IL LAVORO

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UncleTom
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Re: IL LAVORO

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NOSTRA SIGNORA LA DISINFORMAZIONE.

O MEGLIO L’INFORMAZIONE DI PARTE, CON LA MEMORIA MOLTO SCARSA, TANTO GLI ITALIOTI SONO IMBECILLI E SI BEVONO TUTTO QUELLO CHE GLI DIAMO IN PASTO



Alitalia, via al commissariamento: "Ricapitalizzazione impossibile"
I dipendenti dirottano la compagnia verso il fallimento. Per il momento i voli non si fermano. Ma il futuro di Alitalia è grigio
Sergio Rame - Mar, 25/04/2017 - 14:42
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All'indomani dello schianto, il consiglio di amministrazione dell'Alitalia si riunisce per dare il via al commissariamento della compagnia di bandiera.

I vertici non hanno potuto fare altro che prendere atto "con rammarico" della decisione dei propri dipendenti di non approvare il piano di salvataggio firmato il 14 aprile tra l'azienda e le rappresentanze sindacali.

L'approvazione avrebbe sbloccato un aumento di capitale da 2 miliardi, compresi oltre 900 milioni di nuova finanza, che sarebbero stati utilizzati per il rilancio della Compagnia.

Ma l'ennesimo veto sindacale, che ha spinto oltre 6mila dipendenti a votare "no" al referendum, rischia di causare il definitivo fallimento dell'Alitalia. Un fallimento che costerà ai contribuenti un altro miliardo di euro.

Il cda di Alitalia si riunisce a Fiumicino all'indomani della bocciatura del pre-accordo nel referendum del lavoratori. Il verbale d'intesa sul piano industriale raggiunto da sindacati e azienda il 14 aprile scorso è stato respinto nettamente: su un totale di 10.101 votanti, i "no" sono stati 6.816, pari a oltre il 67%, e i "sì" 3.206.

Una vittoria-kamikaze che di fatto affossa il futuro della compagnia di bandiera.

"A questo punto - fanno sapere da Palazzo Chigi - l'obiettivo del governo, in attesa di capire cosa decideranno gli attuali soci di Alitalia, sarà quello di ridurre al minimo i costi per i cittadini italiani e per i viaggiatori". Ma non sarà così facile. Per il momento il programma e l'operatività dei voli non subiranno al momento modifiche.

Il cda di Alitalia "ha convocato un'assemblea dei soci per il 27 aprile" al fine di deliberare sulle procedure di legge necessarie. Il verbale di intesa prevedeva 980 esuberi (contro i 1.338 chiesti inizialmente dall'azienda) e una riduzione della retribuzione del personale navigante dell'8% (contro il 24-30%), nonché interventi su altre voci della busta paga, sui riposi e sulla dimensione degli equipaggi di volo. Gli azionisti da parte loro mettevano sul tavolo una ripatrimonializzazione di 2 miliardi. Adesso, con la bocciatura del piano di ristrutturazione, a rischiare sono tutti e i 12mila dipendenti della compagnia di bandiera.


http://www.ilgiornale.it/news/alitalia- ... 89612.html
UncleTom
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NOSTRA SIGNORA LA DISINFORMAZIONE.

O MEGLIO L’INFORMAZIONE DI PARTE, CON LA MEMORIA MOLTO SCARSA, TANTO GLI ITALIOTI SONO IMBECILLI E SI BEVONO TUTTO QUELLO CHE GLI DIAMO IN PASTO


GLI STRUMPTRUPPEN CHE HANNO COME “PARON” LA SALMA DEL FARAONE TOTANBERLUSKONEN I, CHE VORREBBE TORNARE A FARE IL CAPO INDISCUSSO DEL CENTRODESTRA, SE CHI HA SPEDITO IN EUROPA SI DA’ DA FARE, SI DIMENTICANO COSA SOSTENEVANO I LORO AVVERSARI NEL 2013 IN MERITO A CHI AVEVA SMANETTATO AI TEMPI SU ALITALIA.

POLITICI E DIRIGENTI NOMINATI, NON PAGANO MAI.

I RESPONSABILI SONO SEMPRE ALTRI.

COME NELL’ARTICOLO SOPRA DEI STRUMPTRUPPEN I RESPONSABILI SONO I LAVORATORI E I SINDACATI




Alitalia: quanto ci è costata la cordata di Berlusconi
Oggi il cda di Air France
di Pietro Ichino*
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23 Settembre 2013 - 07:03


Pare che sia imminente l’acquisto da parte di Air France-Klm del controllo di Alitalia.
Chi ha seguito la vicenda ricorderà che nel 2008 Air France-Klm rispose a un’offerta elaborata dal ministro del Tesoro Tommaso Padoa-Schioppa offrendo un investimento sull’azienda pari a un miliardo di euro, l’accollo di tutti i debiti per un totale di un miliardo e mezzo e l’impegno a mantenere l’autonomia organizzativa della compagnia aerea, con le sue insegne. Il neo-nato Governo Berlusconi, in nome della difesa dell’”italianità” della nostra compagnia di bandiera, azzerò il lavoro di Padoa-Schioppa sbattendo la porta in faccia alla compagnia franco-olandese, primo vettore su scala mondiale. E, per consentire il decollo della nuova Alitalia gestita da una italianissima “cordata” (formata da imprenditori dei quali nessuno aveva mai fatto volare un aereo), chiese al Parlamento di stanziare 800 milioni sostanzialmente a fondo perduto, nonché di garantirle il monopolio sulla tratta Milano-Roma, in modo che fossero i viaggiatori, con il sovrapprezzo sul biglietto, a tenere in vita la compagnia. Si può calcolare che fra mancati investimenti dall’estero, debiti non pagati dalla bad company ai creditori – quasi tutti italiani – e costo della respirazione bocca a bocca per tenere in vita la nuova compagnia, il rifiuto dell’offerta Air France-Klm abbia finito col costarci almeno quattro miliardi e mezzo. E ora Alitalia passa comunque sotto il controllo dei franco-olandesi, con cinque anni di ritardo e a condizioni molto peggiori.
Contiamo che Silvio Berlusconi e i suoi colonnelli, una volta tanto, riconoscano il gravissimo errore commesso. Uno dei tanti, peraltro, che i nostri Governi passati di centrodestra e di centrosinistra hanno commesso, facendo le barricate contro gli investitori esteri in nome di una malintesa italianità delle nostre imprese.
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Alitalia: quanto ci è costata la cordata di Berlusconi - Linkiesta.it
http://www.linkiesta.it/it/article/2013 ... oni/16530/
23 set 2013 - Il neo-nato Governo Berlusconi, in nome della difesa dell'”italianità” della ... E, per consentire il decollo della nuova Alitalia gestita da una ...


Alitalia, i patrioti di B. dal 'trionfo' al fallimento. Lo Stato pronto a ...
www.ilfattoquotidiano.it › Economia & Lobby › Economia
08 ott 2013 - Così Alitalia ritorna al centro del dibattito politico, proprio come è ... Non sono bastate le misure del governo Berlusconi sulla chiusura del
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Alitalia, i patrioti di B. dal ‘trionfo’ al fallimento. Lo Stato pronto a pagare ancora

ECONOMIA
La decisione del Cavaliere di impedire la vendita nel 2008 della compagnia ad Air France-Klm è costata 4 miliardi di denaro pubblico, mentre le perdite della new company sono state di 1 miliardo in 4 anni. E ora i grandi vettori stranieri tornano sulla scena. Il rischio è una privatizzazione mascherata attraverso la Cassa Depositi e Prestiti. Ecco il blob delle dichiarazioni elettorali del 2008
di Andrea Giuricin | 8 ottobre 2013
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Più informazioni su: Air France-Klm, Air One, Alitalia, Corrado Passera, Ferrovie, Governo Berlusconi, Governo Prodi, Roberto Colaninno, Silvio Berlusconi


Anche i soldi per la benzina sono finiti e il governo discute di un salvataggio urgente. Così Alitalia ritorna al centro del dibattito politico, proprio come è accaduto 5 anni fa. Questa volta, però, lo scenario è molto differente. Non sono bastati i quattro miliardi di euro pubblici buttati per cercare di fare rinascere la compagnia di bandiera. Non sono bastate le misure del governo Berlusconi sulla chiusura del mercato con il divieto d’intervento per l’Antitrust sulle tratte monopolistiche detenute dalla nuova Alitalia. E soprattutto non sono bastati i soldi immessi dagli imprenditori prestati al trasporto aereo e guidati dalla cordata “tutta italiana” capitanata da Roberto Colaninno e Intesa Sanpaolo.

Ma facciamo un passo indietro. Era il marzo del 2008 e le elezioni erano alle porte. Dopo mesi di discussioni, il governo Prodi, ormai cadente, aveva scelto di optare per la soluzione di Air France-Klm, come partner per evitare il fallimento della vecchia Alitalia. La soluzione era la più logica perché entrambe le compagnie facevano parte dell’alleanza globale Skyteam con delle sinergie importanti. La proposta dei francesi era forte. Sei miliardi di euro messi sul tavolo per fare gli investimenti necessari dal 2008 al 2013 oltre a una cifra superiore a 300 milioni di euro per la maggioranza dell’azienda.


Arrivarono però le elezioni e Silvio Berlusconi s’impose con il motto “Alitalia agli italiani”, che il giorno dopo la tornata elettorale diventò addirittura “Io amo l’Italia e volo Alitalia”. E ancora: “Risolveremo la questione senza svendere e senza nazionalizzare, facendo appello al contributo delle imprese italiane che hanno tutto da guadagnare”. E così fu, ma l’azienda nel frattempo portò i libri in tribunale con un fallimento fragoroso. Miliardi di euro di perdite spalmate nella bad company che rimaneva in pancia allo Stato, mentre la parte buona veniva venduta a un prezzo non proprio trasparente alla cordata degli imprenditori italiani. Il fallimento è costato oltre 4 miliardi di euro e questo è ormai un dato accertato, ma quel che è peggio è che il governo decise di bloccare la concorrenza con il decreto “Salva Alitalia”. Questo decreto era alla base della fusione tra AirOne e la nuova Alitalia in modo da dare spunto al Piano Fenice orchestrato dall’allora amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera. Ecco il “blob” delle dichiarazioni del 2008 su Alitalia:


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Il Piano Fenice era il piano deciso dagli investitori per rilanciare la compagnia. Tuttavia si basava su un grande errore: l’acquisto degli aeromobili a corto raggio che AirOne si era impegnata a comprare negli anni precedenti e che l’aveva portata in una posizione finanziaria non certo brillante. La nuova Alitalia partiva dunque con una strategia impostata su quella di AirOne. Inoltre gli investitori italiani misero sul piatto meno di un miliardo di euro, e nonostante l’arrivo di Air France – Klm, questa cifra era palesemente troppo piccola per portare la compagnia italiana nell’Olimpo dei grandi vettori mondiali: Alitalia trasporta circa 25 milioni di passeggeri, meno di un quarto di quelli di Lufthansa e meno di un terzo della compagnia low cost Ryanair e il gruppo franco-olandese AirFrance-Klm.

La flotta di Alitalia è troppo incentrata verso il corto-medio raggio, il segmento con più concorrenza, mentre è estremamente debole rispetto ai competitor per le rotte intercontinentali, dove ci sono i margini maggiori. Il management ha ridotto i costi operativi, ma senza investimenti nella flotta a lungo raggio ha potuto fare ben poco. E un aereo a lungo raggio costa all’incirca 200 milioni di euro, vale a dire un quinto dell’investimento totale fatto per la ripartenza del vettore cinque anni orsono.

Dal gennaio 2009, quando la compagnia ha ripreso l’operatività, a oggi il vettore ha perso circa 1 miliardo di euro, vale a dire quanto era stato investito dai soci. È la ragione per cui in questo momento Alitalia ha l’estrema necessità di ricapitalizzare. Allo stesso tempo sta per finire il blocco all’uscita per i soci, e i rumors indicano che molti azionisti non sono più disposti a sopportare le perdite. Durante l’estate si è parlato spesso dell’arrivo del cavaliere bianco. Questo cavaliere aveva le sembianze di Etihad o Aeroflot, due vettori extra-comunitari. È bene ricordare che per la legislazione vigente una compagnia extra-comunitaria non può avere la maggioranza assoluta azionaria e dunque tali soci sarebbero potuti essere solo “marginali”.

Marginali rispetto a chi? E qui viene il punto. Air France-Klm, primo azionista di Alitalia con il 25 per cento, ha l’opzione di salire nell’azionariato e prendere la maggioranza assoluta. È chiaro che il gruppo franco-olandese vuole la maggioranza al prezzo più basso possibile, dato che continua a perdere centinaia di milioni di euro anche quest’anno. Ed è anche chiaro che il coltello dalla parte del manico ce l’hanno i francesi, visto che Alitalia ha ormai finito i margini di manovra. Il problema è dunque dare il giusto prezzo ad Alitalia, ma probabilmente il valore dell’azienda è molto basso, viste le continue perdite. C’è poi il dubbio che il governo si abbandoni all’ennesimo errore e pensi di salvare gli imprenditori o l’azienda con una nazionalizzazione mascherata e l’arrivo di fondi pubblici. Ad esempio attraverso la Cassa Depositi e Prestiti che, se non direttamente, potrebbe agire attraverso i suoi Fondi di investimento. Si è parlato anche di Ferrovie dello Stato, ma l’ipotesi sembra tramontata (anche per un evidente problema di conflitti di interesse, per esempio sulla tratta Milano-Roma).

Al governo Letta, però, non riesce ancora la quadratura del cerchio. L’esecutivo studia il ritorno dello Stato nel capitale della compagnia di bandiera con una quota, secondo le notizie più recenti, tra il 16 e il 30%. Ancora soldi pubblici, insomma. E dovranno arrivare anche in fretta, visto l’ultimatum dei creditori. Scaroni (Eni) ha infatti dichirato: “Se non riscuote la fiducia degli azionisti non possiamo tenerla in vita noi”. E ha dato tempo fino a sabato: o si saldano i debiti o salta la fornitura di carburante.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/10 ... ra/720499/
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Raffaele Mangano
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ALITALIA. UNA STORIA INGLORIOSA E VERGOGNOSA

Pubblicato il 17 gennaio 2017
An Alitalia airplane is seen at the Fiumicino airport on January 9, 2014 near Rome. AFP / VINCENZO PINTO (Photo credit should read VINCENZO PINTO/AFP/Getty Images)


Una delle notizie di testa del TG5 del 28 marzo del 2008 fu sufficiente per far andare di traverso la cena al presidente del consiglio Romano Prodi. Si trattava solo di un comizio di Berlusconi per le donne del PDL, ma tutti i telegiornali di casa Fininvest, nonché i Tg targati Rai, si dilungavano oltre misura. Prodi ha un gesto di sconforto, si lascia andare a imprecazioni non consone al suo stile, in genere sobrio e misurato, poi si attacca al telefono per parlare coi suoi collaboratori, e la mente gli va a quelle ferite mai del tutto rimarginate delle privatizzazioni, sempre finite in risse e polemiche. Per non parlare del calvario Telecom, da lui consegnata forte e opulenta in mano amiche, e che ha ritrovato malconcia e dal futuro incerto.

Da qualche tempo il Professore stava cercando una soluzione per un’azienda dello Stato in coma irreversibile, coi soldi contati e a rischio fallimento, niente meno che la compagnia aerea di bandiera, quell’Alitalia che ormai divorava soldi senza poter più ricorrere a finanziamenti pubblici come ai bei tempi. Per sua sfortuna, per sfortuna della società e dei cittadini italiani, la vicenda è finita nel mezzo di una feroce campagna elettorale, diventando un’arma impropria a uso politico. Prodi è affranto, sta per terminare il suo secondo governo, affossato ancora una volta dal “fuoco amico”. In quel marzo 2008 si era alla vigilia della gravissima crisi economica che metterà in ginocchio la nazione, del tutto impreparata ad affrontare le difficoltà. Prodi aveva intavolato e portato avanti una trattativa con Air France, un’ottima trattativa, considerando com’era ridotta Alitalia. E cosa fa il candidato del centro destra alle elezioni? Durante il comizio di cui parlano i telegiornali si esprime così: “L’offerta Air France non è soltanto irricevibile, non è soltanto inaccettabile, ma addirittura offensiva”. E le signore, che nulla sanno e nulla capiscono, si spellano le mani e lo acclamano. L’esausto Prodi sa che comincerà la ripetizione a pappagallo di queste frasi da parte degli esponenti del Pdl a tutti i livelli, ma sa perfettamente che quell’offerta invece è l’unica via di scampo al disastro Alitalia. Anche se da dieci anni fa il politico, lui l’economia la insegnava. Era stato solo sfortunato, ecco tutto, e il fantasma dell’italianità, quello che aveva portato alla rottamazione dell’Alfa Romeo e al mancato accordo tra Telecom e AT&T, si materializza di nuovo.

Le notizie dei Tg scorrono veloci, il solito conteggio dei morti in Iraq, le elezioni in Pakistan, le manifestazioni del monaci in Tibet represse nel sangue dalle truppe cinesi, un incidente automobilistico mortale, poi un servizio sull’attesa per la scelta della città che ospiterà l’Expo 2015. C’è una sua intervista registrata dove, sorridente, si dice fiducioso per la vittoria di Milano su Smirne. Prodi fa gli scongiuri, spegne il televisore e incomincia a pensare a cosa fare. È vero che ha annunciato il suo ritiro dalla vita politica, ma lui è ancora in carica; potrebbe decidere senza subire condizionamenti e lasciare un ricordo positivo che lo faccia distinguere dal suo avversario. Ancora gli fa male il giudizio sprezzante di Enrico Cuccia, il grande vecchio della finanza italiana: “È imbarazzante dover scegliere fra uno di loro due”. Come già è accaduto in passato, il tempo è strettissimo: il 2 Aprile scade l’ultimatum di Air France. Per le sorti di Alitalia ormai è questione di ore.

Ai marinai norvegesi, che nel luglio del 1947 si imbarcarono per Oslo sul primo volo internazionale della nascente linea aerea italiana, non era stato servito né un pasto, né un bicchiere d’acqua. Così come era successo ai passeggeri del primo volo domestico Torino Roma Catania con trimotore a elica Fiat G12: posti scomodi, rumore assordante, arredi essenziali. Il conte Nicolò Carrandini, presidente della società, avrebbe desiderato ben altro debutto, ma si dovette accontentare. Così come si arrangiò per iniziare a volare oltre oceano, acquistando quattro Douglas DC-4 usati dalla Pan Am. Genero di Luigi Albertini, mitico direttore de Il Corriere della Sera , Carrandini era un uomo di mondo, era stato ambasciatore a Londra, membro del CNL e ministro. Liberale convinto, ebbe da subito grandi idee per l’Alitalia, alla quale regalò nel 1950 il primo tocco di classe: l’assunzione delle hostess vestite dalle sorelle Fontana. Inizia così un periodo di espansione che durerà una ventina d’anni. Alitalia vola ovunque nel mondo e apre sedi nelle principali capitali; si avvale di personale italiano anche in lontani aeroporti africani o asiatici. Il capo scalo della compagnia è una persona a cui ci si può rivolgere per ogni esigenza, una vera autorità locale. La flotta si arricchisce di vettori all’avanguardia, in prima classe caviale e champagne, ma si mangia bene anche in turistica. I bilanci non sono un problema, Alitalia non ha la missione di guadagnare soldi, bensì quella di accompagnare la rinascita della nazione dopo la guerra, essere un simbolo del boom economico, rassicurare i cittadini che sempre più numerosi usano l’aereo, incrementare i passeggeri (supereranno il milione nell’anno delle olimpiadi romane del ’60). I piloti vengono prelevati direttamente dall’aeronautica militare e strapagati, steward e hostess parlano inglese, superano in statura la media nazionale (non possono stare sotto il metro e settanta) e alla fine degli anni 60 cambiano divisa, con nuovi modelli disegnati da Mila Schön. Le rotte aumentano e vengono collegate destinazioni lontanissime: Johannesburg, Sidney, Montevideo. Gli equipaggi sostano in hotel di lusso anche per un’intera settimana prima del volo di ritorno. I costi per il mantenimento della struttura operativa diventano giganteschi. All’inizio degli anni ‘70, il palazzo Alitalia all’Eur era occupato da un esercito di impiegati, quadri, dirigenti. Il solo dipartimento per i rapporti con la stampa contava più addetti della Casa Bianca. I disavanzi li copriva lo Stato, in compenso Alitalia era giunta al terzo posto in Europa, alle spalle dei colossi Air France e British Airways. La crisi petrolifera colse però del tutto impreparata la compagnia che non si era mai preoccupata di far concorrenza sul piano delle tariffe, le più care in assoluto su qualsiasi rotta, confidando sul fatto che gli italiani volavano più volentieri con la compagnia di bandiera, per un’atavica consuetudine a stare attaccati alla gonna della mamma. Li rassicurava il fatto che si parlasse in italiano, loro così ignoranti nelle lingue, che ovunque ci fosse personale nostrano e che a bordo i pasti fossero rassicuranti, data l’abitudine di cercare un piatto di pasta anche nella jungla del Borneo. Gli italiani volevano trovare in qualsiasi aeroporto un vettore che avesse aria di casa, con quel bellissimo logo dipinto sulla coda, l’ormai famosa A tricolore che si scorgeva da lontano.

Purtroppo i tempi cambiarono troppo velocemente per il sonnolento tran-tran della compagnia, dove alla guida ormai si avvicendavano i soliti burocrati scelti dai partiti e non più pionieri dell’industria o i nobili sognatori che ne avevano determinato lustro e splendore. Le crisi degli anni ’70 furono superate ma lasciarono spazio alla caduta dei monopoli; arrivarono le compagnie charter e quelle che praticavano sconti sulle tariffe, nacquero linee aeree locali, insomma una rivoluzione che l’elefante Alitalia non era in grado di affrontare. Dieci anni di bilanci in perdita trascinarono la compagnia verso il disastro, evitato di anno in anno col pompaggio di soldi pubblici, ma anche questa abitudine, contraria alle regole del mercato, era destinata a concludersi. Così ai primi anni ’90, mentre i Governi e le altre compagnie europee avevano portato a termine piani di ristrutturazione, progetti industriali innovativi, alleanze, accordi internazionali e privatizzazioni, la situazione Alitalia si fece disperata: un patrimonio asfittico di 150 miliardi di lire a fronte di 3mila miliardi di debiti, aerei vecchi, rotte ormai improduttive, management dilettantistico, proprietà in mano allo Stato per il 100%. Nel 1996 l’Alitalia incontra sul suo cammino il professor Romano Prodi alla sua prima esperienza a capo di un governo. Di concerto con il ministro del tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, e del nuovo amministratore delegato Domenico Cempella, un manager che finalmente conosce il settore aereo, viene varato un piano di smagrimento dell’azienda che prevede una diminuzione del costo del lavoro, il taglio dei rami secchi e la razionalizzazione delle rotte. Ma soprattutto vengono messe sul mercato azioni Alitalia: il 21% ai dipendenti e un 15% in Borsa. Non sarà un investimento felice, né per i dipendenti né per i piccoli risparmiatori, anche se la cura Cempella per qualche anno darà i suoi frutti, difatti a fine ‘99 la società finirà di pagare i debiti e produrrà utili per quasi un miliardo di lire in tre anni, oltre a varare un piano di investimenti finanziariamente impegnativo. Ma è il canto del cigno e a determinarne l’asfissia è l’Unione Europea che boccia la ricapitalizzazione per 3000 miliardi di lire prevista per dare seguito alla fase di rilancio.

Da quel momento è una corsa a passi sempre più accelerati verso il baratro. Dapprima fallisce miseramente il progetto Malpensa 2000, vale a dire il famoso hub come unico aeroporto per la “nuova” fase di espansione di Alitalia. Al tracollo di Malpensa partecipano con entusiasmo sia i comuni limitrofi allo scalo per motivi ambientali, sia i ministeri preposti a realizzare ferrovie e strade di collegamento, condizione essenziale per avere i finanziamenti Cee, sia il comune di Milano geloso del suo aeroporto di Linate, sia i sindacati. Romano Prodi vede sfumare il sogno del rilancio della compagnia di bandiera che prevede un’alleanza con KLM, accordo però strettamente legato alla riuscita di Malpensa 2000. La frustrazione è tale che il 25 marzo ‘98 scrive una lettera aperta al Corriere della Sera indirizzata in realtà al sindaco Gabriele Albertini. “Se non corriamo al più presto ai ripari, Malpensa sarà condannata a un sicuro declino. Di tutto questo ne ho parlato con il sindaco, la risposta che ne ho ricevuto è stata una rigida difesa di un inesistente e indifendibile primato di Milano. In questo modo la giunta segna la condanna di Malpensa 2000”. E condanna fu. Caduto il governo Prodi, arriva D’Alema e la data per il trasferimento dei voli viene spostata di mese in mese, causa i problemi sollevati dal ministro dell’ambiente Ronchi, gli ulteriori ritardi per la realizzazione delle infrastrutture e la resistenza a oltranza di Milano. Sino a che il 14 dicembre, tra lo sconcerto generale l’agenzia Ansa batte una notizia: “Domani non ci sarà il previsto trasferimento di voli da Linate a Malpensa: lo ha deciso il Ministro Treu d’intesa con il Presidente del Consiglio Massimo D’Alema”. Un solo giorno prima della data prevista per l’entrata in funzione dell’Hub! La cialtroneria italiana si manifestò anche con un episodio buffonesco. Gli automobilisti che da sempre percorrevano l’autostrada Milano – Varese si erano trovati all’improvviso la segnaletica orizzontale modificata con linee gialle che disegnavano tre corsie molto strette, al posto delle due usuali. La novità durò un paio di mesi, giusto per mostrare agli ispettori europei che il collegamento con Malpensa era a tre corsie, come previsto negli accordi. A parte la furbata, il vergognoso fallimento di Malpensa 2000 si portò appresso la fine degli accordi con KLM, che, sfinita dalle pastoie italiane, siglerà l’alleanza con Air France. Alitalia si trova da sola ad affrontare la sfida del mercato globale, che significa competere o con i colossi internazionali per le lunghe distanze, o con le aggressive nascenti compagnie low coast, come Easy Jet o Ryan Air per il medio e corto raggio, mentre la crisi seguita ai fatti dell’11 settembre determina un improvviso crollo dei passeggeri. Una partita persa in partenza.

Con il governo Berlusconi del 2001 inizia il periodo degli “annunci”. Si proclama di continuo di voler privatizzare, si ripesca l’accordo con KLM anche se ormai non ci sono più i presupposti, si invocano riduzioni di personale con conseguente battaglia coi sindacati e perdite di un numero impressionante di ore di volo per gli scioperi. Il nuovo presidente incaricato dall’esecutivo, Giancarlo Cimoli, sbaglia completamente strategia. Cancella i voli per la Cina, proprio quando è chiaro che quella sarà il mercato del futuro. Riduce il lungo raggio, privandosi di destinazioni in espansione, e perde inevitabilmente il confronto europeo con le compagnie che praticano basse tariffe. L’Alitalia si dimentica di partecipare all’appalto per la Sardegna e viene esclusa dalle rotte per l’isola. Un’ecatombe che porta in breve la compagnia a perdere un milione di euro al giorno. In compenso il suo presidente arriva a guadagnarne quasi tre all’anno, sei volte il collega di Air France, il triplo di quello della British Airways, e quando alla fine gli vengono consigliate le dimissioni, lascia con otto milioni di buona uscita.

La situazione, ormai compromessa, ripassa nelle mani di Romano Prodi, subentrato a Berlusconi dopo le elezioni del 2006. Il nuovo governo si dà subito da fare e mette sul mercato le azioni al miglior offerente. Si presentano ben 11 consorzi che valutano la proposta, ma appena visti i conti rimangono in tre: Air One, Texas Pacific Group e Aeroflot. L’esame approfondito della condizione di Alitalia scoraggia a uno a uno gli interlocutori, sicché il 19 luglio 2007 il Ministero dell’Economia dichiara mestamente che la privatizzazione di Alitalia non si può fare per mancanza di acquirenti. Non la vuole nessuno. Un Prodi disperato tenta l’ultima carta, vale a dire la trattativa privata. Al tavolo si presentano Air France-KLM, Air Onee una “cordata” di imprenditori rappresentati da Antonio Baldassarre, già presidente della Rai sotto il governo Berlusconi. Prodi salta sulla sedia, memore delle famose cordate fantasma di vent’anni prima, e lo mette alla porta. Felice intuizione perché Baldassarre qualche anno dopo si beccherà una sanzione di 400.000 euro da parte della Consob e la perdita per 4 mesi dei requisiti di onorabilità; inoltre la Procura di Roma lo rinvierà a giudizio per aggiotaggio per aver presentato un’offerta con finte garanzie economiche e falsa documentazione. Un’accusa infamante per un ex presidente emerito della Corte Costituzionale, a cui l’esperienza negli studi televisivi aveva evidentemente creato qualche tentazione. Tramontata anche l’opzione Air One, perché non si è mai visto un topo ingoiare un cinghiale, inizia finalmente una trattativa seria con Air France. Non che la compagnia francese sbagli a fare i conti o sia più sprovveduta di altre, tutt’altro, ma ritiene che un’integrazione di Alitalia nel gruppo di cui fa già parte KLM, possa funzionare nel lungo periodo. La compagnia italiana ha un marchio e una storia, ha comunque un mercato, serve una nazione di 60 milioni di abitanti. Va sola rimessa in carreggiata. E, dopo lunghe trattative, fa la sua offerta: acquisto delle azioni pagandole allo Stato 138,5 milioni di Euro, assunzione dei debiti, comprese le obbligazioni convertibili per 608 milioni, versamento immediato di un miliardo di euro nelle casse esangui dell’azienda che rischia di non pagare nemmeno gli stipendi, e piano industriale con investimenti a dieci anni. Ci sono dei vincoli, per esempio un piano per 2100 esuberi di personale, la riduzione della flotta a 150 aerei e una serie di altri dettagli di natura tecnica. Ma anche garanzie, per esempio l’autonomia e l’identità di Alitalia come compagnia italiana, mantenimento del marchio e del logo, e soprattutto inserire Roma come hub assieme a Parigi e Amsterdam. Appuntamento al 3 aprile per siglare un preliminare di accordo.

Invece in quel fine marzo, con la primavera che tardava ad arrivare, dopo due anni di governo tra i più tribolati della Repubblica, con alle porte una crisi devastante, ecco che il redivivo Berlusconi spara un missile micidiale. “Forse si tratta solo di una mossa propagandistica, del resto anche lui conosce bene la situazione della compagnia che si è trascinata appresso per cinque anni – prova a consolarsi Romano Prodi – non può essere così irresponsabile”. E poi lo aveva sentito con le sue orecchie a “Porta a Porta” non più tardi del 5 marzo, quando il Cavaliere aveva detto: “Ipotizzare una public company con Klm e Air France penso sia possibile ma bisogna mantenere Alitalia come compagnia di bandiera, con tricolore sugli aerei e gli uffici nel mondo”. Le parole public company non c’entravano niente, ma il concetto sembrava chiaro. A ogni buon conto ci vuole poco per scoprire cosa accadrà dopo le dichiarazioni di Berlusconi, due tre giorni al massimo. E difatti il primo aprile si aprono le danze con un crollo in Borsa delle azioni Alitalia del 5%. Ai sindacati non sembra vero di poter partecipare alla zuffa e lo fanno subito in modo eclatante rompendo le trattative. Guglielmo Epifani dichiara: “con i francesi è finita”. Jean-Ciryl Spinetta, presidente Air France, lascia Roma e se ne torna a Parigi. Maurizio Prato, il nuovo presidente di Alitalia, dà le dimissioni. Nei talk show televisivi poi succede quello che Prodi paventava; tutti gli esponenti del centro destra chiamati a commentare la trattativa sono irremovibili: l’Alitalia non si può vendere ai francesi, l’offerta è irriguardosa, bisogna trovare una soluzione italiana. Gli eventi precipitano, il ministro Padoa Schioppa parla senza mezzi termini di “commissariamento della compagnia” mentre la Lega preferirebbe la liquidazione. È un’orgia di dichiarazioni dei politici a chi la spara più grossa. Preoccupati per un epilogo tragico, nel giro di poco i sindacati ci ripensano e lanciano segnali accomodanti verso Parigi. Enrico Letta è sicuro che la trattativa si possa riaprire, l’altro ministro Pierluigi Bersani è fiducioso. “L’appello del ministro ai sindacati si traduca in una convocazione immediata”, dichiara Renata Polverini, segretario generale dell’Ugl. Il 10 aprile il titolo Alitalia crolla in Borsa del 21%. Air France, governo italiano e sindacati, provano a riaprire la trattativa, si rivedono, rilasciano dichiarazioni di cauto ottimismo. La disputa elettorale però si infiamma, i rifiuti di Napoli e le sorti della compagnia aerea sono temi forti. “Ho trovato anche lo slogan : Amo l’Italia e volo Alitalia” grida nei comizi Berlusconi in un tripudio di bandiere. Il 19 marzo Putin è ospite in Sardegna a Villa Certosa e filtra la voce che si sia parlato di un interessamento di Airflot. Invece la dichiarazione ufficiale del padrone di casa è di altra natura: “Il signor Spinetta con il mio veto dovrà rinunciare, su Alitalia possono intervenire AirOne con Banca Intesa e altri imprenditori italiani fra cui anche i miei figli”. Il 21 Aprile Air France ritira l’offerta e annuncia che questa volta sarà per sempre. La vicenda si chiude con lo stanziamento da parte del governo Prodi di 300 milioni di soldi pubblici per far galleggiare la compagnia. “Me lo ha chiesto Berlusconi” dirà poi il professore di Bologna, e il fatto appare inspiegabile. In pratica il presidente uscente di un governo decaduto elargì denaro dei cittadini, per altro gettati al vento, onde permettere a chi lo aveva boicottato di portare avanti le sue strategie! Fu quello il suo ultimo atto prima di abbandonare la politica, con la vox populi che vedeva il suo secondo governo come uno tra i peggiori della Repubblica; attribuzione forse non del tutto veritiera, anche se nella sua compagine le liti avevano cadenza giornaliera, talvolta oraria, e ciò di fatto aveva inibito l’azione dell’esecutivo. Romano Prodi verrà nominato presidente del Partito Democratico all’atto della fondazione. Nel 2013 solo l’ammutinamento di una parte del suo schieramento gli impedirà di diventare Presidente della Repubblica. La delusione lo porterà a non rinnovare la tessera del partito che aveva contribuito a far nascere.

La vicenda Alitalia sembra chiudersi. Ma si riaprirà presto, perché al peggio non c’è mai fine. E, incredibile a dirsi, il peggio doveva ancora arrivare. Un paio di mesi dopo l’uscita di scena di Air France, gli italiani ebbero una certezza: la compagnia di bandiera era stata “salvata”. L’Alitalia sarebbe risorta più forte che mai e avrebbe ricominciato a solcare i cieli; tanto che l’operazione di recupero e rilancio fu chiamata “Piano Fenice”, dal mitico uccello rinato dalle sue ceneri dopo la morte. La gente ne parlava nei bar, nei ristoranti, sui treni, negli uffici, a cena con gli amici. In Tv si discuteva del fantastico salvataggio della compagnia, felici per lo scampato pericolo della vendita ai perfidi francesi. Nessuno conosceva bene i dettagli dell’operazione, ma non era importante, l’orgoglio nazionale era salvo e anche i soldi dei contribuenti al sicuro, tanto che in una memorabile gaffe il TG3 ebbe ad annunciare che “l’Alitalia non graverà più sulle palle dei cittadini”. Il fatto è che si trattò di un colossale abbaglio. Le ricerche di mercato hanno stabilito che in Italia ben l’80% dei cittadini ricavano le loro informazione dai canali televisivi, il rimanente 20 si disperde in quotidiani e periodici non sempre indenni dal manipolare i fatti. La vicenda Alitalia fu la prova provata, la prova principe, di come si possa distorcere un’informazione e spacciare per vera una storia inventata e completamente falsa. Eppure bastava leggere il trafiletto intitolato “Alitalia: il piano Fenice” pubblicato sul sito ufficiale del “Governo Berlusconi” per farsi venire almeno qualche dubbio. Dopo un testo lunghissimo che magnifica l’operato del presidente, si comincia a leggere qualcosa di concreto, per esempio: “Il governo ha nominato Augusto Fantozzi nuovo commissario di Alitalia, con il compito di gestire l’amministrazione straordinaria e la cessione alla nuova compagnia aerea degli asset competitivi di Alitalia”. Linguaggio tecnico e un po’ ostico per gli sprovveduti, ma illuminante per chi non è tonto. L’amministrazione straordinaria significava in realtà la messa in liquidazione, tanto che il commissario doveva cedere a qualcun altro gli asset competitivi, vale a dire gli aerei, i beni e le attrezzature necessari per l’attività. Ma non compare alcuna cifra. A quanto verranno ceduti tali beni? Che vantaggio ne avrà lo Stato? Mancano anche altri numeri significativi: con quali risorse ripartirà l’azienda, chi pagherà i debiti, quali saranno i piani di investimento? Nemmeno una parola. Così come si parla genericamente di esuberi di personale senza indicarne il numero, dicendo solo che beneficeranno di una cassa integrazione straordinaria lunga sino a sette anni. Gli unici numeri che compaiono sono quelli della rinata flotta di aerei con vaghe indicazioni di futuri potenziamenti. La cosa davvero difficile da capire è come un intero popolo non si sia reso conto della realtà, abbacinato dalla propaganda e dalle chiacchiere dei politicanti che per anni continueranno a gloriarsi di aver “salvato l’Alitalia”.

Cercando di semplificare al massimo, la soluzione fu trovata con il marchingegno di costituire una nuova società chiamata CAI (Compagnia Aerea Italiana Spa) di proprietà esclusivamente di soci privati, senza più la presenza dello Stato Italiano, con conseguente liquidazione dell’Alitalia. Già questo primo passo elimina per sempre il concetto di “compagnia di bandiera”. La nuova società si prende gli aerei, gli equipaggi, le strutture, il marchio, il logo Alitalia, le autorizzazioni al volo, i clienti, le concessioni aeroportuali senza sborsare una lira. I debiti invece vengono lasciati nella pancia della vecchia Alitalia (la defunta compagnia di bandiera) che, per confondere le idee agli sprovveduti, viene ribattezzata con un nome inglese bad company , cattiva società. La Cai poi ingloba anche Air One, il suo diretto concorrente, gravato da pesanti oneri finanziari dovuti ai leasing degli aerei. Chi sono i soci della nuova compagnia? Nella lista c’è un po’ di tutto. Intesa San Paolo ha funzionato da capofila per radunare gli imprenditori interessati all’affare. Alla guida dell’istituto c’è Corrado Passera, il manager già attivo nelle varie fasi della vicenda Telecom, lo stesso che si era duramente scontrato con Berlusconi per il controllo della Mondadori; ma i dissapori sono ormai dimenticati e Passera è un convinto sostenitore del “Piano Fenice”. Poi c’è Roberto Colaninno, l’artefice della scalata Telecom, e Tronchetti Provera, l’altro scalatore della compagnia telefonica. È presente il gruppo di Salvatore Ligresti, ormai mondato dalle scorie di tangentopoli (ma verrà di nuovo arrestato con tutta la famiglia nel 2013); non mancano i costruttori come Francesco Caltagirone, né imprenditori già presenti nel settore trasporti come Benetton e Gavio, detentori delle concessioni governative per la gestione delle autostrade. Entrano nella squadra anche i Marcegaglia, durante il mandato di Emma alla presidenza della Confindustria. La quota maggiore è però sottoscritta a sorpresa dalla famiglia Riva, la proprietaria dell’Ilva di Taranto, che salirà presto agli onori della cronaca per le inadempienze sulla sicurezza degli impianti siderurgici e tutto ciò che ne è conseguito. C’è Antonio Angelucci, imprenditore del settore sanità coinvolto poi in una storia di tangenti a esponenti politici. E ovviamente Carlo Toto che ha portato in dote Air One. Nella lista però non compaiono i figli di Berlusoni, malgrado gli annunci durante la campagna elettorale. Gli imprenditori patrioti , come vengono definiti dagli entusiasti esponenti del nuovo governo, versano un miliardo di euro nelle casse e danno il via al ridimensionamento del personale. All’inizio si parla di 3500 esuberi, a cui si aggiungeranno coloro che hanno contratti a termine; ma si resta evasivi sugli addetti dei call center e dei settori cargo e manutenzione. Già così sono molti di più dei 2100 previsti dall’offerta Air France, che era stata osteggiata con violenza dai sindacati. Alla fine gli esuberi saranno più di seimila. L’amministratore delegato Rocco Sabelli, manager formatosi all’Eni e poi in Telecom, uomo di Colaninno, illustrò in conferenza stampa i piani per la nuova compagnia e le previsioni di bilancio per i cinque anni a seguire. A parte Carlo Toto, nessuno in Cai conosceva il mercato del trasporto aereo e difatti la compagnia sposò la politica di Air One, che aveva concentrato la sua attività sul breve e corto raggio. Si rivelerà un errore madornale. D’altro canto per operare nel più redditizio e meno concorrenziale lungo raggio, occorreva potenziare la flotta con aeromobili adatti al bisogno, ma un solo aereo di quelle dimensioni costava all’incirca 200 milioni, un quinto del capitale versato. A parte le scelte della Cai, cosa è accaduto per lo Stato e i cittadini italiani? Semplice: hanno visto sparire per sempre la “compagnia di bandiera”, si sono accollati i debiti della vecchia Alitalia, pagano sino a fine 2015 il costo della cassa integrazione dei dipendenti in esubero. Economisti al di fuori dei soliti sospetti ideologici hanno stimato un costo per la collettività oscillante tra i tre e i quattro miliardi di euro. In più è venuta a mancare la concorrenza con Air One, con conseguente aumento delle tariffe sui voli nazionali, il che si può sommare ai danni subiti dai cittadini viaggiatori. La Cai, come è noto, ha dilapidato il capitale nel giro di 5 anni, perdendo quindi circa 200 milioni di euro all’anno, non ha aumentato le rotte importanti (per esempio chi voleva andare a Pechino doveva passare per Parigi), non ha potenziato la flotta in modo adeguato, non ha conquistato quote di mercato. Air France si è messa al balcone a guardare, aspettando che il piano Fenice marcisse sino in fondo, senza poter intervenire perché a sua volta alle prese con una complessa ristrutturazione aziendale. Il Credit Suisse a fine 2013 aveva valutato tutta l’azienda tra zero e cento milioni di euro. Il dubbio l’ha risolto Air France cancellando dal bilancio ogni cifra riguardante il suo 25% e decidendo di non voler apportare altri capitali a un’azienda praticamente fallita. Mentre persino Intesa San Paolo si interroga sul come proseguire nell’avventura, e i soci non vedono l’ora di abbandonare la nave che affonda, il “capitano coraggioso” Roberto Colaninno annuncia di lasciare tutti gli incarichi per dedicarsi solo alla sua Piaggio, che comprò coi soldi versati dall’incauto Tronchetti Provera per inseguire il sogno Telecom. Nel defilarsi, Colaninno ha ammesso che per Alitalia ci sono stati errori nella strategia e nel progetto. Ma a inizio 2014 ci ripensa e rimane presidente per gestire le ultime stazioni della via crucis. Appare a tutti chiaro che l’unica soluzione per scongiurare la bancarotta ed evitare che l’Italia resti senza collegamenti aerei è quella di rifilarla a una compagnia estera. Difatti si parla di compagnie cinesi o arabe, ma è solo chiacchiericcio a vanvera. Quando poi i giornali sussurrano che arriveranno i russi, Aerflot spara sulla povera Alitalia agonizzante dichiarando di non essere interessata né a finanziare, né a partecipare a qualsiasi forma di alleanza. Dopo uno stillicidio di ipotesi, annunci, parole in libertà si riesce a fatica a completare un aumento di capitale per fine 2013. E visto che alcuni dei patriot i se ne sono ben guardati dallo scucire altro denaro, lo Stato ha dovuto far entrare 75 milioni delle Poste italiane nelle casse di Alitalia (ormai una società privata è bene ricordarlo). L’intervento pubblico ha costituito il finale grottesco di una farsa che ha fatto ridere il mondo intero. Ovviamente Air France non ha versato un centesimo e se ne è andata per sempre, ma qualche politico da strapazzo ha avuto ancora il coraggio di inveire contro “i francesi” strillando che noi baldi italioti avremmo tranquillamente fatto a meno della loro presenza. Poi il solito ennesimo “piano industriale”, l’annuncio di altri duemila esuberi, ma soprattutto la certezza che le continue iniezioni di soldi possono solo assicurare la sopravvivenza per qualche mese. Siamo a metà del 2014 e il salvatore si materializza in Ethiad, il vettore di Abu Dhabi, che ha denaro da buttare e si dice pronto alla scommessa di rianimare il moribondo. Questa volta nessuno osa fiatare, né i sindacati, né la solita schiera di politicanti senza arte né parte, ma sempre pronti a ululare secondo convenienza di scuderia. Persino la Lega tace, anche se la principale linea aerea italiana sta per finire nelle mani di un paese islamico.

Ethiad pone condizioni non discutibili: altri esuberi di personale, riduzione degli aerei, risparmi drastici ma soprattutto cambiamento totale di strategia. Sono le rotte nazionali a essere penalizzate, a favore del lungo raggio. Di fronte al tracollo imminente, Ethiad non trova opposizioni di sorta e a fine 2014 diventa di fatto il nuovo padrone della compagnia. Con il primo gennaio 2015 spegne i motori Cai e li accende Alitalia Sai, nuova società posseduta da Ethiad e dalla Mid Co. una società dove confluiscono Poste Italiane e alcuni reduci dei patrioti . La maggioranza si è però defilata, ha ingoiato le perdite e probabilmente maledetto il giorno in cui si erano fatti coinvolgere. Restano Intesa San Paolo e Unicredit (per non perdere del tutto l’investimento), i Benetton e ovviamente Colaninno. Sette anni dopo, rivedendo l’offerta Air France, appare incredibile l’autolesionismo, la colpevole superficialità e la sciocca arroganza con cui fu condotta l’intera vicenda. Alitalia può a tutti gli effetti essere considerata una storia “da manuale”. Di quale manuale si tratti, lo può stabilire ogni cittadino italiano, senza bisogno di aver conseguito una laurea alla Bocconi.

( Tratto da ITALIANI SCHIAVI PER SCELTA)
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UncleTom
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Re: IL LAVORO

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SMEMORANDA

GLI STRUMPTRUPPEN INSISTONO





Biglietti, licenza, commissario: ecco il futuro nero di Alitalia
Licenza di volo confermata solo per pochi giorni. Poi il commissario e le verifiche delle risorse economiche, pena lo stop ai biglietti
Luca Romano - Mar, 25/04/2017 - 16:30
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Il Cda di Alitalia ha avviato l'iter per il commissariamento, "prendendo atto" con "rammarico" del netto no dei dipendenti all'accordo del 14 aprile emerso dal referendum.

"Al momento" comunque verrà garantita l'operatività dei voli, ha assicurato la compagnia. Il Consiglio di amministrazione di Alitalia, riunitosi questa mattina, "data l'impossibilità di procedere alla ricapitalizzazione, ha deciso di avviare le procedure previste dalla legge e ha convocato un'assemblea dei soci per il 27 aprile al fine di deliberare sulle stesse", si legge in una nota diffusa al termine della riunione. L'assemblea di giovedì (che potrebbe slittare in seconda convocazione al 2 maggio) dovrebbe deliberare la richiesta di amministrazione straordinaria speciale, con l'uscita dei soci che a quel punto affiderebbero la compagnia al governo. L'esecutivo dovrà quindi nominare uno o più commissari il cui compito è cercare acquirenti o nuovi investitori, in assenza dei quali non gli resterebbe altra strada che chiedere il fallimento, con la procedura liquidatoria, due anni di cassa integrazione per i lavoratori e la cessione degli asset della compagnia.
Licenza e biglietti
L'Ente nazionale per l'aviazione civile si è detto disponibile a lasciare il certificato di operatore aereo (Coa) all'Alitalia in attesa che nell'arco di un paio di giorni venga nominato il commissario, dopodichè la licenza verrà sospesa e al commissario, verificato che abbia a disposizione le risorse sufficienti, verrà concessa un'autorizzazione temporanea rinnovata mese per mese. "Ci hanno detto - afferma il presidente dell'Enac, Vito Riggio - che un pò di soldi ce li hanno e per ora gli lasciamo la licenza in attesa che arrivi il commissario che dovrebbe avere le risorse sufficienti. Se non le avesse, dovremo interdire la possibilità di emettere biglietti. Una volta deciso il commissario il Coa viene sospeso e rilasciata un'autorizzazione temporanea rinnovabile mese per mese. L'importante è che arrivi subito il commissario in non più di due o tre giorni". Comunque uno degli elementi fondamentali da chiarire è se il governo è disponibile a dare un supporto economico, anche se temporaneo, per permettere la continuità aziendale. Tema che dovrebbe essere chiarito domani pomeriggio in occasione della riunione tra governo e le parti al ministero dello Sviluppo Economico. L'approvazione dell'accordo del 14 aprile, ricorda Alitalia, "avrebbe sbloccato un aumento di capitale da 2 miliardi, compresi oltre 900 milioni di nuova finanza, che sarebbero stati utilizzati per il rilancio della Compagnia".

http://www.ilgiornale.it/news/economia/ ... 89682.html
lilly
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Re: IL LAVORO

Messaggio da lilly »

In passato non si era già chiesto sacrifici ai lavoratori Alitalia?e da quel momento non sarebbe dovuto partire un piano industriale?I profitti di Alitalia dove sono finiti?nei subprime?mai visto che per fare investimenti bisogna chiedere ai lavoratori la rinuncia ai diritti di base.Alitalia deve essere parastatale e gestita da azionisti di altre compagnie estere basta che con questi capitani coraggiosi.Gli azionisti di Alitalia chi sono?Unicredit e Intesa S Paolo.Allora questi azionisti devono sparire dalla circolazione.Si separino banche commerciali e di investimento
UncleTom
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Re: IL LAVORO

Messaggio da UncleTom »

FALLITI,……FALLITI,……FALLITI.


Lo Stato italiano dichiara fallimento nella persona del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.


Via XX Settembre ha fatto sapere con chiarezza che non esiste l’ipotesi nazionalizzazione non è sul tavolo. “Non c’è alcuna possibilità – ha detto ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan – il governo ha fatto tutto il possibile per facilitare una soluzione”. Ma ora è emergenza liquidità. L’azienda ha bisogno di risorse fresche per garantire la continuità aziendale fino alla vendita. L’unica ipotesi sarebbe un intervento del governo anche se questo rischia di configurarsi come un aiuto di Stato agli occhi di Bruxelles.

Alitalia
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Alitalia - Società Aerea Italiana S.p.A. è la principale compagnia aerea italiana e seconda per numero di passeggeri trasportati in Italia. Nata nel 2014, inizia le attività il 1º gennaio del 2015 rilevando il marchio e gli asset operativi della ex compagnia aerea di bandiera, resasi azionista per permettere l'ingresso di Etihad Airways nel capitale.
La compagnia fa parte dell'alleanza SkyTeam e serve 97 destinazioni (nella stagione estiva)[1] principalmente in Italia, Europa, Nord America, Sud America, Asia e Medio Oriente, raggiunte dall'hub di Roma-Fiumicino e dalle altre basi presenti sul territorio nazionale italiano. Dispone di una sussidiaria regionale, Alitalia CityLiner.[2]
Alitalia fa inoltre parte della rete di Etihad Airways Partner (Etihad Equity Alliance) che comprende Etihad Airways, Air Berlin, Air Seychelles, Air Serbia, Darwin Airline-Etihad Regional e Jet Airways.
Il presidente della compagnia è Luca Cordero di Montezemolo, il vicepresidente è James Hogan (già presidente di Etihad Airways). Nel consiglio di amministrazione siedono anche Giovanni Bisignani, già amministratore delegato Alitalia – Linee Aeree Italiane dal 1989 al 1994 e direttore generale IATA, Antonella Mansi, ex presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Paolo Andrea Colombo, ex presidente Enel e Roberto Colaninno presidente di Alitalia - CAI nei suoi primi sei anni di vita.
A sostituire Silvano Cassano, dimessosi dal ruolo di amministratore delegato il 18 settembre 2015, il consiglio di amministrazione del 17 dicembre 2015 ha designato Cramer Ball quale AD della compagnia con decorrenza da marzo 2016. Australiano, 48 anni e con oltre 20 anni di esperienza nel settore dell'aviazione, Cramer Ball proviene dal vettore indiano Jet Airways dove ha ricoperto il ruolo di AD; in precedenza era stato AD di Air Seychelles. Nelle due compagnie ha guidato importanti processi di trasformazione.



Già da questa prima indicazione si capisce perché Alitalia è fallita.

Ma al fallimento concorrono tutte le classi politiche che si sono alternate in precedenza alla guida del Paese negli ultimi vent’anni.

Da domani mattina er sor conte Paolo, con tutto il governo e annessi e connessi, possono andare tranquillamente al mare a giocare con la sabbia, a tentare di costruire castelli di sabbia, ammesso che ci riescano.

Faranno comunque sempre meno danni all’intero Paese e a 60 milioni di abitanti, che se rimangono inutilmente ancorati al loro posto.

Hanno ridotto a zero ogni residuo di credibilità.

Ogni cosa possano dire suonerà falsa e stonata.

Urge ricambio di classe dirigente.




COME?

PROVATE A SUGGERIRLO VOI, PERCHE’ QUESTO STATO DELLE BANANE E’ TECNICAMENTE FALLITO.





Alitalia, “ricapitalizzazione impossibile. Via a procedure per commissariamento


di F. Q. | 25 aprile 2017

Economia
Il consiglio d'amministrazione straordinario ha sancito la propria indisponibilità a salvare l'azienda dopo il referendum tra i lavoratori che ha bocciato il piano lacrime e sangue proposto dalla compagnia. Tra i nomi Laghi e Gubitosi. Per la vendita spuntano i tedeschi di Lufthansa
di F. Q. | 25 aprile 2017
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Più informazioni su: Alitalia, Sindacati
La “ricapitalizzazione è impossibile“, la strada è quella del commissariamento. Tutto come preventivato: “Data l’impossibilità di procedere alla ricapitalizzazione”, il cda di Alitalia “ha deciso di avviare le procedure previste dalla legge e ha convocato un’assemblea dei soci per il 27 aprile al fine di deliberare sulle stesse”. Il consiglio di amministrazione, convocato oggi, “ha preso atto con rammarico” della decisione dei propri dipendenti di non approvare il pre-accordo firmato il 14 aprile tra l’azienda e i sindacati. E’ il primo risultato del referendum con cui il 67% dei dipendenti ha bocciato il piano lacrime e sangue proposto dalla compagnia per procedere alla ricapitalizzazione: “La compagnia tiene a precisare che il programma e l’operatività dei voli Alitalia non subiranno al momento modifiche”.
Erano 11.646 gli aventi diritto. I voti totali sono stati 10.173. Di questi, 6.816 hanno detto no all’accordo raggiunto il 14 aprile che prevedeva la riduzione degli esuberi tra il personale di terra a tempo indeterminato da 1.338 a 980 e la riduzione del taglio degli stipendi del personale navigante dal 30 all’8%. In cambio gli azionisti si impegnavano a immettere nel motore della compagnia complessivi 2 miliardi, dei quali circa 900 milioni di nuova finanza. Oltre alla garanzia pubblica da 200 milioni su eventuali flop del piano di risanamento.
L’arrivo del commissario apre la porta alla liquidazione nel giro di sei mesi. L’iter prevede che il cda deliberi la richiesta di amministrazione straordinaria speciale. Probabile la contestuale uscita dei soci per consegnare di fatto le chiavi dell’azienda al governo. Formalizzata la richiesta, il ministero dello Sviluppo Economico procederebbe con la nomina di uno o più commissari (fino a 3). I nomi che circolano con più insistenza, riporta La Repubblica, sono quelli di Enrico Laghi, commercialista romano già commissario dell’Ilva, o Luigi Gubitosi, direttore generale della Rai dal luglio 2012 all’agosto 2015.
Il loro compito sarebbe quello di elaborare un piano industriale o preparare il terreno a compagnie straniere disposte ad accollarsi i debiti dell’azienda in cambio delle poche rotte straniere che Alitalia ancora copre. Secondo La Stampa Etihad, azionista di maggioranza, ha fretta e sarebbe pronta a firmare con Lufthansa un accordo simile a quello con cui nell’autunno 2016 venne ceduto a Eurowings – low cost della compagnia tedesca – un terzo di Air Berlin.
Senza acquirenti o nuovi finanziatori al commissario non resterebbe infine che chiedere il fallimento della compagnia, con la conseguente dichiarazione di insolvenza da parte del Tribunale. Il curatore fallimentare inizierebbe la procedura liquidatoria, con 2 anni di cassa integrazione, Naspi e quindi disoccupazione per i lavoratori, contestualmente la cessione spezzatino degli asset della compagnia.
Via XX Settembre ha fatto sapere con chiarezza che non esiste l’ipotesi nazionalizzazione non è sul tavolo. “Non c’è alcuna possibilità – ha detto ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan – il governo ha fatto tutto il possibile per facilitare una soluzione”. Ma ora è emergenza liquidità. L’azienda ha bisogno di risorse fresche per garantire la continuità aziendale fino alla vendita. L’unica ipotesi sarebbe un intervento del governo anche se questo rischia di configurarsi come un aiuto di Stato agli occhi di Bruxelles.
“La Commissione Ue non ha ricevuto nessuna notifica di misure di sostegno a favore di Alitalia”, ha detto un portavoce dell’esecutivo comunitario. Per l’Italia resta comunque un’opzione “possibile” fare richiesta di aiuti di Stato per la compagnia aerea in quanto “sono passati più di 10 anni dall’ultima volta” che questa è stata fatta, spiegano fonti Ue. La Corte Ue aveva infatti riconosciuto la discontinuità tra le società Alitalia, ultima beneficiaria di aiuti, e Cai. In ogni caso – spiegano le fonti – qualunque operazione che non avvenga a condizioni di mercato, ma che comporti un intervento pubblico, incluso un prestito ponte o una liquidazione, dovrà comunque essere notificata a Bruxelles e sottoposta a una rigida condizionalità prevista dalle regole Ue sugli aiuti di stato e dalle linee guida su salvataggi e ristrutturazioni.
Nella serata di lunedì Paolo Gentiloni ha convocato un mini-cdm straordinario con il ministro dei Trasporti Graziano Delrio e il titolare dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Che, con un comunicato congiunto diramato nella notte e firmato con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, hanno espresso “rammarico e sconcerto per l’esito del referendum che mette a rischio il piano di ricapitalizzazione della compagnia”. L’esecutivo, dopo aver spinto per l’accordo azienda-sindacati, si ritrova con la sonora bocciatura da parte dei lavoratori, che in un colpo solo lo hanno sconfessato. Anche se hanno optato per una soluzione che non dà certezza sul futuro. “A questo punto l’obiettivo del Governo – si legge nel comunicato – in attesa di capire cosa decideranno gli attuali soci di Alitalia, sarà quello di ridurre al minimo i costi per i cittadini italiani e per i viaggiatori”.
L’Usb-Unione Sindacale di Base gongola per il risultato e chiama in causa la politica: “Si riaprano subito i negoziati; l’alternativa al commissariamento è la nazionalizzazione, ora si esprima anche la politica”. E ancora: “I lavoratori dopo 20 anni di sacrifici dicono no al governo, all’azienda e a Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Anpac e Anpav – afferma Usb in una nota – un dato eccezionale sotto tutti i punti di vista. La bocciatura della pre-intesa conferma appieno la nostra linea politica e, pertanto, ribadiamo al governo la nostra ferma richiesta di continuare i negoziati che, per quanto ci riguarda e a ragione, non avevano raggiunto un esito soddisfacente. Adesso si rispetti la volontà dei lavoratori”. Così lanciano un appello “a tutte le forze politiche e sociali di questo Paese affinché si percorrano tutte le ipotesi, senza escludere l’intervento diretto dello stato e la nazionalizzazione prevista dalla Costituzione italiana”.
“La liquidazione ed il fallimento non sono l’unica opzione – è la posizione espressa da Cub Trasporti – e il governo si disporrà al confronto, si troveranno le soluzioni alternative in grado di non continuare ad infierire sui lavoratori e, al tempo stesso, rilanciare la Compagnia di Bandiera. Se invece l’esecutivo drammatizzerà la situazione, la responsabilità ricadrà interamente sul governo stesso, complice di una strategia di ridimensionamento di Alitalia, in assoluta continuità con quanto fatto dalla politica nelle precedenti legislature”.
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Re: IL LAVORO

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Alitalia, fine dei decenni di consociativismo che hanno reso ridicola l’Italia


di Dario Balotta | 25 aprile 2017

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L’armata Brancaleone di Alitalia, una ventina di azionisti che controllano Cai (che detiene il 51% di Alitalia/Ethiad mentre l’altro 49% è in mano emiratina), non è riuscita a salvare l’ex compagnia aerea di bandiera. Con il risultato del referendum i lavoratori di Alitalia hanno detto inequivocabilmente che non si poteva andare avanti così. Perdite economiche, fallimentari piani industriali (l’ultimo semplicemente ridicolo), uso iniquo ed abuso degli ammortizzatori sociali, il continuo calo di quote di mercato passeggeri. I risultati di questi anni, che dovevano essere di rilancio, hanno invece ridotto in briciole quel che rimane di Alitalia.

La credibilità delle parti in campo è stata pari allo zero. Il Governo ha avuto paura di chiudere definitivamente con i sussidi pubblici (7 miliardi di euro in 40 anni) garantendo con un decreto ad hoc altri 300 milioni di garanzia, autorizzando Poste alla propria quota di ricapitalizzazione ed esercitando una forte pressione sulle banche per assicurare la decisiva quota degli altri soci Intesa e Unicredit. I sindacati escono scavalcati e delegittimati dal referendum. Il consociativismo di governo e sindacati è naufragato e finalmente si apre una stagione nuova dopo un’agonia durata decenni che ha reso ridicola l’Italia.

Si è distrutta ricchezza, anziché crearla, in un settore, come quello aereo, in forte espansione nel mondo. Per questo è inaccettabile qualsiasi nuova ipotesi di nazionalizzazione. Ora il Governo si deve limitare a garantire rapide procedure fallimentari e le tutele sociali necessarie. Il referendum è avvenuto su tre presupposti sbagliati.

1) Le perdite sono nettamente superiori a quelle dichiarate nel conto economico del 2015 grazie ad un artificio di bilancio. Sono almeno 35 i milioni che vengono portati a patrimonio, mentre invece sono spese d’esercizio. Cifra consistente che darebbe amare sorprese e condizionerà gli esercizi futuri. Anche i ricavi da terzi sono stati gonfiati da operazioni infra-gruppo per ridurre le perdite.

2) Il nuovo piano industriale di rilancio non è all’altezza della situazione. È impossibile ridurre i costi operativi e i volumi dell’offerta (meno aerei e meno personale) e allo stesso tempo aumentare i ricavi come prevedeva l’ultimo piano industriale. Inoltre il piano non dice come aggredire il mercato di breve raggio in mano alle low cost, con quali strutture e con quali procedure organizzative. E neppure viene spiegato come si potranno ridurre i costi di handling e la bassa efficienza nella base di armamento di Alitalia, Fiumicino.

3) La proprietà di Fiumicino (Atlantia) è in conflitto d’interesse, essendo anche azionista di Alitalia. Dove ritrova maggior vantaggio economico? Comprando servizi come Alitalia o vendendoli come Atlantia? Sta di fatto che Fiumicino ha aperto massicciamente ai voli low cost facendo convivere agli stessi terminal segmenti di mercato diversi con ripetuti momenti di congestione che abbassano ulteriormente la produttività dei voli delle compagnie tradizionali. Perdendo 7 milioni di passeggeri in 10 anni (2005-2015), mentre tutte le altre compagnie tradizionali e low cost (Air France-KLM, Ryanair, Lufthansa) li hanno aumentati.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04 ... a/3543246/
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Re: IL LAVORO

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EPPURE……………………………………………


Nessun abitante dello stivalone, sano di mente e di corpo:

1) Ti comprebbe mai un auto usata, con una portiera sfondata e senza una ruota al prezzo di un’auto nuova.

2) Al mercato comprerebbe le mele se presentano segni evidenti di essere guaste.

3) In un negozio salumi, carne, o formaggio con la muffa.

4) Bottiglie di vino senza il tappo.

5) Un paio di occhiali da sole o da vista con una lente sola quando gliene servono due.

6) Calzini bucati, camice e golf macchiati d’unto.

7) Un televisore con lo schermo rotto

8) Un blocco notes o un quaderno già usato

9) Una lampadina senza filamento

10) Le bretelle per sorreggere i pantaloni con un aggancio solo


EPPURE……………………………………………


In politica si fa fottere regolarmente da una classe dirigente inetta e truffaldina-





2 » ECONOMIA
………………………………….. | IL FATTO QUOTIDIANO | Mercoledì 26 Aprile 2017

DAL PIANO “FENICE”
A OGGI Cimoli, Colaninno, B.
Passera etc. Gli attori
di un lungo disastro


ERA IL 2004 quando Silvio Berlusconi nominò al vertice di Alitalia l’ingegnere chimico Giancarlo Cimoli da Fivizzano (Massa Carrara), che aveva già lasciato le Ferrovie in condizioni disastrose. Cimoli prometteva un bilancio in pareggio nel 2006 e in attivo nel 2008, ma dopo appena un paio d’anni di conti in rosso aveva già cambiato radicalmente idea: “Questa compagnia più vola e più perde”. Deve averci messo anche del suo, Cimoli, almeno secondo i giudici del tribunale di Roma che nel 2015 l’hanno condannato a otto anni e otto mesi per bancarotta per dissipazione, più 240 mila euro di multa e un risarcimento da 160 milioni. Così nel 2008 la patata bollente di Alitalia finì nelle mani di Romano Prodi, per la seconda volta a Palazzo Chigi. Il Professore tentò di vendere la compagnia ad Air France, ma Silvio Berlusconi, che di lì a poco avrebbe nuovamente vinto le elezioni, annunciò una fiera opposizione alla vendita ai francesi e i francesi, di conseguenza, rinunciarono all’affare. L’allora Cavaliere, tornato al governo, scelse di tenere l’azienda in mani italiane e si affidò ai “capitani coraggiosi” di Roberto Colaninno, reduce dall’avventura in Telecom. Nacque la newCo Cai, Compagnia aerea italiana. I “capitani coraggiosi” misero un miliardo per salvare Alitalia, ottenendo in cambio dal governo vari regali a spese del contribuente: tra loro c’era Emilio Riva che attendeva il via libera sui piani ambientali per l’Ilva di Taranto. Era il tempo del “Piano Fenice” elaborato dall’allora numero uno di Banca Intesa, Corrado Passera. Avrebbe dovuto rilanciare Cai/Alitalia che invece non ha più avuto bilanci in attivo: il piano Fenice a conti fatti costò allo Stato almeno 7,4 miliardi, se li avessimo regalati ai 20 mila dipendenti di Alitalia dell’epoca sarebbero stati 370 mila euro a testa. Ma la storia dei salvataggi annunciati non è finità lì. L’ultimo è stato Matteo Renzi che come primo atto di governo, il 20 febbraio 2014, affidò la decotta ex compagnia di bandiera agli sceicchi di Etihad, con la partecipazione straordinaria di Luca Cordero di Montezemolo. In due anni la compagnia italiana ha perso oltre un miliardo di euro
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