Come se ne viene fuori ?

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camillobenso
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Re: Come se ne viene fuori ?

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Da più di trent'anni ho un idea completamente diversa da quelle che riporta il bravissimo Stella.

Ho la netta convinzione, salvo prova contraria, che i fondi europei che gli italiani non utilizzano siano solo un grande bancomat per la cricca che li gestisce.

Infatti, i capitali, possono giacere in eterno in banca, ma gli interessi sugli utili se li pappa la cricca.

Niente capitali in banca perché si realizzano le opere, niente interessi da pappare.

Non meravigliamoci se i poi ricompaiono le Br.


BRUXELLES / MICRO-INTERVENTI A PIOGGIA, PER IL 40% NON C'È UNA PROPOSTA SCRITTA
Speso solo il 9% degli investimenti Ue
La macchina inceppata dei contributi
Fra le 200 regioni del continente, quelle meridionali in dieci anni perdono quaranta posizioni per Pil pro capite



Palazzo Berlaymont, sede della Commissione Ue a Bruxelles (Ap)
ROMA - Ricordava soprattutto l'«imbarazzo», Carlo Azeglio Ciampi. Una sensazione sgradevole che provava quando a Bruxelles, da ministro del Tesoro, si sentiva dire che fra i Paesi europei l'Italia era quello «più indietro» nell'uso dei fondi comunitari. L'ex governatore della Banca d'Italia rese questa amara confessione a Nuoro, il 10 ottobre del 2000. A Roma c'era il governo di Giuliano Amato. Due anni prima l'attuale ministro della coesione Fabrizio Barca, chiamato al Tesoro proprio da Ciampi, aveva lanciato «Cento idee» per lo sviluppo del Sud. Fu accorata, la requisitoria del presidente della Repubblica, al Quirinale da appena un anno e mezzo. Accorata ma durissima contro il «grande spreco» dei soldi europei inutilizzati, che avrebbero potuto far crescere il Sud. Uno spreco ancora più insultante perché «sono in qualche modo soldi nostri, che vengono dalle nostre tasche, dal nostro lavoro». Ciampi disse che era arrivato il momento di voltare pagina, farla finita con le opere incompiute e mettersi d'impegno per usare i soldi. Perché «ognuno è artefice del proprio destino».
Parole che potrebbero essere state pronunciate oggi: in questi dodici anni non è stato fatto neanche un piccolo passo avanti. E se il divario fra il Sud e il Nord si è fatto ancora più spaventoso la responsabilità è anche di chi non ha provveduto a sfruttare quel tesoro. Secondo la Svimez il Prodotto interno lordo medio delle Regioni meridionali era nel 1951 pari al 65,5% di quello del Centro Nord. Nel 2009, al culmine della recessione precedente, era sceso al 58,8%: appena sopra al 56% del 1995. Conseguenza della più bassa crescita, ovvio. Ma il confronto con le altre aree europee svantaggiate fa toccare con mano che cosa abbia significato per il Sud d'Italia «lo spreco» immane dei fondi europei inutilizzati denunciato nel 2000 da Ciampi. Nella graduatoria delle 208 regioni continentali meno sviluppate, quelle del Sud Italia si situavano nel 1995 tra il 112° e il 192° posto. Dieci anni dopo erano scivolate tra il 165°e il 200°. Dal 1999 al 2005 il Prodotto interno lordo di ogni singolo cittadino delle aree dell'«obiettivo 1» (le più arretrate) è cresciuto del 3%, in Italia dello 0,6%. Cinque volte di meno. Ci sono regioni che si erano affrancate da quel livello di povertà, traducibile per le statistiche comunitarie in una ricchezza media procapite inferiore al 75% della media continentale, e ci sono ripiombate. Nel 2001 la Basilicata aveva raggiunto l'83%, sei anni dopo era al 75%. La Sicilia è passata dal 75% al 66%. La Puglia, dal 77% al 67% del 2007.

Va detto che quelli dell'Europa non sono gli unici denari a giacere nei cassetti. L'Associazione dei costruttori, per esempio, si lamenta che da agosto 2011 il Cipe ha stanziato 19 miliardi per le infrastrutture: tuttora fermi. Ma ha ragione Rita Borsellino, europarlamentare democratica e sorella del giudice Paolo Borsellino, a definire «irresponsabile» una certa gestione dei fondi strutturali europei: rammentando come in Sicilia al 30 giugno dello scorso anno fosse stato completato appena l'8% dei progetti finanziati a valere sui piani 2000-2006. Per rendersi conto di quanto la situazione sia grave basta leggere l'ultima relazione della Ragioneria generale dello Stato, sfornata giusto un anno fa. La massa finanziaria destinata all'Italia da Bruxelles per il periodo che va dal 2007 al 2013 è imponente: fra finanziamento comunitario e contributo nazionale ben 59,4 miliardi di euro, di cui ben 47 destinati al Sud. Ebbene, alla fine del 2010 soltanto un quinto di quella somma enorme era stato già impegnato. In tutto 12 miliardi, il 18,9% del totale. Ma i denari effettivamente spesi erano molti, ma molti meno: 5,9 miliardi, ovvero il 9%. Un bilancio imbarazzante, considerando che il primo triennio 2007-2010 era già scaduto.

Semplicemente abissale, poi, la differenza fra Sud e Nord. Nelle Regioni meridionali la spesa reale era all'8,2%, contro il 16,3% del resto d'Italia. Tenendo conto delle risorse utilizzabili nel solo primo triennio, pari a 33,5 miliardi, ecco che le otto regioni meridionali erano riuscite a impegnarne il 23,6%, con una spesa effettiva, però, non superiore all'11,4%. E il bello è che le amministrazioni centrali, che tutti noi immaginiamo più efficienti rispetto alle strutture regionali, sono riuscite a fare appena meglio, con impegni pari al 41,2% e una spesa reale del 21%. Per fare un paragone, lo Stato ha realizzato una performance tripla rispetto alla Calabria, che si è fermata al 7%, ma soltanto un po' più decente di quella della Sardegna, regione che ha speso il 17,2%. Senza riuscire ad avvicinarsi al Veneto, dove l'utilizzo reale dei fondi europei si è attestato a un pur modesto 25,5%.

Sulle cause si è discusso a lungo. Spesso si tira in ballo la scarsa (o scarsissima) capacità progettuale delle amministrazioni locali o centrali. Ma non c'è dubbio che ci sia anche il concorso dell'indolenza burocratica e di una certa miopia della politica. Le conclusioni a cui sono giunti i magistrati della Corte dei conti in una recentissima indagine sull'uso dei fondi comunitari nel periodo 2000-2006 da parte della regione siciliana sono illuminanti. Si parla di «eccessiva frammentazione degli interventi programmati e notevolissima presenza di progetti non conclusi, pari al 35 per cento della spesa certificata», che «hanno sfavorevolmente inciso sullo sviluppo locale e non hanno prodotto l'auspicato miglioramento delle condizioni di vita della popolazione». Non bastasse, i ricambi ai vertici delle strutture regionali seguiti alle vicende politiche, «hanno di fatto rallentato la spesa compromettendo l'efficacia del programma regionale» mentre il livello molto elevato di errori e irregolarità «denota la carenza dei controlli e una generale scarsa affidabilità degli stessi».

L'Ifel, il centro studi dell'Associazione dei Comuni, sottolinea che gli interventi sono spesso troppo frammentati, con una generale incomprensione fra gestione a programmazione, quando i fondi non vengono utilizzati per progetti non strategici. L'Anci ha calcolato che i Comuni, destinatari di una trentina di miliardi per il periodo 2007-2013, hanno messo in cantiere qualcosa come 2.410 progetti distribuiti per 1.293 municipi. La dimensione media è infinitesima: il valore del 43,5% delle iniziative non supera 150 mila euro. Nella sola Calabria si sono mobilitati, sulla carta, 264 Comuni. La dimensione media è infinitesima: il 43,5% delle iniziative non supera nemmeno 150 mila euro. E poi ci si stupisce che per il 40% dei progetti non ci sia nemmeno una pagina scritta, né un segno sulla carta.


Sergio Rizzo
12 maggio 2012 | 9:51
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camillobenso
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Re: Come se ne viene fuori ?

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Lettera della Bce, la vera storia
di Stefano Feltri | 12 maggio 2012 Commenti (27)


Basta leggere la lettera della Bce per capire che è stata scritta a Roma.

Quella lettera è un passaggio politico di grande rilievo che entra nella sovranità di un Paese”, ha buttato lì l’ex ministro del Tesoro Giulio Tremonti durante la puntata di Servizio Pubblico di giovedì sera.

“E qualcuno l’ha chiesta, dentro il governo e non solo, c’era un certo tifo per quel tipo di intervento a vari livelli.

L’attuale presidente del Consiglio ha detto in Parlamento: ‘non starei in un governo che chiede una lettera’ e in modo inglese stava facendo capire che quella della Bce è stata richiesta da quello precedente”, allude, dice e non dice, ma Tremonti invita a rileggere la storia di quel documento che ha cambiato molto.


Perché tutto cominciò da lì. E lì bisogna tornare ora che, dopo sei mesi, si può cominciare a guardare con l’oggettività della distanza alla nascita del governo Monti.

L’ultima chance per B.

La lettera della Bce, il programma di emergenza firmato da Mario Draghi e Jean Claude Trichet che ha prima accompagnato Silvio Berlusconi alla porta e poi ha dato le basi per l’azione dei tecnici.

Nella vulgata giornalistica la lettera è diventata la condanna a morte del governo Berlusconi, secondo quanto ha ricostruito il Fatto Quotidiano, grazie al racconto di alcune delle persone coinvolte, quel documento era invece l’ultimo tentativo di rendere accettabile ai mercati un esecutivo screditato, ridimensionando la probabilità di una crisi politica che all’epoca, nell’estate 2011, poteva dare il colpo finale alle finanze del Paese.

Una lettura critica della storia della lettera deve partire dal 4 agosto, dalla conferenza stampa convocata a sorpresa in cui il governo Berlusconi ammette di dover riscrivere la manovra di luglio giudicata inadeguata dai mercati, anticipando al 2013 il pareggio di bilancio previsto in origine per il 2014 (ma con oltre 20 miliardi di interventi rinviati a dopo la fine della legislatura).

I giornali liquidano come un “siparietto” l’educato ma violento dialogo tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia accenna ai contatti del governo avviati con diverse istituzioni finanziarie per discutere insieme le misure da adottare, e cita l’Ocse e il Fondo monetario internazionale, “Noi saremo attivi aprendoci al confronto con queste istituzioni internazionali”.

Berlusconi lo interrompe aggiungendo: “Anche la Bce”. Tremonti lo guarda stupito, con l’espressione di chi pensava che il Cavaliere, alle prese in quel periodo con le vicende bunga bunga, avesse solo una vaga idea di cosa fosse la Banca centrale europea. “Credo sia molto importante, ma non coinvolgibile in questa fase”, precisa il ministro, pensando a quanto Francoforte tenga alla sua indipendenza dai governi e viceversa. E Berlusconi, sibillino: “Ma informabile sì”.

Il negoziato segreto.

Tremonti non insiste. Ma al ministro suona bizzarro: in quei giorni il Cavaliere è già un paria per i partner europei, Tremonti è rimasto l’unico ambasciatore del governo nei consessi internazionali, con una mossa di immagine e di sostanza ha appena avvicinato John Lipsky, allora vicedirettore generale del Fmi in procinto di lasciare il suo posto a Washington. Lipsky doveva diventare un super consulente, anello di congiunzione con il Fmi di Christine Lagarde che Tremonti aveva individuato all’inizio dell’estate come la sponda adatta nei mesi difficili dello spread. Invece sorpresa: Berlusconi trattava con la Bce di Mario Draghi, da sempre poco in sintonia con Tremonti (il cui ultimo libro, Uscita di sicurezza è un lungo atto d’accusa implicito a Draghi).

La lettera della Bce “arriva” al governo il 4 agosto (e, a quanto risulta al Fatto, è arrivata in simultanea a palazzo Chigi e al Tesoro).

Raccontano diverse fonti, quel documento è stato elaborato più a Roma che a Francoforte e l’ordine delle firme in calce, Mario Draghi, Jean Claude Trichet, non è soltanto alfabetico. Certo, anche alla Bce ci sono monitoring team che sanno quanto via Nazionale delle cose italiane. E le richieste della lettera non erano molto diverse dai punti principali delle considerazioni finali di Draghi, a fine anno (e dalle richieste dei mercati).

Ma il documento è frutto di un negoziato che si svolge a Roma. Ci ha lavorato l’altro cervello economico del governo berlusconiano, Renato Brunetta, che oggi oppone un drastico “Non ho niente da dire, ho scritto tutto nelle mie slide”, alludendo alle corpose presentazioni che manda con cadenza settimanale ai giornalisti per commentare l’attualità.

A ben guardare, Brunetta ha fatto il suo coming out, sul Foglio, il primo di ottobre: “Ora che la lettera della Bce è divenuta pubblica posso smettere di nascondere la mia reazione quando la lessi: i signori della Bce hanno ragione, i loro suggerimenti sono il nostro programma”. E nella conclusione dell’articolo che argomenta come la lettera “annienta gli avversari del governo”, Brunetta scriveva: “In quella missiva, quindi, più che l’intimazione a cambiare rotta c’è, per il governo, la pressante richiesta di procedere più speditamente. E di farlo nella direzione fin qui intrapresa”. Così veniva vissuta, in quell’ala del governo, ciò che ad altri pareva commissariamento internazionale: un’assicurazione che permetteva a Berlusconi di sopravvivere.

La pausa di Monti


Ma torniamo ai giorni cruciali di agosto. L’8 agosto il Corriere della Sera rivela i contenuti della lettera che qualcuno, c’è chi dice Draghi chi Tremonti, ha allungato a via Solferino: privatizzazioni dei servizi pubblici locali, liberalizzazioni, riforma del lavoro con intervento sull’articolo 18, e una riforma della Pubblica amministrazione, punto questo che sembra una firma di Brunetta che certifica il suo coinvolgimento (tipicamente brunettiano il passaggio “negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance”).

In cambio, anche se non si può esplicitare il do ut des, la Bce comprende buoni del Tesoro italiani sul mercato secondario per ridurre lo spread e quindi i rendimenti, cioè il costo. È il Securities Market Program che, forzando un po’ i limiti del mandato della Bce spingerà alle dimissioni il membro tedesco del board Jürgen Sark.

Il giorno prima della rivelazione dei contenuti della lettera, quasi a darvi l’imprimatur, il Corriere pubblica un editoriale del professor Mario Monti: “Il podestà forestiero”.

La frase importante è questa: “Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un ‘governo tecnico’”.

Quindi: “Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un ‘governo tecnico sopranazionale’ ”. É il segnale a un certo mondo che l’operazione governo tecnico è sospesa. O meglio, delegata a Draghi. Così da salvare – come nota Monti – almeno nelle forme la sovranità italiana. E soprattutto rimandare la caduta di Berlusconi di cui nessuno, allora, era in grado di prevedere le conseguenze.

Come aveva rivelato Fabio Martini su La Stampa il 24 luglio, infatti, l’idea che il premier lo dovesse fare Monti era già condivisa in ambienti influenti.


In una riunione lunedì 18 luglio, nella sede della banca Intesa Sanpaolo, ci sono Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza, l’editore di Repubblica Carlo De Bendetti, Romano Prodi, il banchiere vaticano Angelo Caloia e il futuro ministro Corrado Passera, allora capo azienda di Intesa. Monti, come suo stile, si mette a disposizione ma soltanto nel caso ci sia un consenso generale dietro il suo nome, non vuole imporsi ma essere imposto. Poi la lettera Bce offre un’ultima chance a Berlusconi. Sappiamo come è finita.

Il Fatto Quotidiano, 12 Maggio 2012

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Lettera della Bce, la vera storia
di Stefano Feltri | 12 maggio 2012 Commenti (27)


Basta leggere la lettera della Bce per capire che è stata scritta a Roma.

Quella lettera è un passaggio politico di grande rilievo che entra nella sovranità di un Paese”, ha buttato lì l’ex ministro del Tesoro Giulio Tremonti durante la puntata di Servizio Pubblico di giovedì sera.

“E qualcuno l’ha chiesta, dentro il governo e non solo, c’era un certo tifo per quel tipo di intervento a vari livelli.

L’attuale presidente del Consiglio ha detto in Parlamento: ‘non starei in un governo che chiede una lettera’ e in modo inglese stava facendo capire che quella della Bce è stata richiesta da quello precedente”, allude, dice e non dice, ma Tremonti invita a rileggere la storia di quel documento che ha cambiato molto.


Perché tutto cominciò da lì. E lì bisogna tornare ora che, dopo sei mesi, si può cominciare a guardare con l’oggettività della distanza alla nascita del governo Monti.

L’ultima chance per B.

La lettera della Bce, il programma di emergenza firmato da Mario Draghi e Jean Claude Trichet che ha prima accompagnato Silvio Berlusconi alla porta e poi ha dato le basi per l’azione dei tecnici.

Nella vulgata giornalistica la lettera è diventata la condanna a morte del governo Berlusconi, secondo quanto ha ricostruito il Fatto Quotidiano, grazie al racconto di alcune delle persone coinvolte, quel documento era invece l’ultimo tentativo di rendere accettabile ai mercati un esecutivo screditato, ridimensionando la probabilità di una crisi politica che all’epoca, nell’estate 2011, poteva dare il colpo finale alle finanze del Paese.

Una lettura critica della storia della lettera deve partire dal 4 agosto, dalla conferenza stampa convocata a sorpresa in cui il governo Berlusconi ammette di dover riscrivere la manovra di luglio giudicata inadeguata dai mercati, anticipando al 2013 il pareggio di bilancio previsto in origine per il 2014 (ma con oltre 20 miliardi di interventi rinviati a dopo la fine della legislatura).

I giornali liquidano come un “siparietto” l’educato ma violento dialogo tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia accenna ai contatti del governo avviati con diverse istituzioni finanziarie per discutere insieme le misure da adottare, e cita l’Ocse e il Fondo monetario internazionale, “Noi saremo attivi aprendoci al confronto con queste istituzioni internazionali”.

Berlusconi lo interrompe aggiungendo: “Anche la Bce”. Tremonti lo guarda stupito, con l’espressione di chi pensava che il Cavaliere, alle prese in quel periodo con le vicende bunga bunga, avesse solo una vaga idea di cosa fosse la Banca centrale europea. “Credo sia molto importante, ma non coinvolgibile in questa fase”, precisa il ministro, pensando a quanto Francoforte tenga alla sua indipendenza dai governi e viceversa. E Berlusconi, sibillino: “Ma informabile sì”.

Il negoziato segreto.

Tremonti non insiste. Ma al ministro suona bizzarro: in quei giorni il Cavaliere è già un paria per i partner europei, Tremonti è rimasto l’unico ambasciatore del governo nei consessi internazionali, con una mossa di immagine e di sostanza ha appena avvicinato John Lipsky, allora vicedirettore generale del Fmi in procinto di lasciare il suo posto a Washington. Lipsky doveva diventare un super consulente, anello di congiunzione con il Fmi di Christine Lagarde che Tremonti aveva individuato all’inizio dell’estate come la sponda adatta nei mesi difficili dello spread. Invece sorpresa: Berlusconi trattava con la Bce di Mario Draghi, da sempre poco in sintonia con Tremonti (il cui ultimo libro, Uscita di sicurezza è un lungo atto d’accusa implicito a Draghi).

La lettera della Bce “arriva” al governo il 4 agosto (e, a quanto risulta al Fatto, è arrivata in simultanea a palazzo Chigi e al Tesoro).

Raccontano diverse fonti, quel documento è stato elaborato più a Roma che a Francoforte e l’ordine delle firme in calce, Mario Draghi, Jean Claude Trichet, non è soltanto alfabetico. Certo, anche alla Bce ci sono monitoring team che sanno quanto via Nazionale delle cose italiane. E le richieste della lettera non erano molto diverse dai punti principali delle considerazioni finali di Draghi, a fine anno (e dalle richieste dei mercati).

Ma il documento è frutto di un negoziato che si svolge a Roma. Ci ha lavorato l’altro cervello economico del governo berlusconiano, Renato Brunetta, che oggi oppone un drastico “Non ho niente da dire, ho scritto tutto nelle mie slide”, alludendo alle corpose presentazioni che manda con cadenza settimanale ai giornalisti per commentare l’attualità.

A ben guardare, Brunetta ha fatto il suo coming out, sul Foglio, il primo di ottobre: “Ora che la lettera della Bce è divenuta pubblica posso smettere di nascondere la mia reazione quando la lessi: i signori della Bce hanno ragione, i loro suggerimenti sono il nostro programma”. E nella conclusione dell’articolo che argomenta come la lettera “annienta gli avversari del governo”, Brunetta scriveva: “In quella missiva, quindi, più che l’intimazione a cambiare rotta c’è, per il governo, la pressante richiesta di procedere più speditamente. E di farlo nella direzione fin qui intrapresa”. Così veniva vissuta, in quell’ala del governo, ciò che ad altri pareva commissariamento internazionale: un’assicurazione che permetteva a Berlusconi di sopravvivere.

La pausa di Monti


Ma torniamo ai giorni cruciali di agosto. L’8 agosto il Corriere della Sera rivela i contenuti della lettera che qualcuno, c’è chi dice Draghi chi Tremonti, ha allungato a via Solferino: privatizzazioni dei servizi pubblici locali, liberalizzazioni, riforma del lavoro con intervento sull’articolo 18, e una riforma della Pubblica amministrazione, punto questo che sembra una firma di Brunetta che certifica il suo coinvolgimento (tipicamente brunettiano il passaggio “negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance”).

In cambio, anche se non si può esplicitare il do ut des, la Bce comprende buoni del Tesoro italiani sul mercato secondario per ridurre lo spread e quindi i rendimenti, cioè il costo. È il Securities Market Program che, forzando un po’ i limiti del mandato della Bce spingerà alle dimissioni il membro tedesco del board Jürgen Sark.

Il giorno prima della rivelazione dei contenuti della lettera, quasi a darvi l’imprimatur, il Corriere pubblica un editoriale del professor Mario Monti: “Il podestà forestiero”.

La frase importante è questa: “Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un ‘governo tecnico’”.

Quindi: “Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un ‘governo tecnico sopranazionale’ ”. É il segnale a un certo mondo che l’operazione governo tecnico è sospesa. O meglio, delegata a Draghi. Così da salvare – come nota Monti – almeno nelle forme la sovranità italiana. E soprattutto rimandare la caduta di Berlusconi di cui nessuno, allora, era in grado di prevedere le conseguenze.

Come aveva rivelato Fabio Martini su La Stampa il 24 luglio, infatti, l’idea che il premier lo dovesse fare Monti era già condivisa in ambienti influenti.


In una riunione lunedì 18 luglio, nella sede della banca Intesa Sanpaolo, ci sono Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza, l’editore di Repubblica Carlo De Bendetti, Romano Prodi, il banchiere vaticano Angelo Caloia e il futuro ministro Corrado Passera, allora capo azienda di Intesa. Monti, come suo stile, si mette a disposizione ma soltanto nel caso ci sia un consenso generale dietro il suo nome, non vuole imporsi ma essere imposto. Poi la lettera Bce offre un’ultima chance a Berlusconi. Sappiamo come è finita.

Il Fatto Quotidiano, 12 Maggio 2012

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LA SITUAZIONE
di ANNALISA CUZZOCREA

Il "faro" del Quirinale
sulle riforme arenate



Il timore di un'escalation del terrorismo, dopo l'attentato al manager dell'Ansaldo Roberto Adinolfi.

La paura che il Parlamento non sia in grado di lavorare alle tante cose ancora sul tavolo, in seguito al terremoto elettorale che ha stordito le forze politiche.

La settimana si conclude all'insegna della preoccupazione.

Il Terzo polo non esiste più, il Pdl è agitatissimo, il Pd ha già cominciato a litigare sulle primarie.


E così, Giorgio Napolitano chiama sul Colle il governo per cercare di capire a che punto sono le riforme. Al Quirinale il premier Mario Monti sale con il sottosegretario Antonio Catricalà e con il ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi, che sta anche seguendo i lavori della commissione Affari costituzionali in Senato. È a Palazzo Madama, infatti, che sono ancora bloccate le riforme istituzionali, a partire dal superamento del bicameralismo perfetto e dalla riduzione del numero dei parlamentari.


Andare avanti non è facile.

La Russa per il Pdl conferma il sostegno a Monti, ma aggiunge anche che ii tecnici possono sbagliare e che per il Pdl è un dovere non essere complice di quegli errori.


Frattini dice quasi l'opposto: "Poiché non ho tendenze suicide, sono fermamente contrario a quello che sento dire a Daniela Santanché e altri esponenti del mio partito". E quindi, contrario a togliere l'appoggio al governo per precipitare verso il voto a ottobre.

A riprova del nervosismo che circola nelle file berlusconiane, arriva una dichiarazione di Guido Crosetto: "Sono disposto a dare parte del mio stipendio per fare a meno della Minetti.

Perdiamo voti anche senza di lei, ma diciamo che aiuta. Facciamo una colletta per darle un vitalizio e mandiamola via".

Poi rincara: "A parte Alfano, prenderei i dirigenti del mio partito a calci nel sedere".


La Repubblica


PS. Perché non il telecomandato?
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Quello che dobbiamo chiederci è se il governo Monti chiamato per tamponare una situazione drammatica, e che ha dato prova di scarse capacità tecniche nel gestire l'economia sia in grado di gestire una fase nascente del terrorismo.

Del Parlamento è inutile parlare, l'Assemblea dei falliti continua a dare uno spettacolo indecente di se stessa.
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Lugano addio: il paradiso fiscale più forte d’Europa è finito sotto assedio
Gli Stati Uniti demoliscono il segreto bancario. Gran Bretagna, Germania, Austria e ora Italia vogliono le tasse non pagate dagli evasori che hanno esportato capitali. E un intero sistema, quello della Svizzera, inizia a crollare


di Vittorio Malagutti | 12 maggio 2012Commenti (84)

Più informazioni su: Banche, evasione fiscale, eveline widmer-schlumpf, jean ziegler, paradiso fiscale, Svizzera.

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“Sentito che cosa ha detto quella? Qui è finita per tutti. È solo questione di tempo, qualche anno, e poi ci costringono a chiudere bottega. La Svizzera intera può chiudere bottega”. Il cielo cupo sopra Lugano in una domenica di pioggia ispira pensieri tristi, ma il banchiere che si fuma l’ennesima sigaretta seduto a un tavolo con vista lago non ha l’aria, e neppure il curriculum, dell’uomo sentimentale. Se la prende con una donna, la maledice senza neppure nominarla.

La signora in questione si chiama Eveline Widmer-Schlumpf e siede al governo di Berna come presidente e responsabile delle Finanze. È lei, ormai, il nemico numero uno dei banchieri. La ministra svende agli stranieri il futuro della Confederazione, questa l’accusa. Peggio: si è arresa senza combattere di fronte alle pressioni di americani, tedeschi, inglesi, perfino degli italiani, tutti impegnati a dare la caccia al denaro nero degli evasori fiscali nascosto nelle banche elvetiche. Finanza contro politica, mai visto nulla di simile da queste parti, in un Paese che ha sempre visto il governo allinearsi scrupolosamente alle direttive dei signori del denaro. Per la prima volta l’esecutivo di Berna ha osato mettere in discussione il tabù nazionale, l’inviolabile segreto bancario su cui il Paese degli orologi a cucù e del cioccolato ha costruito la sua enorme ricchezza. “La Svizzera lava più bianco”, accusava più di vent’anni fa il sociologo ginevrino Jean Ziegler in un libro che faceva a pezzi la casta del potere elvetico, complice di un colossale sistema di riciclaggio.

Le nuove paure

I tempi cambiano. La Svizzera adesso ha paura. Gli Stati Uniti e l’Europa, travolti da una crisi economica senza precedenti, non possono più permettersi di ignorare il tesoro accumulato nei forzieri di Zurigo, Ginevra e Lugano da milioni di evasori fiscali. Mentre i tagli in bilancio massacrano il welfare, i governi devono dare un segnale d’impegno anche sul fronte delle entrate. E visto che le tasse, nuove e vecchie, finiscono per massacrare i soliti noti, che c’è di meglio di una crociata contro i santuari dell’evasione fiscale? A Berna hanno capito il messaggio.

“Il dovere di diligenza dei banchieri va esteso per evitare che giungano nei nostri istituti di credito fondi stranieri non dichiarati al fisco”. Ecco, testuali, le parole della ministra Widmer-Schlumpf che tre mesi fa hanno acceso le polemiche. Se una simile riforma andasse in porto sarebbe una mezza rivoluzione. Adesso i banchieri hanno il dovere di fare ogni accertamento possibile sulla provenienza del denaro depositato dal cliente. Se c’è il sospetto che i soldi siano il frutto di attività criminale allora scatta l’obbligo di denuncia all’autorità anti-riciclaggio. Il governo di Berna, questa la novità, vorrebbe che le verifiche del funzionario di banca fossero estese anche alle questioni fiscali. Non pagare le tasse diventa un crimine e quindi il cliente sospetto evasore va denunciato, proprio come il riciclatore del denaro della droga. E se un Paese straniero dovesse chiedere assistenza in un’indagine, anche amministrativa, su una presunta evasione tributaria, la banca svizzera sarebbe obbligata a fornire le informazioni richieste.

Sempre meno segreti

Gli ambienti finanziari protestano: fin qui le questioni fiscali erano al riparo da qualsiasi indagine. Il segreto bancario copriva tutto. “Va a finire che ci tocca chiedere la dichiarazione dei redditi ai clienti”, esagera il banchiere ginevrino. I politici però insistono. Il governo di Berna, ha pubblicato un documento, una trentina di pagine, intitolato “Strategie per una piazza finanziaria competitiva e conforme alle leggi fiscali”. É la “Weissgeldstrategie”, la strategia del denaro bianco che serve a tagliare i ponti, almeno a parole, con un passato imbarazzante. Buoni propositi, niente di più. Ma le ipotesi di riforma su una materia tanto delicata hanno mandato in bestia i banchieri. Sentite che cosa ha detto, una decina di giorni fa, il ticinese Sergio Ermotti, l’ex braccio destro di Alessandro Profumo all’Unicredit approdato l’anno scorso sulla poltrona di numero uno di Ubs, colosso del credito elvetico: “Gli attacchi al segreto bancario non sono altro che una guerra economica”, ha dichiarato Ermotti al giornale zurighese SonntagsZeitung.

“Questa guerra mira a indebolire la piazza finanziaria elvetica per favorire i nostri con-correnti” ha aggiunto il capo di Ubs. Insomma, il mondo intero trama per svaligiare i forzieri svizzeri. La posta in gioco è colossale. Si calcola che le 320 banche della Confederazione gestiscano patrimoni per oltre 4.500 miliardi di euro. Più della metà di questo tesoro proviene da Paesi stranieri. La sola Italia avrebbe contribuito con 150 miliardi. Una stima per difetto, probabilmente. I banchieri temono che la semplice possibilità di un accordo sulla tassazione dei capitali esportati illegalmente sia sufficiente a mettere in fuga buona parte dei clienti. E questo sarebbe un problema serio per un’economia come quella elvetica in cui il settore finanziario produce oltre il 10 per cento del valore aggiunto complessivo.

La crisi oltre la finanza

La Svizzera però non è solo finanza. Nel territorio della Confederazione hanno sede migliaia di imprese che fanno business con l’Europa. E allora bisogna mantenere buoni rapporti con i Paesi vicini, altrimenti rischia di affondare l’economia, in gran parte orientata all’export.

Quando era ministro dell’Economia, Giulio Tremonti ha fatto in modo che la Svizzera venisse inserita nella black list dei Paesi non collaborativi in materia fiscale, tipo Cayman e Bahamas. Questa decisione ha creato enormi problemi alle aziende svizzere che lavorano con l’Italia. Per questo Berna non può fare a meno di inviare segnali distensivi. Che cosa succederebbe, per dire, se Londra sospendesse l’autorizzazione delle banche elvetiche a lavorare nella City? Nasce con queste premesse il negoziato per i nuovi trattati fiscali con Germania e Inghilterra. E anche il governo di Mario Monti adesso ha imboccato la stessa strada.

Il conto agli evasori

Una multa pesante, fino al 44 per cento della somma esportata illegalmente, e la promessa di pagare le tasse in futuro. Sono questi gli ingredienti del colpo di spugna per i furboni del fisco. Un regalo agli evasori, protesta l’opposizione socialdemocratica tedesca. E anche in Gran Bretagna l’accordo, deve ancora essere ratificato dal Parlamento. In Italia la trattativa con Berna ripartirà il 24 maggio, come annunciato mercoledì da una nota dei due governi. Trovare l’accordo non sarà facile. A meno che non siano gli svizzeri a mandare tutto a monte. L’Udc, il partito nazionalista di Cristoph Blocher minaccia di promuovere un referendum per bloccare i negoziati. I banchieri approvano.

IFQ
camillobenso
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Re: Come se ne viene fuori ?

Messaggio da camillobenso »

Day after day

La disperazione di un Paese allo sfascio


Omnibus – Ventura (Panorama)

<<I moderati in questa fase sono incazzati e si sono nascosti nell’astensione in attesa di accertare chi a destra è in grado di “aggregare” e “rinnovare". L’unico in grado di fare questa operazione è Berlusconi.>>

Ci risiamo, è il ritorno dei morti viventi.

Totò negli anni ’50 in occasione delle puttanate del Cd democristiano, sottolineava in questo modo “ ..e poi dicono che uno si butta a sinistra….”. Oggi non si buttano più a sinistra, ma nel terrorismo.
mariok

Re: Come se ne viene fuori ?

Messaggio da mariok »

Ci risiamo, è il ritorno dei morti viventi.

A me sembra che tutto proceda secondo una trama già scritta.
camillobenso
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Re: Come se ne viene fuori ?

Messaggio da camillobenso »

L'OSSERVATORIO
La politica interessa solo a tre italiani su dieci
Sei anni fa erano il 56%. E anche tra chi vota cresce la sfiducia nei partiti



I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti.
Diversi esponenti politici avevano obiettato che, malgrado il consenso per l'insieme delle forze politiche si fosse costantemente ridotto, il supporto per i singoli partiti - ciascuno si riferiva in particolare al proprio - non aveva probabilmente subito un trend siffatto. I risultati delle elezioni hanno mostrato che le cose non stanno così. Ma lo hanno indicato, prima e dopo le consultazioni, anche le risposte ai sondaggi, che ci offrono una serie di indicazioni ulteriori a quelle emerse dal voto. Essi confermano ad esempio come anche la fiducia espressa per ciascun partito sia molto esigua. Ad esempio, dichiara di avere fiducia nel Pd, che è la forza che ottiene il maggiore livello relativo di consenso, solo il 16% dell'elettorato, mentre il 77% manifesta l'atteggiamento opposto. Naturalmente la maggioranza (67%) degli elettori di questo partito gli conferma il proprio supporto, ma ben un terzo di questi ultimi afferma invece di non nutrire fiducia.

Ancora più critica è la situazione del Pdl, verso il quale la fiducia espressa ammonta, nell'insieme dell'elettorato, al 9%, mentre assume un orientamento contrario l'85%. Anche in questo caso, la maggioranza (ma meno ampia, il 59%) dei votanti per Berlusconi e Alfano ribadisce il proprio consenso, ma il 40% degli stessi lo nega. Questi dati spiegano in larga misura il recente risultato elettorale negativo del Pdl, ma mostrano al tempo stesso come la crisi di questo partito perduri ben oltre il momento del voto.

Anche per le altre forze politiche, la grande maggioranza degli italiani esprime sfiducia. La forza in assoluto meno «gettonata» è, coerentemente con altre rilevazioni precedenti, la Lega. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatosi nelle ultime settimane. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico dal valore di 48,4 registrato lo scorso novembre al 25,5 di oggi.

A questo calo di fiducia complessiva corrisponde una altrettanto drastica diminuzione del livello di interesse verso gli avvenimenti politici. Anche questo è un trend in corso da molto tempo: sei anni fa, nell'aprile 2006, il 56% della popolazione dichiarava di essere in qualche misura («molto» o «abbastanza») interessato alla politica. Oggi questa percentuale si è drasticamente contratta, superando di poco il 30%, ciò che significa che il 70% degli elettori - era il 43% nel 2006 - afferma di non occuparsi di vicende politiche. Insomma, la politica è seguita oggi da meno di un italiano su tre. Appare relativamente più interessata la generazione di età centrale (35-55 anni), specie tra coloro che si collocano nel centrosinistra o nella sinistra tout court . L'interesse è poi notevolmente più alto (61%) tra i laureati.

D'altra parte, il calo di attenzione per la politica è percepito anche soggettivamente dagli stessi cittadini. Ben il 43% dichiara infatti di avere ridotto il proprio interesse per le tematiche politiche anche (per alcuni, specialmente) a seguito dei numerosi scandali che hanno coinvolto in questi mesi svariati partiti ed esponenti politici. Un fenomeno siffatto si è manifestato con particolare intensità tra i meno giovani, tra le casalinghe e, ovviamente, tra i meno partecipi politicamente.

Il quadro complessivo che emerge da questi dati è dunque assai critico. I risultati del primo turno della amministrative non sono che un segnale evidente del clima di opinione del Paese. Alla sfiducia nelle istituzioni - e nei partiti in particolare - corrisponde un senso di impotenza (e talvolta, ma in modo minoritario, di rabbia) tra i cittadini che finisce col tradursi nella scelta di forze politiche che «rappresentino» la protesta o, più spesso, in un disinteresse per quanto accade nel mondo politico che si traduce nell'astensione. E persino per il governo Monti - che ha assunto inizialmente l'immagine di reazione «tecnica» ai partiti tradizionali - si registra in queste settimane un drastico calo di consensi.

Renato Mannheimer
13 maggio 2012 | 9:06
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camillobenso
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Re: Come se ne viene fuori ?

Messaggio da camillobenso »

mariok ha scritto:Ci risiamo, è il ritorno dei morti viventi.

A me sembra che tutto proceda secondo una trama già scritta.
Qualcosa di più su quello che vedi tu dietro tutto questo?
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