglio solo 600 persone hanno tentato quella rotta nelle ultime settimane. Inoltre, Bruxelles può respingere ad Ankara i migranti entrati illegalmente, prendendone in carico altrettanti secondo un circuito legale. Ma non è così che ha funzionato finora: dall'inizio del trattato al 27 luglio infatti sono stati respinti in Turchia 468 migranti. Soprattutto pakistani, afghani, bangladeshi e iraniani. L'ultima “riammissione” risale al 16 giugno. Nello stesso periodo l'Europa se ne è fatta carico direttamente, in base allo stesso accordo, del doppio: 842.
Si tratta in ogni caso di numeri minimi, rispetto agli arrivi di profughi in Grecia e in Italia. Dall'inizio dell'anno, in 160mila sono arrivati ad Atene. Dopo aprile, però, la rotta balcanica è stata dimenticata, o quasi. I siriani restano bloccati in Turchia. Il Mediterraneo invece è ritornato la strada della speranza. Ma per una rotta completamente diversa: a cercare l'Europa attraverso Roma non sono siriani. Non c'è stato, ad oggi, alcun "ribaltamento" in quel senso: ad arrivare qui sono nigeriani, eritrei, sudanesi.
In Libia, ha registrato l'Oim, sono ora accampati 264.014 potenziali richiedenti asilo, sparpagliati in 316 località. Di loro solo il tre per cento vive nei centri di detenzione raccontati da diverse inchieste: gli altri bivaccano in luoghi non ufficiali, in attesa di partire. Questi numeri seguono a quelli dei migranti passati dal Niger: dove solo negli ultimi mesi sono passate 216mila persone. È quella la rotta all'Italia. E non cambia. Al 30 giugno del 2015 gli arrivi erano stati gli stessi di quest'anno, anzi, di un leggero uno per cento in più. Sono le politiche a non cambiare. A restare bloccate nell'emergenza. Che non fa che produrne altrettanta.
PER TABELLE VEDI:
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
NOI SIAMO SEDUTI SU DUE BOMBE. LA PRIMA E' QUELLA DELLE BANCHE, LA SECONDA E' QUELLA DEI MIGRANTI.
QUALE SCOPPIERA' PER PRIMA???
LOMBARDIA
Lega e Maroni, fronte anti migranti in Regione
«I profughi sono clandestini». «Invasione». Sono i toni della Lega al potere in Lombardia. Un muro contro muro con il Comune di Milano e il governo per la gestione dei migranti, a partire dall'uso della zona in cui si è svolta Expo 2015. E con la minaccia di togliere i fondi alle comunità montane pronte ad ospitare
DI MICHELE SASSO
03 agosto 2016
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Lega e Maroni, fronte anti migranti in Regione
Roberto Maroni
Roberto Maroni e tutto lo stato maggiore leghista che governa il Pirellone hanno un solo obiettivo: bloccare a ogni costo i profughi in arrivo in Regione. Con una corsa ad alzare i toni tra gli otto 'padani' duri e puri (su 15) che siedono in giunta come assessori.
Elevandosi a paladino dei lombardi, Maroni attacca chiunque non la pensi come lui: «Questo è quello che ci aspetta da questo governo incapace e incompetente: questa invasione, non di profughi ma di clandestini, che sta arrivando, mi conferma quello che stiamo facendo. Cioè solo i cittadini lombardi meritano l’impegno della Regione».
Il motivo di tanta animosità lo ha spiegato a “l’Espresso” il sociologo dell’Università Statale di Milano Maurizio Ambrosini : «Si investe in politiche simboliche che non costano niente, ma servono a definire l’identità politica con la retorica. Da anni la comunicazione è diventata ricerca del consenso. E il consenso si ottiene con le politiche di esclusione che marcano i confini dell’appartenenza legittima».
«A casa nostra c’è spazio solo per i lumbard» è quindi diventato lo slogan esplicito. Così il bersaglio preferito della maggioranza con il fazzoletto verde sono gli stranieri, dimenticando il ruolo di rappresentanti della più popolosa regione italiana. E alzando barriere che sono soprattutto leggi e norme fortemente ideologiche e usando i fondi regionali come una clava.
La scorsa estate è stato il turno dei prefetti e dei sindaci con una lettera che «diffidava dal portare in Lombardia nuovi clandestini». «Ai sindaci che dovessero accoglierli ridurremo i trasferimenti regionali come disincentivo alla gestione delle risorse. Poi chi lo fa violando la legge, violando le disposizioni che io ho dato, subirà questa conseguenza» spiegava Maroni, dimenticando che in caso di accoglienza “istituzionalizzata” ci sono fondi messi a disposizione dal Viminale.
Un anno dopo il copione si ripete e la polemica ruota intorno al campo base di Expo 2015. Mentre Comune di Milano e ministero dell’Interno cercano una soluzione per migliaia di arrivi nella metropoli, il governatore rema contro spiegando la sua idea di accoglienza: «I migranti rimarranno nell’area Expo per anni, non solo per mesi. Ho espresso la mia opinione che coincide con l'opinione di tanti: quell’area non può essere destinata ad accogliere clandestini ma quell'area ha un’altra destinazione».
Venerdì scorso durante la riunione del collegio dei liquidatori di Expo 2015 l’avvocato tuttofare di Bobo, Domenico Aiello , ha detto no al passaggio di consegne alla Prefettura. Indispensabile per far partire il contratto di chi dovrebbe assistere tutti i giorni i 150 profughi in arrivo a settembre nell’ex sito del grande evento.
Una decisione che fa infuriare Palazzo Marino e l’assessore al welfare Pierfrancesco Majorino: «Se la Regione continuerà questo irresponsabile ostruzionismo porteremo i profughi a Palazzo Lombardia. Non si può fare muro senza dare soluzioni».
Un altro fronte aperto sono le comunità montane, dove alcuni amministratori hanno aperto le porte ai migranti. Nell’occhio del ciclone quella della Valsassina che si sarebbe impegnata a stipulare accordi per il servizio di accoglienza dei richiedenti asilo e la gestione dei servizi connessi.
L'assessore regionale alla Sicurezza e Immigrazione, Simona Bordonali, ha dichiarato di essere pronta a rivalutare le modalità di finanziamento: «Apprendiamo con stupore l’apertura del bando. Sembrerebbe che la comunità montana della Valsassina si voglia sostituire in toto alle funzioni normalmente svolte dalla Prefettura. Si tratta di un ruolo che non compete alle comunità montane e che comporta inevitabili risvolti politici e amministrativi che valuteremo fino in fondo».
L’autonomia locale e il principio di sussidiarietà tanto caro a Umberto Bossi in questo caso non vale.
Non proprio un bel biglietto da visita il tira e molla di un anno fa tra Parco dei Colli di Bergamo e il governo regionale che aveva minacciato di tagliare i fondi se fossero arrivati 41 richiedenti asilo su richiesta della Prefettura.
Dopo varie minacce era arrivata al parlamentino una delibera su misura della responsabile all’Ambiente Claudia Terzi: «La Regione e i soldi dei lombardi per i suoi parchi sono destinati per fini di recupero, conservativi e di valorizzazione dei beni naturali e ambientali. Le risorse finanziarie sono assegnate con queste finalità e obiettivi. Dunque non certo per utilizzi impropri, come il ricovero di richiedenti asilo. Non è stato facile tagliare le risorse al Parco dei Colli, ma purtroppo è stato l’unico e il solo ad avere scelto di gestire i beni in altro modo».
Ecco come si rimettono in riga gli amministratori locali: niente fondi se uscite dal seminato. E niente fondi se di fronte ad un'emergenza umanitaria cercate di fare la vostra parte.
© Riproduzione riservata 03 agosto 2016
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
QUALE SCOPPIERA' PER PRIMA???
LOMBARDIA
Lega e Maroni, fronte anti migranti in Regione
«I profughi sono clandestini». «Invasione». Sono i toni della Lega al potere in Lombardia. Un muro contro muro con il Comune di Milano e il governo per la gestione dei migranti, a partire dall'uso della zona in cui si è svolta Expo 2015. E con la minaccia di togliere i fondi alle comunità montane pronte ad ospitare
DI MICHELE SASSO
03 agosto 2016
Lega e Maroni, fronte anti migranti in Regione
Roberto Maroni
Roberto Maroni e tutto lo stato maggiore leghista che governa il Pirellone hanno un solo obiettivo: bloccare a ogni costo i profughi in arrivo in Regione. Con una corsa ad alzare i toni tra gli otto 'padani' duri e puri (su 15) che siedono in giunta come assessori.
Elevandosi a paladino dei lombardi, Maroni attacca chiunque non la pensi come lui: «Questo è quello che ci aspetta da questo governo incapace e incompetente: questa invasione, non di profughi ma di clandestini, che sta arrivando, mi conferma quello che stiamo facendo. Cioè solo i cittadini lombardi meritano l’impegno della Regione».
Il motivo di tanta animosità lo ha spiegato a “l’Espresso” il sociologo dell’Università Statale di Milano Maurizio Ambrosini : «Si investe in politiche simboliche che non costano niente, ma servono a definire l’identità politica con la retorica. Da anni la comunicazione è diventata ricerca del consenso. E il consenso si ottiene con le politiche di esclusione che marcano i confini dell’appartenenza legittima».
«A casa nostra c’è spazio solo per i lumbard» è quindi diventato lo slogan esplicito. Così il bersaglio preferito della maggioranza con il fazzoletto verde sono gli stranieri, dimenticando il ruolo di rappresentanti della più popolosa regione italiana. E alzando barriere che sono soprattutto leggi e norme fortemente ideologiche e usando i fondi regionali come una clava.
La scorsa estate è stato il turno dei prefetti e dei sindaci con una lettera che «diffidava dal portare in Lombardia nuovi clandestini». «Ai sindaci che dovessero accoglierli ridurremo i trasferimenti regionali come disincentivo alla gestione delle risorse. Poi chi lo fa violando la legge, violando le disposizioni che io ho dato, subirà questa conseguenza» spiegava Maroni, dimenticando che in caso di accoglienza “istituzionalizzata” ci sono fondi messi a disposizione dal Viminale.
Un anno dopo il copione si ripete e la polemica ruota intorno al campo base di Expo 2015. Mentre Comune di Milano e ministero dell’Interno cercano una soluzione per migliaia di arrivi nella metropoli, il governatore rema contro spiegando la sua idea di accoglienza: «I migranti rimarranno nell’area Expo per anni, non solo per mesi. Ho espresso la mia opinione che coincide con l'opinione di tanti: quell’area non può essere destinata ad accogliere clandestini ma quell'area ha un’altra destinazione».
Venerdì scorso durante la riunione del collegio dei liquidatori di Expo 2015 l’avvocato tuttofare di Bobo, Domenico Aiello , ha detto no al passaggio di consegne alla Prefettura. Indispensabile per far partire il contratto di chi dovrebbe assistere tutti i giorni i 150 profughi in arrivo a settembre nell’ex sito del grande evento.
Una decisione che fa infuriare Palazzo Marino e l’assessore al welfare Pierfrancesco Majorino: «Se la Regione continuerà questo irresponsabile ostruzionismo porteremo i profughi a Palazzo Lombardia. Non si può fare muro senza dare soluzioni».
Un altro fronte aperto sono le comunità montane, dove alcuni amministratori hanno aperto le porte ai migranti. Nell’occhio del ciclone quella della Valsassina che si sarebbe impegnata a stipulare accordi per il servizio di accoglienza dei richiedenti asilo e la gestione dei servizi connessi.
L'assessore regionale alla Sicurezza e Immigrazione, Simona Bordonali, ha dichiarato di essere pronta a rivalutare le modalità di finanziamento: «Apprendiamo con stupore l’apertura del bando. Sembrerebbe che la comunità montana della Valsassina si voglia sostituire in toto alle funzioni normalmente svolte dalla Prefettura. Si tratta di un ruolo che non compete alle comunità montane e che comporta inevitabili risvolti politici e amministrativi che valuteremo fino in fondo».
L’autonomia locale e il principio di sussidiarietà tanto caro a Umberto Bossi in questo caso non vale.
Non proprio un bel biglietto da visita il tira e molla di un anno fa tra Parco dei Colli di Bergamo e il governo regionale che aveva minacciato di tagliare i fondi se fossero arrivati 41 richiedenti asilo su richiesta della Prefettura.
Dopo varie minacce era arrivata al parlamentino una delibera su misura della responsabile all’Ambiente Claudia Terzi: «La Regione e i soldi dei lombardi per i suoi parchi sono destinati per fini di recupero, conservativi e di valorizzazione dei beni naturali e ambientali. Le risorse finanziarie sono assegnate con queste finalità e obiettivi. Dunque non certo per utilizzi impropri, come il ricovero di richiedenti asilo. Non è stato facile tagliare le risorse al Parco dei Colli, ma purtroppo è stato l’unico e il solo ad avere scelto di gestire i beni in altro modo».
Ecco come si rimettono in riga gli amministratori locali: niente fondi se uscite dal seminato. E niente fondi se di fronte ad un'emergenza umanitaria cercate di fare la vostra parte.
© Riproduzione riservata 03 agosto 2016
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
A NOI FA DIFETTO LA MEMORIA.
ALLORA, 1956, SE VOLEVI LAVORARE, ANCHE DOPO 11 ANNI DALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE DOVEVI EMIGRARE.
MA NESSUNO NELLO STIVALE RITENEVA CHE FOSSE "SCONVENIENTE".
SOPRATUTTO VERSO I PAESI DI DESTINAZIONE.
ANZI. MENO MALE CHE QUALCUNO FACEVA LAVORARE GLI ITALIANI.
ANCORA OGGI POMERIGGIO, UN COETANEO, DI ORIGINE VENETA, ARRIVATO A MILANO DA BAMBINO, DOPO L'INONDAZIONE DEL POLESINE, QUINDI DI FATTO UN EMIGRATO PURE LUI, SI SENTIVA SOFFOCARE PER LA PRESENZA MASSICCIA DI ARABI, ALL'INTERNO DEL BAR DELL'ESSELUNGA DI CAPROTTI.
MI SONO GIRATO PER VEDERE I FIGLI DI ALLAH CHE LO OPPRIMEVANO.
NIENTE. MANCO L'OMBRA.
ALLORA IL SOSTENITORE DI SALVINI MI INDICA DI GUARDARE A DESTRA.
IN FONDO, IN UN ANGOLO, CI STAVA SEDUTA UNA COPPIA CON BAMBINO IN CARROZZINA.
SOLO QUELLI GLI PROCURAVANO SOFFOCAMENTO.
SUL FATTO DI STAMANI, UN SERVIZIO PRECISAVA CHE GLI IMMIGRATI SONO IL 9% MA LI CREDIAMO IL 26%.
I MUSULMANI SONO L'8 % MA CI SEMBRANO IL 33%.
ANNIVERSARI
Marcinelle sessant'anni dopo. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956.
Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Muoiono 262 minatori, e di questi 136 sono italiani
DI MAURIZIO DI FAZIO
01 agosto 2016
Ha scritto Paolo Di Stefano nel suo “La Catastrofa” (Sellerio, 2011) : “Troviamo tutti i nomi dell’Italia di sempre, Antonio, Giovanni, Mario… e i nomi delle tante Italie di un tempo. Nomi-casa, nomi-memoria, nomi-storia, nomi-simbolo, nomi-speranza, nomi-destino: (tra gli altri) Bartolomeo, Santino, Valente, Camillo, Modesto, Primo, Secondo, Terzo, Annibale, Benito, Adolfo, Assunto, Felice, Liberato, Calogero, Otello, Abramo. E Rocco. Si ripete cinque volte il nome Rocco, tra i morti dell’8 agosto 1956: c’è persino un Rocco Vita”.
Sessant’anni dalla più immane tragedia del lavoro italiano all’estero. Dalla strage di guerra in tempo di pace di Marcinelle. Divampata alle otto e dieci del mattino. Un addetto ai carrelli fa risalire nel momento sbagliato un montacarichi, che sbatte contro una trave metallica che va a squarciare un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa.
L’incendio è immediato e micidiale, non lascia scampo, anche perché in quel complesso di antica estrazione (dallo smantellamento più volte rinviato) tutte le strutture sono ancora in legno. Il sistema di sicurezza è inchiodato all’ottocento. Non sono in dotazione nemmeno le maschere con l’ossigeno e così quasi tutti moriranno soffocati dall’ossido di carbonio, di concerto col lavorio infame delle fiamme. Soltanto dodici i superstiti.
Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Crepano 262 minatori, e di questi 136 sono italiani.
Quasi la metà di loro, nel numero di 60, è abruzzese; ben 23 vittime provengono da Manoppello, un impalpabile paesino accartocciato ai piedi di Chieti, emigrato in blocco in Vallonia e altrove perché a casa propria il lavoro era un po’ come la materia oscura dell’universo (e senza effetti gravitazionali). Gli altri arrivano dalle altre regioni del mezzogiorno e del nord-est, spesso portandosi dietro la famiglia al completo.
Marcinelle: un’indicibile calamità innaturale, abruzzese, italiana e mondiale seguita (per la prima volta) in diretta dai media internazionali ora dopo ora. Le operazioni di salvataggio dureranno due settimane, al cospetto di una folla disciplinata e sgomenta: i parenti di chi è rimasto sepolto per sempre nel sottofondo delle viscere della terra. Almeno prima erano tumulati sì, ma vivi. Pregano nel dialetto natìo le centinaia di mogli e figli; invocano, invano, Santa Barbara. Il 23 agosto, l’annuncio ferale: “Sono tutti morti”. Gli ultimi li hanno rinvenuti a 1.035 metri di profondità. Abbracciati gli uni agli altri. Solidali e impavidi fino all’ultimo respiro.
Dal 1990 la miniera del Bois du Cazier è un monumento storico; un luogo della memoria. Nel 2001 è stata introdotta nel nostro calendario civile la “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”: ricorre non a caso ogni 8 agosto, anniversario di Marcinelle.
Nel 2012 la silicosi, il morbo del minatore, era ancora la malattia professionale più diffusa in Belgio, nonché la principale causa di morte nella popolazione. Nel 1956 a lasciarci la pelle erano stati contadini per lo più: un esercito sub-industriale di riserva in esubero in quell’Italia Anno Zero del dopoguerra. La carica dei macaronì, come venivano chiamati con una punta di disprezzo.
Era il frutto dell’accordo siglato tra Roma e Bruxelles nel 1948, sulla falsariga perfetta di quello con la Germania nazista del 1937: braccia (duemila nuovi minatori tricolori a settimana) in cambio di carbone (duecento chili per ogni nostro lavoratore). Solo che il carbone arrivò molto di rado a destinazione, e questi poveri diavoli si spensero a venti, trenta o quarant’anni nella strenua e beffarda speranza di un futuro migliore.
Anime pure, non ne avevano percepito l’inganno intrinseco. Pensavano finalmente di scegliere per se stessi, dopo secoli di subalternità, e invece erano precettati con furbizia; si credevano autonomi quando stavano firmando per la loro nuova schiavitù: minatori volontari, ma fortemente indotti.
“Regolari o irregolari, l’importante era che ne partissero il più possibile per andare a scavare nelle viscere della terra quel carbone che sarebbe dovuto servire per il rilancio economico della disastrata Italia” scrive lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi in “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone”, da poco uscito per Donzelli.
Tra il 1945 e il 1950, il 45% dei maschi maggiorenni dello Stivale sognava di espatriare. Si partiva a cuor leggero e con febbrile entusiasmo, sulla scorta di quegli affascinanti manifesti rosa che tappezzavano tutte le città e cittadine della neonata Repubblica italiana: “Operai italiani! Condizioni particolarmente vantaggiose per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe”.
Seguiva elenco lirico delle mirabili e progressive novità che li attendevano sul posto: “ottimi salari giornalieri, premi temporanei, assegni familiari, scorte di carbone gratuito, biglietti ferroviari gratis, premi di natalità, ferie, possibilità di rimesse per l’Italia, facilità di alloggio”. E graziose casette in legno e mattoni per i minatori con familiari al seguito. Ecco quello che molti di loro poi effettivamente trovavano nella dura prosa del distretto minerario di Charleroi (oggi meta di rapidi e confortevoli voli low cost), dopo viaggi estenuanti in treno lunghi anche due giorni e mezzo: baracche prive di acqua, gas, bagno interno, elettricità, e a volte persino del tetto. Stamberghe che pochi anni prima avevano ospitato, mutatis mutandis, i prigionieri di guerra russi e tedeschi.
Al centro della scena, e dei retroscena, la cosiddetta battaglia del carbone. L’Italia che riaffiorava dalla seconda guerra mondiale era una nazione agricola, “povera e affamata di carbone, che all’epoca rappresentava la fonte energetica primaria” (nel 1944 il 92 per cento dell’energia prodotta derivava dal carbone). No carbone, no ricostruzione. L’equazione fu presto fatta: noi straripiamo di disoccupati, il Belgio possiede miniere a volontà? Allora facciamo uno scambio equo.
Anche perché i minatori autoctoni non volevano più calarsi negli abissi del sottosuolo: troppo rischioso e potenzialmente letale. E per ovvi motivi non si poteva più contare sull’apporto dei prigionieri di guerra. Non restava che imbarcare quote cospicue di “libera” manodopera straniera: “Non volevamo i lavoratori stranieri, ma abbiamo dovuto cercarli per sopravvivere economicamente”.
Nuovi prigionieri in tempo di pace. Porte aperte agli italiani. Benvenuti, macaronì! Tappeti stesi rosso sporco-sangue&fuliggine per voi. Lo scambio minatore-carbone (ribattezzato, non a caso, “accordo di deportazione”) divenne una priorità nazionale e bipartisan tanto a Roma quanto a Bruxelles. Dal 1948 al 1955, in base alle cifre ufficiali, furono più di 180 mila gli italiani che passarono per le miniere belghe.
L’impatto era traumatico, terribile. Per la grande maggioranza di loro, ragazzi di campagna “partiti con il sole, con il cielo splendido” si trattava del debutto nel ventre inglorioso della terra. Così “dopo le prime ore in fondo alla mina (cioè la miniera), in media 250-500 minatori – un quarto, se non a volte la metà dell’intero contingente arrivato – stracciavano il contratto chiedendo a tutti i costi di essere destinati ad altra occupazione, se non addirittura di essere rimpatriati immediatamente” afferma Ricciardi.
Era fulmineo, era irrefrenabile il desiderio collettivo di tornarsene a casa. Meglio la miseria della vita nei campi, ma col sole in faccia, di quelle discese quotidiane nel regno delle ombre roventi. A mille metri sotto, rannicchiati dentro un buco in posizioni innaturali: se questo è un lavoro.
La reazione delle autorità belghe fu implacabile: far “soggiornare” in carcere tutti quelli che si rifiutavano di scendere in fondo alla mina. Si accavallano a migliaia le storie dei minatori trasferiti di forza al Petit-château, un carcere di fatto: “I malcapitati venivano stipati anche in quaranta in celle di dieci metri per cinque. La latrina era fatta da buglioli posti nell’angolo della stanza che venivano svuotati due volte al giorno, mentre i letti erano sacchi di paglia buttati sul pavimento. Per ripararsi dal freddo, visto che i vetri superiori delle finestre erano rotti, veniva concessa loro solo una piccola coperta”. Questo è il riassunto di un’ampia relazione che nell’ottobre del 1946 giaceva sulle scrivanie dei ministeri romani.
Già, perché le classi dirigenti sapevano. Sin dapprincipio. Conoscevano le “condizioni in cui vivevano e lavoravano decine di migliaia di minatori volontari indotti”. Andarono in visita al Bois du Cazier e dintorni Amintore Fanfani, allora ministro del lavoro; il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi; un giovanissimo Aldo Moro, l’unico a dipingere quell’occupazione come “abbrutente, inumana, svolta lontano dalla luce del sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore”.
Ha scritto la storica belga Anne Morelli: “L’Italia ha venduto i suoi figli? La responsabilità dei governanti italiani dell’epoca è molto pesante. Hanno inviato coscientemente migliaia di giovani in perfetta salute sapendo molto bene ciò che li attendeva. Sapevano perché i belgi non scendevano più nelle miniere. Ciò malgrado, i dirigenti italiani hanno finto di non esserne al corrente. Oggi tutti quelli che hanno fatto un’intera carriera nelle miniere sono morti al prezzo di terribili sofferenze. Li hanno venduti”.
Tra i suoi effetti collaterali, il disastro di Marcinelle ha portato alla ribalta mediatica mondiale località e frazioni mai udite prima. A cominciare dal comune abruzzese di Manoppello (oggi noto per aver dato i natali al calciatore Marco Verratti), che contava settemila abitanti e “proprio in Belgio aveva esportato, dal 1946, 325 uomini”: quell’8 agosto del 1956 ne morirono 23 di cittadini manoppellesi in miniera. Un paese disseminato nel mondo: chi in America Latina, chi nell’America del nord, o in Australia.
Ne ripercorre la sventura Annacarla Valeriano, autrice del capitolo che conclude il saggio di Toni Ricciardi: “Ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei quotidiani, le fotografie delle vedove e degli orfani perché l’Italia si domandi dov’è Manoppello e perché la gente di questo paese è così povera e che cosa si può fare per sollevarla dalla miseria senza mandarla a morire in Belgio. Diciamo subito che non si può fare niente, perché il tessuto sociale di Manoppello, il connettivo che tiene insieme duecento case del paese intorno alla parrocchia è proprio la miseria.
La miseria a Manoppello è quello che è a Ivrea la Olivetti, la Fiat a Torino, il porto a Genova, i commerci e l’industria a Milano, la burocrazia a Roma” tratteggiò un cronista de “Il Giorno”. A Manoppello c’era “un solo cinema che costa cento lire e mette in programma soltanto vecchi film tagliati e mal ridotti” e si vendeva “tutto a crediti con la “libretta”, il pane, la pasta, persino il latte, persino il formaggino, persino i lacci delle scarpe, tutto si vende a credito” aggiunse l’inviato dell’Unità.
Giungeva da Turrivalignani (cinque chilometri a ovest di Manoppello) Cesare Di Berardino, il nonno di Enrica Buccione, la ragazza che lo scorso 22 giugno ha tenuto un memorabile discorso al Parlamento europeo di Bruxelles: “Io sono la nipote di una vittima. Quel tragico 8 agosto del 1956 mio nonno Cesare perse la vita insieme ad altri cinque familiari e a molti altri amici. Mia nonna rimase vedova a 35 anni con quattro bambine. E sono un'emigrante di terza generazione. Ho trascorso la maggior parte della mia vita in Italia. Lo scorso ottobre mi sono trasferita qui a Bruxelles con mio marito e un bimbo in grembo, alla ricerca delle mie radici”.
Annacarla Valeriano: “I minatori di Marcinelle erano partiti da questi contesti, da questi luoghi intrisi di desolazione muta in cui si campava a stento nella speranza di migliorare la loro vita; una volta in Belgio, avevano dovuto accettare, insieme alle loro famiglie, una quotidianità ancora più pesante”. La morte era sempre in agguato: “Si avevano delle mascherine di plastica in dotazione, ma venivano puntualmente tolte, arrivati in fondo, perché il caldo era insopportabile e si arrivava zuppi di sudore. Tutti avevano paura, lì sotto. Il grisou (un gas combustibile inodore e incolore) faceva morti di frequente, perché faceva addormentare le persone. Molti morirono così, andando per un bisogno e non tornando più” racconta l’ex minatore di Marcinelle Sergio Aliboni a Martina Buccione in “La nostra Marcinelle” (edizioni Menabò).
Tutti morti, e tutti assolti nell’apocalisse sotterranea del 1956. Bastò esibire due mostri sacrificali qualunque. Per la commissione che fu chiamata a indagare, l’incidente era stato provocato dall’errata manovra compiuta da Antonio Iannetta, un 28enne di Bojano, un piccolo borgo del Molise famoso per le mozzarelle. Iannetta non capiva quasi per niente il francese e non riusciva a eseguire correttamente quello che gli veniva richiesto.
La prima sentenza del 1959 mandò tutti assolti, e solo nel processo d’appello di due anni dopo la catastrofe venne considerata di origine colposa: ne era responsabile il direttore dei lavori del complesso minerario antidiluviano, il signor Adolphe Calicis. Per lui sei mesi di reclusione con la condizionale più una multa di duemila franchi.
Tutti gli altri, innocenti e immacolati. Eppure già all’alba dell’orribile ‘56 il ministro belga Jean Rey aveva divulgato i “codici” della grande carneficina annunciata: dal gennaio 1947 al dicembre del 1955, i morti nelle miniere del Paese erano stati 1164. Quasi la metà italiani. “In realtà, la mattanza fu ben più alta. Dal 1841 al 1965 furono circa 170 l’anno, per un totale di oltre 21 mila in poco più di un secolo. Solo nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1965, si sono registrate 3400 vittime” specifica Ricciardi.
E c’è la storia di Maria. Maria che non ha “conosciuto mai la faccia di un politico”, dopo il fattaccio. Maria che suo marito Camillo, falciato poco più che ventenne a Marcinelle, lui che “voleva morire di vecchiaia, non di silicosi”, non l’ha mai abbandonata veramente. Maria che il giorno in cui il corpo di suo marito rientrava a Manoppello, a tre mesi e mezzo dal misfatto, era in ospedale. Maria che negli istanti esatti in cui la cassa di suo marito Camillo sfilava in funerale per le vie del paese, stava partorendo la loro Camilla. Maria che da sola cristallizza e sublima il ricordo di quella vergognosa “Catastrofa”.
Di questi 262 minatori, martiri indotti. Morti d’emigrazione. Di silenzio. Di indignazione. Per il lavoro. Per il carbone. Per una vita migliore. Per il futuro. Per l’Europa unita. Per tutte le Manoppello, Lettomanoppello e Turrivalignani d’Europa. Per tutti i loro cari. Per non farli preoccupare. Per dare sostegno a chi se n’era rimasto al paesello. Per ridare fiato alla nostra industria. Per il benessere della nazione. Per la tenuta della famiglia. Per rimpatriare il prima possibile. Per il primo treno utile. Per affanno. Per l’inganno. Per il dolore. Per amore.
© Riproduzione riservata 01 agosto 2016
ALLORA, 1956, SE VOLEVI LAVORARE, ANCHE DOPO 11 ANNI DALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE DOVEVI EMIGRARE.
MA NESSUNO NELLO STIVALE RITENEVA CHE FOSSE "SCONVENIENTE".
SOPRATUTTO VERSO I PAESI DI DESTINAZIONE.
ANZI. MENO MALE CHE QUALCUNO FACEVA LAVORARE GLI ITALIANI.
ANCORA OGGI POMERIGGIO, UN COETANEO, DI ORIGINE VENETA, ARRIVATO A MILANO DA BAMBINO, DOPO L'INONDAZIONE DEL POLESINE, QUINDI DI FATTO UN EMIGRATO PURE LUI, SI SENTIVA SOFFOCARE PER LA PRESENZA MASSICCIA DI ARABI, ALL'INTERNO DEL BAR DELL'ESSELUNGA DI CAPROTTI.
MI SONO GIRATO PER VEDERE I FIGLI DI ALLAH CHE LO OPPRIMEVANO.
NIENTE. MANCO L'OMBRA.
ALLORA IL SOSTENITORE DI SALVINI MI INDICA DI GUARDARE A DESTRA.
IN FONDO, IN UN ANGOLO, CI STAVA SEDUTA UNA COPPIA CON BAMBINO IN CARROZZINA.
SOLO QUELLI GLI PROCURAVANO SOFFOCAMENTO.
SUL FATTO DI STAMANI, UN SERVIZIO PRECISAVA CHE GLI IMMIGRATI SONO IL 9% MA LI CREDIAMO IL 26%.
I MUSULMANI SONO L'8 % MA CI SEMBRANO IL 33%.
ANNIVERSARI
Marcinelle sessant'anni dopo. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956.
Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Muoiono 262 minatori, e di questi 136 sono italiani
DI MAURIZIO DI FAZIO
01 agosto 2016
Ha scritto Paolo Di Stefano nel suo “La Catastrofa” (Sellerio, 2011) : “Troviamo tutti i nomi dell’Italia di sempre, Antonio, Giovanni, Mario… e i nomi delle tante Italie di un tempo. Nomi-casa, nomi-memoria, nomi-storia, nomi-simbolo, nomi-speranza, nomi-destino: (tra gli altri) Bartolomeo, Santino, Valente, Camillo, Modesto, Primo, Secondo, Terzo, Annibale, Benito, Adolfo, Assunto, Felice, Liberato, Calogero, Otello, Abramo. E Rocco. Si ripete cinque volte il nome Rocco, tra i morti dell’8 agosto 1956: c’è persino un Rocco Vita”.
Sessant’anni dalla più immane tragedia del lavoro italiano all’estero. Dalla strage di guerra in tempo di pace di Marcinelle. Divampata alle otto e dieci del mattino. Un addetto ai carrelli fa risalire nel momento sbagliato un montacarichi, che sbatte contro una trave metallica che va a squarciare un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa.
L’incendio è immediato e micidiale, non lascia scampo, anche perché in quel complesso di antica estrazione (dallo smantellamento più volte rinviato) tutte le strutture sono ancora in legno. Il sistema di sicurezza è inchiodato all’ottocento. Non sono in dotazione nemmeno le maschere con l’ossigeno e così quasi tutti moriranno soffocati dall’ossido di carbonio, di concerto col lavorio infame delle fiamme. Soltanto dodici i superstiti.
Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Crepano 262 minatori, e di questi 136 sono italiani.
Quasi la metà di loro, nel numero di 60, è abruzzese; ben 23 vittime provengono da Manoppello, un impalpabile paesino accartocciato ai piedi di Chieti, emigrato in blocco in Vallonia e altrove perché a casa propria il lavoro era un po’ come la materia oscura dell’universo (e senza effetti gravitazionali). Gli altri arrivano dalle altre regioni del mezzogiorno e del nord-est, spesso portandosi dietro la famiglia al completo.
Marcinelle: un’indicibile calamità innaturale, abruzzese, italiana e mondiale seguita (per la prima volta) in diretta dai media internazionali ora dopo ora. Le operazioni di salvataggio dureranno due settimane, al cospetto di una folla disciplinata e sgomenta: i parenti di chi è rimasto sepolto per sempre nel sottofondo delle viscere della terra. Almeno prima erano tumulati sì, ma vivi. Pregano nel dialetto natìo le centinaia di mogli e figli; invocano, invano, Santa Barbara. Il 23 agosto, l’annuncio ferale: “Sono tutti morti”. Gli ultimi li hanno rinvenuti a 1.035 metri di profondità. Abbracciati gli uni agli altri. Solidali e impavidi fino all’ultimo respiro.
Dal 1990 la miniera del Bois du Cazier è un monumento storico; un luogo della memoria. Nel 2001 è stata introdotta nel nostro calendario civile la “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”: ricorre non a caso ogni 8 agosto, anniversario di Marcinelle.
Nel 2012 la silicosi, il morbo del minatore, era ancora la malattia professionale più diffusa in Belgio, nonché la principale causa di morte nella popolazione. Nel 1956 a lasciarci la pelle erano stati contadini per lo più: un esercito sub-industriale di riserva in esubero in quell’Italia Anno Zero del dopoguerra. La carica dei macaronì, come venivano chiamati con una punta di disprezzo.
Era il frutto dell’accordo siglato tra Roma e Bruxelles nel 1948, sulla falsariga perfetta di quello con la Germania nazista del 1937: braccia (duemila nuovi minatori tricolori a settimana) in cambio di carbone (duecento chili per ogni nostro lavoratore). Solo che il carbone arrivò molto di rado a destinazione, e questi poveri diavoli si spensero a venti, trenta o quarant’anni nella strenua e beffarda speranza di un futuro migliore.
Anime pure, non ne avevano percepito l’inganno intrinseco. Pensavano finalmente di scegliere per se stessi, dopo secoli di subalternità, e invece erano precettati con furbizia; si credevano autonomi quando stavano firmando per la loro nuova schiavitù: minatori volontari, ma fortemente indotti.
“Regolari o irregolari, l’importante era che ne partissero il più possibile per andare a scavare nelle viscere della terra quel carbone che sarebbe dovuto servire per il rilancio economico della disastrata Italia” scrive lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi in “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone”, da poco uscito per Donzelli.
Tra il 1945 e il 1950, il 45% dei maschi maggiorenni dello Stivale sognava di espatriare. Si partiva a cuor leggero e con febbrile entusiasmo, sulla scorta di quegli affascinanti manifesti rosa che tappezzavano tutte le città e cittadine della neonata Repubblica italiana: “Operai italiani! Condizioni particolarmente vantaggiose per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe”.
Seguiva elenco lirico delle mirabili e progressive novità che li attendevano sul posto: “ottimi salari giornalieri, premi temporanei, assegni familiari, scorte di carbone gratuito, biglietti ferroviari gratis, premi di natalità, ferie, possibilità di rimesse per l’Italia, facilità di alloggio”. E graziose casette in legno e mattoni per i minatori con familiari al seguito. Ecco quello che molti di loro poi effettivamente trovavano nella dura prosa del distretto minerario di Charleroi (oggi meta di rapidi e confortevoli voli low cost), dopo viaggi estenuanti in treno lunghi anche due giorni e mezzo: baracche prive di acqua, gas, bagno interno, elettricità, e a volte persino del tetto. Stamberghe che pochi anni prima avevano ospitato, mutatis mutandis, i prigionieri di guerra russi e tedeschi.
Al centro della scena, e dei retroscena, la cosiddetta battaglia del carbone. L’Italia che riaffiorava dalla seconda guerra mondiale era una nazione agricola, “povera e affamata di carbone, che all’epoca rappresentava la fonte energetica primaria” (nel 1944 il 92 per cento dell’energia prodotta derivava dal carbone). No carbone, no ricostruzione. L’equazione fu presto fatta: noi straripiamo di disoccupati, il Belgio possiede miniere a volontà? Allora facciamo uno scambio equo.
Anche perché i minatori autoctoni non volevano più calarsi negli abissi del sottosuolo: troppo rischioso e potenzialmente letale. E per ovvi motivi non si poteva più contare sull’apporto dei prigionieri di guerra. Non restava che imbarcare quote cospicue di “libera” manodopera straniera: “Non volevamo i lavoratori stranieri, ma abbiamo dovuto cercarli per sopravvivere economicamente”.
Nuovi prigionieri in tempo di pace. Porte aperte agli italiani. Benvenuti, macaronì! Tappeti stesi rosso sporco-sangue&fuliggine per voi. Lo scambio minatore-carbone (ribattezzato, non a caso, “accordo di deportazione”) divenne una priorità nazionale e bipartisan tanto a Roma quanto a Bruxelles. Dal 1948 al 1955, in base alle cifre ufficiali, furono più di 180 mila gli italiani che passarono per le miniere belghe.
L’impatto era traumatico, terribile. Per la grande maggioranza di loro, ragazzi di campagna “partiti con il sole, con il cielo splendido” si trattava del debutto nel ventre inglorioso della terra. Così “dopo le prime ore in fondo alla mina (cioè la miniera), in media 250-500 minatori – un quarto, se non a volte la metà dell’intero contingente arrivato – stracciavano il contratto chiedendo a tutti i costi di essere destinati ad altra occupazione, se non addirittura di essere rimpatriati immediatamente” afferma Ricciardi.
Era fulmineo, era irrefrenabile il desiderio collettivo di tornarsene a casa. Meglio la miseria della vita nei campi, ma col sole in faccia, di quelle discese quotidiane nel regno delle ombre roventi. A mille metri sotto, rannicchiati dentro un buco in posizioni innaturali: se questo è un lavoro.
La reazione delle autorità belghe fu implacabile: far “soggiornare” in carcere tutti quelli che si rifiutavano di scendere in fondo alla mina. Si accavallano a migliaia le storie dei minatori trasferiti di forza al Petit-château, un carcere di fatto: “I malcapitati venivano stipati anche in quaranta in celle di dieci metri per cinque. La latrina era fatta da buglioli posti nell’angolo della stanza che venivano svuotati due volte al giorno, mentre i letti erano sacchi di paglia buttati sul pavimento. Per ripararsi dal freddo, visto che i vetri superiori delle finestre erano rotti, veniva concessa loro solo una piccola coperta”. Questo è il riassunto di un’ampia relazione che nell’ottobre del 1946 giaceva sulle scrivanie dei ministeri romani.
Già, perché le classi dirigenti sapevano. Sin dapprincipio. Conoscevano le “condizioni in cui vivevano e lavoravano decine di migliaia di minatori volontari indotti”. Andarono in visita al Bois du Cazier e dintorni Amintore Fanfani, allora ministro del lavoro; il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi; un giovanissimo Aldo Moro, l’unico a dipingere quell’occupazione come “abbrutente, inumana, svolta lontano dalla luce del sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore”.
Ha scritto la storica belga Anne Morelli: “L’Italia ha venduto i suoi figli? La responsabilità dei governanti italiani dell’epoca è molto pesante. Hanno inviato coscientemente migliaia di giovani in perfetta salute sapendo molto bene ciò che li attendeva. Sapevano perché i belgi non scendevano più nelle miniere. Ciò malgrado, i dirigenti italiani hanno finto di non esserne al corrente. Oggi tutti quelli che hanno fatto un’intera carriera nelle miniere sono morti al prezzo di terribili sofferenze. Li hanno venduti”.
Tra i suoi effetti collaterali, il disastro di Marcinelle ha portato alla ribalta mediatica mondiale località e frazioni mai udite prima. A cominciare dal comune abruzzese di Manoppello (oggi noto per aver dato i natali al calciatore Marco Verratti), che contava settemila abitanti e “proprio in Belgio aveva esportato, dal 1946, 325 uomini”: quell’8 agosto del 1956 ne morirono 23 di cittadini manoppellesi in miniera. Un paese disseminato nel mondo: chi in America Latina, chi nell’America del nord, o in Australia.
Ne ripercorre la sventura Annacarla Valeriano, autrice del capitolo che conclude il saggio di Toni Ricciardi: “Ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei quotidiani, le fotografie delle vedove e degli orfani perché l’Italia si domandi dov’è Manoppello e perché la gente di questo paese è così povera e che cosa si può fare per sollevarla dalla miseria senza mandarla a morire in Belgio. Diciamo subito che non si può fare niente, perché il tessuto sociale di Manoppello, il connettivo che tiene insieme duecento case del paese intorno alla parrocchia è proprio la miseria.
La miseria a Manoppello è quello che è a Ivrea la Olivetti, la Fiat a Torino, il porto a Genova, i commerci e l’industria a Milano, la burocrazia a Roma” tratteggiò un cronista de “Il Giorno”. A Manoppello c’era “un solo cinema che costa cento lire e mette in programma soltanto vecchi film tagliati e mal ridotti” e si vendeva “tutto a crediti con la “libretta”, il pane, la pasta, persino il latte, persino il formaggino, persino i lacci delle scarpe, tutto si vende a credito” aggiunse l’inviato dell’Unità.
Giungeva da Turrivalignani (cinque chilometri a ovest di Manoppello) Cesare Di Berardino, il nonno di Enrica Buccione, la ragazza che lo scorso 22 giugno ha tenuto un memorabile discorso al Parlamento europeo di Bruxelles: “Io sono la nipote di una vittima. Quel tragico 8 agosto del 1956 mio nonno Cesare perse la vita insieme ad altri cinque familiari e a molti altri amici. Mia nonna rimase vedova a 35 anni con quattro bambine. E sono un'emigrante di terza generazione. Ho trascorso la maggior parte della mia vita in Italia. Lo scorso ottobre mi sono trasferita qui a Bruxelles con mio marito e un bimbo in grembo, alla ricerca delle mie radici”.
Annacarla Valeriano: “I minatori di Marcinelle erano partiti da questi contesti, da questi luoghi intrisi di desolazione muta in cui si campava a stento nella speranza di migliorare la loro vita; una volta in Belgio, avevano dovuto accettare, insieme alle loro famiglie, una quotidianità ancora più pesante”. La morte era sempre in agguato: “Si avevano delle mascherine di plastica in dotazione, ma venivano puntualmente tolte, arrivati in fondo, perché il caldo era insopportabile e si arrivava zuppi di sudore. Tutti avevano paura, lì sotto. Il grisou (un gas combustibile inodore e incolore) faceva morti di frequente, perché faceva addormentare le persone. Molti morirono così, andando per un bisogno e non tornando più” racconta l’ex minatore di Marcinelle Sergio Aliboni a Martina Buccione in “La nostra Marcinelle” (edizioni Menabò).
Tutti morti, e tutti assolti nell’apocalisse sotterranea del 1956. Bastò esibire due mostri sacrificali qualunque. Per la commissione che fu chiamata a indagare, l’incidente era stato provocato dall’errata manovra compiuta da Antonio Iannetta, un 28enne di Bojano, un piccolo borgo del Molise famoso per le mozzarelle. Iannetta non capiva quasi per niente il francese e non riusciva a eseguire correttamente quello che gli veniva richiesto.
La prima sentenza del 1959 mandò tutti assolti, e solo nel processo d’appello di due anni dopo la catastrofe venne considerata di origine colposa: ne era responsabile il direttore dei lavori del complesso minerario antidiluviano, il signor Adolphe Calicis. Per lui sei mesi di reclusione con la condizionale più una multa di duemila franchi.
Tutti gli altri, innocenti e immacolati. Eppure già all’alba dell’orribile ‘56 il ministro belga Jean Rey aveva divulgato i “codici” della grande carneficina annunciata: dal gennaio 1947 al dicembre del 1955, i morti nelle miniere del Paese erano stati 1164. Quasi la metà italiani. “In realtà, la mattanza fu ben più alta. Dal 1841 al 1965 furono circa 170 l’anno, per un totale di oltre 21 mila in poco più di un secolo. Solo nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1965, si sono registrate 3400 vittime” specifica Ricciardi.
E c’è la storia di Maria. Maria che non ha “conosciuto mai la faccia di un politico”, dopo il fattaccio. Maria che suo marito Camillo, falciato poco più che ventenne a Marcinelle, lui che “voleva morire di vecchiaia, non di silicosi”, non l’ha mai abbandonata veramente. Maria che il giorno in cui il corpo di suo marito rientrava a Manoppello, a tre mesi e mezzo dal misfatto, era in ospedale. Maria che negli istanti esatti in cui la cassa di suo marito Camillo sfilava in funerale per le vie del paese, stava partorendo la loro Camilla. Maria che da sola cristallizza e sublima il ricordo di quella vergognosa “Catastrofa”.
Di questi 262 minatori, martiri indotti. Morti d’emigrazione. Di silenzio. Di indignazione. Per il lavoro. Per il carbone. Per una vita migliore. Per il futuro. Per l’Europa unita. Per tutte le Manoppello, Lettomanoppello e Turrivalignani d’Europa. Per tutti i loro cari. Per non farli preoccupare. Per dare sostegno a chi se n’era rimasto al paesello. Per ridare fiato alla nostra industria. Per il benessere della nazione. Per la tenuta della famiglia. Per rimpatriare il prima possibile. Per il primo treno utile. Per affanno. Per l’inganno. Per il dolore. Per amore.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
è un grosso problem , riflettere su questo
Dal 2011 sono passati da 11mila a 22mila all’anno
Raddoppiati i giovani espatriati
Dal 2011 al 2015 i giovani che
ogni anno varcano i confini nazionali
sono raddoppiati - da 11.550 a
22.500 - per un totale di quasi
241mila under 30 residenti all’estero.
In base ai dati dell’Aire,
che registra gli italiani che risiedono
oltreconfine per un periodo superiore
a 12 mesi, le principali mete
nel 2015 sono state Regno Unito,
Germania, Svizzera e Francia.
Servizio u pagina 9
Dal 2011 sono passati da 11mila a 22mila all’anno
Raddoppiati i giovani espatriati
Dal 2011 al 2015 i giovani che
ogni anno varcano i confini nazionali
sono raddoppiati - da 11.550 a
22.500 - per un totale di quasi
241mila under 30 residenti all’estero.
In base ai dati dell’Aire,
che registra gli italiani che risiedono
oltreconfine per un periodo superiore
a 12 mesi, le principali mete
nel 2015 sono state Regno Unito,
Germania, Svizzera e Francia.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
LAVORO & PRECARI
Marcinelle, quando i senza diritti erano italiani
Lavoro & Precari
di Beppe Giulietti | 8 agosto 2016
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L’8 agosto del 1956 si consumava il disastro di Marcinelle: oltre 260 minatori morivano dentro una miniera di carbone, oltre la metà erano arrivati dall’Italia. A distanza di 60 anni non mancheranno il ricordo e la commozione delle comunità che portano ancora i segni di quella ferita. Di quei giorni, tuttavia, bisognerà ricordare anche altro, a cominciare dall’intesa tra il governo belga e quello italiano che prevedeva uno scambio tra il carbone e la forza lavoro a basso costo. Migliaia di manifesti rosa, attaccati nelle zone più povere di Italia, promettevano salati più alti, pensioni, tutela sanitaria, una vita migliore.
Al loro arrivo gli emigrati trovarono una realtà ben diversa, fatta da baracche in comune, razzismo diffuso, promesse non mantenute, orari di lavoro massacranti, lavoro a cottimo, straordinari obbligatori a ritmi sfiancanti, aggiramento delle normative sulla sicurezza sul lavoro. Persino dopo il massacro, non mancò chi, anche nel governo belga, tentò di puntare il dito contro gli italiani “imbecilli e fannulloni” e si appellò a quella “tragica fatalità” che, allora come oggi, serve a cancellare le responsabilità umane.
Non a caso per il massacro di Marcinelle non ha mai pagato nessuno; eppure le cause affondavano proprio nell’organizzazione del lavoro, nei ritmi orari, nell’ipersfruttamento dei minatori, nelle loro condizioni di salute, nella necessità di rischiare per guadagnare una lira in più da spedire a casa, nell’assenza dei diritti politici e sindacali.
Quei minatori morti a Marcinelle non erano tecnicamente dei “clandestini”, ma lo erano nei fatti, perché privati della possibilità di ribellarsi e di contrattare il presente e il futuro. Quei minatori erano simili a chi oggi raccoglie i pomodori in Italia o è costretto ai lavori più umilianti per poter sopravvivere, tra di loro corre il filo rosso che unisce chi ha subito emarginazione e razzismo.
Allo stesso modo un lungo filo nero unisce che ieri disprezzava i migranti italiani “senza diritti italiani” ed oggi disprezza i “senza diritti” di ogni fede arrivati in Italia
Marcinelle, quando i senza diritti erano italiani
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di Beppe Giulietti | 8 agosto 2016
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L’8 agosto del 1956 si consumava il disastro di Marcinelle: oltre 260 minatori morivano dentro una miniera di carbone, oltre la metà erano arrivati dall’Italia. A distanza di 60 anni non mancheranno il ricordo e la commozione delle comunità che portano ancora i segni di quella ferita. Di quei giorni, tuttavia, bisognerà ricordare anche altro, a cominciare dall’intesa tra il governo belga e quello italiano che prevedeva uno scambio tra il carbone e la forza lavoro a basso costo. Migliaia di manifesti rosa, attaccati nelle zone più povere di Italia, promettevano salati più alti, pensioni, tutela sanitaria, una vita migliore.
Al loro arrivo gli emigrati trovarono una realtà ben diversa, fatta da baracche in comune, razzismo diffuso, promesse non mantenute, orari di lavoro massacranti, lavoro a cottimo, straordinari obbligatori a ritmi sfiancanti, aggiramento delle normative sulla sicurezza sul lavoro. Persino dopo il massacro, non mancò chi, anche nel governo belga, tentò di puntare il dito contro gli italiani “imbecilli e fannulloni” e si appellò a quella “tragica fatalità” che, allora come oggi, serve a cancellare le responsabilità umane.
Non a caso per il massacro di Marcinelle non ha mai pagato nessuno; eppure le cause affondavano proprio nell’organizzazione del lavoro, nei ritmi orari, nell’ipersfruttamento dei minatori, nelle loro condizioni di salute, nella necessità di rischiare per guadagnare una lira in più da spedire a casa, nell’assenza dei diritti politici e sindacali.
Quei minatori morti a Marcinelle non erano tecnicamente dei “clandestini”, ma lo erano nei fatti, perché privati della possibilità di ribellarsi e di contrattare il presente e il futuro. Quei minatori erano simili a chi oggi raccoglie i pomodori in Italia o è costretto ai lavori più umilianti per poter sopravvivere, tra di loro corre il filo rosso che unisce chi ha subito emarginazione e razzismo.
Allo stesso modo un lungo filo nero unisce che ieri disprezzava i migranti italiani “senza diritti italiani” ed oggi disprezza i “senza diritti” di ogni fede arrivati in Italia
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Certo che e' un grosso problema sul quale nemmeno questa pseudo sinistra e mai stata in grado di sffrontarlo per cercare di risolverlo.camillobenso ha scritto:è un grosso problem , riflettere su questo
Dal 2011 sono passati da 11mila a 22mila all’anno
Raddoppiati i giovani espatriati
Dal 2011 al 2015 i giovani che
ogni anno varcano i confini nazionali
sono raddoppiati - da 11.550 a
22.500 - per un totale di quasi
241mila under 30 residenti all’estero.
In base ai dati dell’Aire,
che registra gli italiani che risiedono
oltreconfine per un periodo superiore
a 12 mesi, le principali mete
nel 2015 sono state Regno Unito,
Germania, Svizzera e Francia.
Servizio u pagina 9
Spesso in questi anni di fronte a questa esodo di massa (voluto ma fatto credere che fosse fisiologico come e' successo sempre) abbiamo contrapposto l'esempio delle nostre migrazione di un tempo verso quei paesi piu' felici di noi e su questo argomento gia' qualche anno fa mi ero espresso negativamente facendo presente che non era un pregio quello ma un difetto, (si fa per dire) perché 0 veri eroi erano quelli che rimanevano e lottavano in casa per rendere il paese un po migliore e per dare speranze alle nuove generazione nel far comprendere che tutto era possibile. Anche migliorare il proprio paese.
Scappare da situazioni di disagio e' spesso come lavarsene le mani. Certamente e' cosa pericolosa come lo fu per coloro che anziché espatriare un tempo salirono le montagne e decisero di combattere sapendo pure il rischio che correvano.
L'accoglienza e' un fatto di carita dovuto ma non dobbiamo fermarci su questo altrimenti non risolveremo mai il problema.
Anzi lo peggioreremo.
La Merkel ha visto molto più avanti di noi e ha anticipato l'accoglienza cercando di gestirla con l'accettare solo coloro il cui grado diesperienza e cultura era elevato. Non dico che questa sia la soluzione anzi, ma almeno in questo grande marasma europeo e' stata quella che ce lo ha messo in quel posto pur rimanendo nella stessa barca .
Ogni popolo deve farsi il proprio risorgimento e fare le proprie lotte poiche con lo scappare elimini i tuoi problemi momentanei problemi che poi te li trovi dove vai a chiedere asilo oltre a crearne con la tua cultura nei paesi in cui trovi ospitalità.
Lungi da me il problema etico e morale! Tocco la realta' nuda e cruda cosi' com'e'!
Le mescolanza etiche e religiose se non sono frutto di tempi lunghi sono difficili da integrare per non dire impossibili e le crisi monetarie le rendono ancora più impossibili.
continua......
un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Detratta la solita propaganda dalla destra, la notizia rimane.
"Gli immigrati devono morire". La frase choc del dirigente Pd tra amici e bambini
Salvatore Sbona, dirigente del Pd di Siracusa, ammette davanti ai bimbi e agli amici che se trovassero degli immigrati in mare durante la gita in barca li lasceranno morire tutti
Gabriele Bertocchi - Sab, 13/08/2016 - 10:24
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"Gli immigrati devono morire". È quanto pronunciato con un bel sorriso stampato in faccia, da Salvatore Sbona, Presidente del Consiglio comunale di Melilli (Siracusa), e segretario del circolo cittadino del Pd, davanti a un gruppo di bambini.
video
"Gli immigrati li lasciamo morire...
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 96429.html
Il video postato su Facebook
Il video (clicca qui per vedere la dichiarazione choc) che vede protagonista Salvatore Sbona, dirigente del Partito Democratico di Siracusa, è stato postato sul celebre social network creato da Mark Zuckemberg. Nel filmato, Sbona ammette, divertito tra amici e bambini, che "se durante il giro in barca troviamo degli immigrati, li dobbiamo lasciare la', perché devono morire".
"Bimbi se troviamo gli immigrati li lasciamo morire tutti in mare". La frase choc del dirigente Pd
Pubblica sul tuo sito
Un'affermazione che sottolinea (come se ce ne fosse ancora bisogno) l'ipocrisia che circola tra le file della sinistra italiana e, in questo caso, nel Pd. Un'ipocrisia che porta ad attaccare e criticare le idee e le possibili soluzioni ad una immigrazione incontrollata proposte dalla destra. (Clicca qui per il video)
È chiaro che il video dovesse rimanere privato, o tra amici. Ma per fortuna non è andata così. Le immagini apparse e riprese su Il Populista parlano chiaro: il Pd predica l'integrazione, ma il suo dirigente sembra preferisca una linea più dura: la morte degli immigrati.
"Gli immigrati devono morire". La frase choc del dirigente Pd tra amici e bambini
Salvatore Sbona, dirigente del Pd di Siracusa, ammette davanti ai bimbi e agli amici che se trovassero degli immigrati in mare durante la gita in barca li lasceranno morire tutti
Gabriele Bertocchi - Sab, 13/08/2016 - 10:24
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"Gli immigrati devono morire". È quanto pronunciato con un bel sorriso stampato in faccia, da Salvatore Sbona, Presidente del Consiglio comunale di Melilli (Siracusa), e segretario del circolo cittadino del Pd, davanti a un gruppo di bambini.
video
"Gli immigrati li lasciamo morire...
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 96429.html
Il video postato su Facebook
Il video (clicca qui per vedere la dichiarazione choc) che vede protagonista Salvatore Sbona, dirigente del Partito Democratico di Siracusa, è stato postato sul celebre social network creato da Mark Zuckemberg. Nel filmato, Sbona ammette, divertito tra amici e bambini, che "se durante il giro in barca troviamo degli immigrati, li dobbiamo lasciare la', perché devono morire".
"Bimbi se troviamo gli immigrati li lasciamo morire tutti in mare". La frase choc del dirigente Pd
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Un'affermazione che sottolinea (come se ce ne fosse ancora bisogno) l'ipocrisia che circola tra le file della sinistra italiana e, in questo caso, nel Pd. Un'ipocrisia che porta ad attaccare e criticare le idee e le possibili soluzioni ad una immigrazione incontrollata proposte dalla destra. (Clicca qui per il video)
È chiaro che il video dovesse rimanere privato, o tra amici. Ma per fortuna non è andata così. Le immagini apparse e riprese su Il Populista parlano chiaro: il Pd predica l'integrazione, ma il suo dirigente sembra preferisca una linea più dura: la morte degli immigrati.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
L'ITALIA ALLO SPECCHIO
14 AGO 2016 09:07
1. 50 PROFUGHI IN ARRIVO NEL CUORE DI CAPALBIO? VACANZIERI CHIC E RESIDENTI S’INCAZZANO
2. SALLUSTI: ‘QUESTI UNTI DEL SIGNORE HANNO LA MIA SOLIDARIETÀ. SOLO DEI DEFICIENTI POSSONO TRASFORMARE UNO DEI BORGHI PIÙ BELLI D'ITALIA IN UN CENTRO DI ACCOGLIENZA. MA SCOPRONO SOLO ORA CHE OGNI ITALIANO HA LA SUA CAPALBIO DA DIFENDERE DALL’INVASIONE’
3. PETRUCCIOLI: ‘OGNUNO DEVE FARE LA SUA PARTE. MA CON REGOLE’. LUCREZIA LANTE DELLA ROVERE: ‘MANCA UN METODO’. SALVINI E MELONI GONGOLANO CON I RADICAL IN BAMBOLA
4. ASOR ROSA, INTELLETTUALE PIONIERE: ‘NON C’È UNA LOBBY DEI CAPALBIESI. PRENDIAMO UN NUMERO ‘SOPPORTABILE’ DI MIGRANTI, MI FIDO DELLE ISTITUZIONI PER DECIDERE QUESTE COSE’
RAZZISTI RADICAL CHIC
Alessandro Sallusti Per ‘il Giornale’
Immigrati sì, ma per favore non tra i piedi. È scoppiata la rivolta a Capalbio, tempio e quartier generale estivo della sinistra chic, contro l' ipotesi di ospitare da quelle parti qualche centinaio di disperati allo sbando. Giornalisti, scrittori, intellettuali e manager soliti pontificare a favore dell' accoglienza, a scappellarsi di fronte a vescovi e cardinali che predicano l' ospitalità per chiunque, a dare dei razzisti a chi, come noi, invoca limiti e regole, proprio non ci stanno a condividere il loro angolo di paradiso terrestre con chi non appartiene alla loro casta.
Oltre a quella del sindaco, di sinistra, questi unti dal signore hanno la mia solidarietà. Solo dei deficienti possono pensare di trasformare uno dei borghi più belli d' Italia, e tra i più belli al mondo, in un centro di accoglienza a cielo aperto. Dopo aver distrutto quasi tutto, questo governo non può pensare di minare anche le bellezze paesaggistiche mettendo in fuga il turismo dal portafoglio gonfio, come accadde ai tempi di Monti con la super tassa sullo stazionamento in porto degli yacht e le retate fiscali a Cortina.
Detto della solidarietà, quello che rende ridicolo il clan di Capalbio non è soltanto la contraddizione tra il dire e il fare che smaschera una ipocrisia a noi ben nota. È il non capire che ogni italiano ha la sua Capalbio da difendere, esattamente come fanno loro.
Che sia il vecchio quartiere dove si è nati e cresciuti, il giardinetto sotto casa, la piazza del paese: tutto ciò che si sente proprio, tutto quello a cui si dà valore non può essere invaso, deturpato e oltraggiato, neppure in nome della solidarietà, neppure se lo dice il Papa, neanche per sdebitarsi di dolori e sofferenze che non possono certo essere imputabili a noi.
Così come la convivenza, anche l' accoglienza deve avere regole. E senza buon senso non c' è regola che possa funzionare. Capalbio è la nostra Cappella Sistina, che financo Francesco si guarda bene da trasformare in un bivacco. Che la piantassero, Alfano e soci, di diramare ordini e circolari senza senso. E che la piantassero, gli chic sinistrorsi di Capalbio, di voler far fare a noi quello che a loro fa schifo. Questa sinistra al caviale è davvero indigesta.
^^^^^
CAPALBIO NON VUOLE PROFUGHI TRA GLI OMBRELLONI
Enrico Paoli per ‘Libero Quotidiano’
«Perché al bar, mi dicono, che la questione è complessa. E che c' è un problema di regole. Cosa devono fare, chi controlla, come saranno effettivamente sistemati. Gli immigrati vanno accolti, io sono d' accordo con la politica del governo, però...». Già, però... Che vecchia volpe Claudio Petruccioli. Non volendo dire direttamente, fa dire ad altri. E non essendoci la Casa del Popolo c' è il bar, il centro del centro del mondo capalbiese.
È li che si elaborano le strategie, mentre al Frantoio vanno in scena le liturgie delle serate mondane. All' Ultima Spiaggia, invece, il bagno dei Vip a Chiarone, c' è il termometro degli umori e dei rumori della sinistra in vacanza nella piccola Atene. Terra di adozione e di elezione culturale per molti, ma non per tutti. E sì, la vecchia scuola comunista delle Frattocchie, quella del Pci sia chiaro, mica quelle a pagamento di oggi del Pd, fatte solo per metter su un bell' apericena, non si smentisce mai.
VENDETTA
Claudio Petruccioli, nato a Terni, una vita nel partito Comunista, poi nel Pds e Ds, ex presidente della Rai («aho con voi de' Llibero dobbiamo sempre chiarire 'na vecchia storia...»; ...Ma sì presidente, un giorno ne parliamo, vengo a trovarti) oggi è un capalbiese adottato e rappresenta in qualche modo l' ufficiale di collegamento fra i residenti veri e quelli acquisiti.
Quel popolo di vacanzieri rigidamente di sinistra, sinistra radical chic sia chiaro (meglio ancora; champagne e caviale e libri in piazza Magenta) che vuole la pace e la tranquillità. Presidente, qualcuno sussurra che è una vendetta contro la «piccola Atene», così dicono. «Fregnacce», dice perentorio Petruccioli mentre guadagna il suo posto al sole all' Ultima spiaggia, «da qualche parte vanno sistemati e ognuno deve fare le sua parte. Tutti i comuni devono contribuire».
Ma i capalbiesi sono imbufaliti? «L' ho detto al bar e lo ripeto: deve essere chiaro quali sono le regole. Come vengono alloggiati, da chi vengono controllati, quali sono le garanzie, chi sono gli ospiti e cosa fanno».
Ah, un bello screening prima e poi si vede. Ordine e disciplina, anche nelle cose più banali. Figuriamoci in quelle «spinose e rischiose dove manca un metodo per gestirle», come sostiene la splendida Lucrezia Lante Della Rovere, divina nella sua algida presenza sotto il patio per la pausa pranzo durante il «turno» di mare all' Ultima spiaggia, il bagno del vip di Capalbio, dove anche i Vu cumprà sono di marca, con posto fisso.
rivera e petruccioli capalbio
Perché qui, in questo lembo di Toscana ad alta densità intellettuale e politicamente corretta ma di sinistra, vogliono sistemare circa 50 immigrati. La palazzina è già stata individuata due mesi fa. Venti giorni fa c' è stata una raccolta di firme per chiedere di bloccare tutto.
A fine mese, poi, tutti in piazza. Rumorosamente, promettono.
I capalbiesi, quelli originali, sono imbufaliti. Si sentono traditi e, soprattutto, usati, strumentaliizzati. Lo stesso sindaco, Luigi Bellumori, anche lui di sinistra, ha tuonato contro la scelta di «Roma» di piazzarli qui. Per giunta nel centro del Paese, «a due passi da piazza Magenta, dove batte il cuore culturale di questa località», dice Annalisa Chirico scrittrice e giornalista, animatrice degli incontri letterari e compagna di Chicco Testa. Sia mai. La storia non può, non deve, ripetersi. Atene non vuole Sparta.
Mario, capalbiese doc e residente in pianta stabile nel comprensorio dove dovrebbero essere sistemati gli immigrati, è meno diplomatico.
«Senza essere stati consultati da nessuno ci viene imposta questa soluzione», dice mentre controlla la moglie con lo sguardo, seduti al bar de L' Ultima spiaggia, non volendo esagerare, «e non mi sembra un' idea intelligente. L' impressione è che non ci sia metodo.
Qui, d' inverno non c' è un presidio sanitario, ci sono due vigili e la caserma dei Carabinieri alle otto chiude. Io ho due figlie e 30 anni di mutuo sulle spalle per pagarmi la casa. Ho scelto di vivere qui per la tranquillità assoluta. Perché qualcuno decide di togliermela così? E il primo che parla di razzismo non sa cosa dice. È fastidioso dover affrontare queste storie, per tutti. Dico solo che se verranno davvero messi qui, le regole vanno applicate.
Creando un problema non si fa altro che far aumentare la rabbia».
Sì, forse il termine giusto per rubricare lo stato d' animo dei capalbiesi è rabbia. La loro Capalbio è la loro vita, fonte di vita. E quando d' estate diventa la piccola Atene c' è lavoro per tutti. Ma gli ospiti? «Tutti bravi a parole, ma quando c' è da sporcarsi le mani, diciamo così, si tirano indietro», afferma uno dei gestori de L' Ultima spiaggia, «in tanti qui, a parole, sono favorevoli alla sistemazione degli immigrati in Paese. E sa perché?».
No, me lo dica lei. «Perché mica vivono in paese, le ville sono da tutt' altra parte. Che gli frega». Appunto che gli frega? La domanda resta sospesa. Poi però curiosando fra gli ombrelloni trovi una risposta. «Se ne arrivano 50 ora poi ne arriveranno altri. Dai su, rovinano tutto...».
I libri in piazza, gli aperitivi sulle mura. Gli ateniesi non vogliono gli spartani. «Ma non è un problema, anzi è un falso problema», dice Chicco Testa, «d' inverno qua non c' è nessuno».
STRATEGIA
Circa 4 mila residenti è il dato ufficiale, che d' estate diventano chissà quanti. Forse saranno pochi, ma non «nessuno». Chi ha scelto di vivere lo ha fatto perché «la sera puoi lasciare aperta la porta di casa e sai che ti accadrà nulla», dice Mario, «al primo problema voglio vedere cosa succede».
Succede quello che succede sempre, si corre ai ripari. «Ma il vero problema è che manca una strategia», dice Annalisa Chirico, «si tagliano i fondi ai detenuti che vivono in condizioni indecenti, ma si spende cifre folli per sistemare in modo decente immigrati di cui non sappiamo nulla, creando situazioni esplosive».
Come a Capalbio? Come a Capalbio.
Ovviamente la politica cavalca l' onda contro i Radical chic. Da Giorgia Meloni a Matteo Salvini, passando per Maurizio Gasparri, è tutto un mettere all' indice, attraverso i social, l' ipocrisia della sinistra. Che, nel frattempo, si gode il mare de L' ultima spiaggia e la brezza marina che accarezza i merli del borgo medievale di Capalbio. Sia mai che Atene si mischia con sparta.
^^^^^^
ASOR ROSA E I RIFUGIATI A CAPALBIO: PRENDIAMONE UN NUMERO SOPPORTABILE
Marco Gasperetti per ‘la Repubblica’
«Sto festeggiando i miei primi quarant' anni trascorsi a Capalbio».
Come sono stati, professor Alberto Asor Rosa?
«Di quiete e beata solitudine, soprattutto all' inizio» E di polemiche. L' ultima sull' arrivo di cinquanta profughi… «Guardi credo che la collocazione di migranti non sia una questione capalbiese, ma italiana. Ogni giorno leggiamo che la presenza dei migranti costituisce un problema».
Anche a Capalbio?
«Non vedo perché Capalbio debba essere dispensata dall' offrire ospitalità a un numero sopportabile di migranti. Non può esserci un' opposizione di principio nel nome del turismo. Se così fosse tutti i migranti dovrebbero essere espulsi dall' Italia. La loro presenza va metabolizzata. Molto dipende dai criteri di collocazione. Non so dire se i cinquanta in arrivo siano troppi, ma sono fiducioso nell' autorevolezza delle istituzioni e della loro valutazione».
Però si dice che a Capalbio ci sia una lobby formata da intellettuali e politici che tutto vede e comanda. Che ne pensa?
«Penso che non ci sia mai stata la lobby dei capalbiesi. Grandi amicizie, sì, non c' è dubbio. Personaggi illustri, rappresentanti delle istituzioni, politici, l' hanno frequentata e la frequentano ancora. Ma mai ho avuto la percezione di un' associazione più o meno segreta (sorride, ndr ) capace di imporre i propri voleri.
Ognuno ha sempre espresso la propria opinione e la cosiddetta intellighenzia si è molto divisa. Pensi all' autostrada Tirrenica, per esempio: i pareri sono stati discordanti, le prese di posizioni trasversali. C' è molta differenza tra il ruolo di opinionisti autorevoli e di grido e la presenza di una lobby organizzata».
Ma se non ci fosse stata questa intellighenzia, per alcuni simbolo di una certa sinistra radical chic, falce e secchiello, certe battaglie a Capalbio sarebbero state vinte?
«Direi che i forestieri hanno svolto un ruolo importante con le loro idee. Io sono però abituato a non enfatizzare il ruolo di questi signori intellettuali. Forse hanno limitato il danno - penso agli scempi urbanistici degli anni Ottanta e Novanta - anche se non l' hanno impedito completamente».
Eppure in tanti sono arrivati a Capalbio anche perché è un luogo simbolo di un certo potere… «
La visione che hanno i media è di un' esagerazione infinita. Chi arriva per il potere resta deluso».
Lei quando è sbarcato nella «Piccola Atene» e perché?
«Nel il 1976. Credo di essere stato il primo intellettuale forestiero arrivato in questo paese allora ai più sconosciuto. Lo trovai un concentrato di bellezza, solitudine e silenzio e decisi di acquistare da Elvio, il mio amico calzolaio, una casa nel centro storico. Tre stanze accanto alla chiesa con mansarda che guarda il campanile e ne subisce i contraccolpi sonori. I rintocchi si manifestano tutte le ore e le mezze ore dalle otto di mattina alle otto di sera. Con tanto di feste e musichette religiose».
Sembra un po' la storia della poesia l' Ora di Barga del Pascoli...
«Il clima non doveva essere diverso. E lo è tuttora nella Piccola Atene, definizione auto-derisoria, che detti a Capalbio qualche anno fa. Quando vado a passeggiare sulla spiaggia, tra dune e macchia mediterranea, il panorama diventa selvaggio e probabilmente tra i più intatti d' Italia. Sa perché qui c' è un' alta percentuale di intellettuali? Perché c' è la possibilità di avere un alto grado di concentrazione».
E d' ispirazione letteraria. Scriverà un libro su Capalbio?
«Mi ha dato un' idea. Lo scriverò».
E i profughi?
«Li aspetterò con assoluta serenità».
14 AGO 2016 09:07
1. 50 PROFUGHI IN ARRIVO NEL CUORE DI CAPALBIO? VACANZIERI CHIC E RESIDENTI S’INCAZZANO
2. SALLUSTI: ‘QUESTI UNTI DEL SIGNORE HANNO LA MIA SOLIDARIETÀ. SOLO DEI DEFICIENTI POSSONO TRASFORMARE UNO DEI BORGHI PIÙ BELLI D'ITALIA IN UN CENTRO DI ACCOGLIENZA. MA SCOPRONO SOLO ORA CHE OGNI ITALIANO HA LA SUA CAPALBIO DA DIFENDERE DALL’INVASIONE’
3. PETRUCCIOLI: ‘OGNUNO DEVE FARE LA SUA PARTE. MA CON REGOLE’. LUCREZIA LANTE DELLA ROVERE: ‘MANCA UN METODO’. SALVINI E MELONI GONGOLANO CON I RADICAL IN BAMBOLA
4. ASOR ROSA, INTELLETTUALE PIONIERE: ‘NON C’È UNA LOBBY DEI CAPALBIESI. PRENDIAMO UN NUMERO ‘SOPPORTABILE’ DI MIGRANTI, MI FIDO DELLE ISTITUZIONI PER DECIDERE QUESTE COSE’
RAZZISTI RADICAL CHIC
Alessandro Sallusti Per ‘il Giornale’
Immigrati sì, ma per favore non tra i piedi. È scoppiata la rivolta a Capalbio, tempio e quartier generale estivo della sinistra chic, contro l' ipotesi di ospitare da quelle parti qualche centinaio di disperati allo sbando. Giornalisti, scrittori, intellettuali e manager soliti pontificare a favore dell' accoglienza, a scappellarsi di fronte a vescovi e cardinali che predicano l' ospitalità per chiunque, a dare dei razzisti a chi, come noi, invoca limiti e regole, proprio non ci stanno a condividere il loro angolo di paradiso terrestre con chi non appartiene alla loro casta.
Oltre a quella del sindaco, di sinistra, questi unti dal signore hanno la mia solidarietà. Solo dei deficienti possono pensare di trasformare uno dei borghi più belli d' Italia, e tra i più belli al mondo, in un centro di accoglienza a cielo aperto. Dopo aver distrutto quasi tutto, questo governo non può pensare di minare anche le bellezze paesaggistiche mettendo in fuga il turismo dal portafoglio gonfio, come accadde ai tempi di Monti con la super tassa sullo stazionamento in porto degli yacht e le retate fiscali a Cortina.
Detto della solidarietà, quello che rende ridicolo il clan di Capalbio non è soltanto la contraddizione tra il dire e il fare che smaschera una ipocrisia a noi ben nota. È il non capire che ogni italiano ha la sua Capalbio da difendere, esattamente come fanno loro.
Che sia il vecchio quartiere dove si è nati e cresciuti, il giardinetto sotto casa, la piazza del paese: tutto ciò che si sente proprio, tutto quello a cui si dà valore non può essere invaso, deturpato e oltraggiato, neppure in nome della solidarietà, neppure se lo dice il Papa, neanche per sdebitarsi di dolori e sofferenze che non possono certo essere imputabili a noi.
Così come la convivenza, anche l' accoglienza deve avere regole. E senza buon senso non c' è regola che possa funzionare. Capalbio è la nostra Cappella Sistina, che financo Francesco si guarda bene da trasformare in un bivacco. Che la piantassero, Alfano e soci, di diramare ordini e circolari senza senso. E che la piantassero, gli chic sinistrorsi di Capalbio, di voler far fare a noi quello che a loro fa schifo. Questa sinistra al caviale è davvero indigesta.
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CAPALBIO NON VUOLE PROFUGHI TRA GLI OMBRELLONI
Enrico Paoli per ‘Libero Quotidiano’
«Perché al bar, mi dicono, che la questione è complessa. E che c' è un problema di regole. Cosa devono fare, chi controlla, come saranno effettivamente sistemati. Gli immigrati vanno accolti, io sono d' accordo con la politica del governo, però...». Già, però... Che vecchia volpe Claudio Petruccioli. Non volendo dire direttamente, fa dire ad altri. E non essendoci la Casa del Popolo c' è il bar, il centro del centro del mondo capalbiese.
È li che si elaborano le strategie, mentre al Frantoio vanno in scena le liturgie delle serate mondane. All' Ultima Spiaggia, invece, il bagno dei Vip a Chiarone, c' è il termometro degli umori e dei rumori della sinistra in vacanza nella piccola Atene. Terra di adozione e di elezione culturale per molti, ma non per tutti. E sì, la vecchia scuola comunista delle Frattocchie, quella del Pci sia chiaro, mica quelle a pagamento di oggi del Pd, fatte solo per metter su un bell' apericena, non si smentisce mai.
VENDETTA
Claudio Petruccioli, nato a Terni, una vita nel partito Comunista, poi nel Pds e Ds, ex presidente della Rai («aho con voi de' Llibero dobbiamo sempre chiarire 'na vecchia storia...»; ...Ma sì presidente, un giorno ne parliamo, vengo a trovarti) oggi è un capalbiese adottato e rappresenta in qualche modo l' ufficiale di collegamento fra i residenti veri e quelli acquisiti.
Quel popolo di vacanzieri rigidamente di sinistra, sinistra radical chic sia chiaro (meglio ancora; champagne e caviale e libri in piazza Magenta) che vuole la pace e la tranquillità. Presidente, qualcuno sussurra che è una vendetta contro la «piccola Atene», così dicono. «Fregnacce», dice perentorio Petruccioli mentre guadagna il suo posto al sole all' Ultima spiaggia, «da qualche parte vanno sistemati e ognuno deve fare le sua parte. Tutti i comuni devono contribuire».
Ma i capalbiesi sono imbufaliti? «L' ho detto al bar e lo ripeto: deve essere chiaro quali sono le regole. Come vengono alloggiati, da chi vengono controllati, quali sono le garanzie, chi sono gli ospiti e cosa fanno».
Ah, un bello screening prima e poi si vede. Ordine e disciplina, anche nelle cose più banali. Figuriamoci in quelle «spinose e rischiose dove manca un metodo per gestirle», come sostiene la splendida Lucrezia Lante Della Rovere, divina nella sua algida presenza sotto il patio per la pausa pranzo durante il «turno» di mare all' Ultima spiaggia, il bagno del vip di Capalbio, dove anche i Vu cumprà sono di marca, con posto fisso.
rivera e petruccioli capalbio
Perché qui, in questo lembo di Toscana ad alta densità intellettuale e politicamente corretta ma di sinistra, vogliono sistemare circa 50 immigrati. La palazzina è già stata individuata due mesi fa. Venti giorni fa c' è stata una raccolta di firme per chiedere di bloccare tutto.
A fine mese, poi, tutti in piazza. Rumorosamente, promettono.
I capalbiesi, quelli originali, sono imbufaliti. Si sentono traditi e, soprattutto, usati, strumentaliizzati. Lo stesso sindaco, Luigi Bellumori, anche lui di sinistra, ha tuonato contro la scelta di «Roma» di piazzarli qui. Per giunta nel centro del Paese, «a due passi da piazza Magenta, dove batte il cuore culturale di questa località», dice Annalisa Chirico scrittrice e giornalista, animatrice degli incontri letterari e compagna di Chicco Testa. Sia mai. La storia non può, non deve, ripetersi. Atene non vuole Sparta.
Mario, capalbiese doc e residente in pianta stabile nel comprensorio dove dovrebbero essere sistemati gli immigrati, è meno diplomatico.
«Senza essere stati consultati da nessuno ci viene imposta questa soluzione», dice mentre controlla la moglie con lo sguardo, seduti al bar de L' Ultima spiaggia, non volendo esagerare, «e non mi sembra un' idea intelligente. L' impressione è che non ci sia metodo.
Qui, d' inverno non c' è un presidio sanitario, ci sono due vigili e la caserma dei Carabinieri alle otto chiude. Io ho due figlie e 30 anni di mutuo sulle spalle per pagarmi la casa. Ho scelto di vivere qui per la tranquillità assoluta. Perché qualcuno decide di togliermela così? E il primo che parla di razzismo non sa cosa dice. È fastidioso dover affrontare queste storie, per tutti. Dico solo che se verranno davvero messi qui, le regole vanno applicate.
Creando un problema non si fa altro che far aumentare la rabbia».
Sì, forse il termine giusto per rubricare lo stato d' animo dei capalbiesi è rabbia. La loro Capalbio è la loro vita, fonte di vita. E quando d' estate diventa la piccola Atene c' è lavoro per tutti. Ma gli ospiti? «Tutti bravi a parole, ma quando c' è da sporcarsi le mani, diciamo così, si tirano indietro», afferma uno dei gestori de L' Ultima spiaggia, «in tanti qui, a parole, sono favorevoli alla sistemazione degli immigrati in Paese. E sa perché?».
No, me lo dica lei. «Perché mica vivono in paese, le ville sono da tutt' altra parte. Che gli frega». Appunto che gli frega? La domanda resta sospesa. Poi però curiosando fra gli ombrelloni trovi una risposta. «Se ne arrivano 50 ora poi ne arriveranno altri. Dai su, rovinano tutto...».
I libri in piazza, gli aperitivi sulle mura. Gli ateniesi non vogliono gli spartani. «Ma non è un problema, anzi è un falso problema», dice Chicco Testa, «d' inverno qua non c' è nessuno».
STRATEGIA
Circa 4 mila residenti è il dato ufficiale, che d' estate diventano chissà quanti. Forse saranno pochi, ma non «nessuno». Chi ha scelto di vivere lo ha fatto perché «la sera puoi lasciare aperta la porta di casa e sai che ti accadrà nulla», dice Mario, «al primo problema voglio vedere cosa succede».
Succede quello che succede sempre, si corre ai ripari. «Ma il vero problema è che manca una strategia», dice Annalisa Chirico, «si tagliano i fondi ai detenuti che vivono in condizioni indecenti, ma si spende cifre folli per sistemare in modo decente immigrati di cui non sappiamo nulla, creando situazioni esplosive».
Come a Capalbio? Come a Capalbio.
Ovviamente la politica cavalca l' onda contro i Radical chic. Da Giorgia Meloni a Matteo Salvini, passando per Maurizio Gasparri, è tutto un mettere all' indice, attraverso i social, l' ipocrisia della sinistra. Che, nel frattempo, si gode il mare de L' ultima spiaggia e la brezza marina che accarezza i merli del borgo medievale di Capalbio. Sia mai che Atene si mischia con sparta.
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ASOR ROSA E I RIFUGIATI A CAPALBIO: PRENDIAMONE UN NUMERO SOPPORTABILE
Marco Gasperetti per ‘la Repubblica’
«Sto festeggiando i miei primi quarant' anni trascorsi a Capalbio».
Come sono stati, professor Alberto Asor Rosa?
«Di quiete e beata solitudine, soprattutto all' inizio» E di polemiche. L' ultima sull' arrivo di cinquanta profughi… «Guardi credo che la collocazione di migranti non sia una questione capalbiese, ma italiana. Ogni giorno leggiamo che la presenza dei migranti costituisce un problema».
Anche a Capalbio?
«Non vedo perché Capalbio debba essere dispensata dall' offrire ospitalità a un numero sopportabile di migranti. Non può esserci un' opposizione di principio nel nome del turismo. Se così fosse tutti i migranti dovrebbero essere espulsi dall' Italia. La loro presenza va metabolizzata. Molto dipende dai criteri di collocazione. Non so dire se i cinquanta in arrivo siano troppi, ma sono fiducioso nell' autorevolezza delle istituzioni e della loro valutazione».
Però si dice che a Capalbio ci sia una lobby formata da intellettuali e politici che tutto vede e comanda. Che ne pensa?
«Penso che non ci sia mai stata la lobby dei capalbiesi. Grandi amicizie, sì, non c' è dubbio. Personaggi illustri, rappresentanti delle istituzioni, politici, l' hanno frequentata e la frequentano ancora. Ma mai ho avuto la percezione di un' associazione più o meno segreta (sorride, ndr ) capace di imporre i propri voleri.
Ognuno ha sempre espresso la propria opinione e la cosiddetta intellighenzia si è molto divisa. Pensi all' autostrada Tirrenica, per esempio: i pareri sono stati discordanti, le prese di posizioni trasversali. C' è molta differenza tra il ruolo di opinionisti autorevoli e di grido e la presenza di una lobby organizzata».
Ma se non ci fosse stata questa intellighenzia, per alcuni simbolo di una certa sinistra radical chic, falce e secchiello, certe battaglie a Capalbio sarebbero state vinte?
«Direi che i forestieri hanno svolto un ruolo importante con le loro idee. Io sono però abituato a non enfatizzare il ruolo di questi signori intellettuali. Forse hanno limitato il danno - penso agli scempi urbanistici degli anni Ottanta e Novanta - anche se non l' hanno impedito completamente».
Eppure in tanti sono arrivati a Capalbio anche perché è un luogo simbolo di un certo potere… «
La visione che hanno i media è di un' esagerazione infinita. Chi arriva per il potere resta deluso».
Lei quando è sbarcato nella «Piccola Atene» e perché?
«Nel il 1976. Credo di essere stato il primo intellettuale forestiero arrivato in questo paese allora ai più sconosciuto. Lo trovai un concentrato di bellezza, solitudine e silenzio e decisi di acquistare da Elvio, il mio amico calzolaio, una casa nel centro storico. Tre stanze accanto alla chiesa con mansarda che guarda il campanile e ne subisce i contraccolpi sonori. I rintocchi si manifestano tutte le ore e le mezze ore dalle otto di mattina alle otto di sera. Con tanto di feste e musichette religiose».
Sembra un po' la storia della poesia l' Ora di Barga del Pascoli...
«Il clima non doveva essere diverso. E lo è tuttora nella Piccola Atene, definizione auto-derisoria, che detti a Capalbio qualche anno fa. Quando vado a passeggiare sulla spiaggia, tra dune e macchia mediterranea, il panorama diventa selvaggio e probabilmente tra i più intatti d' Italia. Sa perché qui c' è un' alta percentuale di intellettuali? Perché c' è la possibilità di avere un alto grado di concentrazione».
E d' ispirazione letteraria. Scriverà un libro su Capalbio?
«Mi ha dato un' idea. Lo scriverò».
E i profughi?
«Li aspetterò con assoluta serenità».
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
L’uomo è fondamentalmente un essere stupido?????
Se osserviamo cosa sta accadendo, soprattutto negli ultimi anni, nell’intero pianeta, la risposta è inequivocabile.
Sìììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììì.
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Se osserviamo cosa sta accadendo, soprattutto negli ultimi anni, nell’intero pianeta, la risposta è inequivocabile.
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Ultima modifica di camillobenso il 14/08/2016, 21:35, modificato 1 volta in totale.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
L’uomo è fondamentalmente un essere stupido?????
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Diventa inevitabile, a questo punto, dare una rispolveratina al nozionismo scolastico che abbiamo appreso tutti nel periodo della scuola dell’obbligo, aiutandoci con Wikipedia.
La periodizzazione della storia umana più comune presso la cultura occidentale, basata quindi su un punto di vista "eurocentrico" della storia, suddivide la storia del generehomo in due grandi periodi,Preistoria (Paleolitico, Mesolitico e Neolitico) e Storia (età antica, medievale, moderna e contemporanea).
Se la Preistoria è composta da fatti comuni a tutte le attuali civiltà del mondo, a partire dalla Storia Antica tale periodizzazione classica riflette maggiormente le vicende del Vicino Oriente antico, del continente europeo e del mondo occidentale.
• Preistoria (o età della pietra, 3 500 000 anni fa – 3 500 a.C. circa): Inizia con la “nascita” della tecnologia, ovvero la costruzione dei primi rudimentali utensili in pietra da parte di alcuni rappresentanti del genereAustralopitecus o/e della prima specie del genere Homo, l'Homo habilis, ad esempio selci scheggiate. Finisce circa 5 500 anni fa con l'invenzione della scrittura da parte di Homo sapiens, evento che segna l'inizio della storia. La preistoria è suddivisa in:
• Paleolitico (2,5 m.a.f.- 20 000 a.C. circa): La più antica e la più lunga era della storia dell'uomo (ricopre circa il 99% della sua storia), inizia con la nascita della tecnologia e termina con la comparsa delle prime forme di agricoltura. Nel corso di quest'epoca si verifica il lento passaggio dalla specie Homo habilis all'uomo moderno (sapiens)
• Mesolitico (20 000-10 000 a.C. circa): È la fase di transizione tra Paleolitico e Neolitico, che vede alcune società umane avviarsi all'agricoltura e alla vita sedentaria.
• Neolitico (10 000 a.C. - 3 500 a.C. circa): Inizia con la transizione neolitica, ovvero con il completo passaggio di alcuni gruppi umani (in Mesopotamia, Cina, India) da comunità nomadi dedite alla caccia, la pesca e la raccolta, a comunità stabili dedite all'agricoltura e l'allevamento. Termina con l'invenzione della scrittura che sancisce la fine della preistoria dell'uomo.
• Storia (3 500 a.C. circa – Tempo presente): È il periodo della storia umana successivo all'invenzione della scrittura, diviso in quattro epoche storiche (o età):
• Età antica: tradizionalmente estesa tra il 3 500 a.C. e il 476 d.C., dall'invenzione della scrittura alla caduta dell'Impero romano d'Occidente. Include al suo interno:
• l'Età del bronzo (3 500-1 200 a.C. circa)
• l'Età del ferro (1 200-600 a.C. circa), nel corso delle quali l'uomo impara a lavorare i metalli, inventa la scrittura, dà vita a città e civiltà complesse da un punto di vista sociale, economico, politico, culturale e tecnologico.
• l'Età classica (600 a.C. - 476 d.C.)
• Età medievale (476 d.C. - 1492 d.C.)
• Età moderna (1492 d.C. - 1789 d.C.)
• Età contemporanea (1789 d.C. - Tempo presente)
Per chi vuole approfondire:
https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27uomo
oppure
https://it.wikipedia.org/wiki/Evoluzione_umana
CONTINUA
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Diventa inevitabile, a questo punto, dare una rispolveratina al nozionismo scolastico che abbiamo appreso tutti nel periodo della scuola dell’obbligo, aiutandoci con Wikipedia.
La periodizzazione della storia umana più comune presso la cultura occidentale, basata quindi su un punto di vista "eurocentrico" della storia, suddivide la storia del generehomo in due grandi periodi,Preistoria (Paleolitico, Mesolitico e Neolitico) e Storia (età antica, medievale, moderna e contemporanea).
Se la Preistoria è composta da fatti comuni a tutte le attuali civiltà del mondo, a partire dalla Storia Antica tale periodizzazione classica riflette maggiormente le vicende del Vicino Oriente antico, del continente europeo e del mondo occidentale.
• Preistoria (o età della pietra, 3 500 000 anni fa – 3 500 a.C. circa): Inizia con la “nascita” della tecnologia, ovvero la costruzione dei primi rudimentali utensili in pietra da parte di alcuni rappresentanti del genereAustralopitecus o/e della prima specie del genere Homo, l'Homo habilis, ad esempio selci scheggiate. Finisce circa 5 500 anni fa con l'invenzione della scrittura da parte di Homo sapiens, evento che segna l'inizio della storia. La preistoria è suddivisa in:
• Paleolitico (2,5 m.a.f.- 20 000 a.C. circa): La più antica e la più lunga era della storia dell'uomo (ricopre circa il 99% della sua storia), inizia con la nascita della tecnologia e termina con la comparsa delle prime forme di agricoltura. Nel corso di quest'epoca si verifica il lento passaggio dalla specie Homo habilis all'uomo moderno (sapiens)
• Mesolitico (20 000-10 000 a.C. circa): È la fase di transizione tra Paleolitico e Neolitico, che vede alcune società umane avviarsi all'agricoltura e alla vita sedentaria.
• Neolitico (10 000 a.C. - 3 500 a.C. circa): Inizia con la transizione neolitica, ovvero con il completo passaggio di alcuni gruppi umani (in Mesopotamia, Cina, India) da comunità nomadi dedite alla caccia, la pesca e la raccolta, a comunità stabili dedite all'agricoltura e l'allevamento. Termina con l'invenzione della scrittura che sancisce la fine della preistoria dell'uomo.
• Storia (3 500 a.C. circa – Tempo presente): È il periodo della storia umana successivo all'invenzione della scrittura, diviso in quattro epoche storiche (o età):
• Età antica: tradizionalmente estesa tra il 3 500 a.C. e il 476 d.C., dall'invenzione della scrittura alla caduta dell'Impero romano d'Occidente. Include al suo interno:
• l'Età del bronzo (3 500-1 200 a.C. circa)
• l'Età del ferro (1 200-600 a.C. circa), nel corso delle quali l'uomo impara a lavorare i metalli, inventa la scrittura, dà vita a città e civiltà complesse da un punto di vista sociale, economico, politico, culturale e tecnologico.
• l'Età classica (600 a.C. - 476 d.C.)
• Età medievale (476 d.C. - 1492 d.C.)
• Età moderna (1492 d.C. - 1789 d.C.)
• Età contemporanea (1789 d.C. - Tempo presente)
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