Diario della caduta di un regime.

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....QUANDO LE SOCIETA' CROLLANO....

Quando è crollata l prima Repubblica, gli eventi erano di portata inferiore. Oggi si arriva nel cuore delle Istituzioni.



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giovedì 22/12/2016



Indagato Del Sette Tremano la politica e il “Giglio Magico”

Secondo i pm, il comandante dei carabinieri ha spifferato le indagini (e le microspie) per corruzione nel super affare


Tiziano Renzi – Ansa
Matteo Renzi e il generale Tullio Del Sette.
di Marco Lillo | 22 dicembre 2016



Il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette è indagato per favoreggiamento e rivelazione del segreto istruttorio nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti Consip che lambisce il cosiddetto ‘Giglio Magico’ e il padre del leader del Pd, Tiziano Renzi, che non è indagato ma il cui nome è tirato in ballo nelle carte. L’accelerazione dell’inchiesta dei pm di Napoli Henry John Woodcock, Enrica Parascandolo e Celeste Carrano c’è stata nella notte di martedì 20 dicembre.

Come abbiamo raccontato ieri, a Napoli l’imprenditore Alfredo Romeo è indagato con l’accusa di avere corrotto un alto dirigente della Consip, Marco Gasparri. Al centro degli accertamenti dei pm c’è l’appalto cosiddetto FM4, la mega-gara di facility management, bandita nel 2014 e suddivisa in molti lotti, tre dei quali potrebbero essere aggiudicati alla società di Alfredo Romeo insieme ad altre. Le forniture pluriennali di tutti gli uffici delle pubbliche amministrazioni e delle università italiane valgono 2,7 miliardi di euro, pari a più dell’11 per cento della spesa pubblica nel settore. Il 16 dicembre, i pm sentono Gasparri alla presenza del suo avvocato Alessandro Diddi.

Il funzionario spiega i suoi rapporti con Romeo e parla dell’influenza della politica su nomine e appalti. I carabinieri del Noe e i finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Napoli, martedì entrano nell’ufficio dell’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, nominato dal governo Renzi nel 2015. Subito dopo quella visita, i palazzi del potere entrano in fibrillazione. Tutti si agitano per capire cosa sta accadendo. Il Fatto, dopo avere sentito più fonti, oggi è in grado di ricostruire il perché di tanta ansia: l’amministratore delegato (non indagato) di Consip ha ‘cantato’, come si diceva una volta. Non su Gasparri o Romeo, ma su nomi più rilevanti. I pm hanno sentito Marroni sulla soffiata che stava schiantando le indagini più segrete della Procura di Napoli.

Come è andata? Marroni incarica nelle scorse settimane una società privata di effettuare la bonifica degli uffici della Consip. Non è una cosa usuale. Nell’indagine è coinvolto un personaggio non comune. Si chiama Carlo Russo, 33 anni, imprenditore di Scandicci, amico di Tiziano Renzi e in ottimi rapporti con l’imprenditore Alfredo Romeo, accusato di corruzione per i suoi rapporti con Consip. Russo è un tipo che ama parlare del suo rapporto con Tiziano Renzi e con la moglie Laura. Sarebbe interessante capire se ci sono rapporti triangolari tra Tiziano Renzi, Carlo Russo e Alfredo Romeo. Ma l’ipotesi probabilmente non potrà avere riscontro dalle microspie in Consip che sono state neutralizzate dalla soffiata.

Anche per questo i pm martedì sentono Marroni a sommarie informazioni e alla fine l’amministratore di Consip – che sa di essere stato ascoltato – su domanda specifica risponde: “È stato il presidente della Consip Luigi Ferrara a dirmi che lo aveva messo in guardia il Comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette”. Bum!

I pm saltano sulla sedia e immediatamente convocano il presidente Ferrara, 46 anni, napoletano, un tecnico molto introdotto e influente, oltre a essere presidente di Consip è vicesegretario generale della Presidenza del Consiglio. In passato era capo del Dipartimento del personale del ministero del Tesoro ed era considerato vicino a Enrico Letta.

In un teso esame a sommarie informazioni in orari notturni, in termini più vaghi di quelli netti usati da Marroni, Ferrara conferma ‘la dritta’ del comandante. Al Fatto ieri Ferrara ha spiegato con molta ritrosia: “Del Sette mi disse di stare attento agli incontri che facevo con gli imprenditori e in particolare con Alfredo Romeo e io riferii la cosa all’amministratore delegato Marroni per consigliare anche a lui le migliori regole di ingaggio per gli imprenditori, ma non ricordo ora di avere parlato di Romeo”. Il racconto di Ferrara sembra però incoerente con il prosieguo della storia. Se la prima stazione appaltante d’Italia viene messa in guardia dal numero uno dei Carabinieri su un imprenditore (indagato ma allora in segreto) la reazione naturale è quella di evitare incontri. Non quella di bonificare gli uffici. Al Fatto Ferrara replica: “Io non c’entro con quella scelta e non ne sapevo nulla. Non ho neanche un vero ufficio in Consip”. E il dirigente indagato? “Abbiamo già deciso di intervenire sulla sua posizione. Faremo un comunicato”.

Ovviamente, vista la carica rivestita e vista la presenza di versioni diverse e da verificare, la presunzione di innocenza deve essere garantita. A maggior ragione a un comandante generale dell’Arma. Però questa storia presenta alcune anomalie. Alfredo Romeo è in rapporti molto stretti con Carlo Russo, un 33enne imprenditore di Scandicci, vicino a Firenze, a sua volta in rapporti con Tiziano Renzi.

La fuga di notizie ha danneggiato l’indagine proprio quando Russo si profilava all’orizzonte. Pochi mesi dopo la presunta ‘dritta’ del comandante Del Sette ai vertici Consip, a Rignano sull’Arno, patria dei Renzi, succede qualcosa di strano secondo un articolo de La Verità. Giacomo Amadori il 6 novembre sul giornale diretto da Maurizio Belpietro scrive: “Babbo Renzi è agitato per un’inchiesta di una Procura del Sud … dovrebbe essere Napoli”. Poi il racconto che gli amici più stretti di Tiziano a Rignano gli avrebbero confidato che se fosse uscita la notizia prima del 4 dicembre, Matteo avrebbe perso il referendum. Cosa poi riuscita a Matteo senza l’aiuto del padre. Renzi senior sa dell’indagine e si comporta di conseguenza. La Verità spiega: “Chiede all’ospite di turno di lasciare il cellulare all’ingresso della casa di Rignano e poi prende la strada bianca che conduce nel bosco dove confida tutte le sue preoccupazioni. L’inchiesta – prosegue l’articolo – ruoterebbe intorno a una vicenda del tutto nuova”. Poi, solo nel sottotitolo: “L’inchiesta riguarda una vicenda in cui è coinvolto un personaggio in rapporti con babbo Renzi che si giustifica: l’avrò visto una volta sola”. Il personaggio somiglia a Carlo Russo, l’imprenditore che condivide con Renzi senior la passione per i pellegrinaggi e che ha contatti con Romeo.

La soffiata a Roma ha avuto un effetto a Rignano? E chi andava in giro a svelare notizie riservate voleva favorire e salvare solo la Consip o qualcun altro? A queste domande dovrà rispondere la Procura di Napoli. O quella di Roma se, come appare probabile, il fascicolo sarà trasferito per ragioni di competenza territoriale.
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Politica
Poletti non è l’unico dei pacchi-dono di Renzi
di Pierfranco Pellizzetti | 22 dicembre 2016


Saggista
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Dei tanti pacchi-dono di cui non dobbiamo dire grazie a Matteo Renzi, rifilati al Paese nel momento in cui varò la prima combriccola ministeriale, oggi stiamo sballando definitivamente quello contenente “mister incredibile”: il Giuliano Poletti che ha rivelato evidenti difficoltà nel collegare in un’unica funzione coordinata il pensante e il parlante.
Mentre tutto quanto c’era da dire su/contro questa macchietta dialettale può ormai venir dato per detto (e condividendo appieno la richiesta della sua rimozione dall’incarico; stante l’accertata pericolosità “ambientale” di costui), forse varrebbe la pena di riflettere sulle ragioni che lo fecero selezionare quale ministro della Repubblica; tra l’altro, in un ruolo delicatissimo come lavoro e occupazione.
Perché qui si rivela un’altra delle tentate malefatte non andate a buon fine di chi lo aveva messo in pista: lo statista di Pontassieve Les Deux Eglises. Ennesima ciambella riuscita prevedibilmente senza buco. E non solo per le foto che giravano già da tempo, ritraendo Poletti, allora dirigente d’impresa, in affabile conversare con personaggi poi precipitati nel gorgo affaristico/malavitoso di Roma Capitale. A conferma che sono sempre più labili i confini tra economia legale e non.

Infatti, nel suo accertato velleitarismo, scegliendo l’uomo targato Coop il giovane premier completava un trio composto da Federica Guidi allo Sviluppo e Maurizio Lupi a Trasporti e Infrastrutture. Guarda caso, la sommatoria di quanto uno come Matteo Renzi reputa corrispondere all’idea di potentati economici da privilegiare: le cooperative più burocratizzate, la Confindustria più rampantistica, la Compagnia delle Opere più affaristica. Seppure maldestra, un’idea di costituendo “blocco sociale”, con cui rinnovare i fasti di quello che assicurò a Berlusconi l’egemonia ventennale sulla scena politica (l’alleanza tra abbienti e impauriti).
Poi sappiamo come l’operazione è andata a finire: la Guidi che esce di scena piangendo, una volta divenuta di dominio pubblico la strumentalizzazione a suo danno da parte di un boyfriend troppo interessato alle agevolazioni in materia petrolifera; Lupi lascia la carica governativa per una questione miserevole di regaletti sollecitati e ottenuti, rivelatori di una mentalità da borghesuccio ossessionato dagli status symbol. Ora – buon ultimo – il Poletti inciampa e casca su dichiarazioni da padrone delle ferriere in pieno delirio di tracotanza.

Una foto di gruppo che rivela impietosamente l’attuale livello della classe dirigente nazionale, colta nel punto di intersezione tra economia e politica. Un mix di inveterati presidiatori di poltrone; per cui risulta pleonastico domandarsi come mai è dalla seconda metà degli anni Settanta che qui da noi vige una sorta di serrata degli investimenti, per cui il sistema d’impresa si è ridotto a quella poca cosa che ora gli speculatori d’oltralpe raccattano senza trovare soverchia resistenza; perché in questo Paese la parola stessa “politica industriale” produce immediate reazioni allergiche.

Constatazione che porta alla luce un ulteriore elemento dell’inadeguatezza renziana, rimasta in penombra durante il recente rodeo referendario: la fregola di accreditarsi in una sorta di mondo billionaire, popolato da riccastri ed esibizionisti come scelta di campo. L’Italia ingaglioffita in questi trent’anni senza sviluppo e tanto accaparramento, di lusso e impoverimenti. Di politica come ascensore per carrierismi spudorati. L’Italia del lavoro dimenticato. Che se torna a dare segni di vita, magari raccogliendo tre milioni di firme contro l’imbroglio dei voucher marcati Giuliano Poletti, potrebbe avviare un recupero di valori pre e post renziani. Come premessa per l’uscita da questo girone infernale.
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COSI' MUORE LA SECONDA REPUBBLICA




Da Dell’Utri e Previti a Cosentino e Formigoni
È STATA SGOMINATA LA BANDA BERLUSCONI


Il tramonto del centrodestra è nei tribunali: dall’ex premier agli ex ministri fino ai governatori
All’ex presidente lombardo 6 anni per tangenti – A Scopelliti 5 anni – Pm a Verdini: ‘Lei è un truffatore’


Politica
La foto di famiglia di Berlusconi perde uno dopo l’altro i soggetti principali: da Roberto Formigoni – condannato a 6 anni per corruzione (di G. Trinchella) – a Giuseppe Scopelliti – 5 anni per abuso d’ufficio e falso (di L. Musolino). Finisce in pezzi l’ultimo residuo della classe dirigente che ha guidato l’Italia per anni. Non solo il leader, non solo ministri, non solo sottosegretari e viceministri, non solo “mele marce” tra i parlamentari. Ma anche presidenti di Regione, ex sindaci, coordinatori. In Lombardia Formigoni, in Campania Cosentino, in Liguria Scajola, in Calabria Scopelliti, in Sicilia Dell’Utri
di Diego Pretini
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Pm a Verdini: ‘Lei è un truffatore


Non dimentichiamoci che era la stampella di Benito, Pinocchio Mussoloni.
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COSI' MUORE LA SECONDA REPUBBLICA



Forza Italia, dal capo ai governatori e dai ministri ai ras regionali: la storia berlusconiana muore nei tribunali

POLITICA
La classe dirigente che ha fatto la storia del centrodestra e ha guidato per circa 15 anni il Paese e i territori in macerie nelle aule giudiziarie: da Previti a Dell'Utri a Cosentino e Galan
di Diego Pretini | 22 dicembre 2016


Se avesse la solennità della tragedia, dovrebbe suonare il Crepuscolo degli Dei. Siccome assomiglia più al grottesco, potrebbe diffondersi la musichetta finale di qualche spettacolo del Bagaglino. La foto di famiglia di Silvio Berlusconi perde uno dopo l’altro i soggetti principali, da Nord a Sud, da Roberto Formigoni – condannato a 6 anni per corruzione – a Giuseppe Scopelliti – 5 anni per abuso d’ufficio e falso. In un giorno solo finisce in pezzi l’ultimo residuo della classe dirigente che ha guidato l’Italia per anni, almeno 15. Dal comandante fino ai colonnelli, il centrodestra non vivrà di soli ricordi, ma anche di sentenze e di processi, spesso finiti male. Non solo il leader del partito e capo del governo, non solo ministri, non solo sottosegretari e viceministri, non solo “mele marce” tra i parlamentari. Ma anche presidenti di Regione, ex sindaci, coordinatori regionali del partito. In Lombardia Formigoni, in Campania Cosentino, in Liguria Scajola, in Calabria Scopelliti, in Sicilia Dell’Utri. Non solo amministratori, ma anche dirigenti di partito, che avevano il potere di formare altri politici, di fare nomine, di “produrre” altra classe dirigente.

Oggi è stata la giornata della condanna in primo grado dell’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, in appello dell’ex governatore in Calabria Giuseppe Scopelliti e anche della requisitoria del pm nel processo più complicato per Denis Verdini, in cui il magistrato in aula ha detto che l’ex braccio destro di Berlusconi, coordinatore di Forza Italia, è “un truffatore” che con la sua attività al Credito cooperativo fiorentino, che ha guidato per vent’anni, ha “rovinato” quella banca. Verdini, imputato in 5 processi, è già stato condannato per corruzione in primo grado per un’altra vicenda (quella della Scuola dei Marescialli di Firenze), pena poi prescritta in appello. Per il poco che vale sempre oggi un ex parlamentare del Pdl, Alfonso Papa, napoletano, è stato condannato a 4 anni e mezzo, in primo grado, per i reati di concussione e istigazione alla corruzione.

I veterani
Dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sanno tutti tutto: la frode fiscale, la condanna definitiva, la pena dei servizi sociali, l’espulsione dalla politica attiva attraverso la decadenza da senatore e l’incandidabilità fino al 2019. L’ex senatore Marcello Dell’Utri, ideatore di Forza Italia e principale consigliere del leader, è in carcere da tempo per la condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e è indagato e imputato in altri svariati processi, con accuse che vanno dal peculato all’esportazione illecita di opere d’arte fino alla frode fiscale e alla bancarotta. E’ stato condannato definitivamente, nel 2007, anche l’ex ministro della Difesa Cesare Previti: un anno e 6 mesi per corruzione perché secondo i giudici partecipò alla corruzione di un giudice (Vittorio Metta) perché la Corte d’appello di Roma desse la maggioranza della Mondadori a Berlusconi anziché alla Cir di De Benedetti. Previti ha poi scontato la pena sotto forma di affidamento ai servizi sociali.

Il ministro per 17 giorni
Berlusconi fece ministro per 17 giorni e sottosegretario per un totale di 7 anni anche Aldo Brancher, condannato in via definitiva a due anni di reclusione per ricettazione e appropriazione indebita nel caso Antonveneta, pena non scontata grazie all’indulto. Nel caso di Brancher si arrivò all’impudicizia: solo 5 giorni dopo essere stato nominato ministro “alla sussidiarietà e il decentramento”, chiese la sospensione del suo processo per “organizzare il nuovo ministero”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano intervenne spiegando che Brancher era ministro senza portafoglio e non c’era nessun ministero da organizzare. Alla fine, prima di una mozione di sfiducia e le proteste generali, Brancher si dimise.

Ex governatori e ex capi regionali di partito
Anche l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino è in cella da anni: di recente è stato condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione camorristica e in precedenza aveva preso altri 4 anni per corruzione (entrambe le sentenze sono arrivate in primo grado). Giancarlo Galan, ex presidente del Veneto ed ex ministro, ha patteggiato una pena di 2 anni e 10 mesi per corruzione nell’inchiesta sul Mose restituendo tra l’altro 2,6 milioni di euro (a petto, secondo i pm, di oltre 15 milioni). Claudio Scajola, più volte ministro, è sotto processo per il presunto favoreggiamento di un latitante, l’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato a 3 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ugo Cappellacci, ex presidente della Regione Sardegna, è stato condannato in primo grado a due anni e mezzo per bancarotta “per dissipazione e documentale”.
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Mps, aumento di capitale fallito. “Non raggiunti i 5 miliardi”. Consiglio dei ministri per decreto ‘Salvarisparmio’

LOBBY
Già alla vigilia, Rocca Salimbeni aveva comunicato che non si erano ancora "concretizzate manifestazioni di interesse" da parte di grandi investitori. Il Cdm vara il decreto per evitare il fallimento della banca. Sospesa la negoziazione dei titoli
di F. Q. | 22 dicembre 2016

È andata come previsto: l’aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena è fallito. L’operazione lanciata lunedì 19 dicembre, spiega l’istituto,”non si è chiusa con successo”, perché dei 5 miliardi di euro necessari per la ricapitalizzazione ne sono stati raccolti soltanto due e mezzo. Il Consiglio dei ministri è già stato convocato per le 22, in modo da varare il decreto ‘Salvarisparmio’, un piano da 20 miliardi già approvato dal Parlamento per evitare il fallimento della banca. Si tratta del quinto provvedimento d’urgenza sul sistema bancario dal 2015, dopo la riforma delle popolari, la riforma delle Bcc, il primo ‘salva-banche’ appunto e quello per la garanzia pubblica sulla cessione delle sofferenze. Un nuovo decreto che arriva a poco più di un anno da quello che ha mandato in risoluzione quelle che sono diventate le ‘4 banche’ (le vecchie Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti) e che consentirà di aprire l’ombrello pubblico su Mps, ma non solo. Secondo quando si apprende, il board della banca dovrebbe attendere che il consiglio dei ministri vari il decreto, in modo da poter poi deliberare la richiesta di ‘avvalersi’ dell’intervento di Stato previsto nel provvedimento, che potrebbe prevedere una ricapitalizzazione precauzionale.


Consob ha disposto la sospensione domani delle negoziazioni nei mercati regolamentati, nei sistemi multilaterali di negoziazione e nei sistemi di internalizzazione sistematica italiani relativamente ai titoli emessi o garantiti da Banca Monte dei Paschi di Siena spa e agli strumenti finanziari aventi come sottostante titoli emessi da Banca Monte dei Paschi di Siena spa.



Il fallimento dell’operazione – Già alla vigilia, Rocca Salimbeni aveva comunicato che non si erano ancora “concretizzate manifestazioni di interesse” da parte di grandi investitori. Un elemento che ha influito negativamente sulle decisioni dei potenziali investitori istituzionali, limitando significativamente gli ordini di sottoscrizione. Ora le obbligazioni subordinate Mps conferite in adesione alle offerte della banca, ha chiarito, saranno restituite ai rispettivi portatori. Le banche advisor coinvolte a vario titolo nel consorzio e nella cartolarizzazione non riceveranno invece commissioni. Al Cda della banca non è rimasto che ringraziare “tutti i dipendenti per il grande sforzo profuso al servizio della banca e dei clienti in questo delicato momento della vita dell’istituto”.

Le necessità di Mps dovranno poi incrociarsi con i contenuti del provvedimento del governo, destinato a diventare azionista di larga maggioranza della banca. Per la convocazione del consiglio dei ministri, che deve varare il provvedimento, i tempi sono stretti. L’obiettivo è rendere Mps attraente agli occhi degli investitori il più presto possibile. Perché il deciso rafforzamento della quota di capitale nelle mani pubbliche – dal 4% attuale si passerebbe a un numero a due cifre – sarà a tempo. E fra le ipotesi che girano c’è un termine a 18 o persino 12 mesi entro cui il Tesoro dovrà uscire. Il lasso di tempo “verrà negoziato fra Roma e Bruxelles” nell’ambito del nuovo piano industriale, spiega una fonte. Il Tesoro spingerebbe per una tempistica larga, per dare respiro all’operazione, magari due anni.

Il nodo principale, però, resta chi farà le spese del fallimento del piano di salvataggio pubblico elaborato da Mps e del conseguente intervento dello Stato. Di sicuro sono a rischio tutti gli azionisti e i 40 mila possessori di bond subordinati che, in base alle norme europee, dovranno partecipare al salvataggio, rimettendoci. Questo lo deciderà l’esito di un confronto fra il Tesoro e l’Unione europea, anche se il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha assicurato che le conseguenze per i risparmiatori saranno “minimizzati o resi inesistenti”. In fondo, con l’adesione alla conversione, sono stati proprio i ‘piccoli’ a impegnarsi nel salvataggio della banca, mentre i grandi investitori sono stati latitanti. In attesa della soluzione al ‘caso Mps’, il titolo continua a precipitare in Piazza Affari, dove ha chiuso in ribasso del 7,48% a 15 euro.

Che cos’è il decreto ‘Salvarisparmio’ – Il decreto ancora una volta sarà un ‘omnibus’ bancario, e non conterrà solo la creazione del fondo da 20 miliardi per sostenere le banche in difficoltà sia garantendo la liquidità sia rafforzando il patrimonio. Sul fronte della garanzia con il decreto si dovrebbe attivare lo schema approvato da Bruxelles in estate (attivabile fino a fine 2016). La Ue aveva dato il via libera a una garanzia fino a 150 miliardi ma potrebbe essere messa in campo circa la metà di queste risorse, che non incideranno comunque sui saldi di bilancio fino a che la garanzia non sarà davvero operativa. Diverso il discorso dei 20 miliardi del nuovo fondo che il governo ha chiamato ‘salva-risparmio’, il quale, se utilizzato, aumenta il debito e per questo ha avuto bisogno di una autorizzazione ad hoc del Parlamento, incassata anche con il sostegno di Forza Italia mercoledì.

Nel decreto dovrebbe peraltro essere solo indicata la nascita del fondo senza riferimenti a casi specifici. Il paracadute infatti potrebbe servire non solo per Siena, ma anche per le due popolari venete o per Carige (ma si parla anche di istituti più piccoli). Tutti ‘casi’ che andranno valutati volta per volta e che per il salvataggio dello Stato potranno aver bisogno di decreti ministeriali attuativi dei singoli interventi. Il decreto dovrebbe anche dettagliare come saranno protetti gli obbligazionisti retail, chiamati, in caso di intervento pubblico, a partecipare alle perdite (burden sharing). Nel caso di Mps ci potrebbe essere un rimborso più generoso di quello delle 4 banche, attraverso azioni ordinarie. Ma ancora si starebbe affinando il meccanismo.

Il testo dovrebbe contenere inoltre la proroga di sei mesi del termine entro il quale le banche popolari più grandi hanno l’obbligo di trasformarsi in Spa, ora fissato al 27 dicembre, anche se di fatto il termine è stato ‘congelato’ già fino al 12 gennaio dall’intervento del Consiglio di Stato. Sarebbero poi introdotte alcune altre misure che non erano passate con la manovra, dalla possibilità anche per le Bcc di utilizzare le imposte differite (Dta) all’ammortamento in 5 anni delle risorse versate al Fondo di risoluzione.
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Tangenti Eni-Nigeria, Procura Milano chiude inchiesta: undici indagati. Tra loro Descalzi, Scaroni e Bisignani
GIUSTIZIA & IMPUNITÀ
All’epoca dei fatti Scaroni era numero uno del gruppo petrolifero, mentre Descalzi, scelto come suo successore dall’azionista ministero dell’Economia, guidava la divisione Oil & gas. Cuore dell'indagine è l'ipotizzata bustarella da un miliardo e 92 milioni suddivisa tra politici e intermediari nigeriani e manager e mediatori italiani ed europei
di F. Q. | 22 dicembre 2016

Più informazioni su: Claudio Descalzi, Luigi Bisignani, Nigeria, Paolo Scaroni
Corruzione internazionale per una mega tangente per concessione del giacimento petrolifero Opl-245 in Nigeria. La Procura di Milano ha chiuso le indagini per il caso Eni-Nigeria: nel registro degli indagati undici persone fisiche e due società in base alla legge 231 sulla responsabilità amministrativa. Tra i destinatari dell’avviso di conclusione indagini ci sono l’ad di Eni, Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni e l’uomo d’affari Luigi Bisignani. All’epoca dei fatti Scaroni era numero uno del gruppo petrolifero, mentre Descalzi, scelto come suo successore dall’azionista ministero dell’Economia, guidava la divisione Oil & gas.

La maxi tangente per il petrolio nigeriano
Cuore dell’indagine è l’ipotizzata bustarella da un miliardo e 92 milioni suddivisa tra politici e intermediari nigeriani e manager e mediatori italiani ed europei. Secondo la ricostruzione dei pm Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro e Isidoro Palma, che nel 2014 hanno ottenuto il sequestro in Svizzera di circa 110 milioni e dalle autorità inglesi il blocco di altri 83 milioni, tutta l’operazione di acquisto della concessione del campo di esplorazione petrolifera ha alla base una sorta di “anomalia genetica“: l’ex ministro Daniel Etete, infatti, alla fine degli anni ’90 si ‘autoassegnò’ la concessione del giacimento a costo zero, tramite la società Malabu e attraverso prestanome. Gli altri due soci erano un figlio del dittatore Sani Abacha e la moglie di un ex ministro. Ciò, inoltre, diede origine all’epoca anche ad una serie di cause tra Malabu, l’ex ministro e il governo nigeriano che voleva riprendersi l’utilizzo della concessione. Governo che riuscì a revocare quella concessione assegnata a Shell e poi nel 2006 la riassegnata nuovamente a Malabu.

La Shell era finita nel mirino degli inquirenti lo scorso marzo per 115 milioni di dollari che avrebbe ‘girato’ a Eni a titolo di ‘rimborso spese’; 115 milioni considerati “a latere dell’operazione” con cui nel 2011 versò ufficialmente 1 miliardo e 90 milioni di dollari al governo nigeriano in cambio della licenza dello sfruttamento del blocco petrolifero posseduta da Malabu Oil and Gas, tra i cui soci ci sarebbe l’ex ministro del petrolio della Nigeria Etete. Nel 2011, Eni indagata in qualità di ente, ha acquistato dal governo nigeriano la concessione per 1 miliardo e 92 milioni di dollari, una cifra che, però, gli inquirenti contestano tutta come presunto prezzo della corruzione internazionale mentre Malabu sarebbe stata utilizzata, in sostanza, come società ‘schermo’ o ‘paravento’ per il giro di presunte tangenti.

Sempre secondo la ricostruzione, una tranche della tangente, circa 215 milioni, se non fosse stata sequestrata nell’estate 2014 dalla magistratura di Gran Bretagna e Svizzera sarebbe stata destinata a pagare anche manager Eni, due intermediari stranieri, il nigeriano Emeka Obi e il russo Ednan Agaev, e due mediatori italiani, Gianluca Di Nardo e Luigi Bisignani. Pertanto, tra i nomi che si leggono nell’avviso di chiusura indagine ci sono anche quello del capo della divisione Esplorazioni dell’Eni, Roberto Casula, e di un ex dirigente Eni nell’area del Sahara, Vincenzo Armanna.

Le indagini partite dopo le intercettazioni di Bisignani nella P4
L’indagine era partita dopo l’acquisizione da parte dei pm delle intercettazioni dell’indagine del 2010 dei colleghi di Napoli Henry John Woodcock e Francesco Curcio sulla cosiddetta P4, in cui era coinvolto anche Bisignani, che ha patteggiato un anno e 7 mesi. Dalle intercettazioni dell’indagine napoletana era emerso l’intervento di Bisignani sui vertici dell’Eni di allora. Intercettato, parlava al telefono con l’ex numero uno Scaroni e anche con Descalzi. Dalle conversazioni emergeva come nel 2010 l’ex ministro nigeriano Etete avesse contattato Di Nardo per trattare, con l’intercessione di Bisignani, la vendita a Eni della concessione Opl 245, un immenso campo con riserve stimate in 500 milioni di barili equivalenti di petrolio. “L’uomo che sussurrava ai potenti”, stando alle indagini, ha presentato Il mediatore Gianluca Di Nardo a Scaroni, che a sua volta lo ha messo in contatto con Descalzi, allora a capo della divisione Oil. Etete infatti nel 1999, ancora ministro, aveva assegnato l’immenso giacimento alla società Malabu, che attraverso prestanome era controllata da lui stesso e dal generale Abacha, allora capo del governo.

Le trattative con l’ex ministro e la maxi percentuale per il mediatore
La trattativa del 2010 tra Etete e il Cane a sei Zampe non è andata a buon fine, ma pochi mesi dopo, nell’aprile 2011, Eni ha chiuso l’affare direttamente con il governo nigeriano, che accusava l’ex ministro (condannato per riciclaggio in Francia nel 2007) di essersi appropriato indebitamente della concessione. La cifra, però, è rimasta la stessa concordata in precedenza tra Obi, Bisignani e Di Nardo: 1,09 miliardi di dollari. Contestualmente il governo nigeriano ha incassato 200 milioni di dollari da Shell. E ha girato una somma identica alla Malabu. I particolari sull’affare sono emersi quando, lo scorso anno, Obi e un altro mediatore, il russo Ednan Agaev, hanno citato in giudizio Malabu davanti alla High Court di Londra reclamando il pagamento del 19% della somma. Cioè la maxi percentuale promessa per la mediazione. Obi è uscito vincitore e si è visto riconoscere 110,5 milioni.
Le carte di Londra e il ruolo di Descalzi – Le carte londinesi, finite poi nel fascicolo dei pm di Milano, contengono molto materiale sul ruolo di Descalzi, che nel febbraio 2010, durante le trattative con Malabu, ha per esempio partecipato a un incontro all’hotel Principe di Savoia con Etete, Obi e Agaev. Dagli atti della causa, come riportato dal Fatto, emerge che secondo il giudice la cena “dimostrava precisamente a Etete cosa le entrature in Eni di Obi erano in grado di ottenere per Malabu”. E anche nel periodo agosto-ottobre 2010 “Obi si è incontrato frequentemente con Eni e in particolare con Descalzi”.

Eni: “Operazione corretta, daremo incarico per verifiche”
Preso atto della chiusura delle indagini, l’Eni “ribadisce la correttezza dell’operazione relativa all’acquisizione della licenza per lo sfruttamento del blocco OPL 245, conclusa, senza l’intervento di alcun intermediario, da Eni e Shell con il Governo nigeriano”. L’Eni sottolinea anche di aver “incaricato uno studio legale americano, di rinomata esperienza internazionale, del tutto indipendente, di condurre le più ampie verifiche sulla correttezza e la regolarità della predetta procedura. Dall’approfondita indagine indipendente è emersa la regolarità della procedura di acquisizione del blocco OPL 245, avvenuta nel rispetto delle normative vigenti. In particolare, non sono emerse prove di pagamenti da Eni a funzionari del Governo nigeriano. La somma versata da Eni e Shell per il blocco OPL 245 è stata, d’altronde, versata direttamente su un conto intestato al Governo nigeriano”. Non appena l’Eni avrà materialmente a disposizione gli atti depositati dalla Procura, “disporrà ulteriori approfondimenti ad opera di legali indipendenti, che possano confermare la regolarità dell’operazione”.
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Le banche italiane tremano Si teme l'"effetto domino"
La caduta di Mps potrebbe creare altri problemi agli aumenti di Veneto Banca e Pop Vicenza. Il caso Carige

Camilla Conti - Ven, 23/12/2016 - 08:06


La resa del Monte dei Paschi all'ingresso dello Stato rischia di avere un effetto domino sull'intero sistema bancario.

E in particolare su quegli istituti ancora in mezzo al guado come le ex popolari venete, Carige e le piccole casse di risparmio del Centro Italia, come la San Miniato o la Rimini. Tutte rimaste a corto di patrimonio e alcune di esse anche di liquidità. Come l'«anno orribile» del credito, il 2016, era cominciato pagando il conto del maldestro salvataggio di Etruria&c da parte del governo Renzi, il 2017 potrebbe iniziare con un paracadute pubblico a fare ombra sulla contendibilità delle banche italiane. Il caso senese ci dimostra, infatti, che per il credito tricolore non c'è domanda innescando una crisi di fiducia, ovvero di interesse, destinata a durare a lungo.

Chi accuserà di più il colpo? Guardiamo a Nordest: la Popolare di Vicenza e Veneto Banca entro il 5 gennaio riceveranno dal fondo Atlante altri 938 milioni «in conto futuro aumento di capitale» (310 a Vicenza e 628 a Montebelluna). Il conto da maggio di quest'anno, sale dunque a 3,5 miliardi versati dal fondo nelle casse delle due banche venete per tenerle in piedi. I 938 milioni erano gli ultimi rimasti nel fondo creato come «soluzione di mercato» per evitare il bail in del credito popolare veneto, dopo gli aumenti di capitale versati a primavera post Ipo (i collocamenti in Borsa) andate deserte e dopo lo stanziamento in Atlante 2 per la gestione delle sofferenze del Monte.

Le due banche sono al limite dell'asticella segnata dalla Bce, che chiede entro marzo 2017 un coefficiente patrimoniale al 10,25 per cento. O Atlante metterà nuova liquidità in caso di bisogno o serviranno altri investitori che scommettano sul piano di fusione annunciato entro gennaio dal neo amministratore delegato della Vicenza, Fabrizio Viola. Ovvero l'ex ad del Monte dei Paschi. Oppure interverrà lo Stato, seguendo lo stesso copione senese. Ovvero con una stangata per gli obbligazionisti subordinati. Più complesso il caso Carige: prima di fare entrare il Tesoro, in caso di bisogno, la famiglia Malacalza vorrà avere precise garanzie in termini di modalità dell'investimento e permanenza nella banca. Si vedrà con il nuovo piano industriale, che proprio nei giorni scorsi la Bce ha chiesto di avere entro fine febbraio, concedendo nei fatti un mese in più rispetto alla scadenza precedente di fine gennaio.

Gli esperti di AdviseOnly hanno stimato che l'impatto di un meteorite bancario di medie dimensioni come Monte sul sistema creditizio dell'Eurozona è del 45%, in media. Significa che se il Monte fa default, la probabilità che un'altra banca europea sia trascinata nel baratro è (almeno) pari al 45 per cento. La vicenda Mps avrà anche una ricaduta sul mercato delle sofferenze. Ovvero sui crediti deteriorati che le banche italiane devono smaltire. Secondo gli analisti di Bloomberg, l'ammanco di capitale, se si considerano i potenziali accantonamenti per coprire le svalutazioni legate alla cessione dei crediti, ammonterebbe a ben 52 miliardi, due volte e mezzo la cifra messa sul piatto dal governo. La stima include gli 8 miliardi che Unicredit dovrà rettificare a bilancio prima di vendere il suo pacchetto di 18 miliardi di sofferenze, come spiegato nel piano che prevede anche l'aumento da 13 miliardi in rampa di lancio fra febbraio e marzo.

Nel frattempo, il conto già pagato dal sistema bancario nel 2016 per ricapitalizzare le quattro banche (Etruria, Marche, CariChieti e CariFe), per consentire al fondo Atlante di sottoscrivere i due aumenti di capitale in Veneto e per il fondo volontario è di circa 10 miliardi. Salatissimo, considerando che il totale degli utili netti delle prime 12 banche per il primo semestre 2016 è stato solo di 1,1 miliardi
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Oggi il decreto Mps: tre opzioni sul tappeto per tutelare i clienti

Conversione dei bond, rimborsi mirati o acquisto delle obbligazioni subordinate
Gian Maria De Francesco - Ven, 23/12/2016 - 08:02

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Il testo del decreto «salvarisparmio», che di fatto nazionalizzerà il Monte dei Paschi, è pronto da settimane e al ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, non restano che le ultime limature in vista del Consiglio dei ministri di oggi.

Ricevuta la richiesta di aiuto da parte del cda dell'istituto senese, il governo Gentiloni dovrà sostanzialmente varare il Fondo da 20 miliardi per il quale ha già ottenuto il via libera dal Parlamento.

Il decreto, in pratica, consentirà al Tesoro di sostituirsi al consorzio di garanzia dell'aumento di capitale del Monte, finora guidato da Jp Morgan e Mediobanca. Restano, però, alcuni punti interrogativi rappresentati dal fatto che si tratta del primo salvataggio pubblico in ambito europeo sotto la direttiva Brrd che impone la condivisione dei rischi ad azionisti e obbligazionisti subordinati. La prima cosa da ricordare è che, trattandosi di una «ricapitalizzazione precauzionale» (la banca ha liquidità per altri 4 mesi), si eviterà il famigerato bail in, dunque obbligazionisti ordinari e correntisti sopra i 100mila euro saranno risparmiati dal taglio.

Si dovrà, però, ricorrere al burden sharing (condivisione del carico) fra azionisti e obbligazionisti subordinati. Padoan intende minimizzare i disagi, ma Bruxelles intende essere severa. Perciò le opzioni a disposizione per non devastare una platea di 40mila risparmiatori sono tre. La prima è la conversione obbligatoria dei 2 miliardi di bond subordinati detenuti dal pubblico in azioni: la minusvalenza sarebbe forte, ma i titoli, che possono rivalutarsi, si configurerebbero come un piccolo ristoro. Poi vi è la strada delle quattro banche risolte (Etruria, Marche, CariChieti e CariFerrara), cioè l'azzeramento dei subordinati e il rimborso forfettario in caso di frode nel collocamento e di patrimonio dell'investitore concentrato su quei bond. La terza via è quella su cui si tratta da mesi: il Tesoro, ricapitalizzerebbe la banca tramite l'acquisto delle obbligazioni subordinate rimborsando parzialmente i sottoscrittori retail in modo diretto.

Occorre ricordare, però, che nel 2017 scadono 12 miliardi di obbligazioni del Monte (800 milioni il 30 gennaio): perciò il punto più rilevante, al momento, è soprattutto la garanzia pubblica sulle emissioni future di Mps. Le trattative con la Bce e con la Commissione europea non potranno prescindere da questo tipo di necessità e, soprattutto, dalla stesura di un nuovo piano industriale.

Il decreto, inoltre, dovrebbe contenere un'altra previsione che impatterà sulla nuova vita di Siena: la spalmatura in cinque anni delle elargizioni aggiuntive al Fondo di risoluzione che dopo aver ricapitalizzato per 1,8 miliardi le banche risolte è praticamente a secco. In questo modo gli istituti potrebbero versare altri 2 miliardi e chiudere il 2016 senza impatti eccessivamente negativi a bilancio. Il Fondo potrebbe altresì partecipare, almeno parzialmente, a nuove ricapitalizzazioni sia delle quattro banche. Il Fondo Atlante potrebbe essere esentato da nuovi interventi anche se, allo stato dell'arte, non è sicuro che l'istituzione gestita da Quaestio Sgr sia confermata come partner per la gestione delle sofferenze di Mps che potrebbe anche decidere di fare da sola. Potrebbe essere troppo tardi per l'innalzamento da 8 a 30 miliardi della soglia di attivi oltre la quale le banche popolari si devono trasformare in Spa, norma originariamente pensata per la PopBari.
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NATALE 2016 – LA CRISI

Natale, Federconsumatori: “I regali? Poca
tecnologia, meglio low cost e riutilizzo”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12 ... o/3257026/

Per ringraziamenti rivolgersi a King George & Soci


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L’eclissi di Napolitano e il clan occulto dei golpisti mondiali
Scritto il 31/12/14 • nella Categoria: idee Condividi


Dopo nove anni passati sul Colle Giorgio Napolitano si appresta (forse) a lasciare. In poco tempo l’ex comunista migliorista ha trasformato un paese relativamente prospero come l’Italia in una valle di lacrime. In questo senso si può dire che Napolitano è stato molto efficace, riuscendo con abilità e costanza a realizzare gran parte degli obiettivi che alcuni occulti consessi gli avevano implicitamente affidato. Chi ha letto il libro di Magaldi, “Massoni”, sa come l’attuale presidente della Repubblica sia stato iniziato presso la Ur- Lodge “Three Eyes” nel lontano 1978. La “Three Eyes”, motore e centro decisionale di una offensiva reazionaria senza precedenti, supervisionò in passato una serie di accadimenti nefasti e sanguinari: dal golpe greco dei “colonnelli” fino all’operazione “Condor” in America Latina, molte delle tragedie conosciute e perpetuate dall’Uomo a partire dagli anni ’60 fino ai giorni nostri portano indiscutibile il timbro della famigerata loggia dai “tre occhi”.
Napolitano è quindi epigono di una stagione tragica, violenta ed infingarda, fortunatamente destinata per consunzione a chiudersi per sempre. Negli stessi anni in cui Kissinger e soci “cucinavano” in giro per il mondo le dittature militari poi personificate dai vari Pinochet e Videla, in Italia si riaffacciava il pericolo golpista. I tentativi del principe Junio Valerio Borghese prima e quello di Edgardo Sogno poi rappresentavano infatti coerenti tasselli di un mosaico globale. Grazie al cielo Arthur Schlesinger Jr., già “maestro venerabile” della superloggia progressista “Thomas Paine”, riuscì a proteggere la democrazia italiana dalla grinfie di alcuni noti “contro-iniziati”. La P2, giova ripeterlo, altro non era se non il braccio italiano della Ur-Lodge “Three Eyes”, centro elitario ed occulto che muoveva come pedine i tanti “Gelli” allevati e pasciuti in giro per il mondo.
Proprio l’organica appartenenza presso una delle Ur-Lodges in assoluto più influenti ha permesso a Giorgio Napolitano di devastare di fatto l’Italia tra gli applausi scroscianti di un sistema mediatico appositamente “addomesticato”. La massoneria reazionaria sovranazionale, nelle sue diverse articolazioni, ha oggi affinato metodi ed approcci. Il nazismo classico, ora improponibile in Europa, è stato sostituito da un tecno-nazismo soft che uccide cavalcando il mito della “purezza del bilancio” in luogo dell’oramai vetusta “purezza della razza”. Per completare una torsione oligarchica in grado di affamare una gran parte di cittadini resi sudditi dalla paura e dal bisogno, è necessario quindi che tutti gli attori in commedia recitino lo stesso copione. Dal 2011 fino ad oggi Napolitano ha di fatto commissariato l’Italia, nominando premier-fantoccio con il chiaro obiettivo di assecondare bramosie private. Monti, Letta e ora Renzi hanno difatti attuato politiche volutamente recessive, pensate per distruggere il tessuto economico italiano e diffondere miseria, disoccupazione e disperazione.
Per questo la scelta del successore di Napolitano sarà indispensabile per capire quale piega prenderà l’Italia nei prossimi anni. Un nuovo Presidente della Repubblica organico alle Ur-Lodges neo-aristocratiche proverà infatti anche in futuro a neutralizzare gli esiti di una elezione libera e democratica, tenendo di continuo sotto scacco un Parlamento già declassato al ruolo di misero e decorativo orpello. Quelli che sperano nell’ascesa di un nuovo Presidente della Repubblica “tecnico” e “indipendente”, parlano in realtà in nome e per conto di quegli stessi mondi che da tempo selezionano ministri dell’Economia come Grilli, Saccomanni o Padoan. Chi esercita il potere in forza di un mandato popolare tenderà in linea di principio a difendere interessi diffusi. Chi, al contrario, come Monti o Padoan, ricopre posti di pubblica responsabilità senza avere un voto, evidentemente gode di altre fonti occulte di legittimità. Fonti che il libro “Massoni” smaschera, fornendo a chiunque le chiavi per comprendere genesi e ratio di alcuni accadimenti altrimenti apparentemente inspiegabili.
(Francesco Maria Toscano, “L’eclissi di Giorgio di Napolitano, presidente della Repubblica in forza alla Ur-Lodge Three Eyes”, da “Il Moralista” del 22 dicembre 2014).
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