IL LAVORO
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Re: IL LAVORO
Lavoro, mercato
fermo e crollo
dei contratti
“stabili”: -29%
Quali sono gli effetti
del Jobs act? Ieri il
ministero del Lavoro
guidato da Giuliano
Poletti (in foto) ha diffuso i
dati sulle “comunicazioni
obbligatorie” del secondo
trimestre 2016, cioè i contratti
attivati e
cessati nel
settore privato.
I numeri,
come
quelli
d e l l ’ I n p s
d a m e s i ( e
dell’Istat a luglio
sugli occupati) confermano
un mercato del lavoro
fermo e con segnali preoccupanti
riconducibili alla
riforma del lavoro.
I rapporti di lavoro attivati
sono stati 2,45 milioni,
a fronte di 2,19 milioni
di cessazioni (in gran parte
a tempo determinato): il
saldo è quindi positivo per
260 mila contratti (precari
anche questi). Le attivazioni
di rapporti a tempo
indeterminato sono state
infatti 392.043, il 29% in
meno rispetto al 2015 (per
il taglio dei generosi sgravi
contributivi del governo,
ridotti nel 2016). Al
netto delle cessazioni, il
saldo è negativo di 78.518
contratti. In generale, i
dati mostrano che sia le attivazioni
che le cessazioni
calano rispetto al secondo
trimestre 2015. Se il primo
aspetto è fisiologico vista
l’assenza di crescita, il secondo
va scomposto per
capirne le cause. Facendolo
si scopre che tra le
cessazioni aumentano
quelle decise dal datore di
lavoro: +8,1%; soprattutto
licenziamenti (+7,4%) e
“altri motivi” (+21%) come
la decadenza dal servizio
o il mancato superamento
del periodo di prova.
Calano, invece, le cessazioni
richieste dal lavoratore
(-24%), con un
crollo dei pensionamenti
(-41,4%). Come nota Michele
Tiraboschi di Adapt,
la causa di questi dati
è imputabile al fatto che il
Jobs act ha strangolato le
dimissioni volontarie, che
in un mercato dinamico
potrebbero crescere: nessuno
con un contratto stabile,
però, lascerebbe il
proprio posto per andare
in un’altra azienda sapendo
di perdere l’articolo 18.
Se a questo aggiungiamo
che la riforma Fornero ha
allungato l’età pensionabile,
si capisce perché da
quando Renzi è al governo
gli occupati over 50 siano
aumentati di 820 unità, a
fronte di 338 mila in meno
tra i 25-49 anni.
CARLO DI FOGGIA
fermo e crollo
dei contratti
“stabili”: -29%
Quali sono gli effetti
del Jobs act? Ieri il
ministero del Lavoro
guidato da Giuliano
Poletti (in foto) ha diffuso i
dati sulle “comunicazioni
obbligatorie” del secondo
trimestre 2016, cioè i contratti
attivati e
cessati nel
settore privato.
I numeri,
come
quelli
d e l l ’ I n p s
d a m e s i ( e
dell’Istat a luglio
sugli occupati) confermano
un mercato del lavoro
fermo e con segnali preoccupanti
riconducibili alla
riforma del lavoro.
I rapporti di lavoro attivati
sono stati 2,45 milioni,
a fronte di 2,19 milioni
di cessazioni (in gran parte
a tempo determinato): il
saldo è quindi positivo per
260 mila contratti (precari
anche questi). Le attivazioni
di rapporti a tempo
indeterminato sono state
infatti 392.043, il 29% in
meno rispetto al 2015 (per
il taglio dei generosi sgravi
contributivi del governo,
ridotti nel 2016). Al
netto delle cessazioni, il
saldo è negativo di 78.518
contratti. In generale, i
dati mostrano che sia le attivazioni
che le cessazioni
calano rispetto al secondo
trimestre 2015. Se il primo
aspetto è fisiologico vista
l’assenza di crescita, il secondo
va scomposto per
capirne le cause. Facendolo
si scopre che tra le
cessazioni aumentano
quelle decise dal datore di
lavoro: +8,1%; soprattutto
licenziamenti (+7,4%) e
“altri motivi” (+21%) come
la decadenza dal servizio
o il mancato superamento
del periodo di prova.
Calano, invece, le cessazioni
richieste dal lavoratore
(-24%), con un
crollo dei pensionamenti
(-41,4%). Come nota Michele
Tiraboschi di Adapt,
la causa di questi dati
è imputabile al fatto che il
Jobs act ha strangolato le
dimissioni volontarie, che
in un mercato dinamico
potrebbero crescere: nessuno
con un contratto stabile,
però, lascerebbe il
proprio posto per andare
in un’altra azienda sapendo
di perdere l’articolo 18.
Se a questo aggiungiamo
che la riforma Fornero ha
allungato l’età pensionabile,
si capisce perché da
quando Renzi è al governo
gli occupati over 50 siano
aumentati di 820 unità, a
fronte di 338 mila in meno
tra i 25-49 anni.
CARLO DI FOGGIA
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Re: IL LAVORO
le regole del lavoro necessitano di cambiamenti.La prima e reintrodurre la reintegrazione per il gmo per motivi inesistenti che a differenza dell'insussistenza non dà incertezze interpretative.La seconda tre infrazioni disciplinari in un'anno per ristabilre la proporzionalità,tra licenziamento e semplice infrazione disciplinare la teza l'opting out del magistrato per per gmo e disciplinari il quale puo decidere di non dare la reintegrazione anche quando spettrebbe ma l'indennizo e questo si verifica in caso di rapporto di lavoro detriorato in ultimo la prova di un solo anno.Poi reintrodurre le formule della Biagi e farle costare di più cosa che si realizza diminuendo il cuneo fiscale per l'indeterminato e facendo fluire roorse sul reddito dei lavoratori flessibili che evono avere un reddito più alto rispetto a quello indetrminato per compensarli.Le regole devono essere uguali per tutti altrimenti si scarica la flessibilità solo sù una parte del mondo del lavoro.Per diminuire i tempi del processo del lavoro sarebbe necessaria un'autorità terza che accetta o respinge il ricorso sia del lavoratore che del datore di lavoro
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Re: IL LAVORO
Lavoro, segretario Uil: “Dati Istat non in contrasto con quelli del ministero. L’Italia non cresce e l’effetto si farà sentire”
Lavoro & Precari
L'analisi di Guglielmo Loy: "Nessuna contraddizione: l'istituto di statistica fotografa la situazione in un determinato momento e i numeri che ha diffuso pochi giorni fa sono influenzati dalle assunzioni con gli sgravi contributivi. Le comunicazioni obbligatorie invece ci dicono se le aziende stanno assumendo. E mostrano che sono diventate più prudenti nel fare contratti stabili"
di F. Q. | 12 settembre 2016
COMMENTI
I dati Istat sull’occupazione fanno felice Matteo Renzi, ma quelli di pochi giorni fa (del ministero del Lavoro) non invitano certo a sorridere. “Dati ufficiali Istat di oggi. Nel II trimestre 2016 più 189mila posti di lavoro. Da inizio nostro governo: più 585mila. Il #JobsAct funziona”, scrive il premier su Twitter. Peccato che solo pochi giorni fa, il 7 settembre, sul sito del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali sia stata pubblicata la nota relativa al secondo trimestre sui movimenti di rapporti di lavoro in Italia registrati dal Sistema delle comunicazioni obbligatorie. Qualche dato: i contratti di lavoro sono calati del 12,1% rispetto allo stesso periodo del 2015, mentre si sono registrati 221.186 licenziamenti, 15.264 in più rispetto allo stesso trimestre 2015 (+7,4%). Da una prima lettura sembra di guardare due fotografie diverse. Questi dati si contraddicono reciprocamente o raccontano la stessa realtà da due prospettive diverse? È proprio così per il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy. “Secondo me i due report non sono in contraddizione – spiega a ilfattoquotidiano.it – perché mentre l’Istat fotografa una determinata situazione, dicendoci quante persone lavorano o sono disoccupate in un determinato momento, quante lo erano sei mesi fa e così via, i dati del ministero raccontano un film, dicendoci se le aziende stanno assumendo o meno”. Il Paese descritto? “Un’Italia a bassa crescita”.
I DATI DEL MINISTERO – L’analisi della dinamica dei contratti del secondo trimestre del 2016, rispetto allo stesso periodo del 2015, pubblicata nei giorni scorsi ha messo in evidenza un calo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato pari a -29,4% (163mila unità in meno). Scendono anche gli avviamenti di contratti a tempo determinato, -8,7% (circa 164mila unità in meno) e i contratti di collaborazione, crollati al -25,4% (quasi 30mila unità in meno). Aumentano, invece, del 26,2% gli apprendistati (17mila unità). E mentre il saldo tra attivazioni e cessazioni segna +260mila unità, analizzando solo il lavoro a tempo indeterminato c’è un calo di 78mila contratti. A questo dato, comunque, vanno aggiunte 84.334 trasformazioni: 62.705 da tempo determinato a indeterminato e 21.629 da apprendistato a tempo indeterminato.
I NUMERI DELL’ISTAT – A pochi giorni di distanza, gli ultimi dati Istat sul mercato lavoro che fanno tanto piacere al premier. Nel secondo trimestre del 2016 l’occupazione complessiva cresce in modo sostenuto rispetto al trimestre precedente (+0,8%). Tradotto: 189mila occupati in più. “Le dinamiche tendenziali tra il secondo trimestre del 2016 e lo stesso periodo dell’anno precedente corrispondono a una crescita complessiva di 439mila occupati su base annua”, scrive l’Istat. Nel periodo di riferimento risultano occupate, al netto degli effetti stagionali, 22 milioni e 786mila persone. Crescono i dipendenti a tempo indeterminato (+0,3%, 46mila), quelli a termine (+3,2%, 76mila) e gli indipendenti (+1,2%, 68mila). A livello territoriale, l’aumento è maggiore nel Mezzogiorno (+1,4%) in confronto al Centro (+0,8%) e al Nord (+0,6%). Scendono al 22,3%, sempre nel secondo trimestre 2016, i ragazzi che non sono impegnati a scuola né a lavoro, i Neet (Not in Education, Employment or Training). Su base annua “la crescita complessiva – stando al report – è di 439mila occupati con una significativa crescita degli occupati di 15-34 anni (+223mila su basa annua)”. E mentre il tasso di occupazione sale di 0,5 punti, soprattutto per i 15-34enni (+0,8 punti) e per i 50-64enni (+0,6 punti), quello di disoccupazione, dopo la stabilità nei due trimestri precedenti, diminuisce in misura lieve (-0,1 punti) attestandosi all’11,5%. Il tasso di inattività tra i 15 e i 64 anni continua a diminuire in misura più consistente (-0,5 punti rispetto a -0,2 e -0,1 punti nel primo 2016 e nel quarto 2015).
L’ANALISI: “DATI GONFIATI DAL PICCO DI ASSUNZIONI CON GLI SGRAVI” – Ma se i dati non sono in contraddizione, che Paese raccontano? “I dati – spiega Loy – sembrano non coincidere anche perché la fotografia dell’Istat racchiude anche l’ondata delle assunzioni di fine 2015 dovuta alle decontribuzioni”. A far aumentare le percentuali, insomma, “sono state anche quelle persone assunte dalle aziende tra novembre e dicembre scorsi”. Allo stesso tempo il Sistema delle comunicazioni obbligatorie a cui fa riferimento il ministero del Lavoro “ci dice che c’è stato un picco nel 2015, seguito da un prevedibile calo nel 2016, soprattutto delle assunzioni a tempo indeterminato”. L’incrocio di questi dati, però, consente un’analisi: “I valori di crescita nel lavoro registrati dall’Istat si allineano a quelli economici – sottolinea il segretario confederale della Uil – e corrispondono al basso tasso di crescita del Paese”. D’altro canto le comunicazioni obbligatorie dicono che le aziende sono più prudenti sia quanto a numero di contratti, sia quanto alla tipologia, tanto che i numeri negativi riguardano quelli a tempo indeterminato. “Qualora questa tendenza dovesse continuare – è la conclusione di Loy – gli effetti si vedranno. Anche sui dati Istat”.
Lavoro & Precari
L'analisi di Guglielmo Loy: "Nessuna contraddizione: l'istituto di statistica fotografa la situazione in un determinato momento e i numeri che ha diffuso pochi giorni fa sono influenzati dalle assunzioni con gli sgravi contributivi. Le comunicazioni obbligatorie invece ci dicono se le aziende stanno assumendo. E mostrano che sono diventate più prudenti nel fare contratti stabili"
di F. Q. | 12 settembre 2016
COMMENTI
I dati Istat sull’occupazione fanno felice Matteo Renzi, ma quelli di pochi giorni fa (del ministero del Lavoro) non invitano certo a sorridere. “Dati ufficiali Istat di oggi. Nel II trimestre 2016 più 189mila posti di lavoro. Da inizio nostro governo: più 585mila. Il #JobsAct funziona”, scrive il premier su Twitter. Peccato che solo pochi giorni fa, il 7 settembre, sul sito del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali sia stata pubblicata la nota relativa al secondo trimestre sui movimenti di rapporti di lavoro in Italia registrati dal Sistema delle comunicazioni obbligatorie. Qualche dato: i contratti di lavoro sono calati del 12,1% rispetto allo stesso periodo del 2015, mentre si sono registrati 221.186 licenziamenti, 15.264 in più rispetto allo stesso trimestre 2015 (+7,4%). Da una prima lettura sembra di guardare due fotografie diverse. Questi dati si contraddicono reciprocamente o raccontano la stessa realtà da due prospettive diverse? È proprio così per il segretario confederale della Uil Guglielmo Loy. “Secondo me i due report non sono in contraddizione – spiega a ilfattoquotidiano.it – perché mentre l’Istat fotografa una determinata situazione, dicendoci quante persone lavorano o sono disoccupate in un determinato momento, quante lo erano sei mesi fa e così via, i dati del ministero raccontano un film, dicendoci se le aziende stanno assumendo o meno”. Il Paese descritto? “Un’Italia a bassa crescita”.
I DATI DEL MINISTERO – L’analisi della dinamica dei contratti del secondo trimestre del 2016, rispetto allo stesso periodo del 2015, pubblicata nei giorni scorsi ha messo in evidenza un calo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato pari a -29,4% (163mila unità in meno). Scendono anche gli avviamenti di contratti a tempo determinato, -8,7% (circa 164mila unità in meno) e i contratti di collaborazione, crollati al -25,4% (quasi 30mila unità in meno). Aumentano, invece, del 26,2% gli apprendistati (17mila unità). E mentre il saldo tra attivazioni e cessazioni segna +260mila unità, analizzando solo il lavoro a tempo indeterminato c’è un calo di 78mila contratti. A questo dato, comunque, vanno aggiunte 84.334 trasformazioni: 62.705 da tempo determinato a indeterminato e 21.629 da apprendistato a tempo indeterminato.
I NUMERI DELL’ISTAT – A pochi giorni di distanza, gli ultimi dati Istat sul mercato lavoro che fanno tanto piacere al premier. Nel secondo trimestre del 2016 l’occupazione complessiva cresce in modo sostenuto rispetto al trimestre precedente (+0,8%). Tradotto: 189mila occupati in più. “Le dinamiche tendenziali tra il secondo trimestre del 2016 e lo stesso periodo dell’anno precedente corrispondono a una crescita complessiva di 439mila occupati su base annua”, scrive l’Istat. Nel periodo di riferimento risultano occupate, al netto degli effetti stagionali, 22 milioni e 786mila persone. Crescono i dipendenti a tempo indeterminato (+0,3%, 46mila), quelli a termine (+3,2%, 76mila) e gli indipendenti (+1,2%, 68mila). A livello territoriale, l’aumento è maggiore nel Mezzogiorno (+1,4%) in confronto al Centro (+0,8%) e al Nord (+0,6%). Scendono al 22,3%, sempre nel secondo trimestre 2016, i ragazzi che non sono impegnati a scuola né a lavoro, i Neet (Not in Education, Employment or Training). Su base annua “la crescita complessiva – stando al report – è di 439mila occupati con una significativa crescita degli occupati di 15-34 anni (+223mila su basa annua)”. E mentre il tasso di occupazione sale di 0,5 punti, soprattutto per i 15-34enni (+0,8 punti) e per i 50-64enni (+0,6 punti), quello di disoccupazione, dopo la stabilità nei due trimestri precedenti, diminuisce in misura lieve (-0,1 punti) attestandosi all’11,5%. Il tasso di inattività tra i 15 e i 64 anni continua a diminuire in misura più consistente (-0,5 punti rispetto a -0,2 e -0,1 punti nel primo 2016 e nel quarto 2015).
L’ANALISI: “DATI GONFIATI DAL PICCO DI ASSUNZIONI CON GLI SGRAVI” – Ma se i dati non sono in contraddizione, che Paese raccontano? “I dati – spiega Loy – sembrano non coincidere anche perché la fotografia dell’Istat racchiude anche l’ondata delle assunzioni di fine 2015 dovuta alle decontribuzioni”. A far aumentare le percentuali, insomma, “sono state anche quelle persone assunte dalle aziende tra novembre e dicembre scorsi”. Allo stesso tempo il Sistema delle comunicazioni obbligatorie a cui fa riferimento il ministero del Lavoro “ci dice che c’è stato un picco nel 2015, seguito da un prevedibile calo nel 2016, soprattutto delle assunzioni a tempo indeterminato”. L’incrocio di questi dati, però, consente un’analisi: “I valori di crescita nel lavoro registrati dall’Istat si allineano a quelli economici – sottolinea il segretario confederale della Uil – e corrispondono al basso tasso di crescita del Paese”. D’altro canto le comunicazioni obbligatorie dicono che le aziende sono più prudenti sia quanto a numero di contratti, sia quanto alla tipologia, tanto che i numeri negativi riguardano quelli a tempo indeterminato. “Qualora questa tendenza dovesse continuare – è la conclusione di Loy – gli effetti si vedranno. Anche sui dati Istat”.
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Re: IL LAVORO
“I voucher? Non fanno emergere il lavoro nero
Utili solo a tenere bassi i costi”. Parola di Inps
Lo studio di tre ricercatori dell’istituto sui buoni da 10 euro: “Sono un girone infernale, l’unica fonte di reddito per i precari che non riescono a salire nell’Olimpo dei contratti stabili. E se li abolissimo?”
Tito Boeri 990
Lavoro & Precari
I voucher destinati sulla carta a remunerare le prestazioni di lavoro occasionale non fanno emergere il sommerso. Ma servono piuttosto a inquadrare una forma di lavoro precario e a basso costo, costringendo chi viene pagato in questo modo in un vero “girone infernale” da cui è difficile uscire. Lo scrive nero su bianco l’Inps nel suo recente Quaderno di ricerche sul lavoro accessorio. “Una delle (irrealistiche) aspettative del legislatore era che il voucher servisse per l’emersione dal nero”, si legge nello studio. “Prove statistiche affidabili di un tale passaggio non sono state ottenute, né lo possono essere se non in via del tutto indiziaria” di Fiorina Capozzi
Utili solo a tenere bassi i costi”. Parola di Inps
Lo studio di tre ricercatori dell’istituto sui buoni da 10 euro: “Sono un girone infernale, l’unica fonte di reddito per i precari che non riescono a salire nell’Olimpo dei contratti stabili. E se li abolissimo?”
Tito Boeri 990
Lavoro & Precari
I voucher destinati sulla carta a remunerare le prestazioni di lavoro occasionale non fanno emergere il sommerso. Ma servono piuttosto a inquadrare una forma di lavoro precario e a basso costo, costringendo chi viene pagato in questo modo in un vero “girone infernale” da cui è difficile uscire. Lo scrive nero su bianco l’Inps nel suo recente Quaderno di ricerche sul lavoro accessorio. “Una delle (irrealistiche) aspettative del legislatore era che il voucher servisse per l’emersione dal nero”, si legge nello studio. “Prove statistiche affidabili di un tale passaggio non sono state ottenute, né lo possono essere se non in via del tutto indiziaria” di Fiorina Capozzi
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Re: IL LAVORO
Da Il Fatto Quotidiano:
I giovani che lasciano l’Italia per lavorare all’estero sono stati 40 mila nel 2015
Per farli rientrare, Renzi potrebbe nominarli senatori nel nuovo Palazzo Madama
I giovani che lasciano l’Italia per lavorare all’estero sono stati 40 mila nel 2015
Per farli rientrare, Renzi potrebbe nominarli senatori nel nuovo Palazzo Madama
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Re: IL LAVORO
il manifesto 13.10.16
«Caporalato, Renzi metta la fiducia sulla legge»
Premio Jerry Masslo. Susanna Camusso al premier: «Una volta tanto lo faccia sui diritti fondamentali delle persone», la leader del sindacato all'iniziativa della Flai Cgil contro lo sfruttamento della manodopera nei campi
di Antonio Sciotto
MONDRAGONE (Caserta) «Spesso accettiamo di lavorare senza contratto, per un salario molto basso, senza contributi e senza ferie. Accettiamo anche di pagare per lavorare, anche se non abbiamo i soldi per tornare a casa». La voce di Valentina Vasylionova rimbomba tra i palazzoni scrostati di Mondragone, nel casertano, tra i panni stesi e gli sguardi diffidenti della gente del posto: i lavoratori bulgari si sono avvicinati al palco della Flai Cgil solo quando hanno sentito parlare la loro lingua. Abitano in centinaia qui, braccia per le campagne del posto, 20 euro al giorno per 14 ore di fatica. Quando prende la parola Susanna Camusso, si rivolge direttamente al premier Matteo Renzi: «Metta la fiducia sulla legge contro il caporalato, perché lo ha già fatto tante altre volte: ma quando si parla dei diritti fondamentali delle persone non vediamo la stessa urgenza».
La Cgil ricorda come ogni anno Jerry Masslo, il bracciante sudafricano ucciso nel 1989 a Villa Literno dopo aver difeso strenuamente i diritti dei lavoratori migranti. Siamo già alla quarta edizione del Premio istituito dalla Flai in sua memoria: quest’anno i giovani delle scuole e gli artisti riflettono sui muri in costruzione in tutta Europa e sulle politiche di accoglienza. Questa mattina, all’alba, è previsto un giro del sindacato di strada per le rotonde dove i caporali reclutano la manodopera e successivamente l’omaggio alla tomba di Masslo.
Emilia Spurcaciu, rumena, cerca di sollecitare i suoi connazionali a non arrendersi anche se le condizioni di lavoro sono dure: «Gli italiani hanno già combattuto per diritti che sono a disposizione anche per noi, non partiamo da zero. Il sindacato mi ha fatto capire che devo pretenderli anche per me: non è normale che si lavori per 20-25 euro al giorno, fino a 15 ore, quando da contratto devi avere minimo 52 euro per una giornata di 6 ore».
Prende la parola Jacob Atta, ghanese, bracciante e sindacalista a Rosarno: «Jerry è morto tanti anni fa, ma noi siamo qui per ricordare quello che ha fatto, perché come noi dopo un lungo viaggio era venuto a cercare fortuna in Italia. Non deve morire più nessuno, e noi continueremo a batterci anche se ci minacciano: qualche anno fa hanno bucato tutte e quattro le gomme del furgoncino Flai di Gioia Tauro, ma noi le abbiamo cambiate e l’indomani eravamo di nuovo sulla strada».
Adam Muka, pakistano, racconta di non essere stato pagato per ben 8 mesi, finché non è si è rivolto alla Cgil di Caserta: «Mi hanno fatto riavere stipendi e contributi. Se ti spacchi la schiena sotto il sole per tante ore, il minimo è che ti riconoscano tutti i diritti. Io vorrei iscrivermi all’università, cambiare la mia vita». Sara Moutmir, 21 anni, è nata in Marocco ma ha studiato fin dalle elementari nel nostro Paese. La conoscenza dell’italiano è preziosa per chi fa sindacato di strada: «Dico alle donne che lavorano nelle campagne che non devono avere paura: perché è proprio la nostra paura che permette a loro, agli imprenditori e ai caporali, di sfruttarci».
La segretaria generale della Flai Cgil, Ivana Galli, invita la politica a percorrere l’ultimo miglio perché si approvi finalmente la legge contro il caporalato: «È un provvedimento utile, perché estende le sanzioni, anche penali, alle imprese che utilizzano l’intermediazione illecita. Si prevede l’arresto, la confisca dei beni guadagnati violando le regole». Chiede poi alle prefetture e ai Comuni di adoperarsi perché il Protocollo firmato nel maggio scorso diventi operativo: permetterebbe di migliorare mezzi di trasporto e alloggi per chi lavora nei campi.
La segretaria Cgil Camusso insiste sull’importanza dell’accoglienza: «L’Italia ha anche straordinarie risorse di generosità, come dimostrano i cittadini di Lampedusa: dobbiamo valorizzarle proprio noi che ci crediamo».
Il caporalato e le condizioni di semi schiavitù nei campi sono «la ferita aperta del nostro Paese», e «ci sono volute purtroppo delle morti per ottenere dalla politica una nuova legge, già la seconda dopo quella che ha istituito il reato di caporalato». «Chiediamo al governo di mettere la fiducia su quella legge, come ha già fatto troppe volte: una volta tanto lo faccia sui diritti fondamentali delle persone».
«Caporalato, Renzi metta la fiducia sulla legge»
Premio Jerry Masslo. Susanna Camusso al premier: «Una volta tanto lo faccia sui diritti fondamentali delle persone», la leader del sindacato all'iniziativa della Flai Cgil contro lo sfruttamento della manodopera nei campi
di Antonio Sciotto
MONDRAGONE (Caserta) «Spesso accettiamo di lavorare senza contratto, per un salario molto basso, senza contributi e senza ferie. Accettiamo anche di pagare per lavorare, anche se non abbiamo i soldi per tornare a casa». La voce di Valentina Vasylionova rimbomba tra i palazzoni scrostati di Mondragone, nel casertano, tra i panni stesi e gli sguardi diffidenti della gente del posto: i lavoratori bulgari si sono avvicinati al palco della Flai Cgil solo quando hanno sentito parlare la loro lingua. Abitano in centinaia qui, braccia per le campagne del posto, 20 euro al giorno per 14 ore di fatica. Quando prende la parola Susanna Camusso, si rivolge direttamente al premier Matteo Renzi: «Metta la fiducia sulla legge contro il caporalato, perché lo ha già fatto tante altre volte: ma quando si parla dei diritti fondamentali delle persone non vediamo la stessa urgenza».
La Cgil ricorda come ogni anno Jerry Masslo, il bracciante sudafricano ucciso nel 1989 a Villa Literno dopo aver difeso strenuamente i diritti dei lavoratori migranti. Siamo già alla quarta edizione del Premio istituito dalla Flai in sua memoria: quest’anno i giovani delle scuole e gli artisti riflettono sui muri in costruzione in tutta Europa e sulle politiche di accoglienza. Questa mattina, all’alba, è previsto un giro del sindacato di strada per le rotonde dove i caporali reclutano la manodopera e successivamente l’omaggio alla tomba di Masslo.
Emilia Spurcaciu, rumena, cerca di sollecitare i suoi connazionali a non arrendersi anche se le condizioni di lavoro sono dure: «Gli italiani hanno già combattuto per diritti che sono a disposizione anche per noi, non partiamo da zero. Il sindacato mi ha fatto capire che devo pretenderli anche per me: non è normale che si lavori per 20-25 euro al giorno, fino a 15 ore, quando da contratto devi avere minimo 52 euro per una giornata di 6 ore».
Prende la parola Jacob Atta, ghanese, bracciante e sindacalista a Rosarno: «Jerry è morto tanti anni fa, ma noi siamo qui per ricordare quello che ha fatto, perché come noi dopo un lungo viaggio era venuto a cercare fortuna in Italia. Non deve morire più nessuno, e noi continueremo a batterci anche se ci minacciano: qualche anno fa hanno bucato tutte e quattro le gomme del furgoncino Flai di Gioia Tauro, ma noi le abbiamo cambiate e l’indomani eravamo di nuovo sulla strada».
Adam Muka, pakistano, racconta di non essere stato pagato per ben 8 mesi, finché non è si è rivolto alla Cgil di Caserta: «Mi hanno fatto riavere stipendi e contributi. Se ti spacchi la schiena sotto il sole per tante ore, il minimo è che ti riconoscano tutti i diritti. Io vorrei iscrivermi all’università, cambiare la mia vita». Sara Moutmir, 21 anni, è nata in Marocco ma ha studiato fin dalle elementari nel nostro Paese. La conoscenza dell’italiano è preziosa per chi fa sindacato di strada: «Dico alle donne che lavorano nelle campagne che non devono avere paura: perché è proprio la nostra paura che permette a loro, agli imprenditori e ai caporali, di sfruttarci».
La segretaria generale della Flai Cgil, Ivana Galli, invita la politica a percorrere l’ultimo miglio perché si approvi finalmente la legge contro il caporalato: «È un provvedimento utile, perché estende le sanzioni, anche penali, alle imprese che utilizzano l’intermediazione illecita. Si prevede l’arresto, la confisca dei beni guadagnati violando le regole». Chiede poi alle prefetture e ai Comuni di adoperarsi perché il Protocollo firmato nel maggio scorso diventi operativo: permetterebbe di migliorare mezzi di trasporto e alloggi per chi lavora nei campi.
La segretaria Cgil Camusso insiste sull’importanza dell’accoglienza: «L’Italia ha anche straordinarie risorse di generosità, come dimostrano i cittadini di Lampedusa: dobbiamo valorizzarle proprio noi che ci crediamo».
Il caporalato e le condizioni di semi schiavitù nei campi sono «la ferita aperta del nostro Paese», e «ci sono volute purtroppo delle morti per ottenere dalla politica una nuova legge, già la seconda dopo quella che ha istituito il reato di caporalato». «Chiediamo al governo di mettere la fiducia su quella legge, come ha già fatto troppe volte: una volta tanto lo faccia sui diritti fondamentali delle persone».
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Re: IL LAVORO
........E QUESTI COYOTES DI ITALIANI HANNO ANCORA IL CORAGGIO DI PENSARE A VOTARE SI
14 OTTOBRE 2016
Chiuso per fine industria: l'Espresso in edicola dal 16 ottobre
L'inchiesta di copertina sull'Italia che ha perso e continua a perdere l'industria e la "chiave" per risolvere alcuni dei problemi che ne derivano; il racconto sul perché hanno ucciso Stefano Cucchi con dettagli esclusivi; il manifesto politico di Ignazio Marino; un ingrandimento sulla politica internazionale di Vladimir Putin. Questo e altro sull'Espresso in edicola domenica con Repubblica a 2,5 euro e il resto della settimana da solo a 3 euro
VIDEO:
http://video.espresso.repubblica.it/tut ... /9294/9390
14 OTTOBRE 2016
Chiuso per fine industria: l'Espresso in edicola dal 16 ottobre
L'inchiesta di copertina sull'Italia che ha perso e continua a perdere l'industria e la "chiave" per risolvere alcuni dei problemi che ne derivano; il racconto sul perché hanno ucciso Stefano Cucchi con dettagli esclusivi; il manifesto politico di Ignazio Marino; un ingrandimento sulla politica internazionale di Vladimir Putin. Questo e altro sull'Espresso in edicola domenica con Repubblica a 2,5 euro e il resto della settimana da solo a 3 euro
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Re: IL LAVORO
.....SIAMO PASSATI DAL FASCIO ALLO SFASCIO. DAI FASCISTI AGLI SFASCISTI. QUESTA E' L'OCCASIONE DI MANDARE A CASA SUPERPINOCCHIO MUSSOLONI......
ANALISI
La fabbrica non c'è più: che disastro, che meraviglia
Il servizio di copertina dell'Espresso di domenica è dedicato alla fine dell'industria. Un fenomeno che ha modificato per sempre il nostro habitat urbano. In peggio o in meglio? Tutte e due. Ecco perché
DI LUCA SAPPINO
14 ottobre 2016
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La fabbrica non c'è più: che disastro, che meraviglia
È dedicata ai numeri di un’Italia in dismissione, la prossima copertina dell’Espresso , che arriva in edicola domenica con Repubblica. O meglio, è dedicata ai numeri di un’Italia senza più industria, un’Italia che sta chiudendo, che ha già chiuso. Negli ultimi 25 anni, infatti, Fiat, Eni e Telecom - per dire - hanno perso due terzi dei dipendenti. Un po’ è la delocalizzazione, un po’ sono i consumi che cambiano, un po’ è banalmente la crisi. Che ha così stravolto, però, anche la faccia delle nostre città.
Per carità: le città sono in continua mutazione, negli ultimi cinquant’anni se ne sono create di sempre più grandi. «La città è divenuta metropoli, con una profonda trasformazione delle relazioni sociali; e la metropoli è stata assorbita da grandi regioni urbane policentriche», è l’evoluzione fotografata da Marco Cremaschi, che insegna Teorie urbanistiche e Politiche urbane all’Università Roma Tre, «e ovunque si registra una marcata tendenza alla suburbanizzazione: nel 90 per cento degli agglomerati urbani, la popolazione dei borghi periferici, spesso comuni di prima e seconda cintura, è cresciuta più che al centro». Alcune città si popolano sempre più, altre si spopolano. Ma i loro cambiamenti dicono molto, sempre, della società, delle contraddizioni dell’economia, delle relazioni tra le persone.
L'inchiesta di copertina sull'Italia che ha perso e continua a perdere l'industria e la "chiave" per risolvere alcuni dei problemi che ne derivano; il racconto sul perché hanno ucciso Stefano Cucchi con dettagli esclusivi; il manifesto politico di Ignazio Marino; un ingrandimento sulla politica internazionale di Vladimir Putin. Questo e altro sull'Espresso in edicola domenica con Repubblica a 2,5 euro e il resto della settimana da solo a 3 euro
Una città che produce sempre meno, ad esempio, può esser una città che consuma sempre di più. In Italia, infatti, il quarto datore di lavoro è ormai Coop - raccontiamo sull’Espresso - il colosso della grande distribuzione. Ha oltre 54mila dipendenti, che sono solo 30mila in meno di Fiat, che però nel 1990 ne aveva ancora 237mila. Fiat oggi ne ha un terzo di allora, Coop ha invece raddoppiato i suoi dipendenti. In proporzione, poi, ha fatto persino meglio Esselunga della famiglia Caprotti, che ha “solo” 20mila dipendenti ma ne aveva 5mila nel 1990. Così le fabbriche diventano condomini, discoteche o ruderi, e i quartieri si riempiono di supermercati. Spesso aperti notte e giorno, perché i consumi non devono fermarsi mai.
Proprio dalle corsie di un Carrefour 24/7 Christian Raimo, scrittore e professore in un liceo romano, per Internazionale ha firmato un bellissimo reportage notturno: «L’idea dei dirigenti di Carrefour», spiega all’Espresso, «è quella che questi luoghi siano anche luoghi di socializzazione. Ma la loro è una frase buona solo per gli spot, e non solo perché dovremmo rassegnarci all’idea che l’unica socializzazione possibile sia quella dello shopping». «Molti dei lavoratori che ho conosciuto», ci dice, «mi hanno anzi raccontato come proprio il lavoro h24, i turni di sabato, la domenica e di notte, li abbia isolati». Sono dunque cittadini più soli quelli delle città che consumano h24, «anche perché l’altra faccia del lavoro notturno di una cassiera, è la giornata frenetica di chi non ha altro tempo per fare la spesa che la notte». E non solo: «Una città dei consumi è una città che sarà sempre più disuguale», continua Raimo, «una città doppia sempre più godibile per chi ha una certa disponibilità, e sempre meno vissuta da chi non può stare al suo ritmo di consumo».
A limitare i danni, o almeno a dare un ordine, dovrebbe esser l’urbanistica. Che però è la grande assente, soprattutto nelle grandi città, nelle città che sono spalmate più che diffuse. «L’urbanistica in Italia non esiste», conferma all’Espresso l’antropologo Franco La Cecla, che non per nulla ha pubblicato per Einaudi “Contro l’urbanistica”, agile lettura consigliatissima: «So benissimo che è come sparare sulla Croce rossa, ma è evidente a tutti che le nostre città sono cresciute sui disegni dei palazzinari, con il grosso dell’urbanistica impegnata, ben che va, a elaborare qualche bellissimo volo pindarico». Per La Cecla, però, non bisogna disperarsi. Anzi. «Perché le città», ci spiega, «fortunatamente stanno cambiando anche senza l’urbanistica e stanno, perlopiù, diventando dei posti migliori». «Bisogna essere degli appassionati operaisti», infatti, «per rimpiangere le fabbriche in città. Chi sopporterebbe, oggi, una ciminiera a pochi metri dalla finestra?».
Già: chi sopporterebbe di vivere in un quartiere operaio dei primi del Novecento? Nessuno. Il punto però non è quello, il punto è capire se possono sopravvivere città che offrono sempre meno lavoro - e lavoro sempre più precario. La Cecla è però ancora una volta ottimista perché «il cambiamento che stiamo vivendo non è solo economico ma antropologico», dice, e basta vedere com’è cambiata una città come Milano: «La Milano di oggi è meglio anche se non è più la Milano delle fabbriche, è meglio perché ha una migliore qualità della vita». È più bella Milano, che in effetti si è scoperta meta turistica: «Questo devono esser le città», continua La Cecla, «luogo di bellezza, di socialità e di produzione, sì, ma raffinata, che non ha bisogno di industria pesante né di meccanica. E di consumo, perché no, visto che fortunatamente non si è così americanizzato, tant’è che insieme ai centri commerciali cittadini e turisti cercano ancora il bar di quartiere».
Eccoci allora, però, alle città di Airbnb, della sharing economy e, soprattutto, della gig economy, l’economia dei lavoretti. Affittando la camera degli ospiti non si mantiene una famiglia, «ma le città ospitali creano lavoro di relazione, che può esser molto di più di quello che abbiamo adesso», dice l’antropologo che punterebbe sulle pedonalizzazioni, sul recupero dei centri storici («al Sud sono ancora quasi tutti luoghi malfamati») e sui trasporti pubblici («Un monumento al sindaco che vieta i suv», scherza). Si può lavorare più sul turismo, più sui servizi, «più sulla bellezza», per La Cecla, tenendo presente che il resto del lavoro, tanto, pare destinato «ad esser sempre più dequalificato, sempre più sfruttato». Quel poco di lavoro che resterà, peraltro. Perché sempre sull’Espresso in edicola domenica, Martin Ford, imprenditore della Silicon Valley, spiega a Fabio Chiusi come e perché «la deindustrializzazione, l’automazione in fabbrica e le aziende che delocalizzano sono soltanto la prima fase di un’evoluzione che finirà per estendersi a molti altri settori dell’economia».
E le città dovranno così cambiare ancora. Come? Dipende dalla politica e dall’urbanistica, ovviamente - sempre che decidano di avere un ruolo. «Perché se è vero che il mondo va in una direzione, che la produzione e i consumi cambiano, è vero anche che la politica può contrastare alcune tendenze», dice invece Raimo, che è molto meno ottimista. I prezzi delle case (che l’uso turistico fa ovviamente alzare), le destinazioni d’uso dei magazzini, l’offerta di spazi pubblici. E anche il lavoro, il reddito delle persone: urbanistica e politiche pubbliche possono fare molto. In Germania e in Francia, ad esempio, non esistono supermercati aperti h24, e a Friburgo ad esser aperte tutta notte sono invece le biblioteche.
«E poi basta pensare al caso Foodora», alla protesta dei fattorini che consegnano a domicilio il cibo guidati da una app: «Con le loro pettorine rosa pedalano anche nelle città francesi», continua Raimo, «ma lì non vengono pagati a cottimo, meno di tre euro a consegna, come da noi, ma all’ora, sette euro come minimo». Lavoratori pagati meglio o con un reddito minimo, dunque, per avere cittadini che saranno meno esclusi nelle città dei consumi. «L’urbanistica da sola non può risolvere le disuguaglianze che sempre più caratterizzano le nostre città», conferma all’Espresso Paolo Berdini. Urbanista e assessore tecnico della giunta romana di Virginia Raggi, Berdini alla crisi dei grandi comuni italiani e del welfare urbano ha dedicato un recente saggio, "Città fallite" (Donzelli, 2015). E infatti aggiunge: «Il reddito di cittadinanza e un welfare adeguato sono pilastri altrettanto fondamentali per evitare che le città falliscano, sommerse non solo dai debiti spesso generati proprio da un’urbanizzazione scellerata».
ANALISI
La fabbrica non c'è più: che disastro, che meraviglia
Il servizio di copertina dell'Espresso di domenica è dedicato alla fine dell'industria. Un fenomeno che ha modificato per sempre il nostro habitat urbano. In peggio o in meglio? Tutte e due. Ecco perché
DI LUCA SAPPINO
14 ottobre 2016
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La fabbrica non c'è più: che disastro, che meraviglia
È dedicata ai numeri di un’Italia in dismissione, la prossima copertina dell’Espresso , che arriva in edicola domenica con Repubblica. O meglio, è dedicata ai numeri di un’Italia senza più industria, un’Italia che sta chiudendo, che ha già chiuso. Negli ultimi 25 anni, infatti, Fiat, Eni e Telecom - per dire - hanno perso due terzi dei dipendenti. Un po’ è la delocalizzazione, un po’ sono i consumi che cambiano, un po’ è banalmente la crisi. Che ha così stravolto, però, anche la faccia delle nostre città.
Per carità: le città sono in continua mutazione, negli ultimi cinquant’anni se ne sono create di sempre più grandi. «La città è divenuta metropoli, con una profonda trasformazione delle relazioni sociali; e la metropoli è stata assorbita da grandi regioni urbane policentriche», è l’evoluzione fotografata da Marco Cremaschi, che insegna Teorie urbanistiche e Politiche urbane all’Università Roma Tre, «e ovunque si registra una marcata tendenza alla suburbanizzazione: nel 90 per cento degli agglomerati urbani, la popolazione dei borghi periferici, spesso comuni di prima e seconda cintura, è cresciuta più che al centro». Alcune città si popolano sempre più, altre si spopolano. Ma i loro cambiamenti dicono molto, sempre, della società, delle contraddizioni dell’economia, delle relazioni tra le persone.
L'inchiesta di copertina sull'Italia che ha perso e continua a perdere l'industria e la "chiave" per risolvere alcuni dei problemi che ne derivano; il racconto sul perché hanno ucciso Stefano Cucchi con dettagli esclusivi; il manifesto politico di Ignazio Marino; un ingrandimento sulla politica internazionale di Vladimir Putin. Questo e altro sull'Espresso in edicola domenica con Repubblica a 2,5 euro e il resto della settimana da solo a 3 euro
Una città che produce sempre meno, ad esempio, può esser una città che consuma sempre di più. In Italia, infatti, il quarto datore di lavoro è ormai Coop - raccontiamo sull’Espresso - il colosso della grande distribuzione. Ha oltre 54mila dipendenti, che sono solo 30mila in meno di Fiat, che però nel 1990 ne aveva ancora 237mila. Fiat oggi ne ha un terzo di allora, Coop ha invece raddoppiato i suoi dipendenti. In proporzione, poi, ha fatto persino meglio Esselunga della famiglia Caprotti, che ha “solo” 20mila dipendenti ma ne aveva 5mila nel 1990. Così le fabbriche diventano condomini, discoteche o ruderi, e i quartieri si riempiono di supermercati. Spesso aperti notte e giorno, perché i consumi non devono fermarsi mai.
Proprio dalle corsie di un Carrefour 24/7 Christian Raimo, scrittore e professore in un liceo romano, per Internazionale ha firmato un bellissimo reportage notturno: «L’idea dei dirigenti di Carrefour», spiega all’Espresso, «è quella che questi luoghi siano anche luoghi di socializzazione. Ma la loro è una frase buona solo per gli spot, e non solo perché dovremmo rassegnarci all’idea che l’unica socializzazione possibile sia quella dello shopping». «Molti dei lavoratori che ho conosciuto», ci dice, «mi hanno anzi raccontato come proprio il lavoro h24, i turni di sabato, la domenica e di notte, li abbia isolati». Sono dunque cittadini più soli quelli delle città che consumano h24, «anche perché l’altra faccia del lavoro notturno di una cassiera, è la giornata frenetica di chi non ha altro tempo per fare la spesa che la notte». E non solo: «Una città dei consumi è una città che sarà sempre più disuguale», continua Raimo, «una città doppia sempre più godibile per chi ha una certa disponibilità, e sempre meno vissuta da chi non può stare al suo ritmo di consumo».
A limitare i danni, o almeno a dare un ordine, dovrebbe esser l’urbanistica. Che però è la grande assente, soprattutto nelle grandi città, nelle città che sono spalmate più che diffuse. «L’urbanistica in Italia non esiste», conferma all’Espresso l’antropologo Franco La Cecla, che non per nulla ha pubblicato per Einaudi “Contro l’urbanistica”, agile lettura consigliatissima: «So benissimo che è come sparare sulla Croce rossa, ma è evidente a tutti che le nostre città sono cresciute sui disegni dei palazzinari, con il grosso dell’urbanistica impegnata, ben che va, a elaborare qualche bellissimo volo pindarico». Per La Cecla, però, non bisogna disperarsi. Anzi. «Perché le città», ci spiega, «fortunatamente stanno cambiando anche senza l’urbanistica e stanno, perlopiù, diventando dei posti migliori». «Bisogna essere degli appassionati operaisti», infatti, «per rimpiangere le fabbriche in città. Chi sopporterebbe, oggi, una ciminiera a pochi metri dalla finestra?».
Già: chi sopporterebbe di vivere in un quartiere operaio dei primi del Novecento? Nessuno. Il punto però non è quello, il punto è capire se possono sopravvivere città che offrono sempre meno lavoro - e lavoro sempre più precario. La Cecla è però ancora una volta ottimista perché «il cambiamento che stiamo vivendo non è solo economico ma antropologico», dice, e basta vedere com’è cambiata una città come Milano: «La Milano di oggi è meglio anche se non è più la Milano delle fabbriche, è meglio perché ha una migliore qualità della vita». È più bella Milano, che in effetti si è scoperta meta turistica: «Questo devono esser le città», continua La Cecla, «luogo di bellezza, di socialità e di produzione, sì, ma raffinata, che non ha bisogno di industria pesante né di meccanica. E di consumo, perché no, visto che fortunatamente non si è così americanizzato, tant’è che insieme ai centri commerciali cittadini e turisti cercano ancora il bar di quartiere».
Eccoci allora, però, alle città di Airbnb, della sharing economy e, soprattutto, della gig economy, l’economia dei lavoretti. Affittando la camera degli ospiti non si mantiene una famiglia, «ma le città ospitali creano lavoro di relazione, che può esser molto di più di quello che abbiamo adesso», dice l’antropologo che punterebbe sulle pedonalizzazioni, sul recupero dei centri storici («al Sud sono ancora quasi tutti luoghi malfamati») e sui trasporti pubblici («Un monumento al sindaco che vieta i suv», scherza). Si può lavorare più sul turismo, più sui servizi, «più sulla bellezza», per La Cecla, tenendo presente che il resto del lavoro, tanto, pare destinato «ad esser sempre più dequalificato, sempre più sfruttato». Quel poco di lavoro che resterà, peraltro. Perché sempre sull’Espresso in edicola domenica, Martin Ford, imprenditore della Silicon Valley, spiega a Fabio Chiusi come e perché «la deindustrializzazione, l’automazione in fabbrica e le aziende che delocalizzano sono soltanto la prima fase di un’evoluzione che finirà per estendersi a molti altri settori dell’economia».
E le città dovranno così cambiare ancora. Come? Dipende dalla politica e dall’urbanistica, ovviamente - sempre che decidano di avere un ruolo. «Perché se è vero che il mondo va in una direzione, che la produzione e i consumi cambiano, è vero anche che la politica può contrastare alcune tendenze», dice invece Raimo, che è molto meno ottimista. I prezzi delle case (che l’uso turistico fa ovviamente alzare), le destinazioni d’uso dei magazzini, l’offerta di spazi pubblici. E anche il lavoro, il reddito delle persone: urbanistica e politiche pubbliche possono fare molto. In Germania e in Francia, ad esempio, non esistono supermercati aperti h24, e a Friburgo ad esser aperte tutta notte sono invece le biblioteche.
«E poi basta pensare al caso Foodora», alla protesta dei fattorini che consegnano a domicilio il cibo guidati da una app: «Con le loro pettorine rosa pedalano anche nelle città francesi», continua Raimo, «ma lì non vengono pagati a cottimo, meno di tre euro a consegna, come da noi, ma all’ora, sette euro come minimo». Lavoratori pagati meglio o con un reddito minimo, dunque, per avere cittadini che saranno meno esclusi nelle città dei consumi. «L’urbanistica da sola non può risolvere le disuguaglianze che sempre più caratterizzano le nostre città», conferma all’Espresso Paolo Berdini. Urbanista e assessore tecnico della giunta romana di Virginia Raggi, Berdini alla crisi dei grandi comuni italiani e del welfare urbano ha dedicato un recente saggio, "Città fallite" (Donzelli, 2015). E infatti aggiunge: «Il reddito di cittadinanza e un welfare adeguato sono pilastri altrettanto fondamentali per evitare che le città falliscano, sommerse non solo dai debiti spesso generati proprio da un’urbanizzazione scellerata».
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Re: IL LAVORO
MA SONO COSI’ BENESTANTI QUESTI ITALIANI CHE VOTANO SI????????
Dalla terza pagina del Fatto Quotidiano:
I DATl INPS Senza l’articolo 18, le cessazioni per “motivi disciplinari”crescono del 31 %. Tempo determinato a picco: solo precari e voucher
Jobs act e contratti: crollano
gli stabili, boom di licenziati.
E’ notorio che la memoria dei tricolori è troppo labile.
Si sono già dimenticati quale governo ha abolito l’articolo 18?????
Se lo chiedete a Google, tra l’altro vi risponde:
Via libera al Senato, il Jobs act è legge: abolito l'articolo 18 - La Stampa
http://www.lastampa.it › Politica
1.
2.
03 dic 2014 - Via libera al Senato, il Jobs act è legge: abolito l'articolo 18 .... Quei decreti che ilgoverno ha già in serbo, pronti per essere emanati, primo .... d'azienda) ad una azienda italiana con diversi siti anche all'estero la quale ha una .
Poi, Pinocchio Mussoloni è corso in Germania per presentare il “FATTO” alla zia Merkel.
Già dimenticato tutto?????
Dalla terza pagina del Fatto Quotidiano:
I DATl INPS Senza l’articolo 18, le cessazioni per “motivi disciplinari”crescono del 31 %. Tempo determinato a picco: solo precari e voucher
Jobs act e contratti: crollano
gli stabili, boom di licenziati.
E’ notorio che la memoria dei tricolori è troppo labile.
Si sono già dimenticati quale governo ha abolito l’articolo 18?????
Se lo chiedete a Google, tra l’altro vi risponde:
Via libera al Senato, il Jobs act è legge: abolito l'articolo 18 - La Stampa
http://www.lastampa.it › Politica
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03 dic 2014 - Via libera al Senato, il Jobs act è legge: abolito l'articolo 18 .... Quei decreti che ilgoverno ha già in serbo, pronti per essere emanati, primo .... d'azienda) ad una azienda italiana con diversi siti anche all'estero la quale ha una .
Poi, Pinocchio Mussoloni è corso in Germania per presentare il “FATTO” alla zia Merkel.
Già dimenticato tutto?????
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Re: IL LAVORO
DOPO LA STRAGE DELLA DIMINUIZIONE DEI POSTI DI LAVORO NELLE BANCHE ADESSO TOCCA AI CALL CENTER
E POI GLI ITALIANI HANNO ANCORA IL CORAGGIO DI VOTARE SI
Call center, a rischio quasi 80mila posti di lavori
"Bisogna intervenire contro le gare al ribasso rispettando i minimi contrattuali e contrastare la delocalizzazione sanzionando chi porta all'estero i call center"
Marta Proietti - Mer, 19/10/2016 - 17:03
commenta
Nel settore dei call center, senza interventi normativi rapidi, si rischia di perdere 70/80 mila posti di lavoro.
È l'allarme lanciato dai sindacati, a margine di un'audizione informale in commissione lavoro al Senato sulla vertenza Almaviva, che ha annunciato oltre 2500 tagli.
"Se non si interviene, in pochi mesi ci ritroveremo di fronte a una situazione drammatica con problemi di ordine pubblico", avvertono i sindacati. I punti da affrontare urgentemente, hanno spiegato Giorgio Serao della Fistel, Riccardo Saccone della Slc Cgil e Pierpaolo Mischi della Uilcom, sono "un intervento contro le gare al massimo ribasso rispettando i minimi contrattuali, un serio contrasto alla delocalizzazione (la norma è contenuta nel ddl Concorrenza ancora non approvato) e sanzioni per chi porta all'estero i call center, ammortizzatori sociali ordinari per il settore e non in deroga come sono attualmente". Le responsabilità, concludono, "sono soprattutto di governo e parlamento".
Ieri, intanto, la vertenza di Almaviva è tornata al ministero dello Sviluppo economico. Sul tavolo ci sono ancora i trasferimenti di 135 lavoratori da Palermo a Rende, in Calabria. La vicenda è iniziata con la perdita della commessa Enel che a dicembre non rinnoverà il contratto. E dei 300 lavoratori che rispondono ai telefoni della società elettrica, i primi 135 dovrebbero fare le valigie già dal 24 ottobre.
Il nodo dei traferimenti è solo uno dei problemi che assilla i lavoratori di Almaviva, che pochi giorni fa ha annunciato oltre 2.500 licenziamenti tra Roma e Napoli. Un'ipotesi irricevibile per i sindacati. "Basterebbe - ha spiegato Susanna Camusso, segretario generale Cgil - che le grandi aziende pubbliche non facessero le gare al massimo ribasso, ma pagassero, secondo norme e contratti, i lavoratori e anche gli appalti. Un settore come quello dei call center non può essere privo di ammortizzatori sociali e di risposte. Bisogna dare attuazione a quelle norme che sono state fatte e poi non sono state applicate, come quelle che impediscono la delocalizzazione e il fatto che dati sensibili, come quelli che passano attraverso i call center, possano andare in altri Paesi".
E POI GLI ITALIANI HANNO ANCORA IL CORAGGIO DI VOTARE SI
Call center, a rischio quasi 80mila posti di lavori
"Bisogna intervenire contro le gare al ribasso rispettando i minimi contrattuali e contrastare la delocalizzazione sanzionando chi porta all'estero i call center"
Marta Proietti - Mer, 19/10/2016 - 17:03
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Nel settore dei call center, senza interventi normativi rapidi, si rischia di perdere 70/80 mila posti di lavoro.
È l'allarme lanciato dai sindacati, a margine di un'audizione informale in commissione lavoro al Senato sulla vertenza Almaviva, che ha annunciato oltre 2500 tagli.
"Se non si interviene, in pochi mesi ci ritroveremo di fronte a una situazione drammatica con problemi di ordine pubblico", avvertono i sindacati. I punti da affrontare urgentemente, hanno spiegato Giorgio Serao della Fistel, Riccardo Saccone della Slc Cgil e Pierpaolo Mischi della Uilcom, sono "un intervento contro le gare al massimo ribasso rispettando i minimi contrattuali, un serio contrasto alla delocalizzazione (la norma è contenuta nel ddl Concorrenza ancora non approvato) e sanzioni per chi porta all'estero i call center, ammortizzatori sociali ordinari per il settore e non in deroga come sono attualmente". Le responsabilità, concludono, "sono soprattutto di governo e parlamento".
Ieri, intanto, la vertenza di Almaviva è tornata al ministero dello Sviluppo economico. Sul tavolo ci sono ancora i trasferimenti di 135 lavoratori da Palermo a Rende, in Calabria. La vicenda è iniziata con la perdita della commessa Enel che a dicembre non rinnoverà il contratto. E dei 300 lavoratori che rispondono ai telefoni della società elettrica, i primi 135 dovrebbero fare le valigie già dal 24 ottobre.
Il nodo dei traferimenti è solo uno dei problemi che assilla i lavoratori di Almaviva, che pochi giorni fa ha annunciato oltre 2.500 licenziamenti tra Roma e Napoli. Un'ipotesi irricevibile per i sindacati. "Basterebbe - ha spiegato Susanna Camusso, segretario generale Cgil - che le grandi aziende pubbliche non facessero le gare al massimo ribasso, ma pagassero, secondo norme e contratti, i lavoratori e anche gli appalti. Un settore come quello dei call center non può essere privo di ammortizzatori sociali e di risposte. Bisogna dare attuazione a quelle norme che sono state fatte e poi non sono state applicate, come quelle che impediscono la delocalizzazione e il fatto che dati sensibili, come quelli che passano attraverso i call center, possano andare in altri Paesi".
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