IL LAVORO
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Re: IL LAVORO
“In Marocco abbiamo aperto una yogurteria biologica e viviamo con poco. In Italia stress e fretta”
Società
Francesca Coppellotti, 37 anni, emiliana, e Maurizio Pinto, il suo compagno, da tre anni gestiscono la loro attività a Essaouira, cittadina di 70mila abitanti e importante meta turistica. In tanti criticavano la loro scelta. “'Vengono tutti qui, cosa andate a fare voi là?', ci dicevano. Poi arrivano qui in vacanza e si innamorano del Marocco"
di Raffaele Nappi | 18 febbraio 2017
commenti (6)
623
Più informazioni su: Marocco, Yogurt
“Vengono tutti qui, cosa andate a fare voi là?”. Quando hanno deciso di partire, la reazione è stata più o meno questa. Destinazione Essaouira, Marocco, dove Francesca Coppellotti, 37 anni, emiliana, e Maurizio Pinto, il suo compagno, da tre anni gestiscono una yogurteria biologica. “Qui la vita è come quella in Italia ai tempi dei miei nonni”, raccontano. Essaouira, 70mila abitanti, è una cittadina affacciata sull’Atlantico, meta preferita dai turisti. La decisione di trasferirsi arriva tre anni fa, quando Francesca incontra il suo attuale compagno: “La prima cosa che mi disse – ricorda – era che voleva andare via dall’Italia per mettere in piedi un progetto tutto suo”. È lì che nasce YooAfrique, laboratorio fondato sul natural food, con la creazione di diversi brand originali, snack vegetariani e alla frutta: tutto naturale e preparato sul momento. “Abbiamo fatto indagini di mercato – spiega Francesca – Essaouira è una città molto turistica: così ci siamo concentrati su questo settore. Il cibo è quello che cercano. Il commercio funziona bene”. E dopo il calo dovuto alla paura per gli attentati terroristici, la situazione sta tornando alla normalità.
La vita ad Essaouira è “semplice e tranquilla”. Ma il Marocco è vasto e vario: “Nelle grandi città si vive in maniera caotica e stressante, proprio come in Italia”, aggiunge Francesca. L’idea, qui, è quella di seguire invece uno stile di vita sano, partendo proprio da un’alimentazione equilibrata. “Non abbiamo una macchina, ci spostiamo a piedi o in taxi – racconta Francesca – Non abbiamo sveglia né orari tassativi. La tv la teniamo spenta da almeno 6 mesi. Acquistiamo solo beni di prima necessità. Se qualcosa si rompe lo portiamo ad aggiustare”. Altro tenore rispetto all’Italia. “Ogni volta che rientro la prima cosa che noto è lo stress – aggiunge – In Italia ci riempiamo le giornate da mattina a sera. Corriamo dietro alle cose invece di affrontarle con le giuste tempistiche. È proprio qui che ho imparato a gestire io il mio tempo”.
““Teniamo la tv spenta da almeno sei mesi. Acquistiamo solo beni di prima necessità. Se qualcosa si rompe lo portiamo ad aggiustare”
Il rapporto con l’Italia per Francesca è contraddittorio. L’intenzione iniziale era partire con l’idea di tornare dopo qualche anno, “ma quando rientro – aggiunge – mi rendo conto che la nostra società mi piace sempre meno”. Dalla rabbia contro le istituzioni alla meritocrazia, Francesca vede molti punti deboli nel nostro Paese. “Vedo molti che si lamentano e pochi che propongono soluzioni. Vedo gente volenterosa che fatica ad arrivare a fine mese. Vedo giovani che non hanno obiettivi e altri che non riescono a raggiungerli. La mia generazione è la prima dal dopoguerra a vivere in condizioni peggiori di quelle dei suoi genitori”. Eppure non è ancora messa da parte l’idea di tornare. “Mi mancano gli affetti e gli amici”. Ma di tutto il resto si può far a meno. “Qui ho capito che si può vivere con poco, ed è stata una bella scoperta”.
Il sole ad Essaouira splende 350 giorni l’anno. La giornata inizia alle 6,30: Francesca e Maurizio trascorrono il loro tempo al negozio, con una clientela che è diventata abituale. Il costo della vita in Marocco è basso, “se si vive alla marocchina”, spiega Francesca. Se si vuole vivere all’europea, le cose cambiano e la vita diventa piuttosto cara. Gli affitti ad Essaouira sono quelli di una piccola città di provincia italiana; i costi dei prodotti importati sono alti. “Un esempio? 1,70 euro per mezzo chilo di spaghetti”. Lati negativi della vita in Marocco? La situazione sanitaria: “Speriamo di non avere urgenze per non finire, un giorno, nell’unico ospedale della città”, aggiunge.
““Qui siamo l’unica yogurteria e uno dei pochissimi locali vegetariani. In Italia avremmo sgomitato con la concorrenza”
La vicinanza con l’oceano, però, ha ridato energie a entrambi, così come il contatto quotidiano con una cultura diversa, “stimolante per persone curiose come noi”. Aprire un locale non è stato difficile: il percorso burocratico è simile a quello italiano. La differenza è che “ad Essaouira siamo l’unica yogurteria e uno dei pochissimi locali vegetariani. In Italia avremmo sgomitato con la concorrenza”.
Obiettivi? Per il momento nessun progetto a lungo termine. “La cosa certa è che, sia in Marocco che in Italia, voglio una vita tranquilla, senza troppe pretese, a contatto con la natura”. Ad Essaouira si convive pacificamente con altri stili di vita, tradizioni, religioni. “Noi italiani, invece, siamo pieni di pregiudizi – conclude Francesca – Quando abbiamo deciso di partire si è fatta avanti una larga schiera di ‘maroccologi’, soprattutto quelli che, in Marocco, non c’erano mai stati”. Il Paese, insomma, era visto come pericoloso, arretrato, sporco, invivibile. “Poi vengono qui in vacanza e se ne innamorano”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02 ... a/3389095/
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Francesca Coppellotti, 37 anni, emiliana, e Maurizio Pinto, il suo compagno, da tre anni gestiscono la loro attività a Essaouira, cittadina di 70mila abitanti e importante meta turistica. In tanti criticavano la loro scelta. “'Vengono tutti qui, cosa andate a fare voi là?', ci dicevano. Poi arrivano qui in vacanza e si innamorano del Marocco"
di Raffaele Nappi | 18 febbraio 2017
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Più informazioni su: Marocco, Yogurt
“Vengono tutti qui, cosa andate a fare voi là?”. Quando hanno deciso di partire, la reazione è stata più o meno questa. Destinazione Essaouira, Marocco, dove Francesca Coppellotti, 37 anni, emiliana, e Maurizio Pinto, il suo compagno, da tre anni gestiscono una yogurteria biologica. “Qui la vita è come quella in Italia ai tempi dei miei nonni”, raccontano. Essaouira, 70mila abitanti, è una cittadina affacciata sull’Atlantico, meta preferita dai turisti. La decisione di trasferirsi arriva tre anni fa, quando Francesca incontra il suo attuale compagno: “La prima cosa che mi disse – ricorda – era che voleva andare via dall’Italia per mettere in piedi un progetto tutto suo”. È lì che nasce YooAfrique, laboratorio fondato sul natural food, con la creazione di diversi brand originali, snack vegetariani e alla frutta: tutto naturale e preparato sul momento. “Abbiamo fatto indagini di mercato – spiega Francesca – Essaouira è una città molto turistica: così ci siamo concentrati su questo settore. Il cibo è quello che cercano. Il commercio funziona bene”. E dopo il calo dovuto alla paura per gli attentati terroristici, la situazione sta tornando alla normalità.
La vita ad Essaouira è “semplice e tranquilla”. Ma il Marocco è vasto e vario: “Nelle grandi città si vive in maniera caotica e stressante, proprio come in Italia”, aggiunge Francesca. L’idea, qui, è quella di seguire invece uno stile di vita sano, partendo proprio da un’alimentazione equilibrata. “Non abbiamo una macchina, ci spostiamo a piedi o in taxi – racconta Francesca – Non abbiamo sveglia né orari tassativi. La tv la teniamo spenta da almeno 6 mesi. Acquistiamo solo beni di prima necessità. Se qualcosa si rompe lo portiamo ad aggiustare”. Altro tenore rispetto all’Italia. “Ogni volta che rientro la prima cosa che noto è lo stress – aggiunge – In Italia ci riempiamo le giornate da mattina a sera. Corriamo dietro alle cose invece di affrontarle con le giuste tempistiche. È proprio qui che ho imparato a gestire io il mio tempo”.
““Teniamo la tv spenta da almeno sei mesi. Acquistiamo solo beni di prima necessità. Se qualcosa si rompe lo portiamo ad aggiustare”
Il rapporto con l’Italia per Francesca è contraddittorio. L’intenzione iniziale era partire con l’idea di tornare dopo qualche anno, “ma quando rientro – aggiunge – mi rendo conto che la nostra società mi piace sempre meno”. Dalla rabbia contro le istituzioni alla meritocrazia, Francesca vede molti punti deboli nel nostro Paese. “Vedo molti che si lamentano e pochi che propongono soluzioni. Vedo gente volenterosa che fatica ad arrivare a fine mese. Vedo giovani che non hanno obiettivi e altri che non riescono a raggiungerli. La mia generazione è la prima dal dopoguerra a vivere in condizioni peggiori di quelle dei suoi genitori”. Eppure non è ancora messa da parte l’idea di tornare. “Mi mancano gli affetti e gli amici”. Ma di tutto il resto si può far a meno. “Qui ho capito che si può vivere con poco, ed è stata una bella scoperta”.
Il sole ad Essaouira splende 350 giorni l’anno. La giornata inizia alle 6,30: Francesca e Maurizio trascorrono il loro tempo al negozio, con una clientela che è diventata abituale. Il costo della vita in Marocco è basso, “se si vive alla marocchina”, spiega Francesca. Se si vuole vivere all’europea, le cose cambiano e la vita diventa piuttosto cara. Gli affitti ad Essaouira sono quelli di una piccola città di provincia italiana; i costi dei prodotti importati sono alti. “Un esempio? 1,70 euro per mezzo chilo di spaghetti”. Lati negativi della vita in Marocco? La situazione sanitaria: “Speriamo di non avere urgenze per non finire, un giorno, nell’unico ospedale della città”, aggiunge.
““Qui siamo l’unica yogurteria e uno dei pochissimi locali vegetariani. In Italia avremmo sgomitato con la concorrenza”
La vicinanza con l’oceano, però, ha ridato energie a entrambi, così come il contatto quotidiano con una cultura diversa, “stimolante per persone curiose come noi”. Aprire un locale non è stato difficile: il percorso burocratico è simile a quello italiano. La differenza è che “ad Essaouira siamo l’unica yogurteria e uno dei pochissimi locali vegetariani. In Italia avremmo sgomitato con la concorrenza”.
Obiettivi? Per il momento nessun progetto a lungo termine. “La cosa certa è che, sia in Marocco che in Italia, voglio una vita tranquilla, senza troppe pretese, a contatto con la natura”. Ad Essaouira si convive pacificamente con altri stili di vita, tradizioni, religioni. “Noi italiani, invece, siamo pieni di pregiudizi – conclude Francesca – Quando abbiamo deciso di partire si è fatta avanti una larga schiera di ‘maroccologi’, soprattutto quelli che, in Marocco, non c’erano mai stati”. Il Paese, insomma, era visto come pericoloso, arretrato, sporco, invivibile. “Poi vengono qui in vacanza e se ne innamorano”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02 ... a/3389095/
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Re: IL LAVORO
21 feb 2017 15:03
LA VITA E’ DURA, ANZI DURAZZO
- SONO 19 MILA GLI ITALIANI TRASFERITISI A LAVORARE IN ALBANIA - DI QUESTI 16 MILA HANNO CONTRATTI DA LAVORATORE DIPENDENTE
- IL COSTO DELLA VITA È CINQUE VOLTE PIÙ BASSO RISPETTO AL NOSTRO, C’È POCA BUROCRAZIA E UNA PRESSIONE FISCALE AL 15%
Carlo Nicolato per “Libero Quotidiano”
Solo un paio di anni fa sembrava uno di quei fenomeni da titoli ad effetto ma destinati ad estinguersi in fretta. Gli albanesi che negli anni Novanta arrivavano a migliaia coi barconi in cerca di lavoro e civiltà avevano avuto la loro rivincita; gli italiani che allora li guardavano con sospetto erano invece costretti a ripercorrere la rotta al contrario, magari non a bordo di barconi, in cerca di fortuna e soprattutto di un po' di respiro per le proprie aziende. Si parlava di qualche centinaio di imprenditori, e di poche migliaia di italiani con permessi di lavoro.
Nel 2017 però non si tratta più di folklore giornalistico. Il fenomeno, con il protrarsi della stagnazione dell' economia del nostro Paese, e con al contrario la crescita costante di quella albanese, si sta facendo cosa seria. Si parla dell' Albania come la 21esima regione italiana, e un fondo di verità c'è.
Secondo i dati ufficiali, sono 19mila gli italiani trasferitisi a lavorare in Albania (su 2 milioni e mezzo di abitanti), dei quali 16mila hanno contratti da lavoratore dipendente. Alcuni di loro lavorano nei call center, certo, ma ci sono anche medici, ingegneri, architetti e professionisti di ogni genere che da quelle parti hanno avuto opportunità che in Italia hanno cercato invano.
Gli stipendi in Albania sono decisamente bassi per i nostri standard, con una media di 300 euro al mese, ma per i lavoratori più qualificati si arriva anche ai mille euro - che in una realtà, dove la vita ha un costo perfino cinque volte inferiore al nostro, non è poco. I prezzi al mercato sono un terzo se non un quarto più bassi che in Italia, con 250 euro si affittano appartamenti spaziosi nelle zone più decorose di Tirana o delle località balneari. Per non parlare di altre spese, quali ad esempio il medico o il dentista.
Oltre alle difficoltà a trovare lavoro in patria, c'è dunque un'oggettiva convenienza che spinge l'italiano a emigrare per raggiungere una qualità di vita migliore. E questo è davvero incredibile, se si considera che l'Italia fino agli anni Ottanta e Novanta era uno dei Paesi al mondo con il più alto tenore di vita, mentre l'Albania era esattamente quello con il livello di benessere più basso nel continente.
Queste condizioni hanno allettato anche alcuni dei molti pensionati italiani da 700 euro al mese o poco più in cerca di condizioni di vita più onorevoli. Si parla da anni di quelli che decidono di trasferirsi alle Canarie, dove oltre al clima mite si ritrovano una pensione meno decurtata dalle tasse, ma bisognerà iniziare a parlare anche di quelli, sempre più numerosi, che decidono di passare gli ultimi anni di vita in Albania.
Che oltretutto, rispetto alla Canarie, ha anche il vantaggio di essere relativamente vicina e di avere una popolazione che parla italiano e ben più accogliente di quello che gli italiani generalmente si aspettano. Ma dipendenti e pensionati a parte, ciò che ha fatto dell'Albania una piccola Eldorado per l'Italia sono soprattutto tre fattori: burocrazia, costi e tasse. I primi imprenditori che delocalizzavano a Tirana lo facevano per abbattere le spese di produzione e resistere sul mercato. Il fenomeno naturalmente è continuato, le imprese hanno resistito e con gli anni si sono moltiplicate. Attualmente quelle felicemente registrate oltre-adriatico sono circa seicento.
Solo nel 2016 si calcola una media di tre aziende italiane aperte al mese grazie a una burocrazia molto snella che permette in una settimana di ottenere tutte le pratiche e i permessi necessari. Le tasse sulle imprese sono tra il 10 e il 15%, paragonabili in Europa solo a quelle irlandesi, e cinque o sei volte inferiori alle nostre. Il risultato è che il Prodotto interno lordo albanese cresce al ritmo del 3,5% l' anno, proprio come quello dell' Irlanda, mentre il nostro stagna attorno agli zero virgola.
Tra gli italiani in Albania ci sono anche gli studenti, specie quelli in medicina che magari non sono riusciti a superare il test del primo anno e non vogliono perdere tempo. Niente a che vedere con le lauree fantasma tipo il Trota, qui si parla di corsi seri. La maggiorparte di loro si iscrivono all' Università Nostra Signora del Buon Consiglio di Tirana, legata a università italiane (tra le quali Tor Vergata di Roma), dove la maggioranza dei docenti sono italiani e dove il livello di insegnamento è considerato buono.
LA VITA E’ DURA, ANZI DURAZZO
- SONO 19 MILA GLI ITALIANI TRASFERITISI A LAVORARE IN ALBANIA - DI QUESTI 16 MILA HANNO CONTRATTI DA LAVORATORE DIPENDENTE
- IL COSTO DELLA VITA È CINQUE VOLTE PIÙ BASSO RISPETTO AL NOSTRO, C’È POCA BUROCRAZIA E UNA PRESSIONE FISCALE AL 15%
Carlo Nicolato per “Libero Quotidiano”
Solo un paio di anni fa sembrava uno di quei fenomeni da titoli ad effetto ma destinati ad estinguersi in fretta. Gli albanesi che negli anni Novanta arrivavano a migliaia coi barconi in cerca di lavoro e civiltà avevano avuto la loro rivincita; gli italiani che allora li guardavano con sospetto erano invece costretti a ripercorrere la rotta al contrario, magari non a bordo di barconi, in cerca di fortuna e soprattutto di un po' di respiro per le proprie aziende. Si parlava di qualche centinaio di imprenditori, e di poche migliaia di italiani con permessi di lavoro.
Nel 2017 però non si tratta più di folklore giornalistico. Il fenomeno, con il protrarsi della stagnazione dell' economia del nostro Paese, e con al contrario la crescita costante di quella albanese, si sta facendo cosa seria. Si parla dell' Albania come la 21esima regione italiana, e un fondo di verità c'è.
Secondo i dati ufficiali, sono 19mila gli italiani trasferitisi a lavorare in Albania (su 2 milioni e mezzo di abitanti), dei quali 16mila hanno contratti da lavoratore dipendente. Alcuni di loro lavorano nei call center, certo, ma ci sono anche medici, ingegneri, architetti e professionisti di ogni genere che da quelle parti hanno avuto opportunità che in Italia hanno cercato invano.
Gli stipendi in Albania sono decisamente bassi per i nostri standard, con una media di 300 euro al mese, ma per i lavoratori più qualificati si arriva anche ai mille euro - che in una realtà, dove la vita ha un costo perfino cinque volte inferiore al nostro, non è poco. I prezzi al mercato sono un terzo se non un quarto più bassi che in Italia, con 250 euro si affittano appartamenti spaziosi nelle zone più decorose di Tirana o delle località balneari. Per non parlare di altre spese, quali ad esempio il medico o il dentista.
Oltre alle difficoltà a trovare lavoro in patria, c'è dunque un'oggettiva convenienza che spinge l'italiano a emigrare per raggiungere una qualità di vita migliore. E questo è davvero incredibile, se si considera che l'Italia fino agli anni Ottanta e Novanta era uno dei Paesi al mondo con il più alto tenore di vita, mentre l'Albania era esattamente quello con il livello di benessere più basso nel continente.
Queste condizioni hanno allettato anche alcuni dei molti pensionati italiani da 700 euro al mese o poco più in cerca di condizioni di vita più onorevoli. Si parla da anni di quelli che decidono di trasferirsi alle Canarie, dove oltre al clima mite si ritrovano una pensione meno decurtata dalle tasse, ma bisognerà iniziare a parlare anche di quelli, sempre più numerosi, che decidono di passare gli ultimi anni di vita in Albania.
Che oltretutto, rispetto alla Canarie, ha anche il vantaggio di essere relativamente vicina e di avere una popolazione che parla italiano e ben più accogliente di quello che gli italiani generalmente si aspettano. Ma dipendenti e pensionati a parte, ciò che ha fatto dell'Albania una piccola Eldorado per l'Italia sono soprattutto tre fattori: burocrazia, costi e tasse. I primi imprenditori che delocalizzavano a Tirana lo facevano per abbattere le spese di produzione e resistere sul mercato. Il fenomeno naturalmente è continuato, le imprese hanno resistito e con gli anni si sono moltiplicate. Attualmente quelle felicemente registrate oltre-adriatico sono circa seicento.
Solo nel 2016 si calcola una media di tre aziende italiane aperte al mese grazie a una burocrazia molto snella che permette in una settimana di ottenere tutte le pratiche e i permessi necessari. Le tasse sulle imprese sono tra il 10 e il 15%, paragonabili in Europa solo a quelle irlandesi, e cinque o sei volte inferiori alle nostre. Il risultato è che il Prodotto interno lordo albanese cresce al ritmo del 3,5% l' anno, proprio come quello dell' Irlanda, mentre il nostro stagna attorno agli zero virgola.
Tra gli italiani in Albania ci sono anche gli studenti, specie quelli in medicina che magari non sono riusciti a superare il test del primo anno e non vogliono perdere tempo. Niente a che vedere con le lauree fantasma tipo il Trota, qui si parla di corsi seri. La maggiorparte di loro si iscrivono all' Università Nostra Signora del Buon Consiglio di Tirana, legata a università italiane (tra le quali Tor Vergata di Roma), dove la maggioranza dei docenti sono italiani e dove il livello di insegnamento è considerato buono.
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Re: IL LAVORO
AFFRONTANDO LA REALTA', DOPO L'UBRIACATURA DELLE BALLE DI PINOCCHIO MUSSOLONI
L'Inps certifica (ancora)
il flop di Renzi e Jobs Act
Crollano i contratti a tempo indeterminato: calati del 91%. Si dissolve così la riforma del mercato del lavoro renziana
di Luca Romano
poco fa
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L'Inps certifica (ancora)
il flop di Renzi e Jobs Act
Crollano i contratti a tempo indeterminato: calati del 91%. Si dissolve così la riforma del mercato del lavoro renziana
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Re: IL LAVORO
LIBRE news
Recensioni
segnalazioni.
Taxi e Uber, tra servizio pubblico e caporalato digitale
Scritto il 27/2/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Riferiscono in molti che, con il blocco dei taxi, le auto di Uber in circolazione hanno raddoppiato le tariffe. È la legge della domanda e dell’offerta. Ma è anche un’anticipazione di che cosa succederà se e quando Uber avrà vinto la sua guerra contro i tassisti. È una guerra che non riguarda solo l’Italia, ma ha dimensioni planetarie, combattuta con alterne vicende tra la multinazionale e i tassisti. I taxi sono un servizio pubblico non sovvenzionato (a differenza del trasporto di linea), sottoposto a regole precise: tariffe amministrate e gestite dal tassametro, controlli rigidi sui veicoli e gli autisti, obbligo di garantire il servizio giorno e notte e di coprire tutto il territorio comunale o comprensoriale definito dalla licenza; divieto di offrire il servizio fuori di esso. Uber è una multinazionale che ha pochissimi dipendenti e nessuna vettura; gestisce solo le prenotazioni e la cassa (incassi subito, pagamenti a 7 giorni) e si avvale, sia nella versione black (noleggio con conducente) che in quella pop (servizio erogato da chiunque abbia sottoscritto un accordo con l’azienda) di autisti e vetture reclutate al bisogno.
Non prevede licenze, assicurazioni particolari, limiti e obblighi relativi al sevizio; guadagna (miliardi) con una commissione del 20-25% su ogni servizio erogato e trasferisce il rischio d’impresa sul lavoratore, che non è un dipendente, ma un La rabbia dei tassisti“imprenditore di se stesso”, tenuto a fornire anche il capitale (la vettura, con relativa manutenzione, assicurazione e oneri connessi: guasti e incidenti). Anche se è stata bloccata in alcuni paesi, tra cui l’Italia, Uber non rinuncerà facilmente alla versione pop del suo servizio: troverà qualche modo diverso di affidamento per attingere al pozzo senza fondo delle persone disoccupate o alla ricerca di un doppio lavoro, purché “automunite”. Lo scontro planetario tra Uber e i tassisti ha una portata enorme anche su tutte le altre forme del cosiddetto “capitalismo di piattaforma”; i tassisti sono l’unica categoria mobilitata contro la privatizzazione di un servizio pubblico e il caporalato digitale. Ma ha soprattutto un obiettivo specifico: monopolizzare il trasporto individuale a domanda mettendo fuori mercato i taxi con tariffe concorrenziali grazie a tre fattori: lo sfruttamento di una manodopera superprecaria, la mancanza dei vincoli imposti da una regolamentazione pubblica; i costi evitati della licenza che gravano invece sui taxi.
Una volta messi fuori mercato i tassisti, le tariffe potranno aumentare liberamente e gli autisti potranno rifiutare il servizio (essere a disposizione) quando la domanda è scarsa (per esempio di notte) e da e verso le zone dove i clienti sono pochi. Per questo la lotta dei tassisti di oggi difende anche gli utenti di domani. Tutto chiaro, allora? No. Il fatto è che anche il servizio di taxi è stato in parte privatizzato, e non solo in Italia, con la compravendita, peraltro regolarmente tassata, delle licenze: un investimento enorme che ogni tassista si è caricato sulle spalle, spesso indebitandosi, e da cui aspetta di rientrare a fine carriera. Per questo liberalizzare le licenze è per loro un esproprio: sono in larga misura lavoratori già licenziati diventati tassisti come ripiego. Ma le licenze sono un investimento che grava pesantemente sulle tariffe, rendendo il servizio pubblico poco concorrenziale, e hanno bisogno di qualcuno che le protegga. È stata così regalata alle amministrazioni locali una clientela indissolubile, fidelizzando la corporazione all’assessore di turno.
E mentre il Pd paga i costi politici del suo impegno a favore della “liberalizzazione” (leggi privatizzazione), la destra – che su liberismo e privatizzazioni non ha posizioni differenti, ma meno scrupoli a giocarsele in sede locale – riesce a egemonizzare, soprattutto, anche se non solo, di fronte a media e opinione pubblica, la rabbia dei tassisti. Ma il meccanismo che lega la Ubercategoria a certi assessori ha un costo pesante sia per i tassisti sia per l’utenza: l’abdicazione della elaborazione e realizzazione di una strategia multimodale per il trasporto urbano di cui i taxi potrebbero e dovrebbero essere il perno; e la resistenza della categoria nei confronti delle tecnologie e delle modalità di servizio alternative che queste renderebbero possibili.
Dalle cose più semplici (il numero unico cittadino) al taxi collettivo (con ripartizione dei costi tra i diversi utenti regolato da un tassametro, in alcuni casi installato, ma mai utilizzato, e che Uber non può adottare); dall’uso di piattaforme analoghe a quelle di Uber ai servizi di feeding alle fermate del trasporto pubblico di massa. Così quello che nella realtà è lo scontro tra un servizio pubblico e la sua privatizzazione, con relativo esproprio dei lavoratori, viene presentato al grande pubblico come uno scontro tra passato e futuro, tra corporativismo e libera concorrenza, tra innovazione tecnologica e paralisi. Come se Uber fosse una semplice tecnologia e non uno strumento di espropriazione e di degrado del lavoro e di un bene pubblico.
(Guido Viale, “Taxi e Uber, tra servizio pubblico e caporalato digitale”, dal “Manifesto” del 24 febbraio 2017).
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Taxi e Uber, tra servizio pubblico e caporalato digitale
Scritto il 27/2/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Riferiscono in molti che, con il blocco dei taxi, le auto di Uber in circolazione hanno raddoppiato le tariffe. È la legge della domanda e dell’offerta. Ma è anche un’anticipazione di che cosa succederà se e quando Uber avrà vinto la sua guerra contro i tassisti. È una guerra che non riguarda solo l’Italia, ma ha dimensioni planetarie, combattuta con alterne vicende tra la multinazionale e i tassisti. I taxi sono un servizio pubblico non sovvenzionato (a differenza del trasporto di linea), sottoposto a regole precise: tariffe amministrate e gestite dal tassametro, controlli rigidi sui veicoli e gli autisti, obbligo di garantire il servizio giorno e notte e di coprire tutto il territorio comunale o comprensoriale definito dalla licenza; divieto di offrire il servizio fuori di esso. Uber è una multinazionale che ha pochissimi dipendenti e nessuna vettura; gestisce solo le prenotazioni e la cassa (incassi subito, pagamenti a 7 giorni) e si avvale, sia nella versione black (noleggio con conducente) che in quella pop (servizio erogato da chiunque abbia sottoscritto un accordo con l’azienda) di autisti e vetture reclutate al bisogno.
Non prevede licenze, assicurazioni particolari, limiti e obblighi relativi al sevizio; guadagna (miliardi) con una commissione del 20-25% su ogni servizio erogato e trasferisce il rischio d’impresa sul lavoratore, che non è un dipendente, ma un La rabbia dei tassisti“imprenditore di se stesso”, tenuto a fornire anche il capitale (la vettura, con relativa manutenzione, assicurazione e oneri connessi: guasti e incidenti). Anche se è stata bloccata in alcuni paesi, tra cui l’Italia, Uber non rinuncerà facilmente alla versione pop del suo servizio: troverà qualche modo diverso di affidamento per attingere al pozzo senza fondo delle persone disoccupate o alla ricerca di un doppio lavoro, purché “automunite”. Lo scontro planetario tra Uber e i tassisti ha una portata enorme anche su tutte le altre forme del cosiddetto “capitalismo di piattaforma”; i tassisti sono l’unica categoria mobilitata contro la privatizzazione di un servizio pubblico e il caporalato digitale. Ma ha soprattutto un obiettivo specifico: monopolizzare il trasporto individuale a domanda mettendo fuori mercato i taxi con tariffe concorrenziali grazie a tre fattori: lo sfruttamento di una manodopera superprecaria, la mancanza dei vincoli imposti da una regolamentazione pubblica; i costi evitati della licenza che gravano invece sui taxi.
Una volta messi fuori mercato i tassisti, le tariffe potranno aumentare liberamente e gli autisti potranno rifiutare il servizio (essere a disposizione) quando la domanda è scarsa (per esempio di notte) e da e verso le zone dove i clienti sono pochi. Per questo la lotta dei tassisti di oggi difende anche gli utenti di domani. Tutto chiaro, allora? No. Il fatto è che anche il servizio di taxi è stato in parte privatizzato, e non solo in Italia, con la compravendita, peraltro regolarmente tassata, delle licenze: un investimento enorme che ogni tassista si è caricato sulle spalle, spesso indebitandosi, e da cui aspetta di rientrare a fine carriera. Per questo liberalizzare le licenze è per loro un esproprio: sono in larga misura lavoratori già licenziati diventati tassisti come ripiego. Ma le licenze sono un investimento che grava pesantemente sulle tariffe, rendendo il servizio pubblico poco concorrenziale, e hanno bisogno di qualcuno che le protegga. È stata così regalata alle amministrazioni locali una clientela indissolubile, fidelizzando la corporazione all’assessore di turno.
E mentre il Pd paga i costi politici del suo impegno a favore della “liberalizzazione” (leggi privatizzazione), la destra – che su liberismo e privatizzazioni non ha posizioni differenti, ma meno scrupoli a giocarsele in sede locale – riesce a egemonizzare, soprattutto, anche se non solo, di fronte a media e opinione pubblica, la rabbia dei tassisti. Ma il meccanismo che lega la Ubercategoria a certi assessori ha un costo pesante sia per i tassisti sia per l’utenza: l’abdicazione della elaborazione e realizzazione di una strategia multimodale per il trasporto urbano di cui i taxi potrebbero e dovrebbero essere il perno; e la resistenza della categoria nei confronti delle tecnologie e delle modalità di servizio alternative che queste renderebbero possibili.
Dalle cose più semplici (il numero unico cittadino) al taxi collettivo (con ripartizione dei costi tra i diversi utenti regolato da un tassametro, in alcuni casi installato, ma mai utilizzato, e che Uber non può adottare); dall’uso di piattaforme analoghe a quelle di Uber ai servizi di feeding alle fermate del trasporto pubblico di massa. Così quello che nella realtà è lo scontro tra un servizio pubblico e la sua privatizzazione, con relativo esproprio dei lavoratori, viene presentato al grande pubblico come uno scontro tra passato e futuro, tra corporativismo e libera concorrenza, tra innovazione tecnologica e paralisi. Come se Uber fosse una semplice tecnologia e non uno strumento di espropriazione e di degrado del lavoro e di un bene pubblico.
(Guido Viale, “Taxi e Uber, tra servizio pubblico e caporalato digitale”, dal “Manifesto” del 24 febbraio 2017).
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Re: IL LAVORO
PROVERBI ITALIANI.
1) CHIUDERE LA STALLA QUANDO I BUOI SONO SCAPPATI.
2) SCOPRIRE L’ACQUA CALDA.
Calenda si ribella al renzismo:
"Basta coi bonus scorciatoia"
Il ministro "boccia" la politica dei bonus dell'ex premier: "Non si crea lavoro e reddito con i bonus, cambiare strada"
di Franco Grilli
1 ora fa
43
Ma Calenda ci arriva solo adesso???????????????????????????????????????????
Perché non lo ha detto subito quando Pinocchio Mussoloni faceva il premier?????
Non ci voleva uno scienziato dell’economia per capire quello che sostiene oggi Carlo Calenda.
1) CHIUDERE LA STALLA QUANDO I BUOI SONO SCAPPATI.
2) SCOPRIRE L’ACQUA CALDA.
Calenda si ribella al renzismo:
"Basta coi bonus scorciatoia"
Il ministro "boccia" la politica dei bonus dell'ex premier: "Non si crea lavoro e reddito con i bonus, cambiare strada"
di Franco Grilli
1 ora fa
43
Ma Calenda ci arriva solo adesso???????????????????????????????????????????
Perché non lo ha detto subito quando Pinocchio Mussoloni faceva il premier?????
Non ci voleva uno scienziato dell’economia per capire quello che sostiene oggi Carlo Calenda.
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Re: IL LAVORO
UN PROBLEMA VECCHIO COME IL MONDO
violenza sulle donne
«Vuoi un contratto? Fai sesso con me»
Complice la crisi economica dilagante, le denunce di lavoratrici vittime di ricatti sessuali, presso gli sportelli dei sindacati di tutta Italia, sono aumentate del 40 per cento. A Roma la situazione più tragica. Gli esperti: “La solidarietà fra donne è praticamente assente”
di Arianna Giunti
08 marzo 2017
7
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Prima i sorrisi, gli ammiccamenti, le carezze sulle guance. Gesti apparentemente inoffensivi, fatti soprattutto in pubblico, davanti agli occhi dei colleghi, come a voler dire “vedete? Lei ci sta”. Avances che con il passare dei mesi sono diventate sempre più frequenti, subdole, asfissianti. Fino a che una mattina, sulla scrivania di Laura, è comparso un disegno: ritraeva una donna a gambe divaricate e sopra di lei un enorme fallo. Il giorno dopo, sulla fotocopiatrice, è spuntato un post-it: “Occupati di questa pratica. E poi fammi un pompino”.
Episodi come questi, in Italia, si verificano silenziosamente ogni giorno. I numeri sono sconfortanti: con l’impennata della crisi economica, negli ultimi due anni i ricatti sessuali sul posto di lavoro sono aumentati del 40 per cento. Lo conferma il sindacato Uil, che ha attivato sportelli di ascolto in tutta Italia e che ogni giorno si trova a raccogliere richieste di aiuto che arrivano in maniera quasi univoca dalle donne (63% dei casi). Lavoratrici donne che denunciano soprattutto casi di mobbing (67%) e di stalking (10%).
Più in generale, secondo gli ultimi dati Istat, sono oltre 1 milione e 500mila le donne fra i 18 e il 65 anni che hanno subito ricatti sessuali nell’arco della loro vita lavorativa. In particolare, il 32% di loro ha subito vere e proprie molestie (con tanto di palpeggiamenti e contatti fisici sgraditi) e il restante 68% si è sentito rivolgere richieste di disponibilità sessuale. Le avances, nello specifico, arrivano sia al momento dell’assunzione che – molto più frequentemente – al rinnovo del contratto a tempo determinato o con la promessa di un avanzamento di carriera. Le vittime – contrariamente a quello che si potrebbe pensare – sono quasi sempre donne mature: nell’80% dei casi fra i 41 e 50 anni, italiane e con livello culturale medio alto. Il restante 20%, invece, è composto da giovani straniere fra i 31 e i 40 anni.
Gli abusi di potere da parte dei datori di lavoro - è la triste realtà - quasi sempre centrano il loro squallido obiettivo: sette donne su dieci pur di non perdere il posto di lavoro chiudono gli occhi e cedono ai ricatti.
AVANCES IN MAGAZZINO
Lo scenario tipico è quello delle piccole medie e imprese, dove la presenza del sindacato è quasi assente, c’è poca solidarietà fra colleghi e si tende a respirare un’atmosfera padronale.
“Le situazioni più tragiche si registrano nelle grandi città, Roma in testa – spiega a l’Espresso Alessandra Menelao, Responsabile nazionale dei centri di ascolto Mobbing e Stalking Uil – perché le regole del mercato del lavoro sempre più competitive e spregiudicate unite alla crisi economica dilagante tendono ad esacerbare questi ricatti”. Difficile la situazione anche a Milano, dove il Centro Donna della Cgil ha raccolto, in soli 12 mesi, 484 segnalazioni. Di queste, 220 hanno riguardato le discriminazioni di genere e 7 le molestie sessuali.
Come è successo a Francesca, nome di fantasia di una commessa di 35 anni impiegata a tempo determinato in un negozio che si trova all’interno di un centro commerciale nella periferia nord della Capitale. Il titolare del negozio – un uomo di 57 anni – inizia a rivolgerle complimenti sempre più insistenti e a invitarla a pranzo fuori. Lei, nonostante sia in imbarazzo, accetta. Davanti alle altre commesse il titolare loda la sua bravura la sua precisione, le accarezza spesso il viso, le lascia intendere che oltre a rinnovarle in contratto le offrirà un ruolo di maggiore responsabilità all’interno del negozio. Un giorno l’uomo le chiede di accompagnarlo a prendere alcuni tessuti in magazzino, lei lo segue. Una volta soli nella stanza lui prova a baciarla, lei si divincola e scappa. Quando tenta di confidarsi con una collega, la donna le lascia intendere che è colpa sua. Che se l’è cercata. E che a questo punto, per tenersi il posto, “ti conviene andarci a letto”.
“Il comportamento di questi datori di lavoro sembra quasi seguire un manuale scritto – spiegano ancora dalla Uil – perché scegliendo la propria vittima ed esponendola in pubblico, si sortisce l’effetto di isolarla dal resto dei colleghi. Che la guarderanno con sospetto, biasimo, invidia per suoi eventuali traguardi lavorativi. E la abbandoneranno in caso di difficoltà”.
DISCESA AGLI INFERI
Per molte di queste lavoratrici si tratta di un iter che inizia con avances più o meno esplicite e poi termina con il mobbing, se la richiesta sessuale non viene esaudita. Una discesa agli inferi dalla quale è difficile risalire. Così è stato per Laura, 30 anni, impiegata in un’azienda di piccole dimensioni con un ruolo amministrativo. Quando la donna comincia a subire le attenzioni del superiore, inizialmente fa finta di nulla. Di fronte all’insistenza dell’uomo, pensando di trovare solidarietà femminile, spiega la situazione alla sorella del suo capo, che lavora anche lei nella stessa azienda con un ruolo di responsabilità. La donna, però, anziché aiutarla, riferisce tutto al fratello. Che trasforma le sue avances in veri e propri atti intimidatori. Sulla sua scrivania, Laura comincia a trovare disegni osceni, insulti a sfondo sessuale e fazzoletti sporchi di escrementi. Chiede aiuto alla Asl e alla polizia giudiziaria. Ma poi, stremata ed esasperata, accetta di dimettersi.
Uno stato di isolamento che a volte, invece, travolge le donne sul posto di lavoro anche quando quelle avances in realtà non sono mai avvenute. Ma diventano “immaginarie” per punire e umiliare una rivale che è riuscita a ottenere il posto lavorativo che si voleva per sé.
Così è successo a Mirela, donna rumena di 50 anni, impiegata come addetta in una mensa. Suo marito era malato e lei aveva chiesto il trasferimento nella sede più vicina a casa. L’azienda gliel’aveva concesso. Quel posto, però, era ambito anche da altre sue colleghe, che hanno cominciato ad alimentare su di lei pesanti calunnie, insinuando che l’avesse avuta vinta solo dopo essersi concessa ai suoi capi. “Quelle maldicenze erano diventate così feroci e insistenti che a un certo punto mentre servivo in mensa– è la denuncia della donna – gli altri lavoratori hanno cominciato a saltare le pietanze che offrivo per manifestare il loro disprezzo”. E così l’hanno ancora una volta l’hanno avuta vinta loro: Mirela ha dovuto lasciare quella sede.
“TE LA SEI CERCATA”
Già perché la battaglia più dura da vincere non è quella che si consuma in Tribunale. Ma nella testa delle donne stesse. Che devono vincere, loro per prime, retaggi culturali ancora duri a morire. Spiega Pietro Bussotti, psicologo e psicoterapeuta esperto in lavoro, che si occupa quotidianamente di vittime di mobbing a sfondo sessuale: “Il senso di colpa che la donna prova quando è vittima di molestie non è nient’altro che l’interiorizzazione di quel metro morale che valuta le donne, anche sul piano lavorativo, in base alla loro sessualità”. “Questa morale giudicante, ormai fatta propria non solo dagli uomini ma anche dalle stesse donne – prosegue lo psicologo – viene applicata nei giudizi verso le colleghe e persino verso se stesse. E così i sensi di colpa e la vergogna aumentano, rendendo il gioco facile ai molestatori”. L’altro fattore frenante, confermano gli esperti, è la paura. “A livello psicologico la paura ha uno scopo positivo, perché ci mette in guardia e aiuta a salvarci la vita – spiega ancora Bussotti – però quando è troppa ci paralizza, ci impedisce di reagire. Ed è quello che succede a queste donne”. “La lavoratrice deve riconoscere prima di tutto con se stessa che in queste situazioni la strada del compromesso non può essere percorsa – è il consiglio dello psicologo – deve ritrovare la propria lucidità e chiedere aiuto. E trovare la forza per denunciare”.
L’ONERE DELLA PROVA
Dimostrare queste realtà, però, non è facile. Negli atti persecutori così come nei casi di molestie o di mobbing, per la legge italiana l’onere della prova spetta interamente alla lavoratrice. E’ lei a dover eventualmente dimostrare – davanti a un giudice – di aver subito ricatti sessuali. “I datori di lavoro sono quasi sempre abbastanza scaltri da non lasciare tracce scritte, come ad esempio e-mail o messaggi – spiega ancora Alessandra Menelao – tutto si gioca sul piano del “detto e non detto”, delle frasi allusive diversamente interpretabili e giocate sul fraintendimento”. E così è facile che gli accusati ribaltino la situazione iniziale, rendendo debole e inefficace la testimonianza dell’accusatore. Che nel frattempo – stremato a livello psicologico e sempre più solo – arriverà ad accettare anche un inadeguato compromesso economico pur di mettere fine a quella situazione logorante.
“La lavoratrice – consiglia dunque la responsabile dei centri di ascolto Mobbing e Stalking – deve diventare una sorta di detective, procurarsi tutte le prove possibili e rivolgersi immediatamente agli sportelli dei sindacati dove sarà indirizzata ad affrontare il percorso legale e psicologico necessario”.
L’altro argomento da non tralasciare è – appunto - quello della solidarietà, che scarseggia nei posti di lavoro. “In Italia manca un empowerment femminile – spiega ancora Menelao – spesso le prime nemiche delle donne sono le donne stesse”.
© Riproduzione riservata 08 marzo 2017
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
violenza sulle donne
«Vuoi un contratto? Fai sesso con me»
Complice la crisi economica dilagante, le denunce di lavoratrici vittime di ricatti sessuali, presso gli sportelli dei sindacati di tutta Italia, sono aumentate del 40 per cento. A Roma la situazione più tragica. Gli esperti: “La solidarietà fra donne è praticamente assente”
di Arianna Giunti
08 marzo 2017
7
Prima i sorrisi, gli ammiccamenti, le carezze sulle guance. Gesti apparentemente inoffensivi, fatti soprattutto in pubblico, davanti agli occhi dei colleghi, come a voler dire “vedete? Lei ci sta”. Avances che con il passare dei mesi sono diventate sempre più frequenti, subdole, asfissianti. Fino a che una mattina, sulla scrivania di Laura, è comparso un disegno: ritraeva una donna a gambe divaricate e sopra di lei un enorme fallo. Il giorno dopo, sulla fotocopiatrice, è spuntato un post-it: “Occupati di questa pratica. E poi fammi un pompino”.
Episodi come questi, in Italia, si verificano silenziosamente ogni giorno. I numeri sono sconfortanti: con l’impennata della crisi economica, negli ultimi due anni i ricatti sessuali sul posto di lavoro sono aumentati del 40 per cento. Lo conferma il sindacato Uil, che ha attivato sportelli di ascolto in tutta Italia e che ogni giorno si trova a raccogliere richieste di aiuto che arrivano in maniera quasi univoca dalle donne (63% dei casi). Lavoratrici donne che denunciano soprattutto casi di mobbing (67%) e di stalking (10%).
Più in generale, secondo gli ultimi dati Istat, sono oltre 1 milione e 500mila le donne fra i 18 e il 65 anni che hanno subito ricatti sessuali nell’arco della loro vita lavorativa. In particolare, il 32% di loro ha subito vere e proprie molestie (con tanto di palpeggiamenti e contatti fisici sgraditi) e il restante 68% si è sentito rivolgere richieste di disponibilità sessuale. Le avances, nello specifico, arrivano sia al momento dell’assunzione che – molto più frequentemente – al rinnovo del contratto a tempo determinato o con la promessa di un avanzamento di carriera. Le vittime – contrariamente a quello che si potrebbe pensare – sono quasi sempre donne mature: nell’80% dei casi fra i 41 e 50 anni, italiane e con livello culturale medio alto. Il restante 20%, invece, è composto da giovani straniere fra i 31 e i 40 anni.
Gli abusi di potere da parte dei datori di lavoro - è la triste realtà - quasi sempre centrano il loro squallido obiettivo: sette donne su dieci pur di non perdere il posto di lavoro chiudono gli occhi e cedono ai ricatti.
AVANCES IN MAGAZZINO
Lo scenario tipico è quello delle piccole medie e imprese, dove la presenza del sindacato è quasi assente, c’è poca solidarietà fra colleghi e si tende a respirare un’atmosfera padronale.
“Le situazioni più tragiche si registrano nelle grandi città, Roma in testa – spiega a l’Espresso Alessandra Menelao, Responsabile nazionale dei centri di ascolto Mobbing e Stalking Uil – perché le regole del mercato del lavoro sempre più competitive e spregiudicate unite alla crisi economica dilagante tendono ad esacerbare questi ricatti”. Difficile la situazione anche a Milano, dove il Centro Donna della Cgil ha raccolto, in soli 12 mesi, 484 segnalazioni. Di queste, 220 hanno riguardato le discriminazioni di genere e 7 le molestie sessuali.
Come è successo a Francesca, nome di fantasia di una commessa di 35 anni impiegata a tempo determinato in un negozio che si trova all’interno di un centro commerciale nella periferia nord della Capitale. Il titolare del negozio – un uomo di 57 anni – inizia a rivolgerle complimenti sempre più insistenti e a invitarla a pranzo fuori. Lei, nonostante sia in imbarazzo, accetta. Davanti alle altre commesse il titolare loda la sua bravura la sua precisione, le accarezza spesso il viso, le lascia intendere che oltre a rinnovarle in contratto le offrirà un ruolo di maggiore responsabilità all’interno del negozio. Un giorno l’uomo le chiede di accompagnarlo a prendere alcuni tessuti in magazzino, lei lo segue. Una volta soli nella stanza lui prova a baciarla, lei si divincola e scappa. Quando tenta di confidarsi con una collega, la donna le lascia intendere che è colpa sua. Che se l’è cercata. E che a questo punto, per tenersi il posto, “ti conviene andarci a letto”.
“Il comportamento di questi datori di lavoro sembra quasi seguire un manuale scritto – spiegano ancora dalla Uil – perché scegliendo la propria vittima ed esponendola in pubblico, si sortisce l’effetto di isolarla dal resto dei colleghi. Che la guarderanno con sospetto, biasimo, invidia per suoi eventuali traguardi lavorativi. E la abbandoneranno in caso di difficoltà”.
DISCESA AGLI INFERI
Per molte di queste lavoratrici si tratta di un iter che inizia con avances più o meno esplicite e poi termina con il mobbing, se la richiesta sessuale non viene esaudita. Una discesa agli inferi dalla quale è difficile risalire. Così è stato per Laura, 30 anni, impiegata in un’azienda di piccole dimensioni con un ruolo amministrativo. Quando la donna comincia a subire le attenzioni del superiore, inizialmente fa finta di nulla. Di fronte all’insistenza dell’uomo, pensando di trovare solidarietà femminile, spiega la situazione alla sorella del suo capo, che lavora anche lei nella stessa azienda con un ruolo di responsabilità. La donna, però, anziché aiutarla, riferisce tutto al fratello. Che trasforma le sue avances in veri e propri atti intimidatori. Sulla sua scrivania, Laura comincia a trovare disegni osceni, insulti a sfondo sessuale e fazzoletti sporchi di escrementi. Chiede aiuto alla Asl e alla polizia giudiziaria. Ma poi, stremata ed esasperata, accetta di dimettersi.
Uno stato di isolamento che a volte, invece, travolge le donne sul posto di lavoro anche quando quelle avances in realtà non sono mai avvenute. Ma diventano “immaginarie” per punire e umiliare una rivale che è riuscita a ottenere il posto lavorativo che si voleva per sé.
Così è successo a Mirela, donna rumena di 50 anni, impiegata come addetta in una mensa. Suo marito era malato e lei aveva chiesto il trasferimento nella sede più vicina a casa. L’azienda gliel’aveva concesso. Quel posto, però, era ambito anche da altre sue colleghe, che hanno cominciato ad alimentare su di lei pesanti calunnie, insinuando che l’avesse avuta vinta solo dopo essersi concessa ai suoi capi. “Quelle maldicenze erano diventate così feroci e insistenti che a un certo punto mentre servivo in mensa– è la denuncia della donna – gli altri lavoratori hanno cominciato a saltare le pietanze che offrivo per manifestare il loro disprezzo”. E così l’hanno ancora una volta l’hanno avuta vinta loro: Mirela ha dovuto lasciare quella sede.
“TE LA SEI CERCATA”
Già perché la battaglia più dura da vincere non è quella che si consuma in Tribunale. Ma nella testa delle donne stesse. Che devono vincere, loro per prime, retaggi culturali ancora duri a morire. Spiega Pietro Bussotti, psicologo e psicoterapeuta esperto in lavoro, che si occupa quotidianamente di vittime di mobbing a sfondo sessuale: “Il senso di colpa che la donna prova quando è vittima di molestie non è nient’altro che l’interiorizzazione di quel metro morale che valuta le donne, anche sul piano lavorativo, in base alla loro sessualità”. “Questa morale giudicante, ormai fatta propria non solo dagli uomini ma anche dalle stesse donne – prosegue lo psicologo – viene applicata nei giudizi verso le colleghe e persino verso se stesse. E così i sensi di colpa e la vergogna aumentano, rendendo il gioco facile ai molestatori”. L’altro fattore frenante, confermano gli esperti, è la paura. “A livello psicologico la paura ha uno scopo positivo, perché ci mette in guardia e aiuta a salvarci la vita – spiega ancora Bussotti – però quando è troppa ci paralizza, ci impedisce di reagire. Ed è quello che succede a queste donne”. “La lavoratrice deve riconoscere prima di tutto con se stessa che in queste situazioni la strada del compromesso non può essere percorsa – è il consiglio dello psicologo – deve ritrovare la propria lucidità e chiedere aiuto. E trovare la forza per denunciare”.
L’ONERE DELLA PROVA
Dimostrare queste realtà, però, non è facile. Negli atti persecutori così come nei casi di molestie o di mobbing, per la legge italiana l’onere della prova spetta interamente alla lavoratrice. E’ lei a dover eventualmente dimostrare – davanti a un giudice – di aver subito ricatti sessuali. “I datori di lavoro sono quasi sempre abbastanza scaltri da non lasciare tracce scritte, come ad esempio e-mail o messaggi – spiega ancora Alessandra Menelao – tutto si gioca sul piano del “detto e non detto”, delle frasi allusive diversamente interpretabili e giocate sul fraintendimento”. E così è facile che gli accusati ribaltino la situazione iniziale, rendendo debole e inefficace la testimonianza dell’accusatore. Che nel frattempo – stremato a livello psicologico e sempre più solo – arriverà ad accettare anche un inadeguato compromesso economico pur di mettere fine a quella situazione logorante.
“La lavoratrice – consiglia dunque la responsabile dei centri di ascolto Mobbing e Stalking – deve diventare una sorta di detective, procurarsi tutte le prove possibili e rivolgersi immediatamente agli sportelli dei sindacati dove sarà indirizzata ad affrontare il percorso legale e psicologico necessario”.
L’altro argomento da non tralasciare è – appunto - quello della solidarietà, che scarseggia nei posti di lavoro. “In Italia manca un empowerment femminile – spiega ancora Menelao – spesso le prime nemiche delle donne sono le donne stesse”.
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Re: IL LAVORO
7 ore fa
87
Istat, ancora in picchiata
la produzione industriale
Ripresa solo a parole
Franco Grilli
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Re: IL LAVORO
‘Più contratti a termine. Vantaggi? Solo a over 50’
Jobs act, centro studi di Marco Biagi certifica flop
Bilancio della fondazione Adapt: nonostante 20 miliardi di sgravi cresce la percentuale di lavoratori a
termine: 14,4 contro 13,7% del 2007. Dei 293mila occupati in più del 2016, 217mila hanno i 50 e i 64 anni
Economia & Lobby
Che il Jobs Act abbia mancato gli obiettivi di diminuire la precarietà e rendere stabilmente più appetibili i contratti a tempo indeterminato è ormai molto più che un sospetto. A due anni dal suo varo, a sancire il flop di una delle riforme simbolo del governo Renzi è un working paper della Fondazione Adapt, il centro studi fondato da Marco Biagi due anni prima del suo assassinio per mano delle Nuove Br. La valutazione arriva da una fonte a cui non si può imputare un pregiudizio negativo nei confronti della flessibilità, considerato che porta il nome di Biagi la legge che ha introdotto in Italia i contratti a progetto, il lavoro occasionale e quello a chiamata
di Chiara Brusini
Jobs act, centro studi di Marco Biagi certifica flop
Bilancio della fondazione Adapt: nonostante 20 miliardi di sgravi cresce la percentuale di lavoratori a
termine: 14,4 contro 13,7% del 2007. Dei 293mila occupati in più del 2016, 217mila hanno i 50 e i 64 anni
Economia & Lobby
Che il Jobs Act abbia mancato gli obiettivi di diminuire la precarietà e rendere stabilmente più appetibili i contratti a tempo indeterminato è ormai molto più che un sospetto. A due anni dal suo varo, a sancire il flop di una delle riforme simbolo del governo Renzi è un working paper della Fondazione Adapt, il centro studi fondato da Marco Biagi due anni prima del suo assassinio per mano delle Nuove Br. La valutazione arriva da una fonte a cui non si può imputare un pregiudizio negativo nei confronti della flessibilità, considerato che porta il nome di Biagi la legge che ha introdotto in Italia i contratti a progetto, il lavoro occasionale e quello a chiamata
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Re: IL LAVORO
l'illusione di racchiudere tutto in un'unico contratto a tutele crescenti si è rilevata fallace perche il mercato del lavoro è diversificato in breve questa illusione ha fatto deflagrare di nuovo la precarietà con il lavoro accessorio,quindi il contratto a tutele crescenti và tolto e bisogna garantire la dignità del lavoro nelle formule della biagi e fare in modo che l'indeterminato costi meno del lavoro flessibile in modo che la flessibilità sia usata solo se necessario
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Re: IL LAVORO
retroscena
Il referendum e la lotta per eliminare i voucher
Dall’edilizia all’agricoltura fino al commercio. Doveva essere solo un modo per far emergere il nero, è diventato un odioso sistema di sfruttamento. Il popolo dei buoni-lavoro è cresciuto a dismisura: più 27mila per cento in soli 8 anni. Oltre 145 milioni di tagliandi sono stati venduti nel 2016. Creando una nuova classe sociale
di Michele Sasso
10 gennaio 2017
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È la parte più scottante dei referendum abrogativi proposti dalla Cgil per «smontare» il jobs act del governo Renzi. Una riforma che ha alimentato una nuova classe operaia con tutele zero, trasformando un mercato del lavoro sempre più precario e deregolamentato. Si chiamano voucheristi e si traduce in cinesizzazione del lavoro.
«Una nuova classe sociale che non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità, a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli malati», ha raccontato Fabrizio Gatti sull’Espresso la scorsa primavera.
Il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro, degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola che mese dopo mese cresce di numero e si allarga: dal 2008 ad oggi i voucher hanno avuto una crescita straordinaria. Oltre 145 milioni sono stati venduti nel 2016, con un aumento del 26,3 per cento sul 2015.
Una percentuale che diventa mostruosa, più 27mila per cento, se si confrontato i buoni-lavoro venduti nel 2008, 535.985, e quelli venduti nell’ultimo anno. Esattamente 145.367.954 piccoli tagliandi da 10 euro: il costo orario di braccia e menti nell’Italia degli anni dieci.
Lo strumento nato per retribuire quello che viene comunemente chiamato “lavoretto”, cioè il lavoro occasionale, «ha debordato, è fuori controllo», secondo la Cgil: «perché viene utilizzato per retribuire senza contratto chi invece un contratto lo potrebbe avere. Per questo va abolito».
I voucher, sono stati introdotti dal Governo Berlusconi nel 2003 per regolare le attività di tipo accessorio e di natura occasionale.
Dovevano servire soprattutto in agricoltura per remunerare studenti, pensionati, casalinghe durante la vendemmia. I voucher sono entrati in funzione nel 2008 in modo sperimentale. Poi, negli anni, sono stati estesi a sempre più settori: le pulizie domestiche, le lezioni private, il turismo e il commercio sono stati i primi.
Dal 2009 l'uso è stato esteso anche alle amministrazioni pubbliche, edilizia, industria e trasporto. Durante il governo Renzi, grazie al jobs act,
è stato elevato da cinquemila a settemila euro il tetto massimo di voucher percepibili dal lavoratore in un anno, e sono stati inseriti i voucher baby sitter da utilizzare al posto del congedo maternità.
Nel solo 2015 oltre un miliardo di euro di stipendi sono stati pagati con voucher da 10 euro, creando un’antologia del piccolo precariato.
STORIE DI VOUCHER
Ecco una storia esemplare. Settembre 2016: a Bastiglia, piccolo centro nel mantovano, ad un operaio junior di una azienda metalmeccanica capita un incidente: la sua mano è rimasta schiacciata dalla pressa con la quale stava lavorando.
Perde due dita e non ha diritto alla malattia perché il voucher semplicemente non la prevede. Svolgeva lo stesso lavoro degli altri operai ma ha avuto la sfortuna di nascere negli anni novanta e a 21 anni diventare voucherista.
«L’incidente è il risultato, vergognoso e gravissimo, della degenerazione di un intero sistema lavorativo e di regole», osservano Claudio Riso e Sauro Tondelli della Cgil di Modena: «È insopportabile che un grave infortunio capiti a chi lavora con la più assurda e precaria delle forme di lavoro, i buoni-lavoro che dovrebbero essere utilizzati per lavori di tipo occasionale ma che hanno avuto una diffusione talmente enorme da mascherare sempre più il lavoro tipicamente subordinato che dovrebbe avere ben altre tutele e riconoscimento economico».
Le storie del «voucherista» sono storie-fotocopia di ordinaria precarietà. Ecco quelle raccolte dall’associazione diritti del lavoratori dei Cobas : «Sono Andrea e ho 23 anni: mi sono proposto come fattorino e dopo un breve colloquio sono stato assunto. Non ho mai svolto la mansione di fattorino ma come banconista per servire i clienti».
Giancarmine è laureato in marketing e comunicazione a Venezia e ha accettato un contratto di lavoro a voucher con la promessa di un contratto vero e proprio dopo un primo mese di prova: «Avevo degli orari prestabiliti. Nel fine settimana mi arrivava un plannig di turni settimanali: sempre uguale da 5 a 7 ore al giorno. Arrivato al tetto massimo di duemila euro è stato facile allungare il periodo e sottoscrivere il voucher ad una seconda e terza società di presta nomi. Dopo un periodo di voucher ho avuto un contratto a tempo determinato di 7 mesi e una riduzione di orario seguendo le esigenze di orario dell’azienda. Il resto delle ore a chiamata e ancora pagato con i voucher».
C. invece è un autista da molti anni nella giungla sempre più selvaggia dell'autotrasporto: calamite, dischi che compaiono e scompaiono e si alternano ai fogli ferie, carte tachigrafiche che si sdoppiano o triplicano, scambi di camion durante i viaggi, paghe da fame e totale disapplicazione del contratto nazionale come delle norme minime in materia di sicurezza e tutela del lavoratore. Per non parlare delle forme di lavoro: sotto cooperativa, tramite agenzia, con la partita Iva. Ma i voucher no, non credeva potessero essere utilizzati per un lavoro che non è sicuramente accessorio.
Invece capita che C. pur di lavorare per uno dei tanti pirati dell'autotrasporto abbia dovuto accettare persino questa forma di pagamento, pure consapevole del fatto che non gli avrebbe garantito alcun diritto: «La paga globale giornaliera di 80 euro, tramite 1-2 voucher al giorno e il restante in nero, era il corrispettivo di un nastro lavorativo mai inferiore alle 15 ore al giorno. Per 6 e a volte 7 giorni alla settimana. I voucher, nonostante venissero erogati con parsimonia, sarebbero finiti abbastanza presto se il padrone, formalmente titolare di una ditta individuale, non mi avesse pagato grazie alla ditta del figlio prima e di un altro prestanome poi. Entrambe ditte individuali di autotrasporto».
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voucher
articolo 18
jobs act
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Per foto vedi:
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Il referendum e la lotta per eliminare i voucher
Dall’edilizia all’agricoltura fino al commercio. Doveva essere solo un modo per far emergere il nero, è diventato un odioso sistema di sfruttamento. Il popolo dei buoni-lavoro è cresciuto a dismisura: più 27mila per cento in soli 8 anni. Oltre 145 milioni di tagliandi sono stati venduti nel 2016. Creando una nuova classe sociale
di Michele Sasso
10 gennaio 2017
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È la parte più scottante dei referendum abrogativi proposti dalla Cgil per «smontare» il jobs act del governo Renzi. Una riforma che ha alimentato una nuova classe operaia con tutele zero, trasformando un mercato del lavoro sempre più precario e deregolamentato. Si chiamano voucheristi e si traduce in cinesizzazione del lavoro.
«Una nuova classe sociale che non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità, a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli malati», ha raccontato Fabrizio Gatti sull’Espresso la scorsa primavera.
Il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro, degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola che mese dopo mese cresce di numero e si allarga: dal 2008 ad oggi i voucher hanno avuto una crescita straordinaria. Oltre 145 milioni sono stati venduti nel 2016, con un aumento del 26,3 per cento sul 2015.
Una percentuale che diventa mostruosa, più 27mila per cento, se si confrontato i buoni-lavoro venduti nel 2008, 535.985, e quelli venduti nell’ultimo anno. Esattamente 145.367.954 piccoli tagliandi da 10 euro: il costo orario di braccia e menti nell’Italia degli anni dieci.
Lo strumento nato per retribuire quello che viene comunemente chiamato “lavoretto”, cioè il lavoro occasionale, «ha debordato, è fuori controllo», secondo la Cgil: «perché viene utilizzato per retribuire senza contratto chi invece un contratto lo potrebbe avere. Per questo va abolito».
I voucher, sono stati introdotti dal Governo Berlusconi nel 2003 per regolare le attività di tipo accessorio e di natura occasionale.
Dovevano servire soprattutto in agricoltura per remunerare studenti, pensionati, casalinghe durante la vendemmia. I voucher sono entrati in funzione nel 2008 in modo sperimentale. Poi, negli anni, sono stati estesi a sempre più settori: le pulizie domestiche, le lezioni private, il turismo e il commercio sono stati i primi.
Dal 2009 l'uso è stato esteso anche alle amministrazioni pubbliche, edilizia, industria e trasporto. Durante il governo Renzi, grazie al jobs act,
è stato elevato da cinquemila a settemila euro il tetto massimo di voucher percepibili dal lavoratore in un anno, e sono stati inseriti i voucher baby sitter da utilizzare al posto del congedo maternità.
Nel solo 2015 oltre un miliardo di euro di stipendi sono stati pagati con voucher da 10 euro, creando un’antologia del piccolo precariato.
STORIE DI VOUCHER
Ecco una storia esemplare. Settembre 2016: a Bastiglia, piccolo centro nel mantovano, ad un operaio junior di una azienda metalmeccanica capita un incidente: la sua mano è rimasta schiacciata dalla pressa con la quale stava lavorando.
Perde due dita e non ha diritto alla malattia perché il voucher semplicemente non la prevede. Svolgeva lo stesso lavoro degli altri operai ma ha avuto la sfortuna di nascere negli anni novanta e a 21 anni diventare voucherista.
«L’incidente è il risultato, vergognoso e gravissimo, della degenerazione di un intero sistema lavorativo e di regole», osservano Claudio Riso e Sauro Tondelli della Cgil di Modena: «È insopportabile che un grave infortunio capiti a chi lavora con la più assurda e precaria delle forme di lavoro, i buoni-lavoro che dovrebbero essere utilizzati per lavori di tipo occasionale ma che hanno avuto una diffusione talmente enorme da mascherare sempre più il lavoro tipicamente subordinato che dovrebbe avere ben altre tutele e riconoscimento economico».
Le storie del «voucherista» sono storie-fotocopia di ordinaria precarietà. Ecco quelle raccolte dall’associazione diritti del lavoratori dei Cobas : «Sono Andrea e ho 23 anni: mi sono proposto come fattorino e dopo un breve colloquio sono stato assunto. Non ho mai svolto la mansione di fattorino ma come banconista per servire i clienti».
Giancarmine è laureato in marketing e comunicazione a Venezia e ha accettato un contratto di lavoro a voucher con la promessa di un contratto vero e proprio dopo un primo mese di prova: «Avevo degli orari prestabiliti. Nel fine settimana mi arrivava un plannig di turni settimanali: sempre uguale da 5 a 7 ore al giorno. Arrivato al tetto massimo di duemila euro è stato facile allungare il periodo e sottoscrivere il voucher ad una seconda e terza società di presta nomi. Dopo un periodo di voucher ho avuto un contratto a tempo determinato di 7 mesi e una riduzione di orario seguendo le esigenze di orario dell’azienda. Il resto delle ore a chiamata e ancora pagato con i voucher».
C. invece è un autista da molti anni nella giungla sempre più selvaggia dell'autotrasporto: calamite, dischi che compaiono e scompaiono e si alternano ai fogli ferie, carte tachigrafiche che si sdoppiano o triplicano, scambi di camion durante i viaggi, paghe da fame e totale disapplicazione del contratto nazionale come delle norme minime in materia di sicurezza e tutela del lavoratore. Per non parlare delle forme di lavoro: sotto cooperativa, tramite agenzia, con la partita Iva. Ma i voucher no, non credeva potessero essere utilizzati per un lavoro che non è sicuramente accessorio.
Invece capita che C. pur di lavorare per uno dei tanti pirati dell'autotrasporto abbia dovuto accettare persino questa forma di pagamento, pure consapevole del fatto che non gli avrebbe garantito alcun diritto: «La paga globale giornaliera di 80 euro, tramite 1-2 voucher al giorno e il restante in nero, era il corrispettivo di un nastro lavorativo mai inferiore alle 15 ore al giorno. Per 6 e a volte 7 giorni alla settimana. I voucher, nonostante venissero erogati con parsimonia, sarebbero finiti abbastanza presto se il padrone, formalmente titolare di una ditta individuale, non mi avesse pagato grazie alla ditta del figlio prima e di un altro prestanome poi. Entrambe ditte individuali di autotrasporto».
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© Riproduzione riservata 10 gennaio 2017
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