Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
13 feb 2018 14:47
COME PERDERE LE ELEZIONI: CONTINUANO GLI SCAZZI TRA I FINTI ALLEATI E BERLUSCONI
– L’ULTIMA DI SALVINI E MELONI: DICCI CHI SARA’ IL TUO PREMIER
– SILVIO NON SE LI FILA E COSTRINGE ROMANI AL RUGGITO DEL CONIGLIO
– IL CAV PENSA A COMIZI IN PIAZZA
Paola Di Caro per il Corriere della Sera
berlusconi salvini meloni
berlusconi salvini meloni
Continuano i botta e risposta tra i leader del centrodestra, praticamente su ogni tema. Ieri la polemica è stata sulla premiership. L' accordo di coalizione prevede che il partito che otterrà più voti avrà il diritto di proporre il premier, e se la Lega ha Salvini, FdI ha la Meloni. Che appunto passa la palla a Berlusconi, al quale annuncia che chiederà, «appena lo sentirò», di indicare il candidato a Palazzo Chigi di Forza Italia: «Lo considererei un atto di chiarezza. Sarebbe giusto conoscere il nome, non i nomi: sono per il massimo della chiarezza».
SALVINI BERLUSCONI MELONI
SALVINI BERLUSCONI MELONI
Berlusconi, che non può ricoprire cariche pubbliche fino al 2019 per effetto della legge Severino, ha sempre detto che «abbiamo tanti nomi in mente», e fatto esplicitamente quello di Antonio Tajani fra gli altri. E per Paolo Romani, capogruppo azzurro, dovrebbe essere più che sufficiente.
«Noi non siamo tenuti a dare risposte a nessuno. Abbiamo un leader, che è il nostro candidato, e che per ragioni di correttezza e cortesia la signora Meloni potrebbe evitare di tirare in ballo. Quando Berlusconi lo riterrà opportuno, farà il nome del nostro candidato, che peraltro è nominato dal capo dello Stato. Il nostro leader è in una condizione (per la legge Severino, ndr ) in cui né Salvini né la Meloni sono, quindi è un terreno da evitare, farebbero bene a non insistere».
renato brunetta paolo romani
renato brunetta paolo romani
Parole molto nette che fanno capire quanto lo stesso ex premier sia irritato per queste uscite, anche se in questo momento il suo obiettivo è solo quello di «vincere». Per questo, visto che i sondaggi sembrano non registrare ulteriori avanzate del centrodestra, l' idea che sta maturando nel suo entourage è che - a differenza di quanto si prevedeva - Berlusconi nell' ultima parte della campagna elettorale faccia anche uscite pubbliche: come e dove è allo studio, ma non è esclusa la partecipazione alla manifestazione del Carroccio a Milano il 24 «purché non sia strettamente di marchio leghista e per la premiership di Salvini».
COME PERDERE LE ELEZIONI: CONTINUANO GLI SCAZZI TRA I FINTI ALLEATI E BERLUSCONI
– L’ULTIMA DI SALVINI E MELONI: DICCI CHI SARA’ IL TUO PREMIER
– SILVIO NON SE LI FILA E COSTRINGE ROMANI AL RUGGITO DEL CONIGLIO
– IL CAV PENSA A COMIZI IN PIAZZA
Paola Di Caro per il Corriere della Sera
berlusconi salvini meloni
berlusconi salvini meloni
Continuano i botta e risposta tra i leader del centrodestra, praticamente su ogni tema. Ieri la polemica è stata sulla premiership. L' accordo di coalizione prevede che il partito che otterrà più voti avrà il diritto di proporre il premier, e se la Lega ha Salvini, FdI ha la Meloni. Che appunto passa la palla a Berlusconi, al quale annuncia che chiederà, «appena lo sentirò», di indicare il candidato a Palazzo Chigi di Forza Italia: «Lo considererei un atto di chiarezza. Sarebbe giusto conoscere il nome, non i nomi: sono per il massimo della chiarezza».
SALVINI BERLUSCONI MELONI
SALVINI BERLUSCONI MELONI
Berlusconi, che non può ricoprire cariche pubbliche fino al 2019 per effetto della legge Severino, ha sempre detto che «abbiamo tanti nomi in mente», e fatto esplicitamente quello di Antonio Tajani fra gli altri. E per Paolo Romani, capogruppo azzurro, dovrebbe essere più che sufficiente.
«Noi non siamo tenuti a dare risposte a nessuno. Abbiamo un leader, che è il nostro candidato, e che per ragioni di correttezza e cortesia la signora Meloni potrebbe evitare di tirare in ballo. Quando Berlusconi lo riterrà opportuno, farà il nome del nostro candidato, che peraltro è nominato dal capo dello Stato. Il nostro leader è in una condizione (per la legge Severino, ndr ) in cui né Salvini né la Meloni sono, quindi è un terreno da evitare, farebbero bene a non insistere».
renato brunetta paolo romani
renato brunetta paolo romani
Parole molto nette che fanno capire quanto lo stesso ex premier sia irritato per queste uscite, anche se in questo momento il suo obiettivo è solo quello di «vincere». Per questo, visto che i sondaggi sembrano non registrare ulteriori avanzate del centrodestra, l' idea che sta maturando nel suo entourage è che - a differenza di quanto si prevedeva - Berlusconi nell' ultima parte della campagna elettorale faccia anche uscite pubbliche: come e dove è allo studio, ma non è esclusa la partecipazione alla manifestazione del Carroccio a Milano il 24 «purché non sia strettamente di marchio leghista e per la premiership di Salvini».
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Re: Diario della caduta di un regime.
13 feb 2018 09:44
“LA LEGGE SULLE UNIONI CIVILI E’ SBAGLIATA” - BERLUSCONI SI ACCODA A SALVINI PER RECUPERARE VOTI TRA I BEOTI CONSERVATORI CHE ABBOCCANO ALLE TIRITERE SULLA “FAMIGLIA TRADIZIONALE” - VENDOLA LO SMASCHERA: “NON POTENDO SURCLASSARE LEGHISTI E FRATELLI D’ITALIA SULLA XENOFOBIA, RIMETTE IN CAMPO L’ANTICA PULSIONE OMOFOBA…”
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 166977.htm
Amedeo La Mattina per “la Stampa”
Berlusconi si è sempre dichiarato un liberale con tendenze libertarie dai tempi in cui era vicino al Psi di Craxi e imbarcava in maggioranza i radicali di Pannella. Fino a invitare Luxuria ad Arcore. Ha lasciato i suoi parlamentari liberi di votare secondo coscienza leggi e provvedimenti sui diritti civili. Ora l'aria che tira in questa campagna elettorale gli impone di tirare il freno su molti temi e sterzare a destra dove la concorrenza di Salvini e Meloni è agguerrita. Così ieri il Cavaliere ha detto che la legge sulle unioni civili è «sbagliata». E che abolirla non significa tornare alla situazione di prima. Non ha però spiegato come ciò sia possibile.
«Abbiamo il massimo rispetto per ogni scelta di vita e per ogni rapporto affettivo tra persone. Non vogliamo togliere diritti a nessuno ma la famiglia è una cosa diversa. Non abbiamo dato nessun giudizio morale su nessuno - ha spiegato - ma abbiamo difeso l' unicità della famiglia». Famiglia che è «l' unione tra un uomo e una donna orientata a fare figli ed è anche per questo che deve essere tutelata dallo Stato in un periodo in cui il nostro Paese ha problemi di crescita demografica».
francesca pascale vladimir luxuria gay party 62
francesca pascale vladimir luxuria gay party 62
L' inseguimento a destra, almeno a parole, del leader di Forza Italia anche sulle questioni della sicurezza e dell' immigrazione viene sottolineata da Renzi. Gli dà pure il consiglio di non strafare perché «inseguendo gli estremisti, gli italiani scelgono gli estremisti».
Per Nichi Vendola è uno dei tanti e fantasiosi travestimenti di Berlusconi, ma questo è «il più artificiale e anche il più disgustoso». «Non potendo surclassare leghisti e Fratelli d' Italia sul terreno sdrucciolevole della xenofobia, rimette in campo l' antica pulsione omofoba».
berlusconi trans
berlusconi trans
L' ex premier parla all' elettorato più conservatore, soprattutto quello concentrato al sud dove è decisiva la battaglia con i 5 Stelle, in quei collegi dove tutto si gioca su alcune centinaia di voti. Queste ultime settimane di campagna elettorale i candidati e i parlamentari di Forza Italia devono combattere un corpo a corpo con il M5S.
Sui loro cellulari è arrivato, direttamente da Arcore, il video trasmesso dal sito delle Iene (ma non mandato in onda da Mediaset) lo scoop sui rimborsi elettorali dei grillini. Con un messaggio chiaro: «Occorre smascherarli, sono dei buoni a nulla ma pericolosi». Anche il siluro contro le unioni civili fa parte di questa strategia.
berlusconi come vladimir luxuria trans gay
berlusconi come vladimir luxuria trans gay
Benedetto Della Vedova, radicale che una volta faceva parte del Pdl e ora è candidato con + Europa con Bonino, sostiene che Berlusconi si è «salvinizzato» definitivamente e della sua rivoluzione liberale non è rimasto più nulla. A non dare credito al leader azzurro è Pietro Grasso. Di come abolire le unioni civili «non ne ha nessuna idea né gli interessa. Il suo obiettivo è parlare alla parte più conservatrice del Paese».
“LA LEGGE SULLE UNIONI CIVILI E’ SBAGLIATA” - BERLUSCONI SI ACCODA A SALVINI PER RECUPERARE VOTI TRA I BEOTI CONSERVATORI CHE ABBOCCANO ALLE TIRITERE SULLA “FAMIGLIA TRADIZIONALE” - VENDOLA LO SMASCHERA: “NON POTENDO SURCLASSARE LEGHISTI E FRATELLI D’ITALIA SULLA XENOFOBIA, RIMETTE IN CAMPO L’ANTICA PULSIONE OMOFOBA…”
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 166977.htm
Amedeo La Mattina per “la Stampa”
Berlusconi si è sempre dichiarato un liberale con tendenze libertarie dai tempi in cui era vicino al Psi di Craxi e imbarcava in maggioranza i radicali di Pannella. Fino a invitare Luxuria ad Arcore. Ha lasciato i suoi parlamentari liberi di votare secondo coscienza leggi e provvedimenti sui diritti civili. Ora l'aria che tira in questa campagna elettorale gli impone di tirare il freno su molti temi e sterzare a destra dove la concorrenza di Salvini e Meloni è agguerrita. Così ieri il Cavaliere ha detto che la legge sulle unioni civili è «sbagliata». E che abolirla non significa tornare alla situazione di prima. Non ha però spiegato come ciò sia possibile.
«Abbiamo il massimo rispetto per ogni scelta di vita e per ogni rapporto affettivo tra persone. Non vogliamo togliere diritti a nessuno ma la famiglia è una cosa diversa. Non abbiamo dato nessun giudizio morale su nessuno - ha spiegato - ma abbiamo difeso l' unicità della famiglia». Famiglia che è «l' unione tra un uomo e una donna orientata a fare figli ed è anche per questo che deve essere tutelata dallo Stato in un periodo in cui il nostro Paese ha problemi di crescita demografica».
francesca pascale vladimir luxuria gay party 62
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L' inseguimento a destra, almeno a parole, del leader di Forza Italia anche sulle questioni della sicurezza e dell' immigrazione viene sottolineata da Renzi. Gli dà pure il consiglio di non strafare perché «inseguendo gli estremisti, gli italiani scelgono gli estremisti».
Per Nichi Vendola è uno dei tanti e fantasiosi travestimenti di Berlusconi, ma questo è «il più artificiale e anche il più disgustoso». «Non potendo surclassare leghisti e Fratelli d' Italia sul terreno sdrucciolevole della xenofobia, rimette in campo l' antica pulsione omofoba».
berlusconi trans
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L' ex premier parla all' elettorato più conservatore, soprattutto quello concentrato al sud dove è decisiva la battaglia con i 5 Stelle, in quei collegi dove tutto si gioca su alcune centinaia di voti. Queste ultime settimane di campagna elettorale i candidati e i parlamentari di Forza Italia devono combattere un corpo a corpo con il M5S.
Sui loro cellulari è arrivato, direttamente da Arcore, il video trasmesso dal sito delle Iene (ma non mandato in onda da Mediaset) lo scoop sui rimborsi elettorali dei grillini. Con un messaggio chiaro: «Occorre smascherarli, sono dei buoni a nulla ma pericolosi». Anche il siluro contro le unioni civili fa parte di questa strategia.
berlusconi come vladimir luxuria trans gay
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Benedetto Della Vedova, radicale che una volta faceva parte del Pdl e ora è candidato con + Europa con Bonino, sostiene che Berlusconi si è «salvinizzato» definitivamente e della sua rivoluzione liberale non è rimasto più nulla. A non dare credito al leader azzurro è Pietro Grasso. Di come abolire le unioni civili «non ne ha nessuna idea né gli interessa. Il suo obiettivo è parlare alla parte più conservatrice del Paese».
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Re: Diario della caduta di un regime.
Dagospia
Media e tv Politica Business Cafonal Cronache Sport
13 feb 2018 10:01
“NON SCOPATE CON I FASCISTI. NON FATELI RIPRODURRE” – LA FIGLIA DEL FONDATORE DI EMERGENCY CECILIA STRADA PUNTA ALL' ESTINZIONE DEI CAMERATI E SUI SOCIAL SCRIVE: "NON DATEGLIELA, ANCHE SOLO PER NON DAR LORO UNA GIOIA" - PIOGGIA DI INSULTI IN RETE: "SEI TE CHE DOVRESTI PAGARE PERCHÉ QUALCUNO TI SCOPI, FAI PENA, VERRETE SPAZZATI VIA"
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 166976.htm
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13 feb 2018 10:01
“NON SCOPATE CON I FASCISTI. NON FATELI RIPRODURRE” – LA FIGLIA DEL FONDATORE DI EMERGENCY CECILIA STRADA PUNTA ALL' ESTINZIONE DEI CAMERATI E SUI SOCIAL SCRIVE: "NON DATEGLIELA, ANCHE SOLO PER NON DAR LORO UNA GIOIA" - PIOGGIA DI INSULTI IN RETE: "SEI TE CHE DOVRESTI PAGARE PERCHÉ QUALCUNO TI SCOPI, FAI PENA, VERRETE SPAZZATI VIA"
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 166976.htm
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Re: Diario della caduta di un regime.
Dal Fatto Quotidiano di ieri:
“Il vizio della memoria”
: editoriale di Marco Travaglio
Aveva ragione Gherardo Colombo: la memoria è un vizio. Perché, al contrario del potere secondo Andreotti, logora chi ce l’ha. Chi non ce l’ha vive felice e sereno. Può ricadere continuamente negli stessi errori ed, essendosi dimenticato i precedenti, non farsi schifo neppure un po’. Me ne sto rendendo conto mentre termino in tutta fretta un libro che uscirà fra una decina di giorni: un promemoria sintetico ma completo del berlusconismo dimenticato, anzi rimosso. Nessuno dice qual è il vero scandalo di questa campagna elettorale. Non che i partiti facciano promesse irrealizzabili (l’hanno sempre fatto). Ma che i poteri marci e gattopardeschi si aggrappino per l’ennesima volta (la settima in 24 anni) a un vecchio malvissuto, pregiudicato e pluriprescritto, definito da una sentenza definitiva “delinquente naturale”, che dal 1994 ha devastato l’Italia governandola per 9 anni da solo e per altri 3 in condominio col centrosinistra, con l’unico obiettivo – peraltro centrato – di non finire in galera, salvare le sue aziende dalla bancarotta e guadagnare sempre più soldi a spese nostre. Tutto dimenticato, un po’ per la congenita smemoratezza dei milioni di italiani, un po’ perché chi dovrebbe rinfrescarci la memoria parla d’altro e gli regge il sacco.
L’altra sera, a Che tempo che fa, Alessandro Di Battista ha fatto sbiancare Fabio Fazio ricordando ciò che alla Rai (e ovviamente su Mediaset) è severamente vietato rammentare: “Siamo un Paese abbastanza ipocrita. Se io dicessi: ‘caXXo, Berlusconi ha pagato Cosa Nostra’, c’è qualcuno che si potrebbe addirittura scandalizzare per il ‘caXXo’”. Fazio, ritrovata per una volta la verve del virile contraddittore, l’ha interrotto: “Intanto lui l’ha querelata”. E Di Battista: “E vabbè, querelerà la Cassazione, che ha scritto che lui pagava Cosa Nostra e che Dell’Utri fece da intermediario tra lui e Cosa Nostra. Non lo dico io, ma una sentenza definitiva”. Poi, provvidenziale, è arrivata la pubblicità. Dieci giorni fa l’Espresso è uscito in copertina con uno scoop di Lirio Abbate sui diari segreti di Yasser Arafat. Il quale racconta che nel 1998 Berlusconi volle incontrarlo per chiedergli una cortesia: dichiarare che un bonifico del 1991 dalla sua All Iberian a uno dei tre conti svizzeri a Bettino Craxi era, in realtà, un contributo non al segretario Psi che aveva appena imposto la legge Mammì, ma all’Olp per la causa palestinese. Arafat dichiarò il falso a un giornale israeliano, anche se non aveva mai visto un euro dalla Fininvest, e in cambio gli arrivò un bonifico estero su estero. Avete sentito questa notizia ripresa da tg e talk show? Mai.
Chi ha memoria sa che negli stessi mesi il Caimano era impegnatissimo a comprarsi anche un’altra falsa testimonianza, per salvarsi da due processi: oltre a quello sulle tangenti da 23 miliardi di lire a Craxi, quello sulle quattro mazzette pagate fra il 1989 e il ’94 dai suoi manager alla Guardia di Finanza per ammorbidire quattro verifiche fiscali a Videotime, Mediolanum, Mondadori e Telepiù. Il testimone era David Mills, l’avvocato inglese che negli anni 80 aveva creato il comparto B della Fininvest, con 64 società (da All Iberian in giù) nei paradisi fiscali, sconosciute ai bilanci consolidati. Se Mills avesse detto ai giudici tutto ciò che sapeva, a B. la condanna come mandante delle mazzette ai finanzieri non l’avrebbe levata nessuno. Invece fu corrotto con 600 mila dollari e disse poco o nulla. Poi scrisse al suo commercialista Bob Drennan per confessare la mazzetta e spiegare di avere “risparmiato a Mr.B un mare di guai”. Risultato: condannato in primo grado per tutte e quattro le tangenti alle Fiamme Gialle, il Caimano si vide assolvere in appello per insufficienza di prove sull’ultima, la più recente, quella del ’94 per Telepiù: così le altre tre caddero in prescrizione. La Cassazione fece di più, assolvendolo per insufficienza di prove su tutto il fronte. Cosa che difficilmente avrebbe fatto, se Mills avesse detto la verità: in quel caso, B. sarebbe stato con ogni probabilità condannato in via definitiva, risultando pregiudicato fin dal 2000 (non solo dal 2014).
E tutte le sentenze successive avrebbero dovuto tener conto del suo status: niente attenuanti generiche (ben otto), niente prescrizione dimezzata, ma condanne à gogo. Insomma, sarebbe finito in galera senza uscirne più. Non solo: Mills sapeva bene che i fondi esteri erano serviti alla Fininvest per pagare le quote di Telepiù 1, 2 e 3 che B. aveva finto di cedere ad altri soci, ma che in realtà aveva continuato a possedere finanziando vari prestanome per simularne l’acquisto e così aggirare la Mammì, che gli consentiva di detenere solo il 10% della pay tv. Pena la perdita delle concessioni alle tv in chiaro. Se insomma fosse emerso perché la Fininvest corruppe i finanzieri affinché chiudessero un occhio sul vero proprietario di Telepiù, subito Canale5, Rete4 e Italia1 sarebbero state spente. E B. sarebbe stato rovinato. Invece, complice il centrosinistra, poté quotare Mediaset in Borsa nel ’96, scaricando sul mercato le sue montagne di debiti e salvando la baracca.
È per quella raffica di tangenti e per il suo monopolio mediatico in grado di ricattare e condizionare tutto e tutti, non certo per la sua abilità politica, che nel 2018 l’ottantunenne “delinquente naturale” è ancora sulla breccia e si appresta, se non a vincere le elezioni, a dare le carte pure del prossimo governo. Il fatto che nessuno, nel Pd e nella sinistra “radicale”, pronunci mai una parola su questi 24 anni di vergogne, la dice lunga sul livello di compromissione dei presunti avversari del Caimano. Se è vero che torna protagonista, costoro non hanno alcun diritto di lamentarsene. Noi sì. Con lui e soprattutto con loro.
“Il vizio della memoria”
: editoriale di Marco Travaglio
Aveva ragione Gherardo Colombo: la memoria è un vizio. Perché, al contrario del potere secondo Andreotti, logora chi ce l’ha. Chi non ce l’ha vive felice e sereno. Può ricadere continuamente negli stessi errori ed, essendosi dimenticato i precedenti, non farsi schifo neppure un po’. Me ne sto rendendo conto mentre termino in tutta fretta un libro che uscirà fra una decina di giorni: un promemoria sintetico ma completo del berlusconismo dimenticato, anzi rimosso. Nessuno dice qual è il vero scandalo di questa campagna elettorale. Non che i partiti facciano promesse irrealizzabili (l’hanno sempre fatto). Ma che i poteri marci e gattopardeschi si aggrappino per l’ennesima volta (la settima in 24 anni) a un vecchio malvissuto, pregiudicato e pluriprescritto, definito da una sentenza definitiva “delinquente naturale”, che dal 1994 ha devastato l’Italia governandola per 9 anni da solo e per altri 3 in condominio col centrosinistra, con l’unico obiettivo – peraltro centrato – di non finire in galera, salvare le sue aziende dalla bancarotta e guadagnare sempre più soldi a spese nostre. Tutto dimenticato, un po’ per la congenita smemoratezza dei milioni di italiani, un po’ perché chi dovrebbe rinfrescarci la memoria parla d’altro e gli regge il sacco.
L’altra sera, a Che tempo che fa, Alessandro Di Battista ha fatto sbiancare Fabio Fazio ricordando ciò che alla Rai (e ovviamente su Mediaset) è severamente vietato rammentare: “Siamo un Paese abbastanza ipocrita. Se io dicessi: ‘caXXo, Berlusconi ha pagato Cosa Nostra’, c’è qualcuno che si potrebbe addirittura scandalizzare per il ‘caXXo’”. Fazio, ritrovata per una volta la verve del virile contraddittore, l’ha interrotto: “Intanto lui l’ha querelata”. E Di Battista: “E vabbè, querelerà la Cassazione, che ha scritto che lui pagava Cosa Nostra e che Dell’Utri fece da intermediario tra lui e Cosa Nostra. Non lo dico io, ma una sentenza definitiva”. Poi, provvidenziale, è arrivata la pubblicità. Dieci giorni fa l’Espresso è uscito in copertina con uno scoop di Lirio Abbate sui diari segreti di Yasser Arafat. Il quale racconta che nel 1998 Berlusconi volle incontrarlo per chiedergli una cortesia: dichiarare che un bonifico del 1991 dalla sua All Iberian a uno dei tre conti svizzeri a Bettino Craxi era, in realtà, un contributo non al segretario Psi che aveva appena imposto la legge Mammì, ma all’Olp per la causa palestinese. Arafat dichiarò il falso a un giornale israeliano, anche se non aveva mai visto un euro dalla Fininvest, e in cambio gli arrivò un bonifico estero su estero. Avete sentito questa notizia ripresa da tg e talk show? Mai.
Chi ha memoria sa che negli stessi mesi il Caimano era impegnatissimo a comprarsi anche un’altra falsa testimonianza, per salvarsi da due processi: oltre a quello sulle tangenti da 23 miliardi di lire a Craxi, quello sulle quattro mazzette pagate fra il 1989 e il ’94 dai suoi manager alla Guardia di Finanza per ammorbidire quattro verifiche fiscali a Videotime, Mediolanum, Mondadori e Telepiù. Il testimone era David Mills, l’avvocato inglese che negli anni 80 aveva creato il comparto B della Fininvest, con 64 società (da All Iberian in giù) nei paradisi fiscali, sconosciute ai bilanci consolidati. Se Mills avesse detto ai giudici tutto ciò che sapeva, a B. la condanna come mandante delle mazzette ai finanzieri non l’avrebbe levata nessuno. Invece fu corrotto con 600 mila dollari e disse poco o nulla. Poi scrisse al suo commercialista Bob Drennan per confessare la mazzetta e spiegare di avere “risparmiato a Mr.B un mare di guai”. Risultato: condannato in primo grado per tutte e quattro le tangenti alle Fiamme Gialle, il Caimano si vide assolvere in appello per insufficienza di prove sull’ultima, la più recente, quella del ’94 per Telepiù: così le altre tre caddero in prescrizione. La Cassazione fece di più, assolvendolo per insufficienza di prove su tutto il fronte. Cosa che difficilmente avrebbe fatto, se Mills avesse detto la verità: in quel caso, B. sarebbe stato con ogni probabilità condannato in via definitiva, risultando pregiudicato fin dal 2000 (non solo dal 2014).
E tutte le sentenze successive avrebbero dovuto tener conto del suo status: niente attenuanti generiche (ben otto), niente prescrizione dimezzata, ma condanne à gogo. Insomma, sarebbe finito in galera senza uscirne più. Non solo: Mills sapeva bene che i fondi esteri erano serviti alla Fininvest per pagare le quote di Telepiù 1, 2 e 3 che B. aveva finto di cedere ad altri soci, ma che in realtà aveva continuato a possedere finanziando vari prestanome per simularne l’acquisto e così aggirare la Mammì, che gli consentiva di detenere solo il 10% della pay tv. Pena la perdita delle concessioni alle tv in chiaro. Se insomma fosse emerso perché la Fininvest corruppe i finanzieri affinché chiudessero un occhio sul vero proprietario di Telepiù, subito Canale5, Rete4 e Italia1 sarebbero state spente. E B. sarebbe stato rovinato. Invece, complice il centrosinistra, poté quotare Mediaset in Borsa nel ’96, scaricando sul mercato le sue montagne di debiti e salvando la baracca.
È per quella raffica di tangenti e per il suo monopolio mediatico in grado di ricattare e condizionare tutto e tutti, non certo per la sua abilità politica, che nel 2018 l’ottantunenne “delinquente naturale” è ancora sulla breccia e si appresta, se non a vincere le elezioni, a dare le carte pure del prossimo governo. Il fatto che nessuno, nel Pd e nella sinistra “radicale”, pronunci mai una parola su questi 24 anni di vergogne, la dice lunga sul livello di compromissione dei presunti avversari del Caimano. Se è vero che torna protagonista, costoro non hanno alcun diritto di lamentarsene. Noi sì. Con lui e soprattutto con loro.
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Re: Diario della caduta di un regime.
.....NAVIGARE IN UN MARE CHE DA AZZURRO E' DIVENTATO MARRON..
CONFCOMMERCIO Il comizio è uno show comico invovolontario
Dal Fatto Quotidiano di ieri:
B. è in stato confusionale.
ma lo applaudono lo stesso
https://www.pressreader.com/italy/il-fa ... 9859820261
^^^^^^^^^^^
Dal Fatto Quotidiano di oggi:
LA SOLITA GAG l'ex cavaliere ricicla lo spot del maggio 2001 a "Porta a Porta"
Il contratto di B. da Vespa:
ritorno sul luogo del delitto
^^^^^^^^^^^^
Dalla prima pagina del Bufaliere:
.............COME NEL 2001
Berlusconi rifirma da Vespa
il contratto con gli italiani
Il Cavaliere: senza vincitori si ritorna al voto col Rosatellum
UNA MINACCIA COME QUELLA DI PINOCCHIO MUSSOLONI (SE PERDO IL REFERENDUM SMETTO DI FARE POLITICA)
QUESTA CLASSE DIRIGENTE E' CONVINTA CHE TUTTI GLI ITALIANI SIANO SCEMI. ALTRIMENTI NON SI AZZARDEREBBERO A TANTO.
ANDREOTTI, MALGRADO TUTTO, NON AVREBBE AMI AZZA RDATO A TANTO
CONFCOMMERCIO Il comizio è uno show comico invovolontario
Dal Fatto Quotidiano di ieri:
B. è in stato confusionale.
ma lo applaudono lo stesso
https://www.pressreader.com/italy/il-fa ... 9859820261
^^^^^^^^^^^
Dal Fatto Quotidiano di oggi:
LA SOLITA GAG l'ex cavaliere ricicla lo spot del maggio 2001 a "Porta a Porta"
Il contratto di B. da Vespa:
ritorno sul luogo del delitto
^^^^^^^^^^^^
Dalla prima pagina del Bufaliere:
.............COME NEL 2001
Berlusconi rifirma da Vespa
il contratto con gli italiani
Il Cavaliere: senza vincitori si ritorna al voto col Rosatellum
UNA MINACCIA COME QUELLA DI PINOCCHIO MUSSOLONI (SE PERDO IL REFERENDUM SMETTO DI FARE POLITICA)
QUESTA CLASSE DIRIGENTE E' CONVINTA CHE TUTTI GLI ITALIANI SIANO SCEMI. ALTRIMENTI NON SI AZZARDEREBBERO A TANTO.
ANDREOTTI, MALGRADO TUTTO, NON AVREBBE AMI AZZA RDATO A TANTO
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Re: Diario della caduta di un regime.
.....NAVIGARE IN UN MARE CHE DA AZZURRO E' DIVENTATO MARRON..
Dal vice Bufalier di oggi, pagina 10:
......CAMPAGNA ELETTORALE
Colore diverso, stesse modalità
Che fascisti questi progressisti
Non fanno altro che picchiare
Dicono di credere nella libertà, nella tolleranza e nell'uguaglianza
Ma intanto aggrediscono e tentano di zittire chi non la pensa come loro
STESSI TEMI DELL'INIZIO DEGLI ANNI VENTI DEL NOVECENTO.
AVEVA RAGIONE DA VENDERE PRIMO LEVI, QUANDO CI HA INSEGNATO CHE:
CHI DIMENTICA LA STORIA E' COSTRETTO A RIVIVERLA
Dal vice Bufalier di oggi, pagina 10:
......CAMPAGNA ELETTORALE
Colore diverso, stesse modalità
Che fascisti questi progressisti
Non fanno altro che picchiare
Dicono di credere nella libertà, nella tolleranza e nell'uguaglianza
Ma intanto aggrediscono e tentano di zittire chi non la pensa come loro
STESSI TEMI DELL'INIZIO DEGLI ANNI VENTI DEL NOVECENTO.
AVEVA RAGIONE DA VENDERE PRIMO LEVI, QUANDO CI HA INSEGNATO CHE:
CHI DIMENTICA LA STORIA E' COSTRETTO A RIVIVERLA
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Re: Diario della caduta di un regime.
....LA LOTTA PER LA POLTRONA, CHE NEL FRATTEMPO E' DIVENTATA DI COLOR MARRON.....
...................MA NON IMPORTA. L'IMPORTANTE E' SEDERCISI SOPRA
E BORRELLI FONDA UN ALTRO PARTITO
Case, soldi e amici
Ecco i misteri grillini
I GUAI DEI CINQUE STELLE La pista dei soldi
Gli strani legami
tra i rimborsi M5s
e quelle società
Vicine a Casaleggio
Gli eletti grillini devono versare parte dello
stipendio a un fondo. Lo stesso a cui hanno
attinto aziende della Confapri, la piccola
Confindustria sponsorizzata da Beppe & Co.
...................MA NON IMPORTA. L'IMPORTANTE E' SEDERCISI SOPRA
E BORRELLI FONDA UN ALTRO PARTITO
Case, soldi e amici
Ecco i misteri grillini
I GUAI DEI CINQUE STELLE La pista dei soldi
Gli strani legami
tra i rimborsi M5s
e quelle società
Vicine a Casaleggio
Gli eletti grillini devono versare parte dello
stipendio a un fondo. Lo stesso a cui hanno
attinto aziende della Confapri, la piccola
Confindustria sponsorizzata da Beppe & Co.
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Re: Diario della caduta di un regime.
......UNO SPORT NAZIONALE ITALIANO
Dalla prima pagina del Corsera:
Promesse e non governo
L’ideologia del galleggiare
Se gli elettori si aspettano che le promesse fatte vengano mantenute, almeno in gran parte, nessuno si azzarderebbe a spararle troppo grosse. Ma in una Repubblica fondata sull’immobilismo quale è la nostra, invece, le cose vanno diversamente
di Angelo Panebianco
shadow
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Immaginate di assistere a una campagna elettorale che si svolga in una «democrazia governante». In un siffatto contesto ci si aspetta che i vincitori siano in grado di dare vita a un governo sorretto da una maggioranza coesa, entrambi (governo e maggioranza) dominati da un forte capo politico. Nel Parlamento uscito dalle elezioni l’opposizione avrebbe la facoltà di denunciare pubblicamente le eventuali malefatte del governo ma non di condizionare le sue scelte. La pubblica amministrazione sarebbe un docile strumento al servizio dell’esecutivo. Inoltre, primato e autonomia della politica rappresentativa verrebbero rispettati dalle magistrature (di ogni tipo). Queste ultime sarebbero solo i (silenziosi e discreti) «cani da guardia» messi lì per impedire al governo di compiere atti incostituzionali e, in particolare, di minacciare le fondamentali libertà dei cittadini. Si tratterebbe di una democrazia governante perché il vincitore delle elezioni non solo potrebbe prendere decisioni riguardanti i principali nodi della convivenza civile ma (addirittura, niente meno) avrebbe anche la capacità di dare attuazione a quelle decisioni. Senza dover subire i veti, più o meno potenti e più o meno insuperabili, di chiunque. In una tale democrazia la campagna elettorale sarebbe improntata a una certa cautela. E anche a una certa sobrietà.
In quel mondo, infatti, ci si aspetta di essere creduti dagli elettori (ma anche dai governi stranieri, dagli investitori internazionali, eccetera) quando si promette questo o quello. Ci si aspetta di essere creduti, ad esempio, se si promette di tagliare la spesa pubblica e le tasse, di modificare le modalità di allocazione delle risorse pubbliche in certe parti del Paese, di rendere più efficiente la pubblica amministrazione o di restituire la scuola pubblica (se mai se ne fosse allontanata) alla sua ragione sociale, quella di trasmettere, con efficacia, conoscenze. Poiché in tale mondo gli elettori si aspettano che le promesse fatte vengano mantenute, almeno in gran parte, nessuno si azzarderebbe a spararle troppo grosse.
In una Repubblica fondata sull’immobilismo quale è la nostra, invece, le cose vanno diversamente. Tutti sanno che, nella migliore delle ipotesi, nel più roseo degli scenari, dopo le elezioni si formerà (se si formerà) un governo che sarà comunque debolissimo, precariamente sorretto da una maggioranza scollata e divisa, assediato da poteri di veto di ogni tipo. Altro che democrazia governante. Nessuno qui si aspetta davvero che le tante promesse vengano mantenute. Qui le parole in libertà e le promesse da marinaio non costano niente. Sfortunatamente, una Repubblica fondata sull’immobilismo, sulla non-decisione, produce, alla lunga, miscele elettorali pericolose. Sulla scena pubblica si aggirano tre personaggi.
Il primo, che ha meno seguito di tutti, è quello specializzato in «prediche inutili», quello che chiede di introdurre un po’ di razionalità nella campagna elettorale. Si distingue – come una mosca nera su un lenzuolo bianco – perché dice cose ragionevoli e condivisibili dalle persone di buon senso. Cose del tipo: «non bisogna interrompere il cammino delle riforme» oppure «bisogna porre rimedio» a questa o a quella manchevolezza della nostra politica pubblica in questo o quel settore. Chi scrive, essendo un socio dello stesso club, ha molta simpatia per gli specializzati in prediche inutili. Il seguito maggiore però spetta agli altri due personaggi: il demagogo vero e quello finto. Il demagogo vero è colui che sfrutta la rabbia e la frustrazione che una Repubblica fondata sull’immobilismo produce a getto continuo. Poiché parla alla pancia e non al cervello degli arrabbiati, egli non ha alcun bisogno di rendere verosimili le sue promesse, può garantire palingenesi, rigenerazioni totali. Peraltro, benché egli si rivolga alla loro pancia, forse neppure gli arrabbiati, in cuor loro, gli credono davvero. Però lo riconoscono come un veicolo per sfogare la rabbia, per prendere a calci non solo i vituperati politici ma anche, più in generale, ogni autorità (per esempio, quella che discende dalla competenza) e il principio stesso di autorità. Per giunta, quanto più il demagogo affina le sue capacità, tanto più riesce a combinare sapientemente appelli alla rabbia, invocazione della palingenesi e allettanti promesse di ridistribuzione di risorse (ad esempio, il reddito di cittadinanza). Ma non c’è soltanto il demagogo vero. Contro di lui si ergono anche diversi demagoghi finti. Sarebbero (e sono per lo più) politici sufficientemente esperti e competenti, persone che conoscono le durezze e le difficoltà del governare in una «democrazia difficile» come la nostra. Solo che non possono dire la verità. La presenza dei demagoghi veri li obbliga a travestirsi, a mettersi nasi e barbe finte, a impegnarsi in gare di demagogia .
Molti pensano (e qualcuno dice): non c’è da preoccuparsi troppo. In una democrazia non decidente, in una Repubblica fondata sull’immobilismo, condizionata dai poteri di veto, le promesse elettorali contano ben poco. I governi poi dovranno arrabattarsi, subendo i soliti condizionamenti, interni e internazionali, come hanno sempre fatto. Il ragionamento è giusto ma solo fino a un certo punto. In primo luogo perché ci sono ambiti in cui l’immobilismo non paga più, ambiti in cui veti incrociati e poteri di veto provocano solo danni. Frenano, soprattutto, lo sviluppo economico. In secondo luogo perché l’immobilismo, alla lunga, logora la democrazia, riduce pericolosamente le sue riserve di consenso. «Sopravvivere senza governare» era il titolo di un bel libro (l’autore è il politologo Giuseppe Di Palma) di molti anni fa dedicato all’Italia. È stata questa la specialità italiana. Apprezzata, in realtà, dalla maggior parte dei nostri connazionali, che hanno mostrato, in varie occasioni, di essere indisponibili a vivere in una autentica democrazia governante. Tuttavia, navighiamo oggi in acque internazionali assai più turbolente di quelle di un tempo. Non è scontato che si possa ancora galleggiare a lungo usando i vecchi metodi.
15 febbraio 2018 (modifica il 15 febbraio 2018 | 21:52)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/opinioni/18_febb ... 7eeb.shtml
Dalla prima pagina del Corsera:
Promesse e non governo
L’ideologia del galleggiare
Se gli elettori si aspettano che le promesse fatte vengano mantenute, almeno in gran parte, nessuno si azzarderebbe a spararle troppo grosse. Ma in una Repubblica fondata sull’immobilismo quale è la nostra, invece, le cose vanno diversamente
di Angelo Panebianco
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Immaginate di assistere a una campagna elettorale che si svolga in una «democrazia governante». In un siffatto contesto ci si aspetta che i vincitori siano in grado di dare vita a un governo sorretto da una maggioranza coesa, entrambi (governo e maggioranza) dominati da un forte capo politico. Nel Parlamento uscito dalle elezioni l’opposizione avrebbe la facoltà di denunciare pubblicamente le eventuali malefatte del governo ma non di condizionare le sue scelte. La pubblica amministrazione sarebbe un docile strumento al servizio dell’esecutivo. Inoltre, primato e autonomia della politica rappresentativa verrebbero rispettati dalle magistrature (di ogni tipo). Queste ultime sarebbero solo i (silenziosi e discreti) «cani da guardia» messi lì per impedire al governo di compiere atti incostituzionali e, in particolare, di minacciare le fondamentali libertà dei cittadini. Si tratterebbe di una democrazia governante perché il vincitore delle elezioni non solo potrebbe prendere decisioni riguardanti i principali nodi della convivenza civile ma (addirittura, niente meno) avrebbe anche la capacità di dare attuazione a quelle decisioni. Senza dover subire i veti, più o meno potenti e più o meno insuperabili, di chiunque. In una tale democrazia la campagna elettorale sarebbe improntata a una certa cautela. E anche a una certa sobrietà.
In quel mondo, infatti, ci si aspetta di essere creduti dagli elettori (ma anche dai governi stranieri, dagli investitori internazionali, eccetera) quando si promette questo o quello. Ci si aspetta di essere creduti, ad esempio, se si promette di tagliare la spesa pubblica e le tasse, di modificare le modalità di allocazione delle risorse pubbliche in certe parti del Paese, di rendere più efficiente la pubblica amministrazione o di restituire la scuola pubblica (se mai se ne fosse allontanata) alla sua ragione sociale, quella di trasmettere, con efficacia, conoscenze. Poiché in tale mondo gli elettori si aspettano che le promesse fatte vengano mantenute, almeno in gran parte, nessuno si azzarderebbe a spararle troppo grosse.
In una Repubblica fondata sull’immobilismo quale è la nostra, invece, le cose vanno diversamente. Tutti sanno che, nella migliore delle ipotesi, nel più roseo degli scenari, dopo le elezioni si formerà (se si formerà) un governo che sarà comunque debolissimo, precariamente sorretto da una maggioranza scollata e divisa, assediato da poteri di veto di ogni tipo. Altro che democrazia governante. Nessuno qui si aspetta davvero che le tante promesse vengano mantenute. Qui le parole in libertà e le promesse da marinaio non costano niente. Sfortunatamente, una Repubblica fondata sull’immobilismo, sulla non-decisione, produce, alla lunga, miscele elettorali pericolose. Sulla scena pubblica si aggirano tre personaggi.
Il primo, che ha meno seguito di tutti, è quello specializzato in «prediche inutili», quello che chiede di introdurre un po’ di razionalità nella campagna elettorale. Si distingue – come una mosca nera su un lenzuolo bianco – perché dice cose ragionevoli e condivisibili dalle persone di buon senso. Cose del tipo: «non bisogna interrompere il cammino delle riforme» oppure «bisogna porre rimedio» a questa o a quella manchevolezza della nostra politica pubblica in questo o quel settore. Chi scrive, essendo un socio dello stesso club, ha molta simpatia per gli specializzati in prediche inutili. Il seguito maggiore però spetta agli altri due personaggi: il demagogo vero e quello finto. Il demagogo vero è colui che sfrutta la rabbia e la frustrazione che una Repubblica fondata sull’immobilismo produce a getto continuo. Poiché parla alla pancia e non al cervello degli arrabbiati, egli non ha alcun bisogno di rendere verosimili le sue promesse, può garantire palingenesi, rigenerazioni totali. Peraltro, benché egli si rivolga alla loro pancia, forse neppure gli arrabbiati, in cuor loro, gli credono davvero. Però lo riconoscono come un veicolo per sfogare la rabbia, per prendere a calci non solo i vituperati politici ma anche, più in generale, ogni autorità (per esempio, quella che discende dalla competenza) e il principio stesso di autorità. Per giunta, quanto più il demagogo affina le sue capacità, tanto più riesce a combinare sapientemente appelli alla rabbia, invocazione della palingenesi e allettanti promesse di ridistribuzione di risorse (ad esempio, il reddito di cittadinanza). Ma non c’è soltanto il demagogo vero. Contro di lui si ergono anche diversi demagoghi finti. Sarebbero (e sono per lo più) politici sufficientemente esperti e competenti, persone che conoscono le durezze e le difficoltà del governare in una «democrazia difficile» come la nostra. Solo che non possono dire la verità. La presenza dei demagoghi veri li obbliga a travestirsi, a mettersi nasi e barbe finte, a impegnarsi in gare di demagogia .
Molti pensano (e qualcuno dice): non c’è da preoccuparsi troppo. In una democrazia non decidente, in una Repubblica fondata sull’immobilismo, condizionata dai poteri di veto, le promesse elettorali contano ben poco. I governi poi dovranno arrabattarsi, subendo i soliti condizionamenti, interni e internazionali, come hanno sempre fatto. Il ragionamento è giusto ma solo fino a un certo punto. In primo luogo perché ci sono ambiti in cui l’immobilismo non paga più, ambiti in cui veti incrociati e poteri di veto provocano solo danni. Frenano, soprattutto, lo sviluppo economico. In secondo luogo perché l’immobilismo, alla lunga, logora la democrazia, riduce pericolosamente le sue riserve di consenso. «Sopravvivere senza governare» era il titolo di un bel libro (l’autore è il politologo Giuseppe Di Palma) di molti anni fa dedicato all’Italia. È stata questa la specialità italiana. Apprezzata, in realtà, dalla maggior parte dei nostri connazionali, che hanno mostrato, in varie occasioni, di essere indisponibili a vivere in una autentica democrazia governante. Tuttavia, navighiamo oggi in acque internazionali assai più turbolente di quelle di un tempo. Non è scontato che si possa ancora galleggiare a lungo usando i vecchi metodi.
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Crisi, colpa nostra? Bifarini: dai media, soltanto fake news
Scritto il 16/2/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».
Le privatizzazioni come soluzione? Giammai: «Privatizzare vuol dire svendere il nostro bene pubblico senza risolvere il problema della crisi e del debito attuale, mettendolo per lo più in mano ad investitori stranieri», spiega Ilaria Bifarini. «Questo ha ripercussioni notevoli sul livello dei salari (che entrano nel sistema perverso della concorrenza sfrenata, propria del modello neoliberista) e sull’abbassamento ulteriore della qualità dei prodotti e dei servizi». Privatizzando, «si vuole estromettere il ruolo dello Stato dalla politica economica: questo è quanto suggerisce l’Unione Europea per risanare il debito pubblico». In realtà, nonostante le devastanti privatizzazioni degli ultimi anni, il debito pubblico continua a crescere. «Quindi, privare il proprio paese di asset pubblici fondamentali per il proprio sviluppo e per la fruibilità e la qualità dei servizi non è altro che controproducente per l’economia di un paese». Cosa rispondere a chi afferma anche che gli aiuti pubblici uccidono la concorrenza e il Pil? «In realtà è proprio vero il contrario: infatti esiste una relazione diretta tra le dimensioni del governo e il reddito pro capite dei cittadini. Perché un’economia aperta, sviluppata e competitiva possa prosperare, è necessario che ci sia un intervento da parte dello Stato. E che quindi uno Stato offra tutele alle fasce di popolazione più debole in modo che possa funzionare la dinamica del libero mercato».
Attualmente, la “teologia” neoliberista imposta dall’Ue fa in modo che avvega l’esatto opposto: i soli aiuti pubblici «sono rivolti ai salvataggi delle banche». Per l’economista, «siamo di fronte a un sistema bancario ipertrofico che non produce ricchezza reale ma soltanto speculazione, evade ed elude i propri profitti». E i cittadini «si trovano a dover finanziare un simile sistema che è deleterio per la crescita e per lo sviluppo». E se la globalizzazione «ha portato indiscutibili miglioramenti nell’ambito dello sviluppo economico e del progresso industriale», oggi ci troviamo in una fase successiva, la cosiddetta “iperglobalizzazione”, «dove a rischio sono la sopravvivenza della democrazia e degli Stati nazionali». Secondo quello che il “trilemma di Rodrik”, dal nome dell’economista turco Danil Rodrik, esiste una relazione diretta di incompatibilità tra democrazia, Stato nazionale e globalizzazione: «Quindi, se spingiamo oltre la globalizzazione, come è già avvenuto, dobbiamo rinunciare o allo Stato nazionale o alla democrazia». Di fatto, aggiunge Bifarini, alla democrazia stiamo già rinunciando: «Ci troviamo di fronte a quella formale, ma completamente svuotata del suo contenuto sostanziale, la cosiddetta “democrazia apatica”». Ora, attraverso l’Ue e l’Eurozona, «ci dicono di rinunciare anche allo Stato nazionale in nome di una governance internazionale inefficace e carente».
Altro tragico dogma in auge: limitare la spesa pubblica al 3% del Pil. «Il limite del 3% del rapporto deficit-Pil non è assolutamente salutare per l’economia», sottolinea Ilaria Bifarini. «La prova è che l’Italia si trova a generare un avanzo primario da ben 24 anni con una sola eccezione nel 2009, quindi in realtà paghiamo più di quanto riceviamo e questo non può essere salutare per l’economia e il suo sviluppo». Attenzione: «Non si può riuscire a pareggiare il bilancio attraverso politiche di riduzione del reddito nazionale senza occuparsi del problema della disoccupazione, come insegnava Keynes». Il più falso dei “refrain” impugnati dai profeti del rigore? Avremmo “vissuto al di sopra le nostre possibilità”. Ridicolo: il boom del debito italiano risale al 1981, anno del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Nulla a che vedere coi consumi italiani. La crisi finanziaria mondiale del 2008? «Non è una crisi da debito pubblico, ma una crisi generata da un fattore di debito privato». Propaganda: «Si vuole alimentare questa concezione per la quale ci sono paesi come il nostro, spendaccioni (i cosiddetti Pigs, che hanno “vissuto oltre le proprie possibilità”) e che quindi le misure dure, inefficaci e deleterie dell’austerity imposte dalla Troika e dalle istituzioni finanziarie internazionali siano la giusta pena da espiare per i peccati commessi». In altre parole, barando, «si è creata una questione morale su un argomento prettamente economico». Se ne sono accorti, gli italiani?
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Crisi, colpa nostra? Bifarini: dai media, soltanto fake news
Scritto il 16/2/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».
Le privatizzazioni come soluzione? Giammai: «Privatizzare vuol dire svendere il nostro bene pubblico senza risolvere il problema della crisi e del debito attuale, mettendolo per lo più in mano ad investitori stranieri», spiega Ilaria Bifarini. «Questo ha ripercussioni notevoli sul livello dei salari (che entrano nel sistema perverso della concorrenza sfrenata, propria del modello neoliberista) e sull’abbassamento ulteriore della qualità dei prodotti e dei servizi». Privatizzando, «si vuole estromettere il ruolo dello Stato dalla politica economica: questo è quanto suggerisce l’Unione Europea per risanare il debito pubblico». In realtà, nonostante le devastanti privatizzazioni degli ultimi anni, il debito pubblico continua a crescere. «Quindi, privare il proprio paese di asset pubblici fondamentali per il proprio sviluppo e per la fruibilità e la qualità dei servizi non è altro che controproducente per l’economia di un paese». Cosa rispondere a chi afferma anche che gli aiuti pubblici uccidono la concorrenza e il Pil? «In realtà è proprio vero il contrario: infatti esiste una relazione diretta tra le dimensioni del governo e il reddito pro capite dei cittadini. Perché un’economia aperta, sviluppata e competitiva possa prosperare, è necessario che ci sia un intervento da parte dello Stato. E che quindi uno Stato offra tutele alle fasce di popolazione più debole in modo che possa funzionare la dinamica del libero mercato».
Attualmente, la “teologia” neoliberista imposta dall’Ue fa in modo che avvega l’esatto opposto: i soli aiuti pubblici «sono rivolti ai salvataggi delle banche». Per l’economista, «siamo di fronte a un sistema bancario ipertrofico che non produce ricchezza reale ma soltanto speculazione, evade ed elude i propri profitti». E i cittadini «si trovano a dover finanziare un simile sistema che è deleterio per la crescita e per lo sviluppo». E se la globalizzazione «ha portato indiscutibili miglioramenti nell’ambito dello sviluppo economico e del progresso industriale», oggi ci troviamo in una fase successiva, la cosiddetta “iperglobalizzazione”, «dove a rischio sono la sopravvivenza della democrazia e degli Stati nazionali». Secondo quello che il “trilemma di Rodrik”, dal nome dell’economista turco Danil Rodrik, esiste una relazione diretta di incompatibilità tra democrazia, Stato nazionale e globalizzazione: «Quindi, se spingiamo oltre la globalizzazione, come è già avvenuto, dobbiamo rinunciare o allo Stato nazionale o alla democrazia». Di fatto, aggiunge Bifarini, alla democrazia stiamo già rinunciando: «Ci troviamo di fronte a quella formale, ma completamente svuotata del suo contenuto sostanziale, la cosiddetta “democrazia apatica”». Ora, attraverso l’Ue e l’Eurozona, «ci dicono di rinunciare anche allo Stato nazionale in nome di una governance internazionale inefficace e carente».
Altro tragico dogma in auge: limitare la spesa pubblica al 3% del Pil. «Il limite del 3% del rapporto deficit-Pil non è assolutamente salutare per l’economia», sottolinea Ilaria Bifarini. «La prova è che l’Italia si trova a generare un avanzo primario da ben 24 anni con una sola eccezione nel 2009, quindi in realtà paghiamo più di quanto riceviamo e questo non può essere salutare per l’economia e il suo sviluppo». Attenzione: «Non si può riuscire a pareggiare il bilancio attraverso politiche di riduzione del reddito nazionale senza occuparsi del problema della disoccupazione, come insegnava Keynes». Il più falso dei “refrain” impugnati dai profeti del rigore? Avremmo “vissuto al di sopra le nostre possibilità”. Ridicolo: il boom del debito italiano risale al 1981, anno del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Nulla a che vedere coi consumi italiani. La crisi finanziaria mondiale del 2008? «Non è una crisi da debito pubblico, ma una crisi generata da un fattore di debito privato». Propaganda: «Si vuole alimentare questa concezione per la quale ci sono paesi come il nostro, spendaccioni (i cosiddetti Pigs, che hanno “vissuto oltre le proprie possibilità”) e che quindi le misure dure, inefficaci e deleterie dell’austerity imposte dalla Troika e dalle istituzioni finanziarie internazionali siano la giusta pena da espiare per i peccati commessi». In altre parole, barando, «si è creata una questione morale su un argomento prettamente economico». Se ne sono accorti, gli italiani?
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Re: Diario della caduta di un regime.
“Il Sarchiapone”:
editoriale di Marco Travaglio
di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano 16 febbraio 2018 –
Quando B. firmò il primo “Contratto con gli italiani” (peraltro ignari di tutto) sulla scrivania in noce di Bruno Vespa, nel maggio del 2001, Roberto Benigni disse a Enzo Biagi che la scena era più divertente del Sarchiapone di Walter Chiari e Carlo Campanini. L’altra sera l’anziano insetto e il decrepito Caimano, a Porta a Porta, hanno concesso il bis, riesumando pure l’antico scrittoio ad personam. Come i vecchi guitti dell’avanspettacolo che, per strappare qualche applauso stentato, andavano di repertorio. Gli impegni assunti dall’ometto di Stato dinanzi al suo notaio personale è inutile dirlo, visto che i contratti bisogna essere almeno in due per siglarli, e questi fantomatici “italiani” non hanno firmato nulla. E visto, soprattutto, l’esito miserevole delle promesse del 2001. Alcuni compiacenti professori dell’Università di Siena garantirono che il Contratto primigenio era stato rispettato per quattro punti e mezzo. In realtà nessuno dei cinque punti fu minimamente onorato (aspettate qualche giorno e nel libro “B. come basta!” lo dimostrerò), così come il giuramento finale di ritirarsi a vita privata nel caso in cui almeno quattro dei cinque punti non fossero divenuti realtà.
Un solo esempio: la promessa del “dimezzamento dell’attuale tasso di disoccupazione con la creazione di almeno 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro”. Per poter dire di essere giunto a un milione di nuovi occupati, il pover’ometto calcolò pure i 630 mila extracomunitari irregolari regolarizzati con la grande sanatoria del 2002 seguita alla legge Bossi-Fini. Purtroppo quei lavoratori lavoravano già prima, in Italia, dunque non erano nuovi posti di lavoro, ma vecchi emersi dal sommerso. La prova migliore del totale fallimento è che oggi B. ripromette le stesse promesse non mantenute nelle sei precedenti campagne elettorali. L’unica differenza fra la gag del 2001 e quella dell’altra sera è che Vespa è un tantino più abbronzato, mentre B. è molto più capelluto. Ma anche molto più rintronato. L’altroieri Tommaso Rodano ha raccontato i suoi delirii alla Confcommercio. Il Cainano ha intrattenuto i commercianti con uno show irresistibile sugli strepitosi successi dei suoi tre governi. Tipo questo: “Ho portato le pensioni minime a mille lire. E allora bastavano, per arrivare alla fine del mese”. Purtroppo la canzone “Se potessi avere mille lire al mese” di Gilberto Mazzi risale al 1939, quando B. aveva appena tre anni e fortunatamente non governava. Allora mille lire al mese bastavano e avanzavano, ora non più, anche perché chissà se l’ha saputo, ma dal 2002 c’è l’euro.
Però l’anziano intrattenitore ora promette l’abolizione dell’Irpeg (l’imposta sul reddito delle persone giuridiche, sostituita nel 2004 dall’Ires), confondendola con l’Irap (imposta sulle attività produttive, che lui promette di abrogare da una vita, infatti è sempre lì). Poi parla di una non meglio precisata “flat task”, che poi sarebbe la flat tax, ma a lui la parola “tassa” proprio non esce di bocca. Ed ecco la sua lucida analisi dell’economia in nero, cui lui peraltro contribuisce alla grande fin dagli anni 80, con 64 società estere del comparto B della Fininvest: “Il Pil emerso è 1.600 euro, il Pil sommerso è 800 mila euro”. Qui si nota lo sforzo di passare all’euro, ma anche un concetto un po’ approssimativo del cambio. Meraviglioso il passaggio sugli immigrati: “Ci sono 630 mila clandestini. Questi signori non hanno altro modo per vivere che commettere reati”. Quindi gli somigliano. E non solo: “Quando vanno negli appartamenti, per prima cosa svaligiano il frigorifero. Una signora aveva mezzo litro d’olio, si sono bevuti anche quello. Ho detto alla signora: ‘L’avranno messo in una boccetta’. No, dice, hanno trovato le impronte di olio delle labbra”. Chissà che gli ha detto, quella brava donna. E chissà dove avrà preso, il lucidissimo statista, la cifra di 630 mila clandestini: l’unico dato analogo è quello della sua mega-sanatoria di 15 anni fa, quando appunto il suo governo, anche con i voti della Lega, ne regolarizzò 630 mila. Ora andrà a cercarli uno per uno per comunicare personalmente che aveva scherzato.
Siccome la platea dei commercianti è soprattutto maschile, non manca una captatio benevolentiae per soli uomini: “Un sondaggio sull’elettorato animalista dice che il 73% delle mogli preferisce il cagnolino al marito”. Figurarsi l’entusiasmo di tutti i mariti in sala. L’ultima gag è l’annuncio di uno dei ministri del suo prossimo governo (che poi nessuno sa chi lo presiederà, perché lui non può votare né essere eletto, e ha deciso di nasconderci il nome del nuovo premier “fino al 4 marzo”, anche perché non l’ha ancora avvertito): “È Carlo Cottarelli, gli potremmo affidare una commissione o addirittura un ministero della spending review. L’ho sentito lunedì al telefono, mi ha ringraziato e mi ha detto di essere disponibile”. Ma deve aver sbagliato numero e chissà chi gli ha risposto. Non certo Cottarelli, che infatti ha subito smentito: “Ringrazio i partiti che mi hanno contattato, ma vorrei chiarire di non aver dato la mia disponibilità a nessuno schieramento a partecipare a un futuro governo”. Lo stesso era accaduto con il suo candidato premier, il generale in pensione dei carabinieri Leonardo Gallitelli, annunciato in tv, ma purtroppo ignaro di tutto (“Non sento Berlusconi da anni”).
Alla fine, e proprio perché era giunta la fine, i commercianti sollevati hanno sommerso il nonnetto con un mare di applausi. E il bello è che le tv e i giornaloni hanno creduto che fossero applausi di consenso, infatti hanno benevolmente sorvolato su quelle gaffe da Guinness. Non sia mai che la gente poi capisca che il salvatore dell’Italia dai “populisti incompetenti” è completamente rincoglionito.
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editoriale di Marco Travaglio
di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano 16 febbraio 2018 –
Quando B. firmò il primo “Contratto con gli italiani” (peraltro ignari di tutto) sulla scrivania in noce di Bruno Vespa, nel maggio del 2001, Roberto Benigni disse a Enzo Biagi che la scena era più divertente del Sarchiapone di Walter Chiari e Carlo Campanini. L’altra sera l’anziano insetto e il decrepito Caimano, a Porta a Porta, hanno concesso il bis, riesumando pure l’antico scrittoio ad personam. Come i vecchi guitti dell’avanspettacolo che, per strappare qualche applauso stentato, andavano di repertorio. Gli impegni assunti dall’ometto di Stato dinanzi al suo notaio personale è inutile dirlo, visto che i contratti bisogna essere almeno in due per siglarli, e questi fantomatici “italiani” non hanno firmato nulla. E visto, soprattutto, l’esito miserevole delle promesse del 2001. Alcuni compiacenti professori dell’Università di Siena garantirono che il Contratto primigenio era stato rispettato per quattro punti e mezzo. In realtà nessuno dei cinque punti fu minimamente onorato (aspettate qualche giorno e nel libro “B. come basta!” lo dimostrerò), così come il giuramento finale di ritirarsi a vita privata nel caso in cui almeno quattro dei cinque punti non fossero divenuti realtà.
Un solo esempio: la promessa del “dimezzamento dell’attuale tasso di disoccupazione con la creazione di almeno 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro”. Per poter dire di essere giunto a un milione di nuovi occupati, il pover’ometto calcolò pure i 630 mila extracomunitari irregolari regolarizzati con la grande sanatoria del 2002 seguita alla legge Bossi-Fini. Purtroppo quei lavoratori lavoravano già prima, in Italia, dunque non erano nuovi posti di lavoro, ma vecchi emersi dal sommerso. La prova migliore del totale fallimento è che oggi B. ripromette le stesse promesse non mantenute nelle sei precedenti campagne elettorali. L’unica differenza fra la gag del 2001 e quella dell’altra sera è che Vespa è un tantino più abbronzato, mentre B. è molto più capelluto. Ma anche molto più rintronato. L’altroieri Tommaso Rodano ha raccontato i suoi delirii alla Confcommercio. Il Cainano ha intrattenuto i commercianti con uno show irresistibile sugli strepitosi successi dei suoi tre governi. Tipo questo: “Ho portato le pensioni minime a mille lire. E allora bastavano, per arrivare alla fine del mese”. Purtroppo la canzone “Se potessi avere mille lire al mese” di Gilberto Mazzi risale al 1939, quando B. aveva appena tre anni e fortunatamente non governava. Allora mille lire al mese bastavano e avanzavano, ora non più, anche perché chissà se l’ha saputo, ma dal 2002 c’è l’euro.
Però l’anziano intrattenitore ora promette l’abolizione dell’Irpeg (l’imposta sul reddito delle persone giuridiche, sostituita nel 2004 dall’Ires), confondendola con l’Irap (imposta sulle attività produttive, che lui promette di abrogare da una vita, infatti è sempre lì). Poi parla di una non meglio precisata “flat task”, che poi sarebbe la flat tax, ma a lui la parola “tassa” proprio non esce di bocca. Ed ecco la sua lucida analisi dell’economia in nero, cui lui peraltro contribuisce alla grande fin dagli anni 80, con 64 società estere del comparto B della Fininvest: “Il Pil emerso è 1.600 euro, il Pil sommerso è 800 mila euro”. Qui si nota lo sforzo di passare all’euro, ma anche un concetto un po’ approssimativo del cambio. Meraviglioso il passaggio sugli immigrati: “Ci sono 630 mila clandestini. Questi signori non hanno altro modo per vivere che commettere reati”. Quindi gli somigliano. E non solo: “Quando vanno negli appartamenti, per prima cosa svaligiano il frigorifero. Una signora aveva mezzo litro d’olio, si sono bevuti anche quello. Ho detto alla signora: ‘L’avranno messo in una boccetta’. No, dice, hanno trovato le impronte di olio delle labbra”. Chissà che gli ha detto, quella brava donna. E chissà dove avrà preso, il lucidissimo statista, la cifra di 630 mila clandestini: l’unico dato analogo è quello della sua mega-sanatoria di 15 anni fa, quando appunto il suo governo, anche con i voti della Lega, ne regolarizzò 630 mila. Ora andrà a cercarli uno per uno per comunicare personalmente che aveva scherzato.
Siccome la platea dei commercianti è soprattutto maschile, non manca una captatio benevolentiae per soli uomini: “Un sondaggio sull’elettorato animalista dice che il 73% delle mogli preferisce il cagnolino al marito”. Figurarsi l’entusiasmo di tutti i mariti in sala. L’ultima gag è l’annuncio di uno dei ministri del suo prossimo governo (che poi nessuno sa chi lo presiederà, perché lui non può votare né essere eletto, e ha deciso di nasconderci il nome del nuovo premier “fino al 4 marzo”, anche perché non l’ha ancora avvertito): “È Carlo Cottarelli, gli potremmo affidare una commissione o addirittura un ministero della spending review. L’ho sentito lunedì al telefono, mi ha ringraziato e mi ha detto di essere disponibile”. Ma deve aver sbagliato numero e chissà chi gli ha risposto. Non certo Cottarelli, che infatti ha subito smentito: “Ringrazio i partiti che mi hanno contattato, ma vorrei chiarire di non aver dato la mia disponibilità a nessuno schieramento a partecipare a un futuro governo”. Lo stesso era accaduto con il suo candidato premier, il generale in pensione dei carabinieri Leonardo Gallitelli, annunciato in tv, ma purtroppo ignaro di tutto (“Non sento Berlusconi da anni”).
Alla fine, e proprio perché era giunta la fine, i commercianti sollevati hanno sommerso il nonnetto con un mare di applausi. E il bello è che le tv e i giornaloni hanno creduto che fossero applausi di consenso, infatti hanno benevolmente sorvolato su quelle gaffe da Guinness. Non sia mai che la gente poi capisca che il salvatore dell’Italia dai “populisti incompetenti” è completamente rincoglionito.
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