DI TUTTO E DI PIU'
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
.....UN ASPETTO ESTREMO DELLA VITA....
La Stampa 5.10.16
“Grazie a Dio, papà è stato giustiziato”
Il figlio di Hans Frank, il governatore nazista della Polonia racconta a Forlì l’orrore per il padre
di Niklas Frank
Dovete immaginarvi mio padre Hans Frank come un uomo viscido, dal carattere sfuggente. È stata la sua viltà a condurlo alla forca. Grazie a Dio è stato giustiziato a Norimberga il 16 ottobre 1946. Sono contrario alla pena di morte, ma per mio padre farei un’eccezione ancora oggi. Almeno, per una volta, ha potuto sperimentare quella paura della morte che ha imposto milioni di volte a persone innocenti.
Le ultime parole
Mio padre Hans Frank è stato ministro del Terzo Reich senza portafoglio e governatore generale della Polonia. In base alle leggi del Reich si trovava lì in qualità di rappresentante di Hitler, e dunque è stato il responsabile politico di ogni assassinio avvenuto nel governatorato. Al processo di Norimberga ha riconosciuto la sua colpa nel massacro degli ebrei - anche se solo per pochi minuti - e ha poi concluso la sua sorprendente confessione con la frase: «Passeranno mille anni e questa colpa della Germania non sarà cancellata». Perché ha sparso così, improvvisamente, la sua colpa personale sulle teste di 80 milioni di tedeschi? In chiusura ha però detto: «Voglio rettificare solo una cosa: nella mia confessione ho parlato di mille anni, prima che la colpa del nostro popolo causata dal comportamento di Hitler venga cancellata. Non solo il comportamento dei nostri nemici di guerra - accuratamente tenuto fuori da questo processo - nei confronti del nostro popolo e dei nostri soldati, ma anche gli enormi stermini di massa commessi nei confronti di tedeschi, per quello che ho potuto io stesso constatare, soprattutto in Prussia Orientale, Slesia, Pomerania e nella zona dei Sudeti da parte di russi, polacchi e cechi, e che tuttora vengono perpetrati, hanno di fatto già oggi azzerato completamente la colpa del nostro popolo».
Con queste parole marciava già sulla strada della negazione dei crimini tedeschi per il dopoguerra della Germania: compensando i propri crimini con quelli degli alleati, egli minimizzava i propri. Malgrado le prove schiaccianti presentate nel corso di un lungo processo, mio padre non aveva capito nulla. Malgrado in prigione si fosse fatto battezzare secondo il rito cattolico, anche se avesse avuto un’apparizione di Gesù nella sua cella, è rimasto un tipico tedesco: ostinato, deciso a non vedere, vile e viscido fino alla fine della sua vita. Io disprezzo lui e il suo Gesù tinto di nazionalsocialismo.
Il modo in cui mio padre ragionava è ben rappresentato dal suo rapporto con Mussolini. Lui amava il Duce. Così scriveva in un suo manoscritto strappalacrime redatto in prigione e che successivamente mia madre autopubblicò (ed ebbe anche un certo successo) con il titolo: Di fronte alla forca: «Oggi sono stato oggetto di un suo benvenuto davvero cordiale. Ci siamo seduti al tavolo uno di fronte all’altro. La sua testa aveva una struttura gigante con una fronte meravigliosamente geniale, sotto i grandi, potenti e nerissimi occhi brillava la vita, così come io non l’avevo mai vista in nessun altro uomo, non con questa inesauribile e fiammeggiante intensità. Mussolini era nato grande, e a differenza di Hitler era uno spirito libero, né possedeva, come invece Hitler, quell’ideologia pericolosa e fanatica».
«Il caro Mussolini»
Mio padre era legato a lui da un amore pieno e untuoso. E continuava: «Tutto ciò che viene detto oggi su Mussolini dai suoi nemici, che con il suo ignominioso assassinio portano il peso di una tremenda ingiustizia, è completamente sbagliato. Egli amava il suo popolo sopra ogni cosa, e per esso voleva il meglio».
Al contrario di mio padre sono ancora oggi profondamente invidioso del popolo italiano, che al contrario di quello tedesco, si è sbarazzato personalmente del suo Führer, anche se in modo brutale e in forme contrarie allo stato di diritto.
Per anni mia madre ha intrattenuto un affettuoso epistolario con Edda Ciano Mussolini, con alcuna consapevolezza, da entrambe le parti, dei crimini commessi dai rispettivi marito e padre. Nella nostra famiglia veniva spesso raccontato con orgoglio che Mussolini, dopo la sua liberazione da parte dei tedeschi, come prima cosa avesse detto. «E adesso deve venire il ministro della Giustizia Frank!». Per quanto ne so, mio padre è ancora cittadino onorario di Bologna… Chissà se in qualità di figlio posso girare gratuitamente sui bus della città?
Per quanto riguarda la colpa tedesca, lo Stato tedesco, in quanto successore legale del Terzo Reich, deve preoccuparsi che i risarcimenti alle vittime vengano garantiti nel modo più generoso possibile. La cosa però è stata accettata dalla Germania con riluttanza, e ancora molti procedimenti sono in attesa di essere regolati. Noi, un Paese ricco sfondato, non possiamo in alcun modo nasconderci dietro sofismi legali.
Temete i tedeschi
Una colpa individuale sussiste solo ancora fra quei pochissimi tedeschi ancora in vita che all’epoca presero parte attiva ai crimini. Noi altri tedeschi siamo tutti non colpevoli. Ci rendiamo tuttavia colpevoli nella misura in cui non riconosciamo i nostri crimini come tali. E in conseguenza di questo, secondo me, alberga presso di noi un antisemitismo in divenire sempre più audace e un crescente odio per i richiedenti asilo. Io amo la Germania, ma non mi fido dei tedeschi. Non abbiamo imparato nulla dai crimini dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Dunque, temeteci
La Stampa 5.10.16
“Grazie a Dio, papà è stato giustiziato”
Il figlio di Hans Frank, il governatore nazista della Polonia racconta a Forlì l’orrore per il padre
di Niklas Frank
Dovete immaginarvi mio padre Hans Frank come un uomo viscido, dal carattere sfuggente. È stata la sua viltà a condurlo alla forca. Grazie a Dio è stato giustiziato a Norimberga il 16 ottobre 1946. Sono contrario alla pena di morte, ma per mio padre farei un’eccezione ancora oggi. Almeno, per una volta, ha potuto sperimentare quella paura della morte che ha imposto milioni di volte a persone innocenti.
Le ultime parole
Mio padre Hans Frank è stato ministro del Terzo Reich senza portafoglio e governatore generale della Polonia. In base alle leggi del Reich si trovava lì in qualità di rappresentante di Hitler, e dunque è stato il responsabile politico di ogni assassinio avvenuto nel governatorato. Al processo di Norimberga ha riconosciuto la sua colpa nel massacro degli ebrei - anche se solo per pochi minuti - e ha poi concluso la sua sorprendente confessione con la frase: «Passeranno mille anni e questa colpa della Germania non sarà cancellata». Perché ha sparso così, improvvisamente, la sua colpa personale sulle teste di 80 milioni di tedeschi? In chiusura ha però detto: «Voglio rettificare solo una cosa: nella mia confessione ho parlato di mille anni, prima che la colpa del nostro popolo causata dal comportamento di Hitler venga cancellata. Non solo il comportamento dei nostri nemici di guerra - accuratamente tenuto fuori da questo processo - nei confronti del nostro popolo e dei nostri soldati, ma anche gli enormi stermini di massa commessi nei confronti di tedeschi, per quello che ho potuto io stesso constatare, soprattutto in Prussia Orientale, Slesia, Pomerania e nella zona dei Sudeti da parte di russi, polacchi e cechi, e che tuttora vengono perpetrati, hanno di fatto già oggi azzerato completamente la colpa del nostro popolo».
Con queste parole marciava già sulla strada della negazione dei crimini tedeschi per il dopoguerra della Germania: compensando i propri crimini con quelli degli alleati, egli minimizzava i propri. Malgrado le prove schiaccianti presentate nel corso di un lungo processo, mio padre non aveva capito nulla. Malgrado in prigione si fosse fatto battezzare secondo il rito cattolico, anche se avesse avuto un’apparizione di Gesù nella sua cella, è rimasto un tipico tedesco: ostinato, deciso a non vedere, vile e viscido fino alla fine della sua vita. Io disprezzo lui e il suo Gesù tinto di nazionalsocialismo.
Il modo in cui mio padre ragionava è ben rappresentato dal suo rapporto con Mussolini. Lui amava il Duce. Così scriveva in un suo manoscritto strappalacrime redatto in prigione e che successivamente mia madre autopubblicò (ed ebbe anche un certo successo) con il titolo: Di fronte alla forca: «Oggi sono stato oggetto di un suo benvenuto davvero cordiale. Ci siamo seduti al tavolo uno di fronte all’altro. La sua testa aveva una struttura gigante con una fronte meravigliosamente geniale, sotto i grandi, potenti e nerissimi occhi brillava la vita, così come io non l’avevo mai vista in nessun altro uomo, non con questa inesauribile e fiammeggiante intensità. Mussolini era nato grande, e a differenza di Hitler era uno spirito libero, né possedeva, come invece Hitler, quell’ideologia pericolosa e fanatica».
«Il caro Mussolini»
Mio padre era legato a lui da un amore pieno e untuoso. E continuava: «Tutto ciò che viene detto oggi su Mussolini dai suoi nemici, che con il suo ignominioso assassinio portano il peso di una tremenda ingiustizia, è completamente sbagliato. Egli amava il suo popolo sopra ogni cosa, e per esso voleva il meglio».
Al contrario di mio padre sono ancora oggi profondamente invidioso del popolo italiano, che al contrario di quello tedesco, si è sbarazzato personalmente del suo Führer, anche se in modo brutale e in forme contrarie allo stato di diritto.
Per anni mia madre ha intrattenuto un affettuoso epistolario con Edda Ciano Mussolini, con alcuna consapevolezza, da entrambe le parti, dei crimini commessi dai rispettivi marito e padre. Nella nostra famiglia veniva spesso raccontato con orgoglio che Mussolini, dopo la sua liberazione da parte dei tedeschi, come prima cosa avesse detto. «E adesso deve venire il ministro della Giustizia Frank!». Per quanto ne so, mio padre è ancora cittadino onorario di Bologna… Chissà se in qualità di figlio posso girare gratuitamente sui bus della città?
Per quanto riguarda la colpa tedesca, lo Stato tedesco, in quanto successore legale del Terzo Reich, deve preoccuparsi che i risarcimenti alle vittime vengano garantiti nel modo più generoso possibile. La cosa però è stata accettata dalla Germania con riluttanza, e ancora molti procedimenti sono in attesa di essere regolati. Noi, un Paese ricco sfondato, non possiamo in alcun modo nasconderci dietro sofismi legali.
Temete i tedeschi
Una colpa individuale sussiste solo ancora fra quei pochissimi tedeschi ancora in vita che all’epoca presero parte attiva ai crimini. Noi altri tedeschi siamo tutti non colpevoli. Ci rendiamo tuttavia colpevoli nella misura in cui non riconosciamo i nostri crimini come tali. E in conseguenza di questo, secondo me, alberga presso di noi un antisemitismo in divenire sempre più audace e un crescente odio per i richiedenti asilo. Io amo la Germania, ma non mi fido dei tedeschi. Non abbiamo imparato nulla dai crimini dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Dunque, temeteci
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
Repubblica 5.10.16
“Progettati per vivere fino a 122 anni” ecco il limite alla longevità dell’uomo
La nostra aspettativa di vita si allunga a ritmi sempre più lenti, scopre una ricerca su Nature: “Siamo ormai vicini al tetto”
Ma gli esperti di invecchiamento rilanciano: “Se c’è un muro noi lo abbatteremo”
di Elena Dusi
ROMA. Vivremo “solo” 122 anni. Oltre non è possibile andare: è scritto nel nostro orologio biologico. La tesi arriva da Jan Vijg dell’Albert Einstein College di New York su
Nature.
Come il nostro corpo non è costruito per correre a cento all’ora, così non riusciremo mai a superare il limite imposto dal nostro “metronomo biologico”, rafforza il concetto in un editoriale Jay Olshansky dell’università dell’Illinois.
Lo studio parte dall’analisi demografica dell’oggi. La donna più anziana, la francese Jeanne Calment, è morta a 122 anni nel 1997. Da allora è aumentato il numero di centenari nel mondo, eppure nessuno ha superato il suo record, come ci si sarebbe, invece, attesi. Dal 1997 «i guadagni si stanno riducendo, in termini di aspettativa di vita dei superanziani » scrivono Vijg e colleghi. «Evidentemente esiste un limite alla lunghezza della vita umana ». Anno dopo anno, dopo la morte di Jeanne Calment, il record di longevità si è andato abbassando. Oggi appartiene a un’italiana, Emma Morano, che ha “appena” 116 anni.
Lo studio, basato su registri demografici, è stato accolto come una provocazione dalla vivacissima comunità dei biologi che da una ventina d’anni si dedica alla manipolazione di quel metronomo. «Esiste un muro? E noi proveremo a superarlo» replica Claudio Franceschi dell’università di Bologna, coordinatore del progetto europeo Nu-Age su cibo e invecchiamento e referente per l’Italia di quello Mark-Age per trovare un marcatore dell’età biologica rispetto a quella anagrafica. «Nel verme C.elegans abbiamo allungato la vita di 10 volte, nel moscerino della frutta di 2, nel topo del 30%. L’uomo è un organismo più complesso, ma è ovvio che esistano strade per estendere la vita, soprattutto quella trascorsa in salute. Non esiste alcun programma genetico che a un certo punto ci ordini di morire».
Le strade per abbattere il muro, o anche solo per spostarlo più in là, sono diverse. Una è la dieta: si è visto che in molte specie animali una restrizione calorica del 30% (un regime prossimo all’inedia, poco adatto agli umani) attiva meccanismi genetici che allungano la vita. Franceschi ha da poco pubblicato uno studio su
Current Biology che dimostra come molti centenari abbiano una composizione particolare dei batteri intestinali, ricca di alcune specie e povera di altri: «Quando capiremo il perché, riusciremo forse a sintetizzare le sostanze prodotte da quei batteri buoni». Delle pillole, come surrogati della restrizione calorica, capaci di attivare gli stessi meccanismi genetici, sono già in sperimentazione: le più importanti sono rapamicina e metformina. E prima ancora che la scienza abbia rischiarato il cammino, il business dei faramci allunga-vita è esploso. Google, nel 2013 ha fondato la Calico “per capire meglio la biologia che controlla la durata della vita”.
Che il “metronomo biologico” non batta per tutti allo stesso ritmo - e che dunque ognuno abbia il suo muro individuale - è stato dimostrato da Steve Horvath. Il bioinformatico dell’università della California nel 2013 ha scoperto un metodo preciso quasi al 100% (basato sulla metilazione, ovvero sulla capacità di accendersi e spegnersi dei vari geni) per calcolare l’invecchiamento. «I 105enni che ho studiato - spiega Franceschi - avevano un’età biologica di 8 anni inferiore a quella anagrafica. Lo stesso valeva per i loro figli ». Per Luigi Fontana, esperto di restrizione calorica e invecchiamento all’università di Brescia e alla Washington University, ad allungare la vita dovremmo anzi dedicarci con più impegno: «Oggi siamo abituati a diagnosticare malattie e curarle con farmaci o chirurgia. Dovremmo invece imparare a conoscere i meccanismi molecolari dell’invecchiamento per prevenirli. Risparmieremmo soldi e guadagneremmo salute».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Nessuno ha superato il record di Jeanne Calment. Ma i centenari sono sempre di più Tagliare le calorie del 30% attiva i meccanismi genetici che scacciano le cause di morte
“Progettati per vivere fino a 122 anni” ecco il limite alla longevità dell’uomo
La nostra aspettativa di vita si allunga a ritmi sempre più lenti, scopre una ricerca su Nature: “Siamo ormai vicini al tetto”
Ma gli esperti di invecchiamento rilanciano: “Se c’è un muro noi lo abbatteremo”
di Elena Dusi
ROMA. Vivremo “solo” 122 anni. Oltre non è possibile andare: è scritto nel nostro orologio biologico. La tesi arriva da Jan Vijg dell’Albert Einstein College di New York su
Nature.
Come il nostro corpo non è costruito per correre a cento all’ora, così non riusciremo mai a superare il limite imposto dal nostro “metronomo biologico”, rafforza il concetto in un editoriale Jay Olshansky dell’università dell’Illinois.
Lo studio parte dall’analisi demografica dell’oggi. La donna più anziana, la francese Jeanne Calment, è morta a 122 anni nel 1997. Da allora è aumentato il numero di centenari nel mondo, eppure nessuno ha superato il suo record, come ci si sarebbe, invece, attesi. Dal 1997 «i guadagni si stanno riducendo, in termini di aspettativa di vita dei superanziani » scrivono Vijg e colleghi. «Evidentemente esiste un limite alla lunghezza della vita umana ». Anno dopo anno, dopo la morte di Jeanne Calment, il record di longevità si è andato abbassando. Oggi appartiene a un’italiana, Emma Morano, che ha “appena” 116 anni.
Lo studio, basato su registri demografici, è stato accolto come una provocazione dalla vivacissima comunità dei biologi che da una ventina d’anni si dedica alla manipolazione di quel metronomo. «Esiste un muro? E noi proveremo a superarlo» replica Claudio Franceschi dell’università di Bologna, coordinatore del progetto europeo Nu-Age su cibo e invecchiamento e referente per l’Italia di quello Mark-Age per trovare un marcatore dell’età biologica rispetto a quella anagrafica. «Nel verme C.elegans abbiamo allungato la vita di 10 volte, nel moscerino della frutta di 2, nel topo del 30%. L’uomo è un organismo più complesso, ma è ovvio che esistano strade per estendere la vita, soprattutto quella trascorsa in salute. Non esiste alcun programma genetico che a un certo punto ci ordini di morire».
Le strade per abbattere il muro, o anche solo per spostarlo più in là, sono diverse. Una è la dieta: si è visto che in molte specie animali una restrizione calorica del 30% (un regime prossimo all’inedia, poco adatto agli umani) attiva meccanismi genetici che allungano la vita. Franceschi ha da poco pubblicato uno studio su
Current Biology che dimostra come molti centenari abbiano una composizione particolare dei batteri intestinali, ricca di alcune specie e povera di altri: «Quando capiremo il perché, riusciremo forse a sintetizzare le sostanze prodotte da quei batteri buoni». Delle pillole, come surrogati della restrizione calorica, capaci di attivare gli stessi meccanismi genetici, sono già in sperimentazione: le più importanti sono rapamicina e metformina. E prima ancora che la scienza abbia rischiarato il cammino, il business dei faramci allunga-vita è esploso. Google, nel 2013 ha fondato la Calico “per capire meglio la biologia che controlla la durata della vita”.
Che il “metronomo biologico” non batta per tutti allo stesso ritmo - e che dunque ognuno abbia il suo muro individuale - è stato dimostrato da Steve Horvath. Il bioinformatico dell’università della California nel 2013 ha scoperto un metodo preciso quasi al 100% (basato sulla metilazione, ovvero sulla capacità di accendersi e spegnersi dei vari geni) per calcolare l’invecchiamento. «I 105enni che ho studiato - spiega Franceschi - avevano un’età biologica di 8 anni inferiore a quella anagrafica. Lo stesso valeva per i loro figli ». Per Luigi Fontana, esperto di restrizione calorica e invecchiamento all’università di Brescia e alla Washington University, ad allungare la vita dovremmo anzi dedicarci con più impegno: «Oggi siamo abituati a diagnosticare malattie e curarle con farmaci o chirurgia. Dovremmo invece imparare a conoscere i meccanismi molecolari dell’invecchiamento per prevenirli. Risparmieremmo soldi e guadagneremmo salute».
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Nessuno ha superato il record di Jeanne Calment. Ma i centenari sono sempre di più Tagliare le calorie del 30% attiva i meccanismi genetici che scacciano le cause di morte
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
MONDO
Iran, la sposa bambina a rischio impiccagione
Mondo
di Tiziana Ciavardini | 12 ottobre 2016
COMMENTI (263)
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Tiziana Ciavardini
Giornalista e antropologa
Post | Articoli
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In Iran domani una giovane donna potrebbe essere giustiziata per aver ucciso suo marito quando aveva solo 17 anni. L’Iran non ci sorprende più, ormai lo conosciamo. Le aperture moderate del Presidente Hassan Rohani sono solo uno specchietto per le allodole. Tutto è come prima, i diritti negati sono sempre gli stessi. Le esecuzioni continuano e le condanne a morte vengono regolarmente eseguite.
Oggi si teme per la vita di Zeinab Sekaanvand Lokran, una ragazza curdo-iraniana di 22 anni, arrestata nel febbraio del 2012. Per sposare suo marito Hossein Sarmadi, la giovane Zeinab scappò di casa sperando in quel matrimonio come unica via di fuga da una famiglia ultraconservatrice e molto povera. Aveva sposato suo marito a soli 15 anni e lei stessa avrebbe confessato di averlo ucciso con una coltellata, dopo averne subito ripetute violenze fisiche e verbali alle quali era sottoposta quotidianamente. Un marito violento che non avrebbe accettato mai la richiesta di divorzio che la giovane donna le aveva avanzato. Zeinab aveva denunciato più volte le violenze del marito, denunce mai prese sul serio a cui quindi non seguì mai alcun provvedimento contro di lui.
Pensare che una giovane donna possa venire giustiziata per essersi difesa dal proprio marito è inaccettabile. Noi che in Italia siamo ormai assuefatti ai continui femminicidi, da parte di uomini che massacrano le proprie donne dicendo di amarle; noi, non possiamo rimanere indifferenti a una donna che difende se stessa davanti a un marito violento. Non possiamo tacere oggi, nemmeno se la difesa implica un omicidio.
Purtroppo le notizie che arrivano dall’Iran e quelle che ruotano attorno alle cause di questo genere non sono mai chiare e spesso anche le informazioni non sono mai trasparenti. Non abbiamo letto gli atti del processo ma qualcuno parla di processi iniqui, una consuetudine in Iran. L’unica cosa certa è che una ragazza di 22 anni potrebbe essere impiccata per aver commesso un omicidio. In Iran la pena di morte è contemplata in vari reati che vanno dall’uso allo spaccio di droga e per altri crimini quali omicidi violenze ecc.
In questo secondo caso non è lo stato a decidere, ma è la stessa famiglia della vittima che potrebbe impedire l’esecuzione della giovane ragazza, in questo caso salvandola dal patibolo e consegnandola a vita al carcere. Le autorità iraniane hanno sempre sostenuto infatti di “non poter rifiutare alla famiglia della persona uccisa il diritto legale di reclamare il qisas, il principio cioè dell’occhio per occhio”. Il qisas è probabilmente il solo diritto che il popolo iraniano può legittimamente rivendicare.
Questo caso in particolare vede la figura del fratello della vittima, come una delle figure chiave nella vicenda. Sembra infatti che la giovane Zeinab mentre si trovava in carcere abbia ritrattato la sua versione dicendo che ad uccidere suo marito fosse stato il fratello del marito stesso. Fratello che dai racconti l’avrebbe violentata più volte. La ragazza secondo un esame medico sembra sia affetta da disturbi comportamentali e disturbi depressivi. Non vi sono tracce però di cure durante la sua detenzione in carcere.
L’esecuzione di Zeinab sarebbe dovuta avvenire nel 2014, ma venne rinviata in quanto la ragazza, dopo essersi sposata in carcere con un prigioniero, rimase incinta. Il bambino però nacque morto e sembra che il decesso sia stato causato dal forte choc che la ragazza avrebbe subito dopo l’esecuzione della sua compagna di cella. Tutte le associazioni per i Diritti Umani si stanno attivando a difesa di Zainab.
Purtroppo l’Iran non cambia: è senza pietà. L’Iran non guarda l’età del detenuto, non fa differenza di genere, non considera le circostanze e in questo caso soprattutto non tiene conto delle attenuanti come i disturbi psichici. L’Iran ce lo ha spiegato molto bene, nel corso degli anni, non ascolta la comunità internazionale, non dà importanza a chi vorrebbe aiutare a cambiare leggi medievali all’interno del paese che non hanno più senso di esistere. Qualche anno fa l’Iran ci ha ricordato bene che le mobilitazioni internazionali a poco servono; quando nell’ottobre del 2014 venne impiccata Reyhaneh Jabbari, la giovane donna iraniana che per difendersi dal suo violentatore lo uccise, il mondo intero chiese pietà ma l’Iran non ascoltò.
Ora il caso di Zeinab ci riporta nell’incubo di una esecuzione ingiusta. L’Iran, in quanto firmatario della Convenzione sui diritti del fanciullo, è obbligato a vietare le condanne a morte per i minori ma continua ad seguire condanne anche di detenuti che erano minorenni nel momento del reato. Noi, non possiamo più stare a guardare e rimanere impotenti davanti a tanto orrore. Oggi più che mai dovremmo chiederci di quale civiltà ci siamo dotati se nemmeno riusciamo ad evitare che ancora avvengano episodi dolorosi, strazianti e inaccettabili come questo.
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Iran @khamenei_ir must halt execution of 22-year-old Iranian Kurdish woman who was just 17 when arrested #SaveZeinab https://www.amnesty.org/en/documents/md ... 9/2016/en/ …
10:31 - 10 Ott 2016
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In Iran domani una giovane donna potrebbe essere giustiziata per aver ucciso suo marito quando aveva solo 17 anni. L’Iran non ci sorprende più, ormai lo conosciamo. Le aperture moderate del Presidente Hassan Rohani sono solo uno specchietto per le allodole. Tutto è come prima, i diritti negati sono sempre gli stessi. Le esecuzioni continuano e le condanne a morte vengono regolarmente eseguite.
Oggi si teme per la vita di Zeinab Sekaanvand Lokran, una ragazza curdo-iraniana di 22 anni, arrestata nel febbraio del 2012. Per sposare suo marito Hossein Sarmadi, la giovane Zeinab scappò di casa sperando in quel matrimonio come unica via di fuga da una famiglia ultraconservatrice e molto povera. Aveva sposato suo marito a soli 15 anni e lei stessa avrebbe confessato di averlo ucciso con una coltellata, dopo averne subito ripetute violenze fisiche e verbali alle quali era sottoposta quotidianamente. Un marito violento che non avrebbe accettato mai la richiesta di divorzio che la giovane donna le aveva avanzato. Zeinab aveva denunciato più volte le violenze del marito, denunce mai prese sul serio a cui quindi non seguì mai alcun provvedimento contro di lui.
Pensare che una giovane donna possa venire giustiziata per essersi difesa dal proprio marito è inaccettabile. Noi che in Italia siamo ormai assuefatti ai continui femminicidi, da parte di uomini che massacrano le proprie donne dicendo di amarle; noi, non possiamo rimanere indifferenti a una donna che difende se stessa davanti a un marito violento. Non possiamo tacere oggi, nemmeno se la difesa implica un omicidio.
Purtroppo le notizie che arrivano dall’Iran e quelle che ruotano attorno alle cause di questo genere non sono mai chiare e spesso anche le informazioni non sono mai trasparenti. Non abbiamo letto gli atti del processo ma qualcuno parla di processi iniqui, una consuetudine in Iran. L’unica cosa certa è che una ragazza di 22 anni potrebbe essere impiccata per aver commesso un omicidio. In Iran la pena di morte è contemplata in vari reati che vanno dall’uso allo spaccio di droga e per altri crimini quali omicidi violenze ecc.
In questo secondo caso non è lo stato a decidere, ma è la stessa famiglia della vittima che potrebbe impedire l’esecuzione della giovane ragazza, in questo caso salvandola dal patibolo e consegnandola a vita al carcere. Le autorità iraniane hanno sempre sostenuto infatti di “non poter rifiutare alla famiglia della persona uccisa il diritto legale di reclamare il qisas, il principio cioè dell’occhio per occhio”. Il qisas è probabilmente il solo diritto che il popolo iraniano può legittimamente rivendicare.
Questo caso in particolare vede la figura del fratello della vittima, come una delle figure chiave nella vicenda. Sembra infatti che la giovane Zeinab mentre si trovava in carcere abbia ritrattato la sua versione dicendo che ad uccidere suo marito fosse stato il fratello del marito stesso. Fratello che dai racconti l’avrebbe violentata più volte. La ragazza secondo un esame medico sembra sia affetta da disturbi comportamentali e disturbi depressivi. Non vi sono tracce però di cure durante la sua detenzione in carcere.
L’esecuzione di Zeinab sarebbe dovuta avvenire nel 2014, ma venne rinviata in quanto la ragazza, dopo essersi sposata in carcere con un prigioniero, rimase incinta. Il bambino però nacque morto e sembra che il decesso sia stato causato dal forte choc che la ragazza avrebbe subito dopo l’esecuzione della sua compagna di cella. Tutte le associazioni per i Diritti Umani si stanno attivando a difesa di Zainab.
Purtroppo l’Iran non cambia: è senza pietà. L’Iran non guarda l’età del detenuto, non fa differenza di genere, non considera le circostanze e in questo caso soprattutto non tiene conto delle attenuanti come i disturbi psichici. L’Iran ce lo ha spiegato molto bene, nel corso degli anni, non ascolta la comunità internazionale, non dà importanza a chi vorrebbe aiutare a cambiare leggi medievali all’interno del paese che non hanno più senso di esistere. Qualche anno fa l’Iran ci ha ricordato bene che le mobilitazioni internazionali a poco servono; quando nell’ottobre del 2014 venne impiccata Reyhaneh Jabbari, la giovane donna iraniana che per difendersi dal suo violentatore lo uccise, il mondo intero chiese pietà ma l’Iran non ascoltò.
Ora il caso di Zeinab ci riporta nell’incubo di una esecuzione ingiusta. L’Iran, in quanto firmatario della Convenzione sui diritti del fanciullo, è obbligato a vietare le condanne a morte per i minori ma continua ad seguire condanne anche di detenuti che erano minorenni nel momento del reato. Noi, non possiamo più stare a guardare e rimanere impotenti davanti a tanto orrore. Oggi più che mai dovremmo chiederci di quale civiltà ci siamo dotati se nemmeno riusciamo ad evitare che ancora avvengano episodi dolorosi, strazianti e inaccettabili come questo.
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
Corriere 13.10.16
Sarà messa a morte in Iran la ragazza di 22 anni che uccise il marito violento
di Viviana Mazza
Aveva 15 anni quando si è sposata, a 17 è stata arrestata con l’accusa di aver ucciso il marito. Oggi, a 22 anni, Zeinab Sekaanvand rischia di morire impiccata in Iran. Due associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani — «Iran Human Rights» e «Amnesty International» — chiedono alla Repubblica Islamica di sospendere l’esecuzione perché il processo è stato «viziato da gravi irregolarità» e perché la pena di morte è vietata dal diritto internazionale nei confronti di chi ha commesso un reato quando era minorenne.
Zeinab Sekaanvand è cresciuta in una famiglia povera e conservatrice di etnia curda della provincia dell’Azerbagian occidentale, l’estrema punta nordovest dell’Iran. Per sposarsi era scappata di casa, sognando una vita migliore. Ma il marito Hossein Sarmadi aveva cominciato a picchiarla. Lei si era rivolta alla polizia, invano. Il marito le negava il divorzio, né la ragazza poteva ritornare dai genitori che l’avevano rinnegata. Il primo marzo 2012, quando Hossein Sarmadi fu trovato ucciso, Zeinab fu arrestata: incarcerata per 20 giorni e, secondo Amnesty International, torturata dagli agenti, confessò di averlo accoltellato. Prima del processo, cambiò versione e indicò il cognato, che l’aveva stuprata più volte, come il vero assassino. Lui l’avrebbe convinta a confessare, promettendole il perdono in cambio di un risarcimento secondo la legge islamica.
La Corte non le ha creduto. Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights, che ha esaminato i documenti, crede all’innocenza di Zeinab. «Il tribunale non ha nemmeno ricostruito la scena del crimine — dice al Corriere —. Risulta che la vittima sia stata colpita alle spalle: c’era del sangue sul muro dietro di lui, ma non sui vestiti della donna». Condannare una minorenne alla pena capitale, inoltre, è una violazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia. L’Iran l’ha firmata ma continua a punire come adulti i bambini a partire dai 15 anni e le bambine dai 9, anche se si aspetta che compiano la maggiore età prima di impiccarli. Un recente emendamento nel codice penale prevede che il giudice possa valutare se il minorenne era in grado di comprendere le conseguenze dei suoi atti, ma nel caso di Zeinab questa norma è stata ignorata. Nella prigione di Urmia, l’anno scorso Zeinab ha sposato — con il consenso delle autorità — un altro detenuto, ed è rimasta incinta: l’esecuzione è stata posticipata, essendo illegale impiccare una donna in gravidanza; ma il 30 settembre il figlio è nato morto, dunque ora può essere impiccata.
Sarà messa a morte in Iran la ragazza di 22 anni che uccise il marito violento
di Viviana Mazza
Aveva 15 anni quando si è sposata, a 17 è stata arrestata con l’accusa di aver ucciso il marito. Oggi, a 22 anni, Zeinab Sekaanvand rischia di morire impiccata in Iran. Due associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani — «Iran Human Rights» e «Amnesty International» — chiedono alla Repubblica Islamica di sospendere l’esecuzione perché il processo è stato «viziato da gravi irregolarità» e perché la pena di morte è vietata dal diritto internazionale nei confronti di chi ha commesso un reato quando era minorenne.
Zeinab Sekaanvand è cresciuta in una famiglia povera e conservatrice di etnia curda della provincia dell’Azerbagian occidentale, l’estrema punta nordovest dell’Iran. Per sposarsi era scappata di casa, sognando una vita migliore. Ma il marito Hossein Sarmadi aveva cominciato a picchiarla. Lei si era rivolta alla polizia, invano. Il marito le negava il divorzio, né la ragazza poteva ritornare dai genitori che l’avevano rinnegata. Il primo marzo 2012, quando Hossein Sarmadi fu trovato ucciso, Zeinab fu arrestata: incarcerata per 20 giorni e, secondo Amnesty International, torturata dagli agenti, confessò di averlo accoltellato. Prima del processo, cambiò versione e indicò il cognato, che l’aveva stuprata più volte, come il vero assassino. Lui l’avrebbe convinta a confessare, promettendole il perdono in cambio di un risarcimento secondo la legge islamica.
La Corte non le ha creduto. Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights, che ha esaminato i documenti, crede all’innocenza di Zeinab. «Il tribunale non ha nemmeno ricostruito la scena del crimine — dice al Corriere —. Risulta che la vittima sia stata colpita alle spalle: c’era del sangue sul muro dietro di lui, ma non sui vestiti della donna». Condannare una minorenne alla pena capitale, inoltre, è una violazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia. L’Iran l’ha firmata ma continua a punire come adulti i bambini a partire dai 15 anni e le bambine dai 9, anche se si aspetta che compiano la maggiore età prima di impiccarli. Un recente emendamento nel codice penale prevede che il giudice possa valutare se il minorenne era in grado di comprendere le conseguenze dei suoi atti, ma nel caso di Zeinab questa norma è stata ignorata. Nella prigione di Urmia, l’anno scorso Zeinab ha sposato — con il consenso delle autorità — un altro detenuto, ed è rimasta incinta: l’esecuzione è stata posticipata, essendo illegale impiccare una donna in gravidanza; ma il 30 settembre il figlio è nato morto, dunque ora può essere impiccata.
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
Corriere La Lettura 16.10.16
Evoluzione. Resta un giallo la comparsa del linguaggio
Chomsky non rifiuta più il neodarwinismo: una buona notizia
di Telmo Pievani
Un abisso separa Homo sapiens da tutti gli altri animali: il linguaggio. In quanto abisso, la sua evoluzione resta un mistero, anzi un giallo. In Perché solo noi (Bollati Boringhieri) due autorevoli linguisti del Mit di Boston, Robert Berwick e Noam Chomsky, provano a cercare il colpevole e pensano di averlo finalmente trovato. Innanzitutto chiariscono che cosa si è evoluto, cioè il nocciolo della facoltà linguistica umana espressa nei suoi minimi termini. Noi parliamo grazie a principi computazionali semplici e ottimali. L’organo del linguaggio è un processo cerebrale basato su un minimo di regole trasformazionali, uniformi e geneticamente fissate in tutti gli esseri umani moderni, indipendentemente dalla lingua specifica che poi istintivamente impariamo da piccoli. Questa grammatica generativa trova il suo fulcro nella struttura gerarchica della sintassi, che ricorsivamente ci permette di esprimere combinazioni potenzialmente infinite di frasi.
Va da sé che, una volta definita la facoltà del linguaggio in questi termini minimalisti e computazionali, come una macchina interna perfetta, una capacità del genere ce l’abbiamo solo noi: nessuna speranza di avvicinamento a questo modello sintattico gerarchico per gli uccelli canori, i cetacei, i primati. E nemmeno per i cugini stretti neanderthaliani. Tutto il resto, cioè l’esternalizzazione del linguaggio, è secondario. La relazione col mondo esterno, attraverso vocalizzazioni o segni, è condivisa con altri animali in vario grado, ma non è decisiva, perché il linguaggio non si è evoluto per la comunicazione, secondo Berwick e Chomsky. Ciascuna delle innumerevoli lingue di cui abbiamo traccia scritta negli ultimi 5.000 anni è come una stampante che trascrive in modo ogni volta diverso il lavoro dello stesso computer: ciò che conta è il processore interno, che è universale.
Ma come si è evoluta la capacità innovativa di assemblare gerarchicamente le strutture sintattiche? Chomsky rinuncia alla vecchia idea secondo cui il linguaggio sarebbe troppo complesso per essersi evoluto gradualmente come pensava Darwin. Non rifiuta più in blocco il neodarwinismo, e questa è una buona notizia per riaprire un dialogo tra evoluzionisti e linguisti (chomskiani). La nuova ipotesi è che il linguaggio si sia evoluto come effetto casuale propagatosi in un piccolo gruppo, come una mutazione innovativa emersa per deriva genetica più che per selezione naturale. Insomma, una combinazione di circostanze rare e fortunate.
Più precisamente lo scenario è quello di un leggero e rapido ricablaggio neurale (si suppone la chiusura ad anello di un fascio di fibre tra aree ventrale e dorsale), cioè un bricolage evolutivo a partire da circuiti corticali già esistenti, innescatosi a partire da una piccola mutazione genetica accaduta intorno a 80 mila anni fa in un ristretto gruppo umano africano, di cui siamo tutti discendenti. Un piccolo cambiamento biologico con grandi effetti mentali. Così nacque secondo i due autori la capacità generativa ricorsiva potenzialmente infinita del linguaggio umano, che portò Homo sapiens a uscire dall’Africa e a dominare il mondo, estinguendo le altre forme umane come Neanderthal e Denisova, che non avrebbero avuto questa riorganizzazione cerebrale. Il vantaggio non fu quello di comunicare meglio, ma di pensare meglio, attraverso un collante cognitivo interno che integrò in modo nuovo gli altri sistemi percettivi e cognitivi. Il linguaggio quindi si sarebbe evoluto per il pensiero, permettendoci combinazioni infinite di simboli e la creazione mentale di mondi possibili. Solo successivamente si diversificarono le lingue, come espressioni contingenti di questa capacità.
La congettura è suggestiva e fa leva su indizi interessanti, anche se ve sono altrettanti che sembrano smentirla: per esempio i segni crescenti di intelligenza simbolica in Neanderthal e forse anche in specie più antiche. L’ipotesi stessa di Berwick e Chomsky prevede in molti passaggi la selezione naturale e non è vero che la biologia moderna «si è allontanata dall’originaria concezione darwiniana dell’evoluzione come cambiamento adattativo risultante dalla selezione tra individui». Il problema maggiore di questa impostazione sta nel presupporre ancora che la teoria evoluzionistica odierna implichi uno stretto gradualismo funzionalista, con l’obbligo di ipotesi che prevedano successioni di modificazioni lievi e numerose, su tempi lunghissimi. Ma quello è solo il darwinismo stereotipato difeso da alcuni divulgatori come Richard Dawkins e Steven Pinker, che è sbagliato identificare come esponenti della «biologia mainstream ». L’evoluzione è un gioco complesso di relazioni ecologiche, mentre nel libro non si fa alcun cenno al contesto reale in cui tutta questa bellissima storia sarebbe avvenuta. Il giallo, dunque, continua.
Evoluzione. Resta un giallo la comparsa del linguaggio
Chomsky non rifiuta più il neodarwinismo: una buona notizia
di Telmo Pievani
Un abisso separa Homo sapiens da tutti gli altri animali: il linguaggio. In quanto abisso, la sua evoluzione resta un mistero, anzi un giallo. In Perché solo noi (Bollati Boringhieri) due autorevoli linguisti del Mit di Boston, Robert Berwick e Noam Chomsky, provano a cercare il colpevole e pensano di averlo finalmente trovato. Innanzitutto chiariscono che cosa si è evoluto, cioè il nocciolo della facoltà linguistica umana espressa nei suoi minimi termini. Noi parliamo grazie a principi computazionali semplici e ottimali. L’organo del linguaggio è un processo cerebrale basato su un minimo di regole trasformazionali, uniformi e geneticamente fissate in tutti gli esseri umani moderni, indipendentemente dalla lingua specifica che poi istintivamente impariamo da piccoli. Questa grammatica generativa trova il suo fulcro nella struttura gerarchica della sintassi, che ricorsivamente ci permette di esprimere combinazioni potenzialmente infinite di frasi.
Va da sé che, una volta definita la facoltà del linguaggio in questi termini minimalisti e computazionali, come una macchina interna perfetta, una capacità del genere ce l’abbiamo solo noi: nessuna speranza di avvicinamento a questo modello sintattico gerarchico per gli uccelli canori, i cetacei, i primati. E nemmeno per i cugini stretti neanderthaliani. Tutto il resto, cioè l’esternalizzazione del linguaggio, è secondario. La relazione col mondo esterno, attraverso vocalizzazioni o segni, è condivisa con altri animali in vario grado, ma non è decisiva, perché il linguaggio non si è evoluto per la comunicazione, secondo Berwick e Chomsky. Ciascuna delle innumerevoli lingue di cui abbiamo traccia scritta negli ultimi 5.000 anni è come una stampante che trascrive in modo ogni volta diverso il lavoro dello stesso computer: ciò che conta è il processore interno, che è universale.
Ma come si è evoluta la capacità innovativa di assemblare gerarchicamente le strutture sintattiche? Chomsky rinuncia alla vecchia idea secondo cui il linguaggio sarebbe troppo complesso per essersi evoluto gradualmente come pensava Darwin. Non rifiuta più in blocco il neodarwinismo, e questa è una buona notizia per riaprire un dialogo tra evoluzionisti e linguisti (chomskiani). La nuova ipotesi è che il linguaggio si sia evoluto come effetto casuale propagatosi in un piccolo gruppo, come una mutazione innovativa emersa per deriva genetica più che per selezione naturale. Insomma, una combinazione di circostanze rare e fortunate.
Più precisamente lo scenario è quello di un leggero e rapido ricablaggio neurale (si suppone la chiusura ad anello di un fascio di fibre tra aree ventrale e dorsale), cioè un bricolage evolutivo a partire da circuiti corticali già esistenti, innescatosi a partire da una piccola mutazione genetica accaduta intorno a 80 mila anni fa in un ristretto gruppo umano africano, di cui siamo tutti discendenti. Un piccolo cambiamento biologico con grandi effetti mentali. Così nacque secondo i due autori la capacità generativa ricorsiva potenzialmente infinita del linguaggio umano, che portò Homo sapiens a uscire dall’Africa e a dominare il mondo, estinguendo le altre forme umane come Neanderthal e Denisova, che non avrebbero avuto questa riorganizzazione cerebrale. Il vantaggio non fu quello di comunicare meglio, ma di pensare meglio, attraverso un collante cognitivo interno che integrò in modo nuovo gli altri sistemi percettivi e cognitivi. Il linguaggio quindi si sarebbe evoluto per il pensiero, permettendoci combinazioni infinite di simboli e la creazione mentale di mondi possibili. Solo successivamente si diversificarono le lingue, come espressioni contingenti di questa capacità.
La congettura è suggestiva e fa leva su indizi interessanti, anche se ve sono altrettanti che sembrano smentirla: per esempio i segni crescenti di intelligenza simbolica in Neanderthal e forse anche in specie più antiche. L’ipotesi stessa di Berwick e Chomsky prevede in molti passaggi la selezione naturale e non è vero che la biologia moderna «si è allontanata dall’originaria concezione darwiniana dell’evoluzione come cambiamento adattativo risultante dalla selezione tra individui». Il problema maggiore di questa impostazione sta nel presupporre ancora che la teoria evoluzionistica odierna implichi uno stretto gradualismo funzionalista, con l’obbligo di ipotesi che prevedano successioni di modificazioni lievi e numerose, su tempi lunghissimi. Ma quello è solo il darwinismo stereotipato difeso da alcuni divulgatori come Richard Dawkins e Steven Pinker, che è sbagliato identificare come esponenti della «biologia mainstream ». L’evoluzione è un gioco complesso di relazioni ecologiche, mentre nel libro non si fa alcun cenno al contesto reale in cui tutta questa bellissima storia sarebbe avvenuta. Il giallo, dunque, continua.
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
Il Sole Domenica 16.10.16
Nazismo
La «cultura» della purezza razziale
La concezione che portò allo sterminio di massa fu attuata non solo da Hitler e dal partito, ma da una foltissima schiera di dotti giuristi, scienziati, medici, teologi e giornalisti
di Emilio Gentile
Nel 1945, diciotto medici tedeschi di un ospedale pediatrico furono processati dal tribunale di Amburgo, su iniziativa delle truppe di occupazione britanniche, perché accusati di aver assassinato con iniezioni letali cinquantasei bambini malati. Il direttore dell’ospedale respinse l’accusa di «crimine contro l’umanità» perché tale crimine, disse agli inquirenti britannici, «non può essere commesso che contro uomini, mentre gli esseri viventi di cui dovevamo occuparci non possono essere qualificati come “esseri umani”». Cinque anni dopo, i giudici assolsero gli imputati affermando di «aver creduto alla legalità dei loro atti».
Inizia con questo episodio un’ampia indagine dello storico francese Johann Chapoutot sul modo di pensare e di agire dei nazisti, ricostruito con una folta documentazione di oltre milleduecento libri e articoli pubblicati durante il regime nazista negli ambiti più vari, dai testi ideologici alla letteratura pedagogica, dal diritto alla medicina, dalla biologia alla filosofia, dall’antropologia alla storia e alla geografia, con l’aggiunta di una cinquantina di film prodotti dal Terzo Reich. Dall’indagine, suddivisa per temi, emerge un’elaborata e coerente concezione nazista del mondo, che fu messa in pratica durante i dodici anni del dominio hitleriano. Il nazismo attuò così una rivoluzione culturale oltre che politica, per istituire un diritto, una morale, un’etica e una religione esclusivamente tedesche, fondate sulla superiorità biologica della razza germanica, e per inculcare nel popolo tedesco l’imperativo categorico di preservare la purezza del sangue, che era l’essenza della sua superiorità su tutte le altre razze. Milioni di tedeschi si convinsero che per preservare l’integrità e la salvezza della razza germanica, era necessario eliminare con la sterilizzazione o l’eutanasia le persone afflitte da mali ereditari; impedire la contaminazione biologica con altre razze; invadere i Paesi dell’Europa orientale per conquistare spazio vitale alla razza germanica e sottomettere gli slavi come schiavi. E soprattutto si convinsero della necessità inevitabile di una spietata guerra razziale contro gli ebrei, fino alla loro totale eliminazione, perché da seimila anni l’ebreo era il nemico naturale del popolo tedesco, un pericolo mortale per la sua purezza e la sua integrità, come il bacillo della tubercolosi per un corpo sano e vigoroso.
Per molti decenni dopo la fine del regime hitleriano, la concezione nazista del mondo è stata considerata dagli storici una paccottiglia di farneticanti elucubrazioni, esibite da folli criminali per adornare con arcaici miti una sfrenata libidine di potere, che alla fine si sfogò con una barbarica guerra di conquista e con il sadico sterminio organizzato di oltre cinque milioni di ebrei. La follia, la barbarie, il sadismo apparivano motivi sufficienti per spiegare storicamente la criminalità del nazismo, alimentata anche dall’avidità di un capitalismo imperialista che per due volte nell’arco di trent’anni aveva tentato di dare l’assalto al potere mondiale provocando due guerre mondiali.
Comune a queste interpretazioni, osserva Chapoutot, era la «disumanizzazione dei protagonisti del crimine nazista», ma in tal modo, aggiunge, «facendo di loro dei soggetti estranei alla nostra comune umanità, noi ci esoneriamo da ogni riflessione sull’uomo, l’Europa, la modernità, l’Occidente, insomma su tutti i luoghi che i criminali nazisti abitano, dei quali partecipano, e che noi abbiamo in comune con loro», confortandoci al pensiero che «l’idea secondo la quale noi potremmo condividere qualcosa con gli autori di tesi e crimini così mostruosi ci ripugna». Pur se legittima, tale ripugnanza ci induce però a eludere questioni fondamentali della nostra storia e del nostro tempo, perché le idee della concezione nazista del mondo erano solo in minima parte originaria produzione dei nazisti: «Né il razzismo, né il colonialismo, né l’antisemitismo, né il darwinismo sociale o l’eugenismo sono nati tra il Reno e Memel». Inoltre «la Shoah avrebbe provocato un numero molto minore di vittime se non ci fosse stato lo zelante concorso di poliziotti e di gendarmi francesi e ungheresi», insieme a «innumerevoli nazionalisti baltici, volontari ucraini, antisemiti polacchi, alti funzionari e uomini politici pervasi da volontà di collaborazione». Come lo furono, in Italia, politici, funzionari e intellettuali fascisti.
Vi erano tuttavia movimenti culturali tedeschi che fin dall’Ottocento avevano diffuso con convinzione le idee sopra citate, e la loro presenza favorì il successo della concezione nazista, che dopo il 1933 fu messa in pratica con ossessiva tenacia non solo da Hitler e dal partito nazista, ma da una foltissima schiera di dotti giuristi, scienziati, medici, teologi, ideologi e giornalisti, con l’ausilio del cinema di finzione e del cinema documentario. Milioni di tedeschi, sia persone di elevata cultura sia gente comune, si convinsero che gli ebrei tramavano da seimila anni per distruggere il popolo tedesco, inquinandolo con incroci di sangue e con idee disgregatrici, come il cristianesimo, il diritto romano, l’individualismo, l’universalismo, l’umanitarismo, il liberalismo, il socialismo, il bolscevismo. Queste idee minavano le virtù, la morale, l’etica, le tradizioni e l’integrità della comunità germanica.
Fu la concezione nazista del mondo, diffusa con martellante, capillare, pervasiva propaganda quotidiana, a trasformare milioni di uomini e donne, non predestinati alla follia né al crimine, in zelanti esecutori della persecuzione e dello sterminio. Ogni tentazione alla pietà fu anestetizzata con l’invocazione della necessità di agire con mezzi spietati per annientare i nemici della razza germanica che da seimila anni tramavano per annientarla.
Conoscere il modo di pensare e di agire dei nazisti considerandoli uomini cresciuti e vissuti in contesti particolari, con un proprio universo di significati e di valori, è il compito proprio dello storico, afferma Chapoutot. Ciò non attenua affatto la mostruosità delle idee e dei crimini nazisti: anzi, rende ancora più consapevoli della sua gravità, perché nulla esclude che tale mostruosità possa ripetersi, con altre idee e in altri contesti, nell’azione di altri uomini convinti che essa sia necessaria per salvare la propria comunità.
Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti , Einaudi, Torino, pagg. 472, € 32
Nazismo
La «cultura» della purezza razziale
La concezione che portò allo sterminio di massa fu attuata non solo da Hitler e dal partito, ma da una foltissima schiera di dotti giuristi, scienziati, medici, teologi e giornalisti
di Emilio Gentile
Nel 1945, diciotto medici tedeschi di un ospedale pediatrico furono processati dal tribunale di Amburgo, su iniziativa delle truppe di occupazione britanniche, perché accusati di aver assassinato con iniezioni letali cinquantasei bambini malati. Il direttore dell’ospedale respinse l’accusa di «crimine contro l’umanità» perché tale crimine, disse agli inquirenti britannici, «non può essere commesso che contro uomini, mentre gli esseri viventi di cui dovevamo occuparci non possono essere qualificati come “esseri umani”». Cinque anni dopo, i giudici assolsero gli imputati affermando di «aver creduto alla legalità dei loro atti».
Inizia con questo episodio un’ampia indagine dello storico francese Johann Chapoutot sul modo di pensare e di agire dei nazisti, ricostruito con una folta documentazione di oltre milleduecento libri e articoli pubblicati durante il regime nazista negli ambiti più vari, dai testi ideologici alla letteratura pedagogica, dal diritto alla medicina, dalla biologia alla filosofia, dall’antropologia alla storia e alla geografia, con l’aggiunta di una cinquantina di film prodotti dal Terzo Reich. Dall’indagine, suddivisa per temi, emerge un’elaborata e coerente concezione nazista del mondo, che fu messa in pratica durante i dodici anni del dominio hitleriano. Il nazismo attuò così una rivoluzione culturale oltre che politica, per istituire un diritto, una morale, un’etica e una religione esclusivamente tedesche, fondate sulla superiorità biologica della razza germanica, e per inculcare nel popolo tedesco l’imperativo categorico di preservare la purezza del sangue, che era l’essenza della sua superiorità su tutte le altre razze. Milioni di tedeschi si convinsero che per preservare l’integrità e la salvezza della razza germanica, era necessario eliminare con la sterilizzazione o l’eutanasia le persone afflitte da mali ereditari; impedire la contaminazione biologica con altre razze; invadere i Paesi dell’Europa orientale per conquistare spazio vitale alla razza germanica e sottomettere gli slavi come schiavi. E soprattutto si convinsero della necessità inevitabile di una spietata guerra razziale contro gli ebrei, fino alla loro totale eliminazione, perché da seimila anni l’ebreo era il nemico naturale del popolo tedesco, un pericolo mortale per la sua purezza e la sua integrità, come il bacillo della tubercolosi per un corpo sano e vigoroso.
Per molti decenni dopo la fine del regime hitleriano, la concezione nazista del mondo è stata considerata dagli storici una paccottiglia di farneticanti elucubrazioni, esibite da folli criminali per adornare con arcaici miti una sfrenata libidine di potere, che alla fine si sfogò con una barbarica guerra di conquista e con il sadico sterminio organizzato di oltre cinque milioni di ebrei. La follia, la barbarie, il sadismo apparivano motivi sufficienti per spiegare storicamente la criminalità del nazismo, alimentata anche dall’avidità di un capitalismo imperialista che per due volte nell’arco di trent’anni aveva tentato di dare l’assalto al potere mondiale provocando due guerre mondiali.
Comune a queste interpretazioni, osserva Chapoutot, era la «disumanizzazione dei protagonisti del crimine nazista», ma in tal modo, aggiunge, «facendo di loro dei soggetti estranei alla nostra comune umanità, noi ci esoneriamo da ogni riflessione sull’uomo, l’Europa, la modernità, l’Occidente, insomma su tutti i luoghi che i criminali nazisti abitano, dei quali partecipano, e che noi abbiamo in comune con loro», confortandoci al pensiero che «l’idea secondo la quale noi potremmo condividere qualcosa con gli autori di tesi e crimini così mostruosi ci ripugna». Pur se legittima, tale ripugnanza ci induce però a eludere questioni fondamentali della nostra storia e del nostro tempo, perché le idee della concezione nazista del mondo erano solo in minima parte originaria produzione dei nazisti: «Né il razzismo, né il colonialismo, né l’antisemitismo, né il darwinismo sociale o l’eugenismo sono nati tra il Reno e Memel». Inoltre «la Shoah avrebbe provocato un numero molto minore di vittime se non ci fosse stato lo zelante concorso di poliziotti e di gendarmi francesi e ungheresi», insieme a «innumerevoli nazionalisti baltici, volontari ucraini, antisemiti polacchi, alti funzionari e uomini politici pervasi da volontà di collaborazione». Come lo furono, in Italia, politici, funzionari e intellettuali fascisti.
Vi erano tuttavia movimenti culturali tedeschi che fin dall’Ottocento avevano diffuso con convinzione le idee sopra citate, e la loro presenza favorì il successo della concezione nazista, che dopo il 1933 fu messa in pratica con ossessiva tenacia non solo da Hitler e dal partito nazista, ma da una foltissima schiera di dotti giuristi, scienziati, medici, teologi, ideologi e giornalisti, con l’ausilio del cinema di finzione e del cinema documentario. Milioni di tedeschi, sia persone di elevata cultura sia gente comune, si convinsero che gli ebrei tramavano da seimila anni per distruggere il popolo tedesco, inquinandolo con incroci di sangue e con idee disgregatrici, come il cristianesimo, il diritto romano, l’individualismo, l’universalismo, l’umanitarismo, il liberalismo, il socialismo, il bolscevismo. Queste idee minavano le virtù, la morale, l’etica, le tradizioni e l’integrità della comunità germanica.
Fu la concezione nazista del mondo, diffusa con martellante, capillare, pervasiva propaganda quotidiana, a trasformare milioni di uomini e donne, non predestinati alla follia né al crimine, in zelanti esecutori della persecuzione e dello sterminio. Ogni tentazione alla pietà fu anestetizzata con l’invocazione della necessità di agire con mezzi spietati per annientare i nemici della razza germanica che da seimila anni tramavano per annientarla.
Conoscere il modo di pensare e di agire dei nazisti considerandoli uomini cresciuti e vissuti in contesti particolari, con un proprio universo di significati e di valori, è il compito proprio dello storico, afferma Chapoutot. Ciò non attenua affatto la mostruosità delle idee e dei crimini nazisti: anzi, rende ancora più consapevoli della sua gravità, perché nulla esclude che tale mostruosità possa ripetersi, con altre idee e in altri contesti, nell’azione di altri uomini convinti che essa sia necessaria per salvare la propria comunità.
Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti , Einaudi, Torino, pagg. 472, € 32
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
l suicidio della sonda Schiaparelli su Marte
“Il computer ha spento i retrorazzi in anticipo”
“Non sappiamo se il lander è integro”: il direttore dell’Esa conferma lo scenario meno ottimista per gli ultimi 50 secondi della sonda italiana. Ma per i responsabili la missione è stata comunque un successo
Undated handout artist's impression issued by the European Space Agency of the Schiaparelli lander detaching from the ExoMars Trace Gas Orbiter, which will take place at around 4pm UK time on Sunday, in preparation for the descent on October 19. PRESS ASSOCIATION Photo. Issue date: Friday October 14, 2016. See PA story SCIENCE Mars. Photo credit should read: ESA/PA Wire
NOTE TO EDITORS: This handout photo may only be used in for editorial reporting purposes for the contemporaneous illustration of events, things or the people in the image or facts mentioned in the caption. Reuse of the picture may require further permission from the copyright holder.
Scienza
Il lander Schiaparelli della missione ExoMars è caduto sul suolo di Marte. I suoi retrorazzi hanno funzionato soltanto per tre secondi, dopodichè il computer di bordo li ha spenti. Lo ha detto all’ANSA Paolo Ferri, direttore delle operazioni di volo delle missioni dell’Esa. “I dati che abbiamo – ha detto ancora Ferri – dicono che la sequenza di atterraggio ha funzionato fino al distacco dello schermo posteriore del paracadute. A quel punto l’accensione dei retrorazzi ha funzionato solo per tre secondi, poi il computer di bordo ha deciso di spegnerli”. A quel punto Schiaparelli si è ritrovato con i razzi spenti e “supponiamo che il lander sia semplicemente caduto” di Davide Patitucci
“Il computer ha spento i retrorazzi in anticipo”
“Non sappiamo se il lander è integro”: il direttore dell’Esa conferma lo scenario meno ottimista per gli ultimi 50 secondi della sonda italiana. Ma per i responsabili la missione è stata comunque un successo
Undated handout artist's impression issued by the European Space Agency of the Schiaparelli lander detaching from the ExoMars Trace Gas Orbiter, which will take place at around 4pm UK time on Sunday, in preparation for the descent on October 19. PRESS ASSOCIATION Photo. Issue date: Friday October 14, 2016. See PA story SCIENCE Mars. Photo credit should read: ESA/PA Wire
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Scienza
Il lander Schiaparelli della missione ExoMars è caduto sul suolo di Marte. I suoi retrorazzi hanno funzionato soltanto per tre secondi, dopodichè il computer di bordo li ha spenti. Lo ha detto all’ANSA Paolo Ferri, direttore delle operazioni di volo delle missioni dell’Esa. “I dati che abbiamo – ha detto ancora Ferri – dicono che la sequenza di atterraggio ha funzionato fino al distacco dello schermo posteriore del paracadute. A quel punto l’accensione dei retrorazzi ha funzionato solo per tre secondi, poi il computer di bordo ha deciso di spegnerli”. A quel punto Schiaparelli si è ritrovato con i razzi spenti e “supponiamo che il lander sia semplicemente caduto” di Davide Patitucci
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
La Stampa TuttoLibri 22.10.16
Il libro di Paolo Mieli
Non fidatevi della Storia racconta bugie da millenni
Da Cicerone agli schiavi di Lincoln, fino alle Guerre mondiali, viaggio in 27 tappe nel passato che credevamo di conoscere
di Alessandro Barbero
Anche nelle epoche che si credono più spregiudicate, scoprire che il passato è diverso da come credevamo può provocare costernazione. Nell’introduzione al suo nuovo libro, In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia, Paolo Mieli ricorda quello che è forse, ai nostri tempi, il caso più clamoroso di demolizione di un intero pezzo del passato, grazie ai progressi della ricerca storica (e, in questo caso, archeologica).
Dopo che per millenni, sulla base della Bibbia, si era creduto che intorno al 1000 avanti Cristo esistesse in Medio Oriente un grande e potente regno di Israele, esteso dall’Eufrate fino a Gaza, gli archeologi israeliani hanno scoperto che non è vero niente: a quell’epoca gli ebrei erano tribù di pastori primitivi senza nessuna unità politica, Gerusalemme era un villaggio, e Davide e Salomone, ammesso che siano esistiti, erano dei capitribù. Va ad onore della cultura israeliana aver preso atto senza drammi di questi dati ormai indiscutibili, nonostante la tempesta mediatica che hanno provocato nel Paese.
In questo caso non si tratta di accusare qualcuno (salvo, eventualmente, gli autori del Secondo Libro di Samuele e del Primo Libro dei Re) di aver falsificato volutamente la storia. Le falsificazioni con cui fa i conti Paolo Mieli sono piuttosto le versioni tradizionali della storia, alimentate a volte dalla propaganda dei governi, più spesso dall’inerzia dei libri scolastici e dalla pigrizia del pubblico, e che regolarmente rivelano le loro crepe non appena uno studioso le rimette in discussione con uno sguardo innovativo. Non si tratta, sia chiaro, dello stucchevole pseudo-revisionismo così di moda oggi, di chi scopre che la Rivoluzione francese ha sparso molto sangue, l’Italia del Risorgimento era un Paese pieno di intrallazzi, i partigiani hanno commesso a volte dei delitti, e gli americani hanno bombardato Dresda anche se non era necessario: l’autore, chapeau!, non menziona neanche una volta la parola revisionismo. Si tratta invece della naturale dinamica degli studi storici, per cui ogni storico che affronta un argomento anche già molto studiato può sempre aggiungere un punto di vista nuovo, può talvolta scovare nuove fonti, e può spesso modificare l’interpretazione del passato.
Il libro di Mieli è una ricognizione puntuale, erudita e divertita, di questa che è, ripetiamolo, la condizione normale della storiografia. È una rassegna bibliografica che in ogni capitolo, e ce ne sono ben 27, propone un tema storico su cui credevamo di sapere tutto e presenta al lettore gli studi più recenti che ne hanno rinnovato l’interpretazione. Verre era davvero quel politico corrotto che ci presenta Cicerone? Con quali mezzi Augusto arrivò al potere? I martiri di Otranto morirono davvero per la fede? Lincoln fece davvero la guerra per abolire la schiavitù? La Seconda Guerra Mondiale è davvero finita nel 1945? La collusione fra Stato e mafia, in Italia, è davvero una novità della Prima Repubblica?
Nelle pagine di Mieli, il lettore farà la conoscenza di innumerevoli storici d’oggi, qualcuno già noto al grande pubblico, altri meno; da Francesco Benigno, che ne La mala setta dimostra come i governi italiani «intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato unitario», ad Aldo Schiavone che in Ponzio Pilato s’interroga sulla possibilità di una «tacita intesa» fra Gesù e il prefetto di Giudea; da Germano Maifreda che ne I denari dell’Inquisitore svela come le multe, più dei roghi, rendessero temuto il Sant’Uffizio, a Marco Natalizi che ne Il burattinaio dell’ultimo zar propone un ritratto nuovo e complesso del famigerato Rasputin.
Attraverso il lavoro di decine di colleghi, Paolo Mieli propone un viaggio attraverso un passato che ogni giorno si modifica ai nostri occhi, anche perché col moltiplicarsi degli studi diventa possibile uno sguardo più sfaccettato, affiorano sempre più gli individualismi e le stonature, così evidenti quando guardiamo al mondo in cui viviamo, e che quando pensiamo al passato rischiano di rimanere occultati. Quel senatore della South Carolina che paragonava con orgoglio la condizione degli schiavi del Sud a quella degli operai del Nord («I nostri schiavi sono assunti a vita, non c’è fame per loro, non ci sono accattoni, non c’è disoccupazione»), o quello storico inglese che nel 1871 esaltava la formazione del Reich tedesco come garanzia di pace, con «la nobile, paziente, pia e solida Germania» avviata a dominare l’Europa al posto della «nevrotica, vanagloriosa, gesticolante, rissosa, inquieta e ipersensibile Francia», oggi ci possono far sorridere, ma la verità è che il passato era come il presente, confuso, colorato, incomprensibile, e il mestiere dello storico consiste sì nel cercare di renderlo un poco più comprensibile, ma senza mai perdere di vista cosa significava viverci dentro.
Il libro di Paolo Mieli
Non fidatevi della Storia racconta bugie da millenni
Da Cicerone agli schiavi di Lincoln, fino alle Guerre mondiali, viaggio in 27 tappe nel passato che credevamo di conoscere
di Alessandro Barbero
Anche nelle epoche che si credono più spregiudicate, scoprire che il passato è diverso da come credevamo può provocare costernazione. Nell’introduzione al suo nuovo libro, In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia, Paolo Mieli ricorda quello che è forse, ai nostri tempi, il caso più clamoroso di demolizione di un intero pezzo del passato, grazie ai progressi della ricerca storica (e, in questo caso, archeologica).
Dopo che per millenni, sulla base della Bibbia, si era creduto che intorno al 1000 avanti Cristo esistesse in Medio Oriente un grande e potente regno di Israele, esteso dall’Eufrate fino a Gaza, gli archeologi israeliani hanno scoperto che non è vero niente: a quell’epoca gli ebrei erano tribù di pastori primitivi senza nessuna unità politica, Gerusalemme era un villaggio, e Davide e Salomone, ammesso che siano esistiti, erano dei capitribù. Va ad onore della cultura israeliana aver preso atto senza drammi di questi dati ormai indiscutibili, nonostante la tempesta mediatica che hanno provocato nel Paese.
In questo caso non si tratta di accusare qualcuno (salvo, eventualmente, gli autori del Secondo Libro di Samuele e del Primo Libro dei Re) di aver falsificato volutamente la storia. Le falsificazioni con cui fa i conti Paolo Mieli sono piuttosto le versioni tradizionali della storia, alimentate a volte dalla propaganda dei governi, più spesso dall’inerzia dei libri scolastici e dalla pigrizia del pubblico, e che regolarmente rivelano le loro crepe non appena uno studioso le rimette in discussione con uno sguardo innovativo. Non si tratta, sia chiaro, dello stucchevole pseudo-revisionismo così di moda oggi, di chi scopre che la Rivoluzione francese ha sparso molto sangue, l’Italia del Risorgimento era un Paese pieno di intrallazzi, i partigiani hanno commesso a volte dei delitti, e gli americani hanno bombardato Dresda anche se non era necessario: l’autore, chapeau!, non menziona neanche una volta la parola revisionismo. Si tratta invece della naturale dinamica degli studi storici, per cui ogni storico che affronta un argomento anche già molto studiato può sempre aggiungere un punto di vista nuovo, può talvolta scovare nuove fonti, e può spesso modificare l’interpretazione del passato.
Il libro di Mieli è una ricognizione puntuale, erudita e divertita, di questa che è, ripetiamolo, la condizione normale della storiografia. È una rassegna bibliografica che in ogni capitolo, e ce ne sono ben 27, propone un tema storico su cui credevamo di sapere tutto e presenta al lettore gli studi più recenti che ne hanno rinnovato l’interpretazione. Verre era davvero quel politico corrotto che ci presenta Cicerone? Con quali mezzi Augusto arrivò al potere? I martiri di Otranto morirono davvero per la fede? Lincoln fece davvero la guerra per abolire la schiavitù? La Seconda Guerra Mondiale è davvero finita nel 1945? La collusione fra Stato e mafia, in Italia, è davvero una novità della Prima Repubblica?
Nelle pagine di Mieli, il lettore farà la conoscenza di innumerevoli storici d’oggi, qualcuno già noto al grande pubblico, altri meno; da Francesco Benigno, che ne La mala setta dimostra come i governi italiani «intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato unitario», ad Aldo Schiavone che in Ponzio Pilato s’interroga sulla possibilità di una «tacita intesa» fra Gesù e il prefetto di Giudea; da Germano Maifreda che ne I denari dell’Inquisitore svela come le multe, più dei roghi, rendessero temuto il Sant’Uffizio, a Marco Natalizi che ne Il burattinaio dell’ultimo zar propone un ritratto nuovo e complesso del famigerato Rasputin.
Attraverso il lavoro di decine di colleghi, Paolo Mieli propone un viaggio attraverso un passato che ogni giorno si modifica ai nostri occhi, anche perché col moltiplicarsi degli studi diventa possibile uno sguardo più sfaccettato, affiorano sempre più gli individualismi e le stonature, così evidenti quando guardiamo al mondo in cui viviamo, e che quando pensiamo al passato rischiano di rimanere occultati. Quel senatore della South Carolina che paragonava con orgoglio la condizione degli schiavi del Sud a quella degli operai del Nord («I nostri schiavi sono assunti a vita, non c’è fame per loro, non ci sono accattoni, non c’è disoccupazione»), o quello storico inglese che nel 1871 esaltava la formazione del Reich tedesco come garanzia di pace, con «la nobile, paziente, pia e solida Germania» avviata a dominare l’Europa al posto della «nevrotica, vanagloriosa, gesticolante, rissosa, inquieta e ipersensibile Francia», oggi ci possono far sorridere, ma la verità è che il passato era come il presente, confuso, colorato, incomprensibile, e il mestiere dello storico consiste sì nel cercare di renderlo un poco più comprensibile, ma senza mai perdere di vista cosa significava viverci dentro.
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
Repubblica 22.10.16
Se serve il giudice per affermare un diritto di tutti
di Chiara Saraceno
Tutti i bambini dall’anno in su in Germania hanno in linea di principio diritto ad avere un posto al nido. Questo diritto è stato introdotto nel 2013 non solo per favorire l’occupazione delle madri e il loro ritorno al lavoro dopo l’anno di congedo ben remunerato cui hanno diritto dal 2007, ma per ridurre le disuguaglianze di partenza tra bambini, offrendo a tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa della madre e dalle condizioni famigliari, pari opportunità educative. Non vi è obbligo per i genitori, che possono decidere di non iscrivere il proprio bambino al nido, ma per i governi locali, che devono, appunto, fornire questa opportunità. I diversi Länder hanno finora provveduto in modo molto diseguale a dare attuazione a questo diritto, contando sul fatto che, specie nelle regioni occidentali, vi è, come succede anche in Italia, ancora una diffusa ambivalenza rispetto al nido. Perciò la domanda effettiva rimane contenuta. Ma è una domanda in continuo aumento, con conseguenti lunghe liste di attesa che sono la negazione sia dell’obiettivo di sostenere l’occupazione delle madri sia di quello di mettere i bambini più piccoli in condizioni di pari opportunità di esperienza educativa. Le donne che hanno fatto ricorso alla Corte Federale di Cassazione contro il Comune di Lipsia per avere una compensazione del danno subito, perché non hanno potuto lavorare nei lunghi mesi in cui hanno dovuto aspettare un posto al nido, hanno costretto il governo federale e quelli locali a uscire dall’ambiguità. Se c’è un diritto, deve essere esigibile. Era già successo che qualche genitore si presentasse al proprio comune per essere risarcito della retta pagata ad un nido privato. Ora, con la sentenza della Corte, se vogliono evitare ricorsi di massa milionari i comuni e i Länder devono attrezzarsi e negoziare con il governo federale il necessario co-finanziamento. La ministra della famiglia ha già dichiarato che si dovrà procedere in questa direzione. Ancora una volta – era già successo con la Corte Costituzionale nel caso della definizione di come si dovesse stabilire un sostegno adeguato per i bambini poveri – una Alta corte tedesca prende sul serio i diritti dei bambini e impone ai diversi livelli di governo di far fronte alle proprie dichiarazioni di principio, a rendere trasparenti i propri criteri e a rispettare i diritti che sancisce. E i governi federale e locali si adeguano. Anche in questo, non solo nelle politiche di austerity, la Germania è lontana dall’Italia.Latinoamerica, il potere delle chiese pentecostali
Se serve il giudice per affermare un diritto di tutti
di Chiara Saraceno
Tutti i bambini dall’anno in su in Germania hanno in linea di principio diritto ad avere un posto al nido. Questo diritto è stato introdotto nel 2013 non solo per favorire l’occupazione delle madri e il loro ritorno al lavoro dopo l’anno di congedo ben remunerato cui hanno diritto dal 2007, ma per ridurre le disuguaglianze di partenza tra bambini, offrendo a tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa della madre e dalle condizioni famigliari, pari opportunità educative. Non vi è obbligo per i genitori, che possono decidere di non iscrivere il proprio bambino al nido, ma per i governi locali, che devono, appunto, fornire questa opportunità. I diversi Länder hanno finora provveduto in modo molto diseguale a dare attuazione a questo diritto, contando sul fatto che, specie nelle regioni occidentali, vi è, come succede anche in Italia, ancora una diffusa ambivalenza rispetto al nido. Perciò la domanda effettiva rimane contenuta. Ma è una domanda in continuo aumento, con conseguenti lunghe liste di attesa che sono la negazione sia dell’obiettivo di sostenere l’occupazione delle madri sia di quello di mettere i bambini più piccoli in condizioni di pari opportunità di esperienza educativa. Le donne che hanno fatto ricorso alla Corte Federale di Cassazione contro il Comune di Lipsia per avere una compensazione del danno subito, perché non hanno potuto lavorare nei lunghi mesi in cui hanno dovuto aspettare un posto al nido, hanno costretto il governo federale e quelli locali a uscire dall’ambiguità. Se c’è un diritto, deve essere esigibile. Era già successo che qualche genitore si presentasse al proprio comune per essere risarcito della retta pagata ad un nido privato. Ora, con la sentenza della Corte, se vogliono evitare ricorsi di massa milionari i comuni e i Länder devono attrezzarsi e negoziare con il governo federale il necessario co-finanziamento. La ministra della famiglia ha già dichiarato che si dovrà procedere in questa direzione. Ancora una volta – era già successo con la Corte Costituzionale nel caso della definizione di come si dovesse stabilire un sostegno adeguato per i bambini poveri – una Alta corte tedesca prende sul serio i diritti dei bambini e impone ai diversi livelli di governo di far fronte alle proprie dichiarazioni di principio, a rendere trasparenti i propri criteri e a rispettare i diritti che sancisce. E i governi federale e locali si adeguano. Anche in questo, non solo nelle politiche di austerity, la Germania è lontana dall’Italia.Latinoamerica, il potere delle chiese pentecostali
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Re: DI TUTTO E DI PIU'
LIBRE news
Brian Eno: apartheid, Israele non avrà la mia musica
Scritto il 23/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Mia madre, belga, ha passato la guerra in un campo di lavoro tedesco (non un campo di sterminio, però neanche una vacanza) e da lei ho un’idea di quello che gli ebrei hanno sofferto durante la guerra – e della storia della loro sofferenza, prima e dopo. Capisco perché alcuni di loro hanno voluto un rifugio dove ciò non sarebbe mai più potuto accadere.
Quello che non riesco a capire è il motivo per cui questa esigenza dovrebbe implicare un tale crudele comportamento nei confronti della popolazione indigena della terra che hanno scelto come “loro”. Tutto questo gran parlare della soluzione a due Stati mi sembra aria fritta, mentre il governo israeliano continua il trasferimento dei coloni su terra palestinese, bombardando e imprigionando palestinesi strada facendo. A me sembra che si tratti di pulizia etnica. E mi sembra anche di apartheid – come ha inoltre osservato l’arcivescovo Desmond Tutu, al quale il concetto non è estraneo. Una cosa che il giornalista non dice è che questo sentimento è condiviso da molti ebrei – tra cui ebrei israeliani – che hanno alzato la loro voce contro l’occupazione. Sono anche loro antisemiti?Ah già dimenticavo – sono “ebrei che odiano se stessi”, giusto? Questa posizione ridicolmente artificiosa nasce dalla commistione di Israele come Stato con gli ebrei come popolo. II popolo ebraico merita di più che essere rappresentato esclusivamente dal governo israeliano. Allora perché io “me la prendo” con Israele? In primo luogo, perché è stato il governo britannico, attraverso la Dichiarazione Balfour, che ha contribuito a creare tutta questa situazione. Abbiamo regalato quella terra – che non era nostra da regalare – e abbiamo contribuito all’avvio del processo per ripulirla dagli arabi. Forse è stato un modo per chiedere scusa per la nostra incapacità di aiutare gli ebrei quando ne avevano bisogno – prima e durante la guerra – ma è stato fatto a spese del popolo che già viveva lì. In secondo luogo, sosteniamo Israele militarmente e diplomaticamente – e abbiamo un bel commercio di armamenti in corso tra noi e loro. In terzo luogo, Israele si presenta come una democrazia liberale occidentale, e insiste ad essere considerata come tale. Quale altra democrazia liberale occidentale è uno Stato di apartheid?Quale altra democrazia liberale occidentale rinchiude con checkpoint una gran parte della popolazione (occupata) in ghetti e la bombarda periodicamente? Ho poco potere per intervenire su questo. Praticamente l’unica cosa che posso fare è non prenderne parte – e per me questo significa non partecipare alla campagna di pubbliche relazioni che Israele conduce attraverso i suoi programmi culturali – in particolare, non permettendo l’uso della mia musica per gli eventi sponsorizzati dal governo israeliano. Tutto qua. Voglio un mondo dove sia i palestinesi che gli ebrei siano sicuri e liberi di esprimere i loro talenti, ma ritengo che quello che il governo israeliano sta facendo ora praticamente garantisce che ciò non venga mai realizzato.
(Brian Eno, “Ecco perché non concedo la mia musica a Israele”, da “Sette” del “Corriere della Sera” del 7 ottobre 2016, ripreso da “Megachip”).
Brian Eno: apartheid, Israele non avrà la mia musica
Scritto il 23/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Mia madre, belga, ha passato la guerra in un campo di lavoro tedesco (non un campo di sterminio, però neanche una vacanza) e da lei ho un’idea di quello che gli ebrei hanno sofferto durante la guerra – e della storia della loro sofferenza, prima e dopo. Capisco perché alcuni di loro hanno voluto un rifugio dove ciò non sarebbe mai più potuto accadere.
Quello che non riesco a capire è il motivo per cui questa esigenza dovrebbe implicare un tale crudele comportamento nei confronti della popolazione indigena della terra che hanno scelto come “loro”. Tutto questo gran parlare della soluzione a due Stati mi sembra aria fritta, mentre il governo israeliano continua il trasferimento dei coloni su terra palestinese, bombardando e imprigionando palestinesi strada facendo. A me sembra che si tratti di pulizia etnica. E mi sembra anche di apartheid – come ha inoltre osservato l’arcivescovo Desmond Tutu, al quale il concetto non è estraneo. Una cosa che il giornalista non dice è che questo sentimento è condiviso da molti ebrei – tra cui ebrei israeliani – che hanno alzato la loro voce contro l’occupazione. Sono anche loro antisemiti?Ah già dimenticavo – sono “ebrei che odiano se stessi”, giusto? Questa posizione ridicolmente artificiosa nasce dalla commistione di Israele come Stato con gli ebrei come popolo. II popolo ebraico merita di più che essere rappresentato esclusivamente dal governo israeliano. Allora perché io “me la prendo” con Israele? In primo luogo, perché è stato il governo britannico, attraverso la Dichiarazione Balfour, che ha contribuito a creare tutta questa situazione. Abbiamo regalato quella terra – che non era nostra da regalare – e abbiamo contribuito all’avvio del processo per ripulirla dagli arabi. Forse è stato un modo per chiedere scusa per la nostra incapacità di aiutare gli ebrei quando ne avevano bisogno – prima e durante la guerra – ma è stato fatto a spese del popolo che già viveva lì. In secondo luogo, sosteniamo Israele militarmente e diplomaticamente – e abbiamo un bel commercio di armamenti in corso tra noi e loro. In terzo luogo, Israele si presenta come una democrazia liberale occidentale, e insiste ad essere considerata come tale. Quale altra democrazia liberale occidentale è uno Stato di apartheid?Quale altra democrazia liberale occidentale rinchiude con checkpoint una gran parte della popolazione (occupata) in ghetti e la bombarda periodicamente? Ho poco potere per intervenire su questo. Praticamente l’unica cosa che posso fare è non prenderne parte – e per me questo significa non partecipare alla campagna di pubbliche relazioni che Israele conduce attraverso i suoi programmi culturali – in particolare, non permettendo l’uso della mia musica per gli eventi sponsorizzati dal governo israeliano. Tutto qua. Voglio un mondo dove sia i palestinesi che gli ebrei siano sicuri e liberi di esprimere i loro talenti, ma ritengo che quello che il governo israeliano sta facendo ora praticamente garantisce che ciò non venga mai realizzato.
(Brian Eno, “Ecco perché non concedo la mia musica a Israele”, da “Sette” del “Corriere della Sera” del 7 ottobre 2016, ripreso da “Megachip”).
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