Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
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( la stampa)
13/04/2012 - CINEMA
Diaz, il film che sana una ferita
Il film di Daniele Vicari sulle violenze durante il G8 di Genova del 2001 non è una visione piacevole, non è una visione divertente, ma un'esperienza memorabile
MULTIMEDIA
ANTONIO SCURATI
Andare a vedere Diaz è un dovere civile. Il film di Daniele Vicari sulle violenze perpetrate da alcuni reparti della polizia durante il G8 di Genova del luglio 2001, non sarà una visione piacevole, non sarà una visione divertente, non sarà una visione conciliante. Sarà, in compenso, un’esperienza memorabile.
Sì, perché di questo si tratta. Questo è il pregio etico ed estetico di questo film potente e commovente: ci investe con un flusso di immagini destinate a restare nella memoria e, ancor di più,ciconsegnaunastoriaper immagini che finalmente consente agli italiani della presente e delle future generazioni di far entrare nella propria memoria nazionale i fatti accaduti nei terribili giorni di quel luglio d’inizio secolo e millennio.
I fatti sono noti. Noti, arcinoti e, per l’appunto, dimenticati: sabato 21 luglio 2001, ultimo giorno di manifestazioni e scontri al G8 di Genova, poco prima di mezzanotte, centinaia di poliziotti fanno irruzione nel complesso scolastico «A. Diaz» – adibito dai manifestanti a media-center – picchiano selvaggiamente e arrestano immotivatamente centinaia di ragazze e ragazzi, italiani e stranieri, inermi e colti nel sonno. Poi falsificano le prove riguardo presunti reati di resistenza e porto d’armi cercando di depistare le indagini. Amnesty International definirà l’accaduto come «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la fine della II guerra mondiale».
A questo proposito sarà bene chiarire subito una cosa: non deve essere questo film l’occasione per riaprire la ferita di una sterile e annosa polemica nei confronti della polizia. La condotta di quei reparti di polizia in quelle circostanze fu illegale, inaccettabile e vergognosa proprio perché polizia di uno Stato democratico in cui tutti ci riconosciamo, non certo di quel sinistro «stato di Polizia» che fu bersaglio polemico di legioni di antagonisti dei secoli precedenti. Lo Stato siamo noi, dunque la Polizia siamo noi, dunque pretendiamo che i suoi agenti si conducano nel rispetto della persona e della legalità. Punto. Fine delle polemiche.
No, la straordinaria occasione fornitaci da produttori, sceneggiatori, regista e attori di questo film è ben altra: è l’occasione di una testimonianza artistica indelebile grazie alla quale la ferita possa finalmente sanarsi come pelle lacerata attorno a un primo, piccolo coagulo di sangue rappreso. Ora, forse, finalmente, grazie a questo film coraggioso, i fatti di Genova, potranno uscire dal ricordo individuale ed entrare nella memoria collettiva. Potranno, insomma, smettere di sanguinare uscendo dalla necrotica zona di rimozione in cui rischiavano di piombare ed entrando, benignamente, nell’esperienza della Nazione. Sì, perché questo è il significato dell’esperienza, di quel vivere consapevole con cui è possibile riconciliarsi: la ferita più la memoria che ti ha lasciato.
E ferita, indubbiamente, vi fu. Ferita profonda. Diaz di DanieleVicariescenellesaleitaliane a pochi giorni di distanza da Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. Impossibile non accostarli. Impossibile ma equivoco. La contiguità temporale potrebbe indurre a collocare i fatti narrati da Vicari nello stesso solco storico degli antefatti e retroscena della strage di piazza fontana narrati da Giordana. Se lo si facesse, a mio modesto parere, si prenderebbe un grosso abbaglio. Non siamo di fronte al proseguimento della stessa eterna, identica storia di un medesimo volto tenebroso di un potere arcano che si esercita attraverso complotti, trame oscure, misteri inconfessabili e irrisolti. Quella raccontata da Diaz è un’altra storia, che riguarda una nuova e diversa generazione e checiimpone,se vogliamo renderle giustizia, di ribellarci al ricatto ideologico in forza del quale in tutti questi anni ci è stato quasi imposto di ricondurre ogni passaggio della storia italiana recente alla presunta matrice universale della strategia della tensione e delle violenze politiche degli anni ’70.
Ciò che rende la storia narrata da Diaz una storia diversa è soprattutto la natura del contropotere che vi si rappresenta, i volti, le identità e i destini delle ragazze e dei ragazzi catturati nella mattanza verso cui l’intero film precipita come verso un centro vorticoso, violento e vuoto. Nel secolo scorso, ogni volta che le forze del cambiamento s’infrangevano contro la violenza altrui, gli antagonisti si rassodavano nella convinzione di trovarsi dalla parte giusta, si rafforzavano nelle loro motivazioni di impegno nella lotta politica (talvolta scegliendo la violenza in proprio). Ciò che accadde a Genova fu tutt’altra storia: fu l’unico e ultimo,debole conato di partecipazione attiva lla vita politica da parte di una generazione cresciuta dopo la grande smobilitazione ideologica degli anni ’80. Quella generazione tentò allora di alzare la testa. Fu bastonata e la riabbassò per non alzarla mai più. Soltanto due mesi dopo quel luglio del 2001 venne l’Undici Settembre a seppellire lo slancio del movimento alter mondista. Adesso, dieci anni più tardi, la carne morsa dalla crisi, ci accorgiamo di quante ragioni ci fossero in quelle azzittite voci di dissenso.
Per tutti questi motivi, poter vedere Diaz di Daniele Vicari, nonèsoloundoverecivile,è,oserei dire, un diritto civile. Il diritto di una generazione – che non è affatto la stessa di Piazza Fontana – a riappropriarsi della propria storia, la storia di una generazioneperdutaallapolitica.Ele conseguenze di questa perdita sono sotto gli occhi di tutti.
13/04/2012 - CINEMA
Diaz, il film che sana una ferita
Il film di Daniele Vicari sulle violenze durante il G8 di Genova del 2001 non è una visione piacevole, non è una visione divertente, ma un'esperienza memorabile
MULTIMEDIA
ANTONIO SCURATI
Andare a vedere Diaz è un dovere civile. Il film di Daniele Vicari sulle violenze perpetrate da alcuni reparti della polizia durante il G8 di Genova del luglio 2001, non sarà una visione piacevole, non sarà una visione divertente, non sarà una visione conciliante. Sarà, in compenso, un’esperienza memorabile.
Sì, perché di questo si tratta. Questo è il pregio etico ed estetico di questo film potente e commovente: ci investe con un flusso di immagini destinate a restare nella memoria e, ancor di più,ciconsegnaunastoriaper immagini che finalmente consente agli italiani della presente e delle future generazioni di far entrare nella propria memoria nazionale i fatti accaduti nei terribili giorni di quel luglio d’inizio secolo e millennio.
I fatti sono noti. Noti, arcinoti e, per l’appunto, dimenticati: sabato 21 luglio 2001, ultimo giorno di manifestazioni e scontri al G8 di Genova, poco prima di mezzanotte, centinaia di poliziotti fanno irruzione nel complesso scolastico «A. Diaz» – adibito dai manifestanti a media-center – picchiano selvaggiamente e arrestano immotivatamente centinaia di ragazze e ragazzi, italiani e stranieri, inermi e colti nel sonno. Poi falsificano le prove riguardo presunti reati di resistenza e porto d’armi cercando di depistare le indagini. Amnesty International definirà l’accaduto come «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la fine della II guerra mondiale».
A questo proposito sarà bene chiarire subito una cosa: non deve essere questo film l’occasione per riaprire la ferita di una sterile e annosa polemica nei confronti della polizia. La condotta di quei reparti di polizia in quelle circostanze fu illegale, inaccettabile e vergognosa proprio perché polizia di uno Stato democratico in cui tutti ci riconosciamo, non certo di quel sinistro «stato di Polizia» che fu bersaglio polemico di legioni di antagonisti dei secoli precedenti. Lo Stato siamo noi, dunque la Polizia siamo noi, dunque pretendiamo che i suoi agenti si conducano nel rispetto della persona e della legalità. Punto. Fine delle polemiche.
No, la straordinaria occasione fornitaci da produttori, sceneggiatori, regista e attori di questo film è ben altra: è l’occasione di una testimonianza artistica indelebile grazie alla quale la ferita possa finalmente sanarsi come pelle lacerata attorno a un primo, piccolo coagulo di sangue rappreso. Ora, forse, finalmente, grazie a questo film coraggioso, i fatti di Genova, potranno uscire dal ricordo individuale ed entrare nella memoria collettiva. Potranno, insomma, smettere di sanguinare uscendo dalla necrotica zona di rimozione in cui rischiavano di piombare ed entrando, benignamente, nell’esperienza della Nazione. Sì, perché questo è il significato dell’esperienza, di quel vivere consapevole con cui è possibile riconciliarsi: la ferita più la memoria che ti ha lasciato.
E ferita, indubbiamente, vi fu. Ferita profonda. Diaz di DanieleVicariescenellesaleitaliane a pochi giorni di distanza da Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. Impossibile non accostarli. Impossibile ma equivoco. La contiguità temporale potrebbe indurre a collocare i fatti narrati da Vicari nello stesso solco storico degli antefatti e retroscena della strage di piazza fontana narrati da Giordana. Se lo si facesse, a mio modesto parere, si prenderebbe un grosso abbaglio. Non siamo di fronte al proseguimento della stessa eterna, identica storia di un medesimo volto tenebroso di un potere arcano che si esercita attraverso complotti, trame oscure, misteri inconfessabili e irrisolti. Quella raccontata da Diaz è un’altra storia, che riguarda una nuova e diversa generazione e checiimpone,se vogliamo renderle giustizia, di ribellarci al ricatto ideologico in forza del quale in tutti questi anni ci è stato quasi imposto di ricondurre ogni passaggio della storia italiana recente alla presunta matrice universale della strategia della tensione e delle violenze politiche degli anni ’70.
Ciò che rende la storia narrata da Diaz una storia diversa è soprattutto la natura del contropotere che vi si rappresenta, i volti, le identità e i destini delle ragazze e dei ragazzi catturati nella mattanza verso cui l’intero film precipita come verso un centro vorticoso, violento e vuoto. Nel secolo scorso, ogni volta che le forze del cambiamento s’infrangevano contro la violenza altrui, gli antagonisti si rassodavano nella convinzione di trovarsi dalla parte giusta, si rafforzavano nelle loro motivazioni di impegno nella lotta politica (talvolta scegliendo la violenza in proprio). Ciò che accadde a Genova fu tutt’altra storia: fu l’unico e ultimo,debole conato di partecipazione attiva lla vita politica da parte di una generazione cresciuta dopo la grande smobilitazione ideologica degli anni ’80. Quella generazione tentò allora di alzare la testa. Fu bastonata e la riabbassò per non alzarla mai più. Soltanto due mesi dopo quel luglio del 2001 venne l’Undici Settembre a seppellire lo slancio del movimento alter mondista. Adesso, dieci anni più tardi, la carne morsa dalla crisi, ci accorgiamo di quante ragioni ci fossero in quelle azzittite voci di dissenso.
Per tutti questi motivi, poter vedere Diaz di Daniele Vicari, nonèsoloundoverecivile,è,oserei dire, un diritto civile. Il diritto di una generazione – che non è affatto la stessa di Piazza Fontana – a riappropriarsi della propria storia, la storia di una generazioneperdutaallapolitica.Ele conseguenze di questa perdita sono sotto gli occhi di tutti.
Re: Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
Quel che "Diaz" non dice
Vittorio Agnoletto interviene sul film di Daniele Vicari in uscita il 13 aprile. Un "pugno nello stomaco", ma sorvola le responsabilità politiche e degli apparati dello Stato.
redazione
mercoledì 11 aprile 2012 11:41
ilmegafonoquotidiano.globalist.it
di Vittorio Agnoletto
Un grande battage pubblicitario annuncia da mesi l'uscita del film "Diaz". Molti critici e giornalisti hanno convalidato quanto più volte ripetuto sia dal produttore che dal regista: «I fatti narrati in questo film sono tratti dagli atti processuali e dalle sentenze della Corte di appello di Genova». Come dire: quello che si vede nel film è la verità oggi accertata. Non c'è dubbio che le lunghe sequenze che mostrano le gravissime violenze agite dalla polizia alla Diaz e le torture praticate a Bolzaneto rendono visibile per la prima volta quanto è avvenuto nella scuola e nella caserma; su questo ha ragione Angelo Mastrandrea (il manifesto, 7 aprile).
Questo è senza dubbio un merito che di per sé può motivare la visione del film. Il rischio dell'oblio è forte e non c'è dubbio che i nostri governanti siano impegnati, da quasi undici anni, a cancellare dalla memoria collettiva quei fatti. Chiunque uscirà dalla proiezione si sentirà fortemente coinvolto e indignato dalla ferocia delle violenze istituzionali alle quali avrà assistito. È l'efficacia del film, un pugno nello stomaco che non si dimentica. Ma tale riconoscimento non può esimerci dall'esercitare, anche in questo caso, un'analisi critica, tanto più rigorosa quanto più il film tende a essere presentato come aderente alla verità storica e processuale.
Ecco quindi le mie principali critiche:
1.Il film «sorvola sui nomi di chi allora quell'operazione condusse e giustificò», scrive sul Corriere della sera del 13 febbraio Giuseppina Manin dopo aver visto il film al festival di Berlino. E racconta che il produttore Domenico Procacci rispose: «In un primo tempo la sceneggiatura prevedeva l'elenco completo dei ragazzi e dei responsabili del massacro. Poi però la parte offesa ci ha chiesto di non citare i loro nomi. E a quel punto abbiamo deciso di togliere anche gli altri». Il rispetto per le vittime avrebbe spinto gli autori a non citare i nomi dei carnefici! Non si capisce quale sia la connessione. Eppure quei nomi sono scritti proprio negli atti giudiziari ai quali il film fa riferimento: si ritrovano nella lista dei condannati.
Sono personaggi importanti, di potere, condannati in appello per gravi reati e che oggi ricoprono ruoli di primissimo piano nelle forze dell'ordine. Nemmeno nelle poche righe che precedono i titoli di coda compaiono i loro nomi e nemmeno si spiega che costoro sono stati tutti promossi. Guardando il film mi è tornato in mente quanto scrive Luis Mario Borri, uno dei sopravvissuti alla dittatura argentina, quando commenta le ricostruzioni di quella tragedia storica: «Da tempo alcuni puntano ossessivamente i riflettori sulla verità con il subdolo proposito di cacciare nella penombra la giustizia».
Mi domando qual è il motivo di tanta cautela e mi chiedo se sia in relazione con la scelta pubblicizzata dal produttore di inviare, ancora prima di cominciare le riprese del film, una copia della sceneggiatura all'attuale capo della polizia Antonio Manganelli. Manganelli, all'epoca vicecapo della polizia, è colui che, stando a quanto affermato dall'ex questore Colucci, in una telefonata intercettata durante l'inchiesta, avrebbe detto: «Dobbiamo dargli una bella botta a 'sto magistrato», riferendosi al pm Zucca. Difficile capire che titolo avesse Manganelli per leggere in anteprima la sceneggiatura.
2. La responsabilità di quanto è accaduto nella notte della Diaz sembra venir scaricata sul personaggio giunto da Roma, che poi sarebbe Arnaldo La Barbera, deceduto da tempo per malattia. È esattamente una delle tesi sostenute a suo tempo dagli imputati. Nulla emerge dal film sulla figura dell'allora capo della polizia, oggi potentissimo capo dei servizi segreti, Gianni De Gennaro.
Il Pubblico ministero del processo Diaz, Enrico Zucca, in un'intervista rilasciata ad Altreconomia dopo aver assistito al film, ricorda i filmati d'archivio con «la presenza dei funzionari che comandavano l'operazione, un direttorio spesso riunito sul campo che decide nelle svolte cruciali. Quel gruppo... scompare invece dal film». Uno dei dirigenti di polizia, la controfigura di Michelangelo Fournier, il funzionario che aveva il comando operativo del suo reparto durante l'assalto alla Diaz, viene persino dipinto come una persona logorata da dubbi amletici al punto di scusarsi con le vittime. Resta da capire quali siano in questo caso le fonti documentali.
Non si dice una parola invece sui due infermieri che per aver denunciato le torture di Bolzaneto hanno dovuto abbandonare l'amministrazione penitenziaria, sul poliziotto che per aver collaborato coi giudici si è trovato le quattro ruote dell'auto tagliate, sul vicecapo vicario della polizia Andreassi che, per aver scelto di non partecipare all'operazione della Diaz, ha avuto la carriera stroncata. Tutti fatti, questi, ampiamente documentati.
3. Non una parola è detta sul ruolo dei politici coinvolti nei fatti di Genova: nulla su Fini, niente su Scajola. Un solo passaggio di repertorio, alla fine, su Berlusconi. Viene taciuta persino la visita che Roberto Castelli, allora ministro della Giustizia, fece alla caserma di Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. La politica sembra non aver avuto alcuna responsabilità.
4. Enrico Zucca, nell'intervista citata, dopo aver ricordato la forte rimozione attuata dalla politica e dalle istituzioni sulle responsabilità, afferma: «Il film cautamente si adegua e non solo, in alcuni passi ricostruttivi sceglie la versione degli imputati (i poliziotti, nda) rispetto a quella contrastante delle vittime. Se vogliamo, l'unico messaggio netto che ha dato è che i black bloc erano - anche - alla Diaz». Non è un fatto di poco rilievo. La destra ha costruito tutta la sua campagna di criminalizzazione del movimento sostenendo la contiguità tra Genoa social forum e black bloc. Su argomenti di simile importanza non sono ammesse licenze da romanzo, specie se si afferma di fare un film basandosi sulle inchieste giudiziarie.
5. Il racconto è completamente decontestualizzato; non viene mai spiegato perché 300.000 persone quel luglio 2001 si siano recate a Genova. Cosa può capirne un giovane che oggi ha vent'anni? Per non parlare di chi lo vedrà tra qualche anno. C'è stata una forte repressione, ma perché? Cosa volevano quelle persone massacrate di botte? Mistero.
Gli autori replicano che il loro obiettivo non era raccontare la storia del movimento. Ma sarebbe stato sufficiente inserire qualche spezzone tratto da filmati di repertorio, ad esempio dall'intervento di Susan George in apertura del Forum il 16 luglio 2001, per dare un'idea delle nostre ragioni. Immagini facilmente recuperabili tra la documentazione video alla quale la produzione del film ha avuto pieno e illimitato accesso. Se non si spiegano le ragioni del movimento diventa impossibile spiegare le ragioni della repressione. Infatti.
Inutile anche cercare di capire cosa sia stato il Genoa social forum. Non se ne parla, anzi sono inserite alcune scene dove viene rappresentata una riunione piena di zombie totalmente inconsapevoli della realtà che li circonda. Eppure è stata una delle esperienze più interessanti di organizzazione dei movimenti negli ultimi decenni. La ricostruzione di quella riunione è semplicemente un'invenzione. Viene da domandarsi: perché, dopo non averne spiegate le ragioni, si ritiene di dover squalificare il Gsf?
In sintesi: lo spettatore resta sconvolto dalle violenze commesse dalla polizia, ma legittimato a pensare di trovarsi di fronte ad episodi isolati, appartenenti al passato e dovuti all'azione di alcune "mele marce". Non ad azioni progettate e gestite da chi ancora oggi è ai vertici delle nostre istituzioni di sicurezza; e tutto ciò sta nella carte processuali, non nella fantasia di qualche estremista.
Certo se racconti le responsabilità, le documenti e fai nomi, se racconti tutti i tentativi, illegali, che sono stati fatti per impedire lo svolgimento dei processi, rischi la censura dei grandi media e un'ostilità politica generalizzata, come avvenuto per il libro "L'eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova" che ho scritto insieme a Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime della Diaz. Se invece si sceglie di non toccare i punti più delicati e impegnativi, allora non si può affermare di raccontare nel film quanto emerso dalle verità processuali. La verità è tale se, oltre a non raccontare falsità, la si racconta tutta, senza scegliere quale parte raccontare e quale tacere. Per questo concordo con Guadagnucci: un film così si poteva fare nel 2002, non nel 2012, ad inchieste concluse.
Siamo di fronte a un film commerciale, costruito con astuzia, che riesce ad essere molto attento e rispettoso delle compatibilità politiche e degli attuali rapporti di forza negli apparati, senza pestare i piedi a nessuno, e nello stesso tempo capace di presentarsi come paladino dei diritti e solidale con le vittime. Queste cose, almeno tra di noi, dobbiamo dircele.
http://www.globalist.it/Detail_News_Dis ... -non-dice-
Vittorio Agnoletto interviene sul film di Daniele Vicari in uscita il 13 aprile. Un "pugno nello stomaco", ma sorvola le responsabilità politiche e degli apparati dello Stato.
redazione
mercoledì 11 aprile 2012 11:41
ilmegafonoquotidiano.globalist.it
di Vittorio Agnoletto
Un grande battage pubblicitario annuncia da mesi l'uscita del film "Diaz". Molti critici e giornalisti hanno convalidato quanto più volte ripetuto sia dal produttore che dal regista: «I fatti narrati in questo film sono tratti dagli atti processuali e dalle sentenze della Corte di appello di Genova». Come dire: quello che si vede nel film è la verità oggi accertata. Non c'è dubbio che le lunghe sequenze che mostrano le gravissime violenze agite dalla polizia alla Diaz e le torture praticate a Bolzaneto rendono visibile per la prima volta quanto è avvenuto nella scuola e nella caserma; su questo ha ragione Angelo Mastrandrea (il manifesto, 7 aprile).
Questo è senza dubbio un merito che di per sé può motivare la visione del film. Il rischio dell'oblio è forte e non c'è dubbio che i nostri governanti siano impegnati, da quasi undici anni, a cancellare dalla memoria collettiva quei fatti. Chiunque uscirà dalla proiezione si sentirà fortemente coinvolto e indignato dalla ferocia delle violenze istituzionali alle quali avrà assistito. È l'efficacia del film, un pugno nello stomaco che non si dimentica. Ma tale riconoscimento non può esimerci dall'esercitare, anche in questo caso, un'analisi critica, tanto più rigorosa quanto più il film tende a essere presentato come aderente alla verità storica e processuale.
Ecco quindi le mie principali critiche:
1.Il film «sorvola sui nomi di chi allora quell'operazione condusse e giustificò», scrive sul Corriere della sera del 13 febbraio Giuseppina Manin dopo aver visto il film al festival di Berlino. E racconta che il produttore Domenico Procacci rispose: «In un primo tempo la sceneggiatura prevedeva l'elenco completo dei ragazzi e dei responsabili del massacro. Poi però la parte offesa ci ha chiesto di non citare i loro nomi. E a quel punto abbiamo deciso di togliere anche gli altri». Il rispetto per le vittime avrebbe spinto gli autori a non citare i nomi dei carnefici! Non si capisce quale sia la connessione. Eppure quei nomi sono scritti proprio negli atti giudiziari ai quali il film fa riferimento: si ritrovano nella lista dei condannati.
Sono personaggi importanti, di potere, condannati in appello per gravi reati e che oggi ricoprono ruoli di primissimo piano nelle forze dell'ordine. Nemmeno nelle poche righe che precedono i titoli di coda compaiono i loro nomi e nemmeno si spiega che costoro sono stati tutti promossi. Guardando il film mi è tornato in mente quanto scrive Luis Mario Borri, uno dei sopravvissuti alla dittatura argentina, quando commenta le ricostruzioni di quella tragedia storica: «Da tempo alcuni puntano ossessivamente i riflettori sulla verità con il subdolo proposito di cacciare nella penombra la giustizia».
Mi domando qual è il motivo di tanta cautela e mi chiedo se sia in relazione con la scelta pubblicizzata dal produttore di inviare, ancora prima di cominciare le riprese del film, una copia della sceneggiatura all'attuale capo della polizia Antonio Manganelli. Manganelli, all'epoca vicecapo della polizia, è colui che, stando a quanto affermato dall'ex questore Colucci, in una telefonata intercettata durante l'inchiesta, avrebbe detto: «Dobbiamo dargli una bella botta a 'sto magistrato», riferendosi al pm Zucca. Difficile capire che titolo avesse Manganelli per leggere in anteprima la sceneggiatura.
2. La responsabilità di quanto è accaduto nella notte della Diaz sembra venir scaricata sul personaggio giunto da Roma, che poi sarebbe Arnaldo La Barbera, deceduto da tempo per malattia. È esattamente una delle tesi sostenute a suo tempo dagli imputati. Nulla emerge dal film sulla figura dell'allora capo della polizia, oggi potentissimo capo dei servizi segreti, Gianni De Gennaro.
Il Pubblico ministero del processo Diaz, Enrico Zucca, in un'intervista rilasciata ad Altreconomia dopo aver assistito al film, ricorda i filmati d'archivio con «la presenza dei funzionari che comandavano l'operazione, un direttorio spesso riunito sul campo che decide nelle svolte cruciali. Quel gruppo... scompare invece dal film». Uno dei dirigenti di polizia, la controfigura di Michelangelo Fournier, il funzionario che aveva il comando operativo del suo reparto durante l'assalto alla Diaz, viene persino dipinto come una persona logorata da dubbi amletici al punto di scusarsi con le vittime. Resta da capire quali siano in questo caso le fonti documentali.
Non si dice una parola invece sui due infermieri che per aver denunciato le torture di Bolzaneto hanno dovuto abbandonare l'amministrazione penitenziaria, sul poliziotto che per aver collaborato coi giudici si è trovato le quattro ruote dell'auto tagliate, sul vicecapo vicario della polizia Andreassi che, per aver scelto di non partecipare all'operazione della Diaz, ha avuto la carriera stroncata. Tutti fatti, questi, ampiamente documentati.
3. Non una parola è detta sul ruolo dei politici coinvolti nei fatti di Genova: nulla su Fini, niente su Scajola. Un solo passaggio di repertorio, alla fine, su Berlusconi. Viene taciuta persino la visita che Roberto Castelli, allora ministro della Giustizia, fece alla caserma di Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. La politica sembra non aver avuto alcuna responsabilità.
4. Enrico Zucca, nell'intervista citata, dopo aver ricordato la forte rimozione attuata dalla politica e dalle istituzioni sulle responsabilità, afferma: «Il film cautamente si adegua e non solo, in alcuni passi ricostruttivi sceglie la versione degli imputati (i poliziotti, nda) rispetto a quella contrastante delle vittime. Se vogliamo, l'unico messaggio netto che ha dato è che i black bloc erano - anche - alla Diaz». Non è un fatto di poco rilievo. La destra ha costruito tutta la sua campagna di criminalizzazione del movimento sostenendo la contiguità tra Genoa social forum e black bloc. Su argomenti di simile importanza non sono ammesse licenze da romanzo, specie se si afferma di fare un film basandosi sulle inchieste giudiziarie.
5. Il racconto è completamente decontestualizzato; non viene mai spiegato perché 300.000 persone quel luglio 2001 si siano recate a Genova. Cosa può capirne un giovane che oggi ha vent'anni? Per non parlare di chi lo vedrà tra qualche anno. C'è stata una forte repressione, ma perché? Cosa volevano quelle persone massacrate di botte? Mistero.
Gli autori replicano che il loro obiettivo non era raccontare la storia del movimento. Ma sarebbe stato sufficiente inserire qualche spezzone tratto da filmati di repertorio, ad esempio dall'intervento di Susan George in apertura del Forum il 16 luglio 2001, per dare un'idea delle nostre ragioni. Immagini facilmente recuperabili tra la documentazione video alla quale la produzione del film ha avuto pieno e illimitato accesso. Se non si spiegano le ragioni del movimento diventa impossibile spiegare le ragioni della repressione. Infatti.
Inutile anche cercare di capire cosa sia stato il Genoa social forum. Non se ne parla, anzi sono inserite alcune scene dove viene rappresentata una riunione piena di zombie totalmente inconsapevoli della realtà che li circonda. Eppure è stata una delle esperienze più interessanti di organizzazione dei movimenti negli ultimi decenni. La ricostruzione di quella riunione è semplicemente un'invenzione. Viene da domandarsi: perché, dopo non averne spiegate le ragioni, si ritiene di dover squalificare il Gsf?
In sintesi: lo spettatore resta sconvolto dalle violenze commesse dalla polizia, ma legittimato a pensare di trovarsi di fronte ad episodi isolati, appartenenti al passato e dovuti all'azione di alcune "mele marce". Non ad azioni progettate e gestite da chi ancora oggi è ai vertici delle nostre istituzioni di sicurezza; e tutto ciò sta nella carte processuali, non nella fantasia di qualche estremista.
Certo se racconti le responsabilità, le documenti e fai nomi, se racconti tutti i tentativi, illegali, che sono stati fatti per impedire lo svolgimento dei processi, rischi la censura dei grandi media e un'ostilità politica generalizzata, come avvenuto per il libro "L'eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova" che ho scritto insieme a Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime della Diaz. Se invece si sceglie di non toccare i punti più delicati e impegnativi, allora non si può affermare di raccontare nel film quanto emerso dalle verità processuali. La verità è tale se, oltre a non raccontare falsità, la si racconta tutta, senza scegliere quale parte raccontare e quale tacere. Per questo concordo con Guadagnucci: un film così si poteva fare nel 2002, non nel 2012, ad inchieste concluse.
Siamo di fronte a un film commerciale, costruito con astuzia, che riesce ad essere molto attento e rispettoso delle compatibilità politiche e degli attuali rapporti di forza negli apparati, senza pestare i piedi a nessuno, e nello stesso tempo capace di presentarsi come paladino dei diritti e solidale con le vittime. Queste cose, almeno tra di noi, dobbiamo dircele.
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Re: Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
Il parere di Augusto Sainati | 15 aprile 2012
Diaz e la verità delle immagini
La storia raccontata da Diaz di Daniele Vicari si compone a poco a poco, per frammenti, ritorni, espansioni. E’ il film non visto del G8 di Genova, il suo drammatico backstage di violenza. E come tutti i backstage disegna più l’affollata varietà della scena che non la sua artificiale linearità. C’è la violenza della polizia che tradisce la sua missione di tutrice della legalità, ma c’è anche il dubbio di qualche poliziotto, e c’è il caos degli scontri.
Nei backstage entrano anche elementi spuri: errori, momenti di relax sul set, maestranze al lavoro, ecc. I backstage sono il regno del contrasto, perché mostrano al tempo stesso il lato A e il lato B delle cose, il film di cui essi raccontano la fabbrica, ma anche ciò che gli ruota intorno, la macchina-cinema: in un certo senso i backstage danno un corpo ai titoli di coda del film. I backstage non devono dimostrare nulla, piuttosto devono mostrare, spesso in maniera divertente e divertita, un clima, una situazione.
Il film di Vicari non è un film a tesi, non vuole dimostrare, vuole solo mostrare, come avrebbe detto Jacques Rivette (che usava questa formula a proposito di Rossellini): Diaz riporta l’immagine alla sua crudezza. Don’t clean up this blood, recita il titolo del film. Il sangue non deve essere pulito, perché l’immagine del sangue schiantato sui pavimenti e sulle pareti della scuola Diaz, teatro dell’animalità scatenata della polizia contiene di per sé già tutto: tutto il dolore, tutta la violenza, tutta l’insensatezza delle cose che accadono.
Non voler chiudere il film su una tesi non significa non avere un’opinione. Significa semmai porre il problema della verità in tutta la sua complessità. Che cos’è la verità delle immagini? E’ quella dei telegiornali che al tempo del G8 ci inondarono gli occhi con le gesta terribili dei black-bloc? Oppure è una continua domanda, un continuo differimento delle cose, una ricerca perpetua che non si acquieta mai? E come si declina la verità al cinema? La si declina nel modo assertivo che è tipico della televisione (e che un tempo era tipico dei cinegiornali) oppure nel modo interrogativo che dà forza all’immagine anziché depotenziarla?
Un grande indagatore della verità come Cesare Zavattini (peraltro regista di un unico film, intitolato non a caso La veritàaa) diceva che la verità non esiste perché esiste solo la volontà di cercarla, e che non c’è da chiedere scusa a nessuno se si dice la verità. Ma dire la verità sarebbe chiudere la pluralità delle cose in un ritratto fisso, mentre la verità per esistere non deve essere detta. La verità è quello che si ha paura di dire, diceva ancora Zavattini.
Ecco, la tv spesso vuole “dirci la verità”, vuole mettere le cose dentro un senso unico, laddove invece il film di Vicari rispetta la domanda di senso delle cose, pur avendo ed esibendo un proprio chiaro punto di vista. Gli sguardi sbigottiti dei personaggi, in Diaz, sono spesso nodi di sentimenti, e fungono più da specchio dell’incomprensibilità di ciò che li circonda che non da rivelatore di una singola emozione. Sembrano gli sguardi spaesati e in cerca di senso di certi bambini dei film di Rossellini, l’Edmund di Germania anno zero o lo scugnizzo napoletano di Paisà. Sguardi incapaci di posarsi su un oggetto, perché tutti gli oggetti visivi che incontrano sono troppo devastanti per essere sorretti da uno sguardo. C’è più verità in uno sguardo che cerca il suo oggetto che in mille immagini dimostrative.
E Diaz si chiude quando uno sguardo trova in un altro sguardo un luogo che lo accolga.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/04 ... ni/204640/
Diaz e la verità delle immagini
La storia raccontata da Diaz di Daniele Vicari si compone a poco a poco, per frammenti, ritorni, espansioni. E’ il film non visto del G8 di Genova, il suo drammatico backstage di violenza. E come tutti i backstage disegna più l’affollata varietà della scena che non la sua artificiale linearità. C’è la violenza della polizia che tradisce la sua missione di tutrice della legalità, ma c’è anche il dubbio di qualche poliziotto, e c’è il caos degli scontri.
Nei backstage entrano anche elementi spuri: errori, momenti di relax sul set, maestranze al lavoro, ecc. I backstage sono il regno del contrasto, perché mostrano al tempo stesso il lato A e il lato B delle cose, il film di cui essi raccontano la fabbrica, ma anche ciò che gli ruota intorno, la macchina-cinema: in un certo senso i backstage danno un corpo ai titoli di coda del film. I backstage non devono dimostrare nulla, piuttosto devono mostrare, spesso in maniera divertente e divertita, un clima, una situazione.
Il film di Vicari non è un film a tesi, non vuole dimostrare, vuole solo mostrare, come avrebbe detto Jacques Rivette (che usava questa formula a proposito di Rossellini): Diaz riporta l’immagine alla sua crudezza. Don’t clean up this blood, recita il titolo del film. Il sangue non deve essere pulito, perché l’immagine del sangue schiantato sui pavimenti e sulle pareti della scuola Diaz, teatro dell’animalità scatenata della polizia contiene di per sé già tutto: tutto il dolore, tutta la violenza, tutta l’insensatezza delle cose che accadono.
Non voler chiudere il film su una tesi non significa non avere un’opinione. Significa semmai porre il problema della verità in tutta la sua complessità. Che cos’è la verità delle immagini? E’ quella dei telegiornali che al tempo del G8 ci inondarono gli occhi con le gesta terribili dei black-bloc? Oppure è una continua domanda, un continuo differimento delle cose, una ricerca perpetua che non si acquieta mai? E come si declina la verità al cinema? La si declina nel modo assertivo che è tipico della televisione (e che un tempo era tipico dei cinegiornali) oppure nel modo interrogativo che dà forza all’immagine anziché depotenziarla?
Un grande indagatore della verità come Cesare Zavattini (peraltro regista di un unico film, intitolato non a caso La veritàaa) diceva che la verità non esiste perché esiste solo la volontà di cercarla, e che non c’è da chiedere scusa a nessuno se si dice la verità. Ma dire la verità sarebbe chiudere la pluralità delle cose in un ritratto fisso, mentre la verità per esistere non deve essere detta. La verità è quello che si ha paura di dire, diceva ancora Zavattini.
Ecco, la tv spesso vuole “dirci la verità”, vuole mettere le cose dentro un senso unico, laddove invece il film di Vicari rispetta la domanda di senso delle cose, pur avendo ed esibendo un proprio chiaro punto di vista. Gli sguardi sbigottiti dei personaggi, in Diaz, sono spesso nodi di sentimenti, e fungono più da specchio dell’incomprensibilità di ciò che li circonda che non da rivelatore di una singola emozione. Sembrano gli sguardi spaesati e in cerca di senso di certi bambini dei film di Rossellini, l’Edmund di Germania anno zero o lo scugnizzo napoletano di Paisà. Sguardi incapaci di posarsi su un oggetto, perché tutti gli oggetti visivi che incontrano sono troppo devastanti per essere sorretti da uno sguardo. C’è più verità in uno sguardo che cerca il suo oggetto che in mille immagini dimostrative.
E Diaz si chiude quando uno sguardo trova in un altro sguardo un luogo che lo accolga.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/04 ... ni/204640/
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Re: Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
A vedere Diaz ci andranno solo quelli di Cs?
Re: Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
Sta girando sulla piattaforma Sky Cinema il film " Il gioiellino" ispirato alla vicenda del crac parmalat.
Il regista è Andrea Molaioli ( che ha firmato lo splendido " la ragazza del lago" sempre con Toni Servillo - a mio avviso il miglior attore italiano che abbiamo oggi)
se potete guardatelo , io l'ho visto ieri e mi è sembrato molto ben fatto.
per quanto riguarda il festival di Cannes
19 aprile) - Matteo Garrone torna a Cannes dopo quattro anni e sara' l'unico regista italiano in concorso al festival francese. Dopo "Gomorra" (Grand Prix 2008) il regista torna dunque sulla Croisette con "Reality", co-produzione italo-francese Archimede-Fandango. Il film di Garrone racconta il mondo del Grande Fratello televisivo. Nel cast Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone, Nunzia Schiano, Nello Iorio, Giuseppina Cervizzi, Rosaria D'Urso, Graziella Marina, Raffaele Ferrante e Carlo Del Sorbo. A rappresentare il tricolore, oltre alla presenza di Nanni Moretti (presidente della Giuria) anche il "Dracula" di Dario Argento (fuori concorso nella sezione Seance de Minuit) e Bernardo Bertolucci con "Io e te", tratto dall'omonimo romanzo di Ammaniti.
.... segue su
http://www.agi.it/cinenews/19-aprile-20 ... e-fratello
Il regista è Andrea Molaioli ( che ha firmato lo splendido " la ragazza del lago" sempre con Toni Servillo - a mio avviso il miglior attore italiano che abbiamo oggi)
se potete guardatelo , io l'ho visto ieri e mi è sembrato molto ben fatto.
per quanto riguarda il festival di Cannes
19 aprile) - Matteo Garrone torna a Cannes dopo quattro anni e sara' l'unico regista italiano in concorso al festival francese. Dopo "Gomorra" (Grand Prix 2008) il regista torna dunque sulla Croisette con "Reality", co-produzione italo-francese Archimede-Fandango. Il film di Garrone racconta il mondo del Grande Fratello televisivo. Nel cast Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone, Nunzia Schiano, Nello Iorio, Giuseppina Cervizzi, Rosaria D'Urso, Graziella Marina, Raffaele Ferrante e Carlo Del Sorbo. A rappresentare il tricolore, oltre alla presenza di Nanni Moretti (presidente della Giuria) anche il "Dracula" di Dario Argento (fuori concorso nella sezione Seance de Minuit) e Bernardo Bertolucci con "Io e te", tratto dall'omonimo romanzo di Ammaniti.
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Re: Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
Temo di sì .. visto che anche da sinistra Agnoletto (leader dei No-Global) l'ha criticato.camillobenso ha scritto:A vedere Diaz ci andranno solo quelli di Cs?
Sembra che per motivi giudiziari gli autori del film non abbiano potuto fare i nomi, né delle parti lese (i ragazzi della Diaz) né dei poliziotti tra i quali Arnaldo La Barbera, De Gennaro, ecc.
Cmq, io andrò a vedere questo film coraggioso, con l'intenzione proprio di aiutare gli autori e dare un segno che in Italia c'è qualcuno che non vuole dimenticare.
Ovviamente da destra è venuta la solita cantilena .... perchè questo film esce proprio ora .... quasi con tempistica ad orologeria?
Per quanto mi riguarda, non rispondo a queste critiche dietrologiche tipiche di chi "ha il prosciutto sugli occhi" ben raffigurati da certi elementi ciellini come Lupi (faccia da schiaffi) e Formigoni (svergognato).
un saluto
Toro Seduto (Ta-Tanka I-Yo-Tanka)
‘‘Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo’’. C.L. Montesquieu
‘‘Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo’’. C.L. Montesquieu
Re: Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
http://lettura.corriere.it/debates/nuov ... populista/
Francis Ford Coppola l’ha spiegato con lucidità: la vera svolta epocale per il cinema degli ultimi decenni non è stata né la rivoluzione digitale né tanto meno il 3D, ma «il giorno in cui invece di chiederci se una film era bello, abbiamo cominciato a chiederci quanto aveva incassato». L’ossessione del successo, non come legittima aspirazione al maggior numero possibile di spettatori ma come scalata (la più rapida possibile) delle classifiche. Con tutto il corollario di «droghe» e «stimolanti» necessari ad arrivare in vetta subito: strategie di marketing invece del bocca- a-bocca, occupazione orizzontale dei cinema invece della penetrazione in profondità («quante copie?» è la domanda di rito ad ogni nuova uscita), offerta multipla (dai cibi alle bevande ai gadget. E non solo) invece dell’interesse per il singolo prodotto.
È il mercato, bellezza!, hanno detto in molti, senza accorgersi che in questo modo si cambiavano non solo i modi del consumo ma si stravolgeva anche la natura stessa del prodotto, pensato soprattutto per una fruizione immediata, rapida e possibilmente indolore visto che il weekend successivo bisogna essere pronti (e affamati) per una nuova «scorpacciata» di copie e di sollecitazioni.
Poco male, hanno sentenziato i soliti convinti «modernisti»: il cinema è industria ed è giusto che si evolva con il tempo, lasciandosi alle spalle linguaggi obsoleti e non al passo coi tempi. E se ne facciano una ragione i soliti snob della cultura e dell’impegno, preoccupati perché dietro i numeri poteva nascondersi qualche cosa di più preoccupante. Come il fatto che dei 363 film usciti nel 2011 in Italia, i primi 12 hanno incassato il 30 per cento del mercato, i primi 28 il 50, i primi 180 il 95 per cento. E tra gli altri 183 che si sono dovuti accontentate del 5 per cento del mercato (cioè meno di 5 milioni di euro) ci sono film che hanno vinto ai festival di Venezia (Faust), di Berlino (Una separazione) o di Roma (Kill Me Please), che sono stati applauditi a Cannes (Le nevi del Kilimangiaro) o al Sundance (Un gelido inverno). E che all’estero hanno ottenuto incassi molto, ma molto più interessanti.
Pazienza, la cultura non serve a stabilire nessuno spread (escluso quello del livello di civiltà, ma le Borse se ne disinteressano. E i bocconiani anche), se non fosse che questa specie di sotterranea rivoluzione cinematografica sta trasformando — insieme ad altri fattori, ovviamente — non solo i gusti del consumo ma anche i modi del pensare. E dell’agire. È come quando insegnano a scuola l’origine dei fiumi: un piccolo rivolo si unisce casualmente ad altri, nati per altre ragioni, ma tutti attratti da una certa pendenza del terreno, tutti incanalati da una certa conformazione orografica. E alla fine ti trovi un fiume che nessuno riesce più ad arginare, grosso e impetuoso. Dove puoi solo lasciarti andare alla forza delle corrente.
Quel fiume si chiama populismo.
Secondo molti politologi è la malattia del Terzo Millennio, la reazione nemmeno tanto sorprendente alla degenerazione della politica, della finanza, della corruzione. Il vero cancro della democrazia. Ma i suoi effetti non si curano solo con i governi tecnici o le leggi anticorruzione. Serve anche una specie di nuova «rivoluzione» culturale, capace di ristabilire una corretta scala di valori e di rimettere coi piedi per terra quello che sembra ondeggiare ben più di 3 metri sopra il cielo. Anche a partire dal cinema.
L’accostamento non stupisca. Il populismo non è nato nei libri di politica ma nei dibattiti letterari. Era il 27 agosto 1929 quando Léon Lemonnier pubblicava su «L’Oeuvre» Un manifeste littéraire: le roman populiste (Un manifesto letterario: il romanzo populista) dove difendeva un nuovo modo di scrivere, attento ai personaggi del popolo, più attratto da storie urbane che ambientate nelle campagne, anti-modernista e soprattutto capace di resistere al fascino del romanzo borghese (con le sue inquietudini e le sue debolezze) per esaltare le vite «povere e mediocri». La storia letteraria si è incaricata di rimettere le cose a posto, ridimensionando il valore di scrittori come Henry Poulaille, André Thérive e lo stesso Lemonnier (forse siamo disposti a salvare solo Eugène Dabit e il suo Hotel du Nord, ma per via del film con Annabella, Aumont, Arletty e Jouvet, Albergo Nord), ma quel modo di guardare intorno a noi, mescolando pietismo e sensi di colpa (che poi sono i prodromi del politicamente corretto), compiacimento miserabilista e (finto) antisnobismo ha finito per rispuntare, favorito da un più generale disinteresse, per non dire disprezzo, verso i valori che fino a ieri andavano per la maggiore. Anche nella cultura. Anche nel cinema.
L’egemonia stracultista
Scriveva nel 1999 Marco Giusti nell’introduzione del suo Dizionario dei film italiani stracult: «Vedevo di tutto e contemporaneamente. Mischiavo Fuller con Baldanello, Antonioni con Bergonzelli. Nello stesso giorno vidi Il laureato, Qualcuno verrà e Pecos è qui, prega o muori. Snob? Non credo. Mi piaceva vedere i film, fare lo spettatore». Difficile dargli torto: se uno spettatore non è onnivoro che spettatore è? Ma quando nel 2004 la Mostra del cinema di Venezia (direttore Marco Müller) decise di dedicare la propria retrospettiva a una sedicente «Storia segreta del cinema italiano — The Kings of the B’s», con titoli come W la foca e Cannibal Holocaust, decretando «la rivincita di un cinema, oggi quasi completamente scomparso, su un sistema produttivo che lo ha distrutto» (sempre Giusti scripsit) ecco che lo snobismo dello spettatore bulimico si trasforma in qualcosa di ben più ambiguo. E pericoloso. Ribaltando le gerarchie (e con il solito vizio italiano di salire sempre sul carro dell’ultimo vincitore) si finisce per imporre una nuova scala di valori, dove gusto goliardico ed elogio del disimpegno, piacere dell’oltraggio e rivalutazione del rimosso, voglia di provocazione e spregio della tradizione finiscono per mescolarsi in un galateo dell’antigalateo. In un nuovo (e più subdolo) populismo cinefilo.
Se dovessi indicare un campione nazionale per questo nuovo «filone», penserei immediatamente a I soliti idioti e al loro gusto finto libertario di fustigatori dei vizi nazionali, dove lo specchio della realtà lascia il posto a una deformazione solo compiaciuta (e solo funzionale al meccanismo della risata). Ma mi vengono in mente, tanto per restare alle uscite più recenti, anche Benvenuti al Nord o Come è bello far l’amore. Il primo per aver trasformato il meccanismo di bonaria critica antirazzista di Benvenuti al Sud (con il suo messaggio di fratellanza interregionale) in un campionario di luoghi comuni acritici (dall’ossessione lavorativa del Nord all’efficienza «marchionnesca») che alla fine vengono accettati ed esaltati; il secondo per aver banalizzato — e sfruttato — il tema dell’erotismo familiare in nome di una finta e superficialissima liberazione sessuale piccoloborghese (la trasgressione della dark room!). Stendendo un pietoso velo sull’inutile tirata antintellettualistica con cui si apre il film e di cui fanno le spese gli incolpevoli fratelli Lumière e qualche bravo regista di casa nostra.
Senza dimenticare la pretesa filiazione di questo cinema dalla commedia all’italiana, parafulmine spesso tirato in ballo — populisticamente — da chi vuole inventare quarti di nobiltà ai film comici di oggi, cercando una spiegazione intellettualistica (o giornalistica, che poi sono termini che hanno finito per essere considerati sinonimi) al nostro bisogno di ridere. Si dimentica che spesso le battute migliori sono nate anche dall’usare un linguaggio «basso» (come una parolaccia) per concludere un argomento «alto» (o che si vorrebbe tale). Ma se rivediamo una qualsiasi delle vere commedie all’italiana (quelle prodotte grossomodo tra il 1958 e la fine degli anni Sessanta) balza all’occhio che la comicità non si limitava ai «vaffa…» o ai «dai c…!» (peraltro rarissimi in quei film), ma era centrata sulla capacità di prendere le distanze da quello che si raccontava, mettendo alla berlina con cattiveria (e molta, anche) i vizi e i difetti portati in scena. Si rideva, del padre che insegna al figlio a essere disonesto (come accade nei Mostri), ma poi il contrappasso arrivava. Ci si lustrava gli occhi di fronte alla Loren in guêpière (in Ieri, oggi, domani), ma gli ululati di Mastroianni ci parlavano anche del maschio italiano, bamboccione e succube del padre. D’accordo ridendo, ma anche castigat mores.
Sarebbe troppo facile però buttare tutte le colpe su questo o quel film, rei di cavalcare un disimpegno fatto quasi esclusivamente di luoghi comuni. O sulla tendenza, che si vede soprattutto nelle commedie, di cancellare la responsabilità dell’io a favore di un moltiplicarsi indifferenziato di soggetti narrativi che finiscono per cancellare psicologie e moralità in funzione del puro e semplice meccanismo comico: oggi è la gag o la battuta che giustifica l’esistenza sullo schermo di un personaggio e non viceversa, come ci avevano insegnato la commedia all’italiana e i suoi protagonisti a tutto tondo.
La sindrome di Totò
No, spesso la vera molla di una degenerazione di tipo populista viene proprio da chi dovrebbe cercare di arginare questa tendenza. Dai giornalisti che si inventano dibattiti su film che non lo meritano, gratificando di un valore (e di un contenuto) opere che invece ne sono prive e finendo, per puro spirito di polemica, a trovare qualità dove non ce ne sono. Dai critici che per paura di essere scavalcati non si sa dove, a destra o a sinistra, si attrezzano per ogni possibile rivalutazione a futura memoria di fronte a film minimi o minimissimi, timorosi di essere inseguiti dalla «vendetta di Totò», il campione indiscusso dei geni rivalutati post mortem (salvo scoprire che lui vivo e vegeto c’erano stati fior di ammiratori pronti a spendere lunghi e motivati elogi al «principe della risata» da Bontempelli a Soldati, da Benayoun a Pasolini, da Fofi a Spinazzola. Ma oramai quello del nemo propheta in vita è un luogo comune che va per la maggiore. E che fa comodo — populisticamente — a tutti).
Senza dimenticare poi le responsabilità dei direttori di festival e degli organizzatori culturali che alla ricerca disperata di un consenso di massa, disposti a giocare con le parole e i concetti pur di giustificare tutto e il contrario di tutto, la cultura e l’anticultura, il nuovo e il vecchio, il popolare e il raffinato, il masscult e il midcult e compagnia cantante. Tutti insieme alla ricerca di un consenso che non disturbi nessuno e gratifichi tutti. Che poi è la vera essenza del populismo.
Paolo Mereghetti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Francis Ford Coppola l’ha spiegato con lucidità: la vera svolta epocale per il cinema degli ultimi decenni non è stata né la rivoluzione digitale né tanto meno il 3D, ma «il giorno in cui invece di chiederci se una film era bello, abbiamo cominciato a chiederci quanto aveva incassato». L’ossessione del successo, non come legittima aspirazione al maggior numero possibile di spettatori ma come scalata (la più rapida possibile) delle classifiche. Con tutto il corollario di «droghe» e «stimolanti» necessari ad arrivare in vetta subito: strategie di marketing invece del bocca- a-bocca, occupazione orizzontale dei cinema invece della penetrazione in profondità («quante copie?» è la domanda di rito ad ogni nuova uscita), offerta multipla (dai cibi alle bevande ai gadget. E non solo) invece dell’interesse per il singolo prodotto.
È il mercato, bellezza!, hanno detto in molti, senza accorgersi che in questo modo si cambiavano non solo i modi del consumo ma si stravolgeva anche la natura stessa del prodotto, pensato soprattutto per una fruizione immediata, rapida e possibilmente indolore visto che il weekend successivo bisogna essere pronti (e affamati) per una nuova «scorpacciata» di copie e di sollecitazioni.
Poco male, hanno sentenziato i soliti convinti «modernisti»: il cinema è industria ed è giusto che si evolva con il tempo, lasciandosi alle spalle linguaggi obsoleti e non al passo coi tempi. E se ne facciano una ragione i soliti snob della cultura e dell’impegno, preoccupati perché dietro i numeri poteva nascondersi qualche cosa di più preoccupante. Come il fatto che dei 363 film usciti nel 2011 in Italia, i primi 12 hanno incassato il 30 per cento del mercato, i primi 28 il 50, i primi 180 il 95 per cento. E tra gli altri 183 che si sono dovuti accontentate del 5 per cento del mercato (cioè meno di 5 milioni di euro) ci sono film che hanno vinto ai festival di Venezia (Faust), di Berlino (Una separazione) o di Roma (Kill Me Please), che sono stati applauditi a Cannes (Le nevi del Kilimangiaro) o al Sundance (Un gelido inverno). E che all’estero hanno ottenuto incassi molto, ma molto più interessanti.
Pazienza, la cultura non serve a stabilire nessuno spread (escluso quello del livello di civiltà, ma le Borse se ne disinteressano. E i bocconiani anche), se non fosse che questa specie di sotterranea rivoluzione cinematografica sta trasformando — insieme ad altri fattori, ovviamente — non solo i gusti del consumo ma anche i modi del pensare. E dell’agire. È come quando insegnano a scuola l’origine dei fiumi: un piccolo rivolo si unisce casualmente ad altri, nati per altre ragioni, ma tutti attratti da una certa pendenza del terreno, tutti incanalati da una certa conformazione orografica. E alla fine ti trovi un fiume che nessuno riesce più ad arginare, grosso e impetuoso. Dove puoi solo lasciarti andare alla forza delle corrente.
Quel fiume si chiama populismo.
Secondo molti politologi è la malattia del Terzo Millennio, la reazione nemmeno tanto sorprendente alla degenerazione della politica, della finanza, della corruzione. Il vero cancro della democrazia. Ma i suoi effetti non si curano solo con i governi tecnici o le leggi anticorruzione. Serve anche una specie di nuova «rivoluzione» culturale, capace di ristabilire una corretta scala di valori e di rimettere coi piedi per terra quello che sembra ondeggiare ben più di 3 metri sopra il cielo. Anche a partire dal cinema.
L’accostamento non stupisca. Il populismo non è nato nei libri di politica ma nei dibattiti letterari. Era il 27 agosto 1929 quando Léon Lemonnier pubblicava su «L’Oeuvre» Un manifeste littéraire: le roman populiste (Un manifesto letterario: il romanzo populista) dove difendeva un nuovo modo di scrivere, attento ai personaggi del popolo, più attratto da storie urbane che ambientate nelle campagne, anti-modernista e soprattutto capace di resistere al fascino del romanzo borghese (con le sue inquietudini e le sue debolezze) per esaltare le vite «povere e mediocri». La storia letteraria si è incaricata di rimettere le cose a posto, ridimensionando il valore di scrittori come Henry Poulaille, André Thérive e lo stesso Lemonnier (forse siamo disposti a salvare solo Eugène Dabit e il suo Hotel du Nord, ma per via del film con Annabella, Aumont, Arletty e Jouvet, Albergo Nord), ma quel modo di guardare intorno a noi, mescolando pietismo e sensi di colpa (che poi sono i prodromi del politicamente corretto), compiacimento miserabilista e (finto) antisnobismo ha finito per rispuntare, favorito da un più generale disinteresse, per non dire disprezzo, verso i valori che fino a ieri andavano per la maggiore. Anche nella cultura. Anche nel cinema.
L’egemonia stracultista
Scriveva nel 1999 Marco Giusti nell’introduzione del suo Dizionario dei film italiani stracult: «Vedevo di tutto e contemporaneamente. Mischiavo Fuller con Baldanello, Antonioni con Bergonzelli. Nello stesso giorno vidi Il laureato, Qualcuno verrà e Pecos è qui, prega o muori. Snob? Non credo. Mi piaceva vedere i film, fare lo spettatore». Difficile dargli torto: se uno spettatore non è onnivoro che spettatore è? Ma quando nel 2004 la Mostra del cinema di Venezia (direttore Marco Müller) decise di dedicare la propria retrospettiva a una sedicente «Storia segreta del cinema italiano — The Kings of the B’s», con titoli come W la foca e Cannibal Holocaust, decretando «la rivincita di un cinema, oggi quasi completamente scomparso, su un sistema produttivo che lo ha distrutto» (sempre Giusti scripsit) ecco che lo snobismo dello spettatore bulimico si trasforma in qualcosa di ben più ambiguo. E pericoloso. Ribaltando le gerarchie (e con il solito vizio italiano di salire sempre sul carro dell’ultimo vincitore) si finisce per imporre una nuova scala di valori, dove gusto goliardico ed elogio del disimpegno, piacere dell’oltraggio e rivalutazione del rimosso, voglia di provocazione e spregio della tradizione finiscono per mescolarsi in un galateo dell’antigalateo. In un nuovo (e più subdolo) populismo cinefilo.
Se dovessi indicare un campione nazionale per questo nuovo «filone», penserei immediatamente a I soliti idioti e al loro gusto finto libertario di fustigatori dei vizi nazionali, dove lo specchio della realtà lascia il posto a una deformazione solo compiaciuta (e solo funzionale al meccanismo della risata). Ma mi vengono in mente, tanto per restare alle uscite più recenti, anche Benvenuti al Nord o Come è bello far l’amore. Il primo per aver trasformato il meccanismo di bonaria critica antirazzista di Benvenuti al Sud (con il suo messaggio di fratellanza interregionale) in un campionario di luoghi comuni acritici (dall’ossessione lavorativa del Nord all’efficienza «marchionnesca») che alla fine vengono accettati ed esaltati; il secondo per aver banalizzato — e sfruttato — il tema dell’erotismo familiare in nome di una finta e superficialissima liberazione sessuale piccoloborghese (la trasgressione della dark room!). Stendendo un pietoso velo sull’inutile tirata antintellettualistica con cui si apre il film e di cui fanno le spese gli incolpevoli fratelli Lumière e qualche bravo regista di casa nostra.
Senza dimenticare la pretesa filiazione di questo cinema dalla commedia all’italiana, parafulmine spesso tirato in ballo — populisticamente — da chi vuole inventare quarti di nobiltà ai film comici di oggi, cercando una spiegazione intellettualistica (o giornalistica, che poi sono termini che hanno finito per essere considerati sinonimi) al nostro bisogno di ridere. Si dimentica che spesso le battute migliori sono nate anche dall’usare un linguaggio «basso» (come una parolaccia) per concludere un argomento «alto» (o che si vorrebbe tale). Ma se rivediamo una qualsiasi delle vere commedie all’italiana (quelle prodotte grossomodo tra il 1958 e la fine degli anni Sessanta) balza all’occhio che la comicità non si limitava ai «vaffa…» o ai «dai c…!» (peraltro rarissimi in quei film), ma era centrata sulla capacità di prendere le distanze da quello che si raccontava, mettendo alla berlina con cattiveria (e molta, anche) i vizi e i difetti portati in scena. Si rideva, del padre che insegna al figlio a essere disonesto (come accade nei Mostri), ma poi il contrappasso arrivava. Ci si lustrava gli occhi di fronte alla Loren in guêpière (in Ieri, oggi, domani), ma gli ululati di Mastroianni ci parlavano anche del maschio italiano, bamboccione e succube del padre. D’accordo ridendo, ma anche castigat mores.
Sarebbe troppo facile però buttare tutte le colpe su questo o quel film, rei di cavalcare un disimpegno fatto quasi esclusivamente di luoghi comuni. O sulla tendenza, che si vede soprattutto nelle commedie, di cancellare la responsabilità dell’io a favore di un moltiplicarsi indifferenziato di soggetti narrativi che finiscono per cancellare psicologie e moralità in funzione del puro e semplice meccanismo comico: oggi è la gag o la battuta che giustifica l’esistenza sullo schermo di un personaggio e non viceversa, come ci avevano insegnato la commedia all’italiana e i suoi protagonisti a tutto tondo.
La sindrome di Totò
No, spesso la vera molla di una degenerazione di tipo populista viene proprio da chi dovrebbe cercare di arginare questa tendenza. Dai giornalisti che si inventano dibattiti su film che non lo meritano, gratificando di un valore (e di un contenuto) opere che invece ne sono prive e finendo, per puro spirito di polemica, a trovare qualità dove non ce ne sono. Dai critici che per paura di essere scavalcati non si sa dove, a destra o a sinistra, si attrezzano per ogni possibile rivalutazione a futura memoria di fronte a film minimi o minimissimi, timorosi di essere inseguiti dalla «vendetta di Totò», il campione indiscusso dei geni rivalutati post mortem (salvo scoprire che lui vivo e vegeto c’erano stati fior di ammiratori pronti a spendere lunghi e motivati elogi al «principe della risata» da Bontempelli a Soldati, da Benayoun a Pasolini, da Fofi a Spinazzola. Ma oramai quello del nemo propheta in vita è un luogo comune che va per la maggiore. E che fa comodo — populisticamente — a tutti).
Senza dimenticare poi le responsabilità dei direttori di festival e degli organizzatori culturali che alla ricerca disperata di un consenso di massa, disposti a giocare con le parole e i concetti pur di giustificare tutto e il contrario di tutto, la cultura e l’anticultura, il nuovo e il vecchio, il popolare e il raffinato, il masscult e il midcult e compagnia cantante. Tutti insieme alla ricerca di un consenso che non disturbi nessuno e gratifichi tutti. Che poi è la vera essenza del populismo.
Paolo Mereghetti
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Re: Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
"La potenza di questo film sta nella semplicità": Michael Haneke lascia il segno a Cannes
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Michael Haneke, il regista già Palma d’Oro nel 2009 con Il nastro bianco, lascia ancora il segno. Il suo Love, in concorso al 65° festival di Cannes, è un film intenso, emozionante e drammatico nel raccontare l’amore, anche nei suoi aspetti più estremi. I protagonisti sono gli strepitosi Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, che si meriterebbero il premio per la miglior performance. I due vestono i panni dei coniugi ottantenni Georges e Anne. Un giorno Anne ha un attacco ischemico che la costringe su una sedia a rotelle. Ad accudirla, nella sua casa parigina (unica location del film), ci pensa il compagno di una vita, non di certo la figlia Eva (Isabelle Huppert), legata più al lavoro che alla famiglia.
“La potenza di questo film sta nella semplicità – afferma Riva – sembra un documentario di un evento drammatico”. Questa doppia valenza traspare dal titolo in sé: una parola semplice che racchiude un universo complesso da cui dipendono i rapporti umani. “Abbiamo lavorato sulle emozioni”, dice Haneke, “sulla continua relazione tra vita e morte”, aggiunge Isabelle Huppert, che conosce molto bene il regista. Una pellicola che osserva da vicino il lento viaggio verso la morte di una coppia unita dalla passione di vivere. Love lo ritroveremo sicuramente nella lista finale dei premiati. Ha convinto, non quanto il film del regista tedesco, anche The Hunt dello svedese Thomas Vinterberg (Festen) dove si affronta un altro il tema delicato, la pedofilia. In questo caso però l’accusato (Mads Mikkelsen) è innocente. A metterlo alle strette sono le dichiarazioni di una bambina di cinque anni che spingeranno un intero paese a distruggere la vita di un uomo.
Delude il Dracula di Dario Argento. “Un Dracula mai visto, molto aggressivo ma anche molto romantico”, ha dichiarato il regista in questi giorni. Per certi versi l’autore di Profondo rosso non ha tutti i torti, ci sono delle scene cruente(poche) con il conte (Thomas Kretschmann) in forma strepitosa che sgozza, stacca teste, strappa brandelli di carne a morsi, insomma il sanguinolento Argento si riconosce. Le riserve però ci sono tutte: troppo spesso il cruento si trasforma in grottesco, la paura in risata e per gli amanti dell’Argento anni Settanta/Ottanta è un po’ come un’impalata al cuore di Van Halsing (Rutger Hauer). Raccoglierà sicuramente il consenso degli amanti dei b-movie anni Settanta e probabilmente delle giovani generazioni: un demone che si trasforma in lupo, mosca, mantide religiosa mescolato al sangue e al 3D potrebbe far per voi.
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"il nastro bianco" è un film che dovete assolutamente procurarvi.
http://www.mymovies.it/film/2009/ilnastrobianco/
altro bellissimo film di haneke è "niente da nascondere"
http://www.mymovies.it/film/2005/nientedanascondere/
per stomaci forti ( ci sono un paio di scene altamente drammatiche )
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Michael Haneke, il regista già Palma d’Oro nel 2009 con Il nastro bianco, lascia ancora il segno. Il suo Love, in concorso al 65° festival di Cannes, è un film intenso, emozionante e drammatico nel raccontare l’amore, anche nei suoi aspetti più estremi. I protagonisti sono gli strepitosi Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, che si meriterebbero il premio per la miglior performance. I due vestono i panni dei coniugi ottantenni Georges e Anne. Un giorno Anne ha un attacco ischemico che la costringe su una sedia a rotelle. Ad accudirla, nella sua casa parigina (unica location del film), ci pensa il compagno di una vita, non di certo la figlia Eva (Isabelle Huppert), legata più al lavoro che alla famiglia.
“La potenza di questo film sta nella semplicità – afferma Riva – sembra un documentario di un evento drammatico”. Questa doppia valenza traspare dal titolo in sé: una parola semplice che racchiude un universo complesso da cui dipendono i rapporti umani. “Abbiamo lavorato sulle emozioni”, dice Haneke, “sulla continua relazione tra vita e morte”, aggiunge Isabelle Huppert, che conosce molto bene il regista. Una pellicola che osserva da vicino il lento viaggio verso la morte di una coppia unita dalla passione di vivere. Love lo ritroveremo sicuramente nella lista finale dei premiati. Ha convinto, non quanto il film del regista tedesco, anche The Hunt dello svedese Thomas Vinterberg (Festen) dove si affronta un altro il tema delicato, la pedofilia. In questo caso però l’accusato (Mads Mikkelsen) è innocente. A metterlo alle strette sono le dichiarazioni di una bambina di cinque anni che spingeranno un intero paese a distruggere la vita di un uomo.
Delude il Dracula di Dario Argento. “Un Dracula mai visto, molto aggressivo ma anche molto romantico”, ha dichiarato il regista in questi giorni. Per certi versi l’autore di Profondo rosso non ha tutti i torti, ci sono delle scene cruente(poche) con il conte (Thomas Kretschmann) in forma strepitosa che sgozza, stacca teste, strappa brandelli di carne a morsi, insomma il sanguinolento Argento si riconosce. Le riserve però ci sono tutte: troppo spesso il cruento si trasforma in grottesco, la paura in risata e per gli amanti dell’Argento anni Settanta/Ottanta è un po’ come un’impalata al cuore di Van Halsing (Rutger Hauer). Raccoglierà sicuramente il consenso degli amanti dei b-movie anni Settanta e probabilmente delle giovani generazioni: un demone che si trasforma in lupo, mosca, mantide religiosa mescolato al sangue e al 3D potrebbe far per voi.
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"il nastro bianco" è un film che dovete assolutamente procurarvi.
http://www.mymovies.it/film/2009/ilnastrobianco/
altro bellissimo film di haneke è "niente da nascondere"
http://www.mymovies.it/film/2005/nientedanascondere/
per stomaci forti ( ci sono un paio di scene altamente drammatiche )
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Re: Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
Era meglio non aver segnalato Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva................na' botta de niente!!!!!
Jean-Louis sono anni che non si vedeva più, e di Emmanuelle Riva ho il ricordo di Kapò, regia di Gillo Pontecorvo (1959),.....il suo primo film
Vedere la trasformazione dopo tanti anni,.......è una gran botta......lui 82 anni, lei 85 anni.
http://www.google.it/webhp?source=searc ... 17&bih=714
E' il segno del tempo che è passato,......troppo in fretta.
Mi segnalavano la commozione dei tifosi al saluto di Del Piero a Torino, ma anche di Inzagol e Gattuso a Milano.
La commozione nasce dalla presa d'atto che il tempo è passato. Tutti sanno che deve arrivare il giorno dove un campione appende le scarpe al chiodo, è normalmente accettato.
Ma quando avviene ti accorgi che il tempo è trascorso.....
Jean-Louis sono anni che non si vedeva più, e di Emmanuelle Riva ho il ricordo di Kapò, regia di Gillo Pontecorvo (1959),.....il suo primo film
Vedere la trasformazione dopo tanti anni,.......è una gran botta......lui 82 anni, lei 85 anni.
http://www.google.it/webhp?source=searc ... 17&bih=714
E' il segno del tempo che è passato,......troppo in fretta.
Mi segnalavano la commozione dei tifosi al saluto di Del Piero a Torino, ma anche di Inzagol e Gattuso a Milano.
La commozione nasce dalla presa d'atto che il tempo è passato. Tutti sanno che deve arrivare il giorno dove un campione appende le scarpe al chiodo, è normalmente accettato.
Ma quando avviene ti accorgi che il tempo è trascorso.....
Re: Cinema -spunti, segnalazioni, consigli
allora, per attutire il colpo, prima bisogna riguardare
"film rosso" con J.Louis e "film blu" con E. Riva , entrambi di Kieslowski.
"film rosso" con J.Louis e "film blu" con E. Riva , entrambi di Kieslowski.
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