Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
......CRONACA DI UNA DECOMPOSIZIONE ANNUNCIATA.........
17 apr 2018 11:14
IL CAV TORNA IN SELLA - BERLUSCONI FA PACE CON IL “SALVINIANO” GIOVANNI TOTI CON UNA CENA AD ARCORE E RICOMPATTA IL PARTITO
- SOGNA UN GOVERNO DI UNITÀ NAZIONALE, MAGARI SOLO DI UN ANNO, PER RIORGANIZZARE “FORZA ITALIA” E RECUPERARE LA CARICA PER NUOVE ELEZIONI
- E SE FOSSE RIABILITATO, POTREBBE TORNARE IN BALLO…
-
1 - TOTI FA PACE CON B.: GLI REGALA IL PESTO E RINVIA LA SCALATA
Dal Fatto Quotidiano
silvio berlusconi borsalino giovanni toti 3
Giovanni Toti si rassegna all'armistizio. Dopo settimane di critica serrata alla leadership di Silvio Berlusconi, il governatore ligure di Forza Italia è stato ricevuto dall' ex Cavaliere per la cena dell' armistizio. Una cena a quattro - fanno sapere dalle rispettive ambasciate - che si è svolto "in un clima ottimo" nella nuova residenza di Francesca Pascale: oltre ai due leader azzurri erano presenti anche le rispettive partner.
toti berlusconi
L'incontro è stato anche preceduto da una telefonata tra lo stesso Toti e Niccolò Ghedini, con cui i rapporti si erano raffreddati nel periodo della composizione delle liste. Berlusconi avrebbe chiesto al presidente della Liguria di avere una presenza più assidua nella gestione del partito e Toti da parte sua avrebbe garantito di non essere a capo di nessuna fronda.
"Gli arancioni", ovvero i gruppi di "totiani" che sarebbero pronti a costruire un nuovo partito con il governatore, non sarebbero una minaccia - ha rassicurato il presidente della Liguria - ma una serie di liste civiche arruolati per sostenere il centrodestra alle elezioni regionali. Toti, infine, ha regalato a Berlusconi una maxiconfezione del pesto di Pra.
2 - IL PIANO DI BERLUSCONI SE SI RIVOTA TRA UN ANNO
Anna Maria Greco per “il Giornale”
Paolo Romani Renato Brunetta Matteo Salvini Giovanni Toti foto Lapresse
Silvio Berlusconi riunisce i gruppi parlamentari e ricompatta Forza Italia. L'incontro è fissato alle 17 di domani, probabilmente a Montecitorio. Ed è un modo per dire a tutti: «Ci sono sempre e la linea la decido io, non la delego a nessun altro».
Nell'operazione rientra anche la cena con Giovanni Toti e signora di domenica sera ad Arcore, nella villa di Francesca Pascale. Con il governatore ligure, vicino a Matteo Salvini e principale voce critica tra gli azzurri, alfiere del rinnovamento e del partito unico del centrodestra, il Cavaliere riallaccia il dialogo anche per depotenziarne all'esterno l'effetto divisivo, evitare che diventi il punto di riferimento del malcontento di tanti.
salvini meloni e berlusconi in conferenza stampa
Berlusconi fa ogni sforzo per evitare che Fi vada allo sbando, si logori, schiacciata dalla vittoria alle elezioni della Lega e dalle trattative del suo leader per un governo con il M5s che continua a porre il veto su di lui. Tanto attivismo coincide con la prospettiva delle elezioni regionali ed è in queste occasioni che il Cav dà il meglio di sé, convinto di essere una «macchina da voti».
Alla vigilia di quelle di domenica in Molise, dove potrebbe tornare a fine settimana, Berlusconi legge nei sondaggi che danno solo 1-2 punti di scarto sui grillini la possibilità di intestarsi un'eventuale vittoria. In Friuli il 29 aprile è scontato un ampio successo di Massimiliano Fedriga della Lega, ma prima viene l'appuntamento molisano e il leader azzurro spera che scendendo in campo con tanto impegno darà una valenza politica al voto, inviando un segnale a Salvini. Al tempo stesso, cerca così di silenziare Di Maio e Di Battista, che continuano a sparare contro il «male assoluto».
salvini e berlusconi in conferenza stampa
«Sembra che ogni giorno recitino le lodi mattutine - dice un azzurro di rango-, Di Maio che ripete mai con Berlusconi e Salvini che ripete mai con il Pd. Ma riusciranno a tenere le posizioni se Mattarella li richiamerà alla responsabilità istituzionale per un governo di larghe intese?».
L'attesa è per un mandato esplorativo alla presidente del Senato, Elisabetta Casellati, come fu per Franco Marini nel 2008 dopo la caduta di Prodi. Sarebbe molto utile per far capire al Cav le posizioni nascoste ed entrare nel sistema delle alleanze che si vanno delineando. «Se poi l'incarico Mattarella lo desse a Fico, dovremmo accendere un cero alla madonna- scherza un deputato di Fi-, perché potrebbe far esplodere le contraddizioni nel M5s e magari coinvolgere il Pd. Un tradimento di Salvini? Con un accordo con Di Maio escludendo Berlusconi, aprirebbe praterie immense da cavalcare».
di maio fico
Al leader della Lega, si ragiona in casa azzurra, probabilmente dopo le esplorazioni un incarico il capo dello Stato lo darà e bisognerà vedere come e con chi cercherà di costruire la sua maggioranza. Fra tante strade impervie e dietro il probabile fallimento di almeno due tentativi Berlusconi, che vuole a tutti i costi evitare il voto anticipato, vede la possibilità concreta del governo del presidente, anche con il Pd, per cambiare la legge elettorale, fare la manovra economica e affrontare gli impegni internazionali, particolarmente delicati per la crisi siriana.
17 apr 2018 11:14
IL CAV TORNA IN SELLA - BERLUSCONI FA PACE CON IL “SALVINIANO” GIOVANNI TOTI CON UNA CENA AD ARCORE E RICOMPATTA IL PARTITO
- SOGNA UN GOVERNO DI UNITÀ NAZIONALE, MAGARI SOLO DI UN ANNO, PER RIORGANIZZARE “FORZA ITALIA” E RECUPERARE LA CARICA PER NUOVE ELEZIONI
- E SE FOSSE RIABILITATO, POTREBBE TORNARE IN BALLO…
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1 - TOTI FA PACE CON B.: GLI REGALA IL PESTO E RINVIA LA SCALATA
Dal Fatto Quotidiano
silvio berlusconi borsalino giovanni toti 3
Giovanni Toti si rassegna all'armistizio. Dopo settimane di critica serrata alla leadership di Silvio Berlusconi, il governatore ligure di Forza Italia è stato ricevuto dall' ex Cavaliere per la cena dell' armistizio. Una cena a quattro - fanno sapere dalle rispettive ambasciate - che si è svolto "in un clima ottimo" nella nuova residenza di Francesca Pascale: oltre ai due leader azzurri erano presenti anche le rispettive partner.
toti berlusconi
L'incontro è stato anche preceduto da una telefonata tra lo stesso Toti e Niccolò Ghedini, con cui i rapporti si erano raffreddati nel periodo della composizione delle liste. Berlusconi avrebbe chiesto al presidente della Liguria di avere una presenza più assidua nella gestione del partito e Toti da parte sua avrebbe garantito di non essere a capo di nessuna fronda.
"Gli arancioni", ovvero i gruppi di "totiani" che sarebbero pronti a costruire un nuovo partito con il governatore, non sarebbero una minaccia - ha rassicurato il presidente della Liguria - ma una serie di liste civiche arruolati per sostenere il centrodestra alle elezioni regionali. Toti, infine, ha regalato a Berlusconi una maxiconfezione del pesto di Pra.
2 - IL PIANO DI BERLUSCONI SE SI RIVOTA TRA UN ANNO
Anna Maria Greco per “il Giornale”
Paolo Romani Renato Brunetta Matteo Salvini Giovanni Toti foto Lapresse
Silvio Berlusconi riunisce i gruppi parlamentari e ricompatta Forza Italia. L'incontro è fissato alle 17 di domani, probabilmente a Montecitorio. Ed è un modo per dire a tutti: «Ci sono sempre e la linea la decido io, non la delego a nessun altro».
Nell'operazione rientra anche la cena con Giovanni Toti e signora di domenica sera ad Arcore, nella villa di Francesca Pascale. Con il governatore ligure, vicino a Matteo Salvini e principale voce critica tra gli azzurri, alfiere del rinnovamento e del partito unico del centrodestra, il Cavaliere riallaccia il dialogo anche per depotenziarne all'esterno l'effetto divisivo, evitare che diventi il punto di riferimento del malcontento di tanti.
salvini meloni e berlusconi in conferenza stampa
Berlusconi fa ogni sforzo per evitare che Fi vada allo sbando, si logori, schiacciata dalla vittoria alle elezioni della Lega e dalle trattative del suo leader per un governo con il M5s che continua a porre il veto su di lui. Tanto attivismo coincide con la prospettiva delle elezioni regionali ed è in queste occasioni che il Cav dà il meglio di sé, convinto di essere una «macchina da voti».
Alla vigilia di quelle di domenica in Molise, dove potrebbe tornare a fine settimana, Berlusconi legge nei sondaggi che danno solo 1-2 punti di scarto sui grillini la possibilità di intestarsi un'eventuale vittoria. In Friuli il 29 aprile è scontato un ampio successo di Massimiliano Fedriga della Lega, ma prima viene l'appuntamento molisano e il leader azzurro spera che scendendo in campo con tanto impegno darà una valenza politica al voto, inviando un segnale a Salvini. Al tempo stesso, cerca così di silenziare Di Maio e Di Battista, che continuano a sparare contro il «male assoluto».
salvini e berlusconi in conferenza stampa
«Sembra che ogni giorno recitino le lodi mattutine - dice un azzurro di rango-, Di Maio che ripete mai con Berlusconi e Salvini che ripete mai con il Pd. Ma riusciranno a tenere le posizioni se Mattarella li richiamerà alla responsabilità istituzionale per un governo di larghe intese?».
L'attesa è per un mandato esplorativo alla presidente del Senato, Elisabetta Casellati, come fu per Franco Marini nel 2008 dopo la caduta di Prodi. Sarebbe molto utile per far capire al Cav le posizioni nascoste ed entrare nel sistema delle alleanze che si vanno delineando. «Se poi l'incarico Mattarella lo desse a Fico, dovremmo accendere un cero alla madonna- scherza un deputato di Fi-, perché potrebbe far esplodere le contraddizioni nel M5s e magari coinvolgere il Pd. Un tradimento di Salvini? Con un accordo con Di Maio escludendo Berlusconi, aprirebbe praterie immense da cavalcare».
di maio fico
Al leader della Lega, si ragiona in casa azzurra, probabilmente dopo le esplorazioni un incarico il capo dello Stato lo darà e bisognerà vedere come e con chi cercherà di costruire la sua maggioranza. Fra tante strade impervie e dietro il probabile fallimento di almeno due tentativi Berlusconi, che vuole a tutti i costi evitare il voto anticipato, vede la possibilità concreta del governo del presidente, anche con il Pd, per cambiare la legge elettorale, fare la manovra economica e affrontare gli impegni internazionali, particolarmente delicati per la crisi siriana.
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Re: Diario della caduta di un regime.
.....QUANDO UN PAESE SI DECOMPONE, SENZA SPERANZA,....SUCCEDE ANCHE QUESTO.......
17 apr 2018 10:24
L’ITALIA HA BISOGNO DI UN RE: PAOLO MIELI!
- MODESTA PROPOSTA DEL MARCHESE FULVIO ABBATE CHE VUOLE SUL TRONO QUEL GENIO DEL MALE DELL’EX DIRETTORE DEL “CORRIERE”: “DOTATO DI TALENTO POLITICO E CULTURALE, HA LA LUNGIMIRANZA PER SVOLGERE IL RUOLO CON LA PAZIENZA DEL TESSITORE CHE ACCOMPAGNA OGNI GESTO CON SGUARDO E CURA NECESSARI, IL MEDESIMO SGUARDO CHE SCORGIAMO IN LUI OGNIQUALVOLTA, IN VESTE DI STORIOGRAFO, PROVA AD ALFABETIZZARE LO SPETTATORE DI RAITRE”
L'ARTICOLO LO POTETE LEGGERE SU DAGOSPIA, PERCHE' L'ASILO MARIUCCIA, BLOCCA LA (PUBBòICAZIONE<<<<< )PUBBLICAZIONE
17 apr 2018 10:24
L’ITALIA HA BISOGNO DI UN RE: PAOLO MIELI!
- MODESTA PROPOSTA DEL MARCHESE FULVIO ABBATE CHE VUOLE SUL TRONO QUEL GENIO DEL MALE DELL’EX DIRETTORE DEL “CORRIERE”: “DOTATO DI TALENTO POLITICO E CULTURALE, HA LA LUNGIMIRANZA PER SVOLGERE IL RUOLO CON LA PAZIENZA DEL TESSITORE CHE ACCOMPAGNA OGNI GESTO CON SGUARDO E CURA NECESSARI, IL MEDESIMO SGUARDO CHE SCORGIAMO IN LUI OGNIQUALVOLTA, IN VESTE DI STORIOGRAFO, PROVA AD ALFABETIZZARE LO SPETTATORE DI RAITRE”
L'ARTICOLO LO POTETE LEGGERE SU DAGOSPIA, PERCHE' L'ASILO MARIUCCIA, BLOCCA LA (PUBBòICAZIONE<<<<< )PUBBLICAZIONE
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Re: Diario della caduta di un regime.
.......SENZA LA MINIMA SPERANZA.....................!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Mentre soffiano venti di guerra, più o meno credibili..........., nel Paese del BUNGA . BUNGA, succede questo:
Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano di stamani:
PICCOLE GUERREIl leghista: Vinco le Regionali e in 15 giorni faccio l'esecutivo
============================================================
AL LIVELLO SPETTATORI (5^ LIVELLO), SI SONO ACCORTI CHE B. TIENE PER LE PALLE IL CONDUTTORE DELLE RUSPE IN CAMICIA VERDE.
SUI MOTIVI DEL PERCHE' SALVINI SI FA TENERE PER LE PALLE DA B. SONO IN MOLTI A CHIEDERSELO.
IERI IL FATTO TITOLAVA CHE IL CAIMANO HA IL VIZIETTO DEI DOSSIER.
=========================================================
E' CHIARO PERCHE' HO DOVUTO FARE UNA RICERCA SULLA DEMENZA INFANTILE???????
=========================================================
Salvini dà gli ordini a Mattarella
Di Maio lo avverte e riapre al Pd
AL LIVELLO SPETTATORI (5^ LIVELLO), SI SONO ACCORTI CHE B. TIENE PER LE PALLE IL CONDUTTORE DELLE RUSPE IN CAMICIA VERDE.
SUI MOTIVI DEL PERCHE' SALVINI SI FA TENERE PER LE PALLE DA B. SONO IN MOLTI A CHIEDERSELO.
IERI IL FATTO TITOLAVA CHE IL CAIMANO HA IL VIZIETTO DEI DOSSIER.
CON QUESTO ARTICOLO SI CAPISCE MEGLIO PERCHE' B. TIENE PER LE PALLE L'AUTISTA DELLE RUSPE.
IN TRENTINO, FEDRIGA (LEGA), VUOL VINCERE LE REGIONALI.
OVVIO CHE SALVINI ABBIA BISOGNO DEL SOSTEGNO DEL CAIMANO.
QUINDI RIMANDA TUTTO A DOPO.
PRIMA L'AIUTO DI B. POI VEDREMO
Mentre soffiano venti di guerra, più o meno credibili..........., nel Paese del BUNGA . BUNGA, succede questo:
Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano di stamani:
PICCOLE GUERREIl leghista: Vinco le Regionali e in 15 giorni faccio l'esecutivo
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AL LIVELLO SPETTATORI (5^ LIVELLO), SI SONO ACCORTI CHE B. TIENE PER LE PALLE IL CONDUTTORE DELLE RUSPE IN CAMICIA VERDE.
SUI MOTIVI DEL PERCHE' SALVINI SI FA TENERE PER LE PALLE DA B. SONO IN MOLTI A CHIEDERSELO.
IERI IL FATTO TITOLAVA CHE IL CAIMANO HA IL VIZIETTO DEI DOSSIER.
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E' CHIARO PERCHE' HO DOVUTO FARE UNA RICERCA SULLA DEMENZA INFANTILE???????
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Salvini dà gli ordini a Mattarella
Di Maio lo avverte e riapre al Pd
AL LIVELLO SPETTATORI (5^ LIVELLO), SI SONO ACCORTI CHE B. TIENE PER LE PALLE IL CONDUTTORE DELLE RUSPE IN CAMICIA VERDE.
SUI MOTIVI DEL PERCHE' SALVINI SI FA TENERE PER LE PALLE DA B. SONO IN MOLTI A CHIEDERSELO.
IERI IL FATTO TITOLAVA CHE IL CAIMANO HA IL VIZIETTO DEI DOSSIER.
CON QUESTO ARTICOLO SI CAPISCE MEGLIO PERCHE' B. TIENE PER LE PALLE L'AUTISTA DELLE RUSPE.
IN TRENTINO, FEDRIGA (LEGA), VUOL VINCERE LE REGIONALI.
OVVIO CHE SALVINI ABBIA BISOGNO DEL SOSTEGNO DEL CAIMANO.
QUINDI RIMANDA TUTTO A DOPO.
PRIMA L'AIUTO DI B. POI VEDREMO
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Giannini: farsa anti-Silvio, i 5 Stelle verso l’inciucio col Pd
Scritto il 18/4/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».
Non si sono mai viste pressioni ed urgenze così “infestanti” per sostenere «il neoliberismo finanziario, estremista e globale», che in Italia «è equivalso a recessioni finanziarie e politiche di macelleria sociale». Ebbene: «Sarà un caso, ma subito dopo la prima “udienza” al Colle, Di Maio si è sperticato in elogi e lodi verso la permanenza nell’euro, nell’Ue e nel “Patto Atlantico”», scrive Giannini in una riflessione su “Come Don Chisciotte”. Intanto le settimane passano, e i vincitori delle elezioni «non si sono ancora accordati per cambiare l’Italia», voltando pagina rispetto al rigore che ha disastrato il paese. Prima del voto, continua Giannini, la Lega aveva fatto promettere solennemente al Cavaliere che non avrebbe tradito la coalizione con un nuovo “Nazareno” col Pd, ma a sua volta si era impegnata a non abbandonare Forza Italia per i 5 Stelle. A proposito: «Di Maio lo sa che quando dice “non rifaremo un Nazareno” si riferisce in primis al Pd? Allora perché ha dichiarato che è disponibile ad allearcisi?». Non può non sapere, Di Maio, che Salvini non potrebbe mai abbandonare Berlusconi: «Quindi evidentemente non vuole allearsi con la Lega, bensì col Pd».
Resta una sola possibilità, «per trasformare il voto democratico in un fatto». Questa: tornare alle urne con una inedita coalizione. «Se Lega, e 5S (e FdI) davvero vogliono governare insieme – scrive Giannini – devono riportarci al voto presentandosi coalizzati, dando il colpo di grazia a chi ci ha portato nella catastrofe negli ultimi 25 anni». In quel modo si avrebbe «una maggioranza chiara e solida, rispettosa della volontà dei cittadini stufi di alchimie e alleanze post-elettorali diverse dalle coalizioni pre-voto». Alchimie di quel genere, ricorda Gianni, «hanno sempre generato governi catastrofici (Ciampi, Dini, D’Alema, Monti, Letta, Renzi». Non sarà per per timore di questa inedita coalizione che Calenda (Pd) adesso vorrebbe governare coi 5 Stelle addirittura creando una Bicamerale per cambiare legge elettorale? Un cartello con Salvini e Meloni costringerebbe i grillini a uscire allo scoperto: si vedrebbe «se davvero vogliono governare per il paese o se Berlusconi è per loro solo una scusa per finire comodamente all’esecutivo col Pd (e la Bonino)». Per i 5 Stelle, in ogni caso, è finita l’epoca del rifiuto delle alleanze. Parlamentari neo-eletti già “affezionati” alla poltrona? Si può comprendere, ma un governo-salvezza vale ben di più.
L’inedita coalizione tra Di Maio, Salvini e Meloni avrebbe anche il merito di saldare il Sud al Nord, mentre un governo 5 Stelle-Lega con l’appoggio esterno di Forza Italia «renderebbe Berlusconi l’ombelico del mondo, in un costante e strumentale malpancismo». Per Giannini, «i cittadini italiani hanno il diritto di comprendere se ciò che passano i partiti e le Tv è reale o virtuale». Ovvero: si lotta per avere al timone una guida patriottica (euroscettica) oppure euro-entusiasta e quindi anti-italiana? «Nel primo caso, al tavolo con Merkel e Macron a decidere qualità e entità della famosa clausola di uscita concordata dall’euro si siederebbe anche l’Italia». Giannini invece ha il fondato sospetto che Forza Italia e 5 Stelle «stiano in realtà collaborando, mediante i ben noti veti incrociati». Obiettivi: non farcela sedere, l’Italia, a quel tavolo, perché «Berlusconi non può inimicarsi i “mercati” che detengono azioni Mediaset, mentre i 5 Stelle non si sa se sono ancora una forza autonoma o se sono diretti da soggetti con sede a Londra (appunto, i “mercati”)». Giannini ricorda che accettammo un rapporto d’ingresso catastrofico nell’euro (990 lire per 1 marco), che resta «il vero motivo delle nostre attuali sofferenze, perché non rispecchiante la nostra economia reale».
Non partecipare al nuovo tavolo europeo «sarebbe una ripetizione della storia in farsa, per la felicità dei vari global-entusiasti Napolitano, Mattarella, Merkel, Draghi, Clinton». Nel frattempo, Di Battista si agita a bordo campo definendo “male assoluto” Berlusconi? «Il forte sospetto – scrive Giannini – è che tutto ciò serva a far passare in secondo piano l’austerity come vero dramma per l’Italia e far digerire la prossima alleanza col Pd». E intanto, al grido “bisogna fare in fretta” (tanto caro a Monti, nel 2011) i media cercano di spaventare l’italiano medio, di manipolarlo e di convincerlo che nuove elezioni sarebbero una catastrofe economica. Così provano a «incatenarci altri anni all’ennesimo governo inciucista, venduto come al solito per “responsabile”». Che poi è la vera specialità del Pd, massimo garante italiano – almeno finora – dell’ordoliberismo europeo fondato sull’austerity. Ce l’avranno il coraggio, i 5 Stelle, si saltare l’ostacolo e puntare a premiare l’espressione popolare del 4 marzo, alleandosi con Salvini e Meloni? Viceversa, dimostrerebbero di essere solo la versione 2.0 del Pd, in salsa populista ma con lo stesso traguardo: rassicurare i grandi poteri neoliberisti e privatizzatori che stanno spolpando l’Italia.
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Giannini: farsa anti-Silvio, i 5 Stelle verso l’inciucio col Pd
Scritto il 18/4/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».
Non si sono mai viste pressioni ed urgenze così “infestanti” per sostenere «il neoliberismo finanziario, estremista e globale», che in Italia «è equivalso a recessioni finanziarie e politiche di macelleria sociale». Ebbene: «Sarà un caso, ma subito dopo la prima “udienza” al Colle, Di Maio si è sperticato in elogi e lodi verso la permanenza nell’euro, nell’Ue e nel “Patto Atlantico”», scrive Giannini in una riflessione su “Come Don Chisciotte”. Intanto le settimane passano, e i vincitori delle elezioni «non si sono ancora accordati per cambiare l’Italia», voltando pagina rispetto al rigore che ha disastrato il paese. Prima del voto, continua Giannini, la Lega aveva fatto promettere solennemente al Cavaliere che non avrebbe tradito la coalizione con un nuovo “Nazareno” col Pd, ma a sua volta si era impegnata a non abbandonare Forza Italia per i 5 Stelle. A proposito: «Di Maio lo sa che quando dice “non rifaremo un Nazareno” si riferisce in primis al Pd? Allora perché ha dichiarato che è disponibile ad allearcisi?». Non può non sapere, Di Maio, che Salvini non potrebbe mai abbandonare Berlusconi: «Quindi evidentemente non vuole allearsi con la Lega, bensì col Pd».
Resta una sola possibilità, «per trasformare il voto democratico in un fatto». Questa: tornare alle urne con una inedita coalizione. «Se Lega, e 5S (e FdI) davvero vogliono governare insieme – scrive Giannini – devono riportarci al voto presentandosi coalizzati, dando il colpo di grazia a chi ci ha portato nella catastrofe negli ultimi 25 anni». In quel modo si avrebbe «una maggioranza chiara e solida, rispettosa della volontà dei cittadini stufi di alchimie e alleanze post-elettorali diverse dalle coalizioni pre-voto». Alchimie di quel genere, ricorda Gianni, «hanno sempre generato governi catastrofici (Ciampi, Dini, D’Alema, Monti, Letta, Renzi». Non sarà per per timore di questa inedita coalizione che Calenda (Pd) adesso vorrebbe governare coi 5 Stelle addirittura creando una Bicamerale per cambiare legge elettorale? Un cartello con Salvini e Meloni costringerebbe i grillini a uscire allo scoperto: si vedrebbe «se davvero vogliono governare per il paese o se Berlusconi è per loro solo una scusa per finire comodamente all’esecutivo col Pd (e la Bonino)». Per i 5 Stelle, in ogni caso, è finita l’epoca del rifiuto delle alleanze. Parlamentari neo-eletti già “affezionati” alla poltrona? Si può comprendere, ma un governo-salvezza vale ben di più.
L’inedita coalizione tra Di Maio, Salvini e Meloni avrebbe anche il merito di saldare il Sud al Nord, mentre un governo 5 Stelle-Lega con l’appoggio esterno di Forza Italia «renderebbe Berlusconi l’ombelico del mondo, in un costante e strumentale malpancismo». Per Giannini, «i cittadini italiani hanno il diritto di comprendere se ciò che passano i partiti e le Tv è reale o virtuale». Ovvero: si lotta per avere al timone una guida patriottica (euroscettica) oppure euro-entusiasta e quindi anti-italiana? «Nel primo caso, al tavolo con Merkel e Macron a decidere qualità e entità della famosa clausola di uscita concordata dall’euro si siederebbe anche l’Italia». Giannini invece ha il fondato sospetto che Forza Italia e 5 Stelle «stiano in realtà collaborando, mediante i ben noti veti incrociati». Obiettivi: non farcela sedere, l’Italia, a quel tavolo, perché «Berlusconi non può inimicarsi i “mercati” che detengono azioni Mediaset, mentre i 5 Stelle non si sa se sono ancora una forza autonoma o se sono diretti da soggetti con sede a Londra (appunto, i “mercati”)». Giannini ricorda che accettammo un rapporto d’ingresso catastrofico nell’euro (990 lire per 1 marco), che resta «il vero motivo delle nostre attuali sofferenze, perché non rispecchiante la nostra economia reale».
Non partecipare al nuovo tavolo europeo «sarebbe una ripetizione della storia in farsa, per la felicità dei vari global-entusiasti Napolitano, Mattarella, Merkel, Draghi, Clinton». Nel frattempo, Di Battista si agita a bordo campo definendo “male assoluto” Berlusconi? «Il forte sospetto – scrive Giannini – è che tutto ciò serva a far passare in secondo piano l’austerity come vero dramma per l’Italia e far digerire la prossima alleanza col Pd». E intanto, al grido “bisogna fare in fretta” (tanto caro a Monti, nel 2011) i media cercano di spaventare l’italiano medio, di manipolarlo e di convincerlo che nuove elezioni sarebbero una catastrofe economica. Così provano a «incatenarci altri anni all’ennesimo governo inciucista, venduto come al solito per “responsabile”». Che poi è la vera specialità del Pd, massimo garante italiano – almeno finora – dell’ordoliberismo europeo fondato sull’austerity. Ce l’avranno il coraggio, i 5 Stelle, si saltare l’ostacolo e puntare a premiare l’espressione popolare del 4 marzo, alleandosi con Salvini e Meloni? Viceversa, dimostrerebbero di essere solo la versione 2.0 del Pd, in salsa populista ma con lo stesso traguardo: rassicurare i grandi poteri neoliberisti e privatizzatori che stanno spolpando l’Italia.
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Euro e Russia: grillini beffati, Di Maio cambia il programma
Scritto il 18/4/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».
Per recuperare il vecchio programma, scrive il “Foglio”, basta andare su “Internet Archive” – la più grande biblioteca della rete – e utilizzare la funzione “Wayback Machine”, che consente di risalire alle pagine web modificate o cancellate. Fino al 2 febbraio sul sito del M5S c’era un programma, ma il 7 marzo – tre giorni dopo le elezioni – ce n’era già un altro, «totalmente diverso e spesso diametralmente opposto». E’ il caso del “programma Esteri”, di stringente attualità vista la crisi in Siria. «Gli iscritti avevano votato per un’impostazione radicale, terzomondista, filo-russa e anti-atlantica. Il nuovo “programma Esteri” è stato bonificato: tolte le contestazioni alla Nato e agli Stati Uniti, addolcite le critiche all’euro e all’Ue, smussati gli elogi alla Russia». Il capitolo su “Sovranità e indipendenza” si apriva così: “Il caos che regna in Libia dimostra che l’unilateralismo dell’intervento umanitario è fallito”. E ancora: “Ripudiamo ogni forma di colonialismo, neocolonialismo e ingerenza straniera”. Tutto sparito, rileva il “Foglio”. «Nella nuova versione si parla di “affrontare insieme in Europa” le sfide del domani “come Stati sovrani liberi e indipendenti” nel mondo multipolare. Un’altra musica, più soft».
Il capitolo sul “Ripudio della guerra” partiva secco: “Iraq, Somalia, ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Ucraina, Siria. L’elenco dei paesi distrutti dall’unilateralismo occidentale potrebbe essere molto più lungo”. E proseguiva catastrofico: “Le guerre di conquista dell’ultimo periodo hanno portato il mondo a un passo dall’Apocalisse e hanno prodotto centinaia di migliaia di morti, feriti, mutilati e sfollati. Territori devastati, smembrati, economie fallite, destabilizzazioni estese a intere regioni e milioni di persone”. Tutto cancellato, osserva Capone sul “Foglio”: «Ora il tono è più posato e burocratico, si parla di “ricerca del multilateralismo, della cooperazione e del dialogo tra le popolazioni” e si ribadisce che “le operazioni per il mantenimento della pace debbano svolgersi in stretta ottemperanza ai principi della Carta dell’Onu”». Ma il passaggio dall’“Apocalisse” alla “stretta ottemperanza” è niente, rispetto alla metamorfosi della posizione sulla Nato: “Il ‘sistema di sicurezza occidentale’ non solo non ci ha reso più sicuri, ma è il primo responsabile del caos odierno. Dall’invasione della Libia fino alla distruzione pianificata della Siria – c’era scritto – il sistema di sicurezza occidentale ha registrato una serie di fallimenti che hanno portato alle popolazioni dei paesi membri, miliardi di euro di perdite, immigrazione fuori controllo e destabilizzazione di aree fondamentali per la sicurezza e l’economia dell’Europa”.
L’alleanza atlantica veniva descritta come la causa principale dell’instabilità globale, arrivando a vagheggiare una rottura del patto: ci sarebbe ormai “una discordanza tra l’interesse della sicurezza nazionale italiana con le strategie messe in atto dalla Nato”. Per questo il M5S proponeva un “disimpegno da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la Costituzione”. Tutti gli attacchi alla Nato sono stati eliminati, prende nota il “Foglio”. «Nella nuova versione, cambiata poco prima o poco dopo le elezioni, il passaggio più duro parla dell’“esigenza di aprire un tavolo di confronto in seno alla Nato”». Anche la parte sul Medio Oriente era una dura accusa all’Occidente: “I nostri governi hanno distrutto intere popolazioni, come quella siriana, seguendo l’interventismo occidentale della Nato, cui l’Italia ha colpevolmente prestato il fianco rompendo le relazioni diplomatiche con Damasco”. Ora è stato tolto ogni riferimento al regime di Assad e compaiono le responsabilità dei paesi arabi, che hanno “un sistema di governo a dir poco inadeguato agli standard universali”. Il capitolo sulla Russia? E’ stato emendato da alcune critiche sulle sanzioni. “L’Ue, adeguandosi agli Usa – c’era scritto – ha gradualmente imposto misure restrittive nei confronti della Russia”. Le “azioni di Mosca” in Crimea e Ucraina? Erano “volte al mantenimento della sua sfera di influenza nello spazio ex sovietico a fronte del progressivo allargamento della Nato”. Tutto sparito.
Analogamente, aggiunge il “Foglio”, sono state riviste le critiche all’euro: dal passaggio-chiave iniziale (“La situazione italiana nella zona euro è insostenibile, siamo succubi della moneta unica”), il neo-programma di Di Maio approda a lidi più rassicuranti per l’establishment: “Questo non significa abbandonare perentoriamente la moneta unica”. Non che i 5 Stelle siano mai stati chiari, in materia: hanno persino cercato di approdare al gruppo iper-eurista dell’Alde a Strasburgo, senz’altro proporre – in Italia – che la vaghezza di un ipotetico referendum consultivo sulla moneta unica. Hanno sparato volentieri sull’euro, a parole, ma senza mai impegnarsi in una posizione politica ufficiale (come ad esempio quella espressa da Borghi e Bagnai, in quota Lega). Ora la retromarcia di Di Maio conferma agli elettori no-euro che sì, hanno proprio sbagliato a votare 5 Stelle. «Questi esempi – scrive il “Foglio” – riguardano solo le dieci paginette del “programma esteri”, ma vanno moltiplicati per le altre diciannove aree tematiche, più le quattro aggiunte senza alcuna votazione». Nel “programma Banche” sono state inserite proposte mai votate, dal “programma Lavoro” è stato rimosso il capitolo sui “Sindacati senza privilegi”.
Ci sono programmi stravolti come quello sullo “Sviluppo economico”, sceso da 92 a 9 pagine, e altri rielaborati da capo a piedi come quello sull’agricoltura. Chi ha scritto il nuovo programma e deciso di sostituirlo a quello votato dagli iscritti? «Probabilmente Di Maio e la sua cerchia ristretta», scrive Capone. «Ma di certo il ruolo di Davide Casaleggio, che materialmente attraverso Rousseau ha cambiato i documenti, mostra come chi si è posto al di sopra di tutti non sia il “garante” della democrazia diretta ma il suo “manipolatore”». Questa manovra, che per il “Foglio” riguarda il principio più sacro (la democrazia diretta) nonché lo strumento più importante (il programma) della vita politica del partito, «svela la grande finzione del M5S e la potenza totalitaria del suo meccanismo». Aggiunge Capone: «La storia è piena di partiti che hanno tradito il programma elettorale, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma qui si fa un passo ulteriore: il programma viene stravolto in segreto per far credere a militanti ed elettori che è quello che loro hanno sempre voluto e consacrato con il voto. Più che la volontà generale di Rousseau, è un sistema che ricorda la fattoria degli animali di Orwell».
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Euro e Russia: grillini beffati, Di Maio cambia il programma
Scritto il 18/4/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».
Per recuperare il vecchio programma, scrive il “Foglio”, basta andare su “Internet Archive” – la più grande biblioteca della rete – e utilizzare la funzione “Wayback Machine”, che consente di risalire alle pagine web modificate o cancellate. Fino al 2 febbraio sul sito del M5S c’era un programma, ma il 7 marzo – tre giorni dopo le elezioni – ce n’era già un altro, «totalmente diverso e spesso diametralmente opposto». E’ il caso del “programma Esteri”, di stringente attualità vista la crisi in Siria. «Gli iscritti avevano votato per un’impostazione radicale, terzomondista, filo-russa e anti-atlantica. Il nuovo “programma Esteri” è stato bonificato: tolte le contestazioni alla Nato e agli Stati Uniti, addolcite le critiche all’euro e all’Ue, smussati gli elogi alla Russia». Il capitolo su “Sovranità e indipendenza” si apriva così: “Il caos che regna in Libia dimostra che l’unilateralismo dell’intervento umanitario è fallito”. E ancora: “Ripudiamo ogni forma di colonialismo, neocolonialismo e ingerenza straniera”. Tutto sparito, rileva il “Foglio”. «Nella nuova versione si parla di “affrontare insieme in Europa” le sfide del domani “come Stati sovrani liberi e indipendenti” nel mondo multipolare. Un’altra musica, più soft».
Il capitolo sul “Ripudio della guerra” partiva secco: “Iraq, Somalia, ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Ucraina, Siria. L’elenco dei paesi distrutti dall’unilateralismo occidentale potrebbe essere molto più lungo”. E proseguiva catastrofico: “Le guerre di conquista dell’ultimo periodo hanno portato il mondo a un passo dall’Apocalisse e hanno prodotto centinaia di migliaia di morti, feriti, mutilati e sfollati. Territori devastati, smembrati, economie fallite, destabilizzazioni estese a intere regioni e milioni di persone”. Tutto cancellato, osserva Capone sul “Foglio”: «Ora il tono è più posato e burocratico, si parla di “ricerca del multilateralismo, della cooperazione e del dialogo tra le popolazioni” e si ribadisce che “le operazioni per il mantenimento della pace debbano svolgersi in stretta ottemperanza ai principi della Carta dell’Onu”». Ma il passaggio dall’“Apocalisse” alla “stretta ottemperanza” è niente, rispetto alla metamorfosi della posizione sulla Nato: “Il ‘sistema di sicurezza occidentale’ non solo non ci ha reso più sicuri, ma è il primo responsabile del caos odierno. Dall’invasione della Libia fino alla distruzione pianificata della Siria – c’era scritto – il sistema di sicurezza occidentale ha registrato una serie di fallimenti che hanno portato alle popolazioni dei paesi membri, miliardi di euro di perdite, immigrazione fuori controllo e destabilizzazione di aree fondamentali per la sicurezza e l’economia dell’Europa”.
L’alleanza atlantica veniva descritta come la causa principale dell’instabilità globale, arrivando a vagheggiare una rottura del patto: ci sarebbe ormai “una discordanza tra l’interesse della sicurezza nazionale italiana con le strategie messe in atto dalla Nato”. Per questo il M5S proponeva un “disimpegno da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la Costituzione”. Tutti gli attacchi alla Nato sono stati eliminati, prende nota il “Foglio”. «Nella nuova versione, cambiata poco prima o poco dopo le elezioni, il passaggio più duro parla dell’“esigenza di aprire un tavolo di confronto in seno alla Nato”». Anche la parte sul Medio Oriente era una dura accusa all’Occidente: “I nostri governi hanno distrutto intere popolazioni, come quella siriana, seguendo l’interventismo occidentale della Nato, cui l’Italia ha colpevolmente prestato il fianco rompendo le relazioni diplomatiche con Damasco”. Ora è stato tolto ogni riferimento al regime di Assad e compaiono le responsabilità dei paesi arabi, che hanno “un sistema di governo a dir poco inadeguato agli standard universali”. Il capitolo sulla Russia? E’ stato emendato da alcune critiche sulle sanzioni. “L’Ue, adeguandosi agli Usa – c’era scritto – ha gradualmente imposto misure restrittive nei confronti della Russia”. Le “azioni di Mosca” in Crimea e Ucraina? Erano “volte al mantenimento della sua sfera di influenza nello spazio ex sovietico a fronte del progressivo allargamento della Nato”. Tutto sparito.
Analogamente, aggiunge il “Foglio”, sono state riviste le critiche all’euro: dal passaggio-chiave iniziale (“La situazione italiana nella zona euro è insostenibile, siamo succubi della moneta unica”), il neo-programma di Di Maio approda a lidi più rassicuranti per l’establishment: “Questo non significa abbandonare perentoriamente la moneta unica”. Non che i 5 Stelle siano mai stati chiari, in materia: hanno persino cercato di approdare al gruppo iper-eurista dell’Alde a Strasburgo, senz’altro proporre – in Italia – che la vaghezza di un ipotetico referendum consultivo sulla moneta unica. Hanno sparato volentieri sull’euro, a parole, ma senza mai impegnarsi in una posizione politica ufficiale (come ad esempio quella espressa da Borghi e Bagnai, in quota Lega). Ora la retromarcia di Di Maio conferma agli elettori no-euro che sì, hanno proprio sbagliato a votare 5 Stelle. «Questi esempi – scrive il “Foglio” – riguardano solo le dieci paginette del “programma esteri”, ma vanno moltiplicati per le altre diciannove aree tematiche, più le quattro aggiunte senza alcuna votazione». Nel “programma Banche” sono state inserite proposte mai votate, dal “programma Lavoro” è stato rimosso il capitolo sui “Sindacati senza privilegi”.
Ci sono programmi stravolti come quello sullo “Sviluppo economico”, sceso da 92 a 9 pagine, e altri rielaborati da capo a piedi come quello sull’agricoltura. Chi ha scritto il nuovo programma e deciso di sostituirlo a quello votato dagli iscritti? «Probabilmente Di Maio e la sua cerchia ristretta», scrive Capone. «Ma di certo il ruolo di Davide Casaleggio, che materialmente attraverso Rousseau ha cambiato i documenti, mostra come chi si è posto al di sopra di tutti non sia il “garante” della democrazia diretta ma il suo “manipolatore”». Questa manovra, che per il “Foglio” riguarda il principio più sacro (la democrazia diretta) nonché lo strumento più importante (il programma) della vita politica del partito, «svela la grande finzione del M5S e la potenza totalitaria del suo meccanismo». Aggiunge Capone: «La storia è piena di partiti che hanno tradito il programma elettorale, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma qui si fa un passo ulteriore: il programma viene stravolto in segreto per far credere a militanti ed elettori che è quello che loro hanno sempre voluto e consacrato con il voto. Più che la volontà generale di Rousseau, è un sistema che ricorda la fattoria degli animali di Orwell».
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Dibattito
La sinistra ora è in prestito ai Cinque Stelle
Dalle battaglie sociali alla partecipazione. Il Movimento Cinque Stelle, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni interne, si è impadronito di un'eredità. Per adesso o per sempre?
di S. Borghese, V. Fabbrini, L. Newman
18 aprile 2018
Dopo l'intervento di Paola Natalicchio della scorsa settimana, prosegue il dibattito sul destino della sinistra. Gli autori sono tre giovani ricercatori*
Essere di sinistra può assumere tante connotazioni: estetiche, industriali, clientelari, campanilistiche, e dipolicy. In modi diversi sono identificabili come di sinistra le scarpe Camper, le cooperative, il sistema di relazioni che girava attorno alla Monte dei Paschi di Siena, il Livorno calcio e la legge Cirinnà. Nozioni di cosa è non è di sinistra possono però cambiare con il tempo. Che Guevara è un’icona della sinistra, ma è riverito anche da CasaPound.
Fondamentalmente, però, essere di sinistra vuol dire credere in un ideale di giustizia sociale in favore dei meno abbienti. Quest’accezione moderna di sinistra nasce nell’immediato post rivoluzione francese quando, durante l’assemblea degli Stati Generali, le forze rivoluzionarie occuparono la parte sinistra dell’emiciclo. Nel solco di questa tradizione, secondo il filosofo italiano Norberto Bobbio, chi è di sinistra vede l’eguaglianza come il valore più importante.
Il mezzo attraverso il quale si persegue l’ideale egualitario cambia però a seconda delle dottrine politico-economiche. Il socialismo offre il mezzo della collettivizzazione. Si tratta di una dottrina che è stata a lungo dominante e spesso identificata tout court con l’ideale di sinistra, ma non è l’unica. Il keynesismo, ad esempio, rientra nel paradigma economico capitalista, ma è generalmente considerato di sinistra perché prevede un sostegno alla domanda interna durante i cicli economici recessivi.
A prescindere da dottrine economiche, marche di calzatura e sistemi di potere, l’essere di sinistra significa senz’altro avere a cuore le condizioni di vita di chi sta peggio. È innanzitutto un’attitudine, qualcosa che si fa tutti i giorni, prima ancora di declinarsi in una posizione politica.
Dopo Tangentopoli e la caduta del muro di Berlino, si è presentata in Italia una classe dirigente nuova, che in tante aree non è mai cambiata. Sono gli anni in cui a destra emergono i berlusconiani e a sinistra i dalemiani e i veltroniani – forze sociali che hanno visto il loro tramonto solo con il risultato delle politiche del 2018.
L’establishment di sinistra, dai partiti ai sistemi di potere privato e pubblico che li circondano, è quindi rimasto sostanzialmente immutato in quest’ultimoquarto di secolo. L’elettorato, invece, no.
I dati elettorali più sofisticati, disponibili dalle politiche del 2008 in poi, dimostrano come quello che era il bacino elettorale di riferimento della sinistra ha visto cambiare radicalmente le proprie condizioni e prospettive socio economiche in questi anni. Quella classe operaia che aveva sempre votato a sinistra si è progressivamente impoverita, invecchiata o precarizzata. Anche la classe media ha visto ridursi drasticamente il proprio reddito pro-capite, in maniera talvolta vertiginosa. Continuano a votare a sinistra soprattutto coloro che continuano a sentirsi rappresentati da una leadership anziana che focalizza la propria offerta politica su tematiche tradizionalmente affini ai più anziani e chi da loro dipende: immigrazione, rigore fiscale, pensioni, tutti temi tradizionalmente di destra.
I dati più recenti evidenziano proprio come il bacino elettorale di riferimento sia cambiato, diventando anziano e arroccandosi nei centri borghesi delle grandi città.
Già nel 2013 infatti il voto al PD era stato quasi direttamente proporzionale all’età, restando sotto il 20 per cento tra chi aveva meno di 40 anni e salendo al 37 per cento tra gli over 65 (dati ITANES); una dinamica che si è ripetuta anche nel 2018, quando il PD ha ottenuto più del 20 per cento solo tra chi ha più di 55 anni, e il 28 tra gli ultra 65enni, secondo i dati del sondaggio Quorum/YouTrend per Sky Tg24.
Lo stesso istituto ha calcolato come il PD abbia fatto registrare la migliore tenuta, in un contesto di arretramento generale, proprio nei grandi centri urbani con più di 300 mila abitanti, mantenendo il 70% dei propri elettori 2013, a fronte di una tenuta del 65-66 per cento nei comuni inferiori; ancora più indicativo il dato in voti assoluti, dove si nota che il PD (e il centrosinistra “tradizionale” nel suo complesso) va meglio solo nei comuni di maggiori dimensioni, superando il 20 per cento (e il 30 per cento considerando tutta l’area progressista) soltanto nelle città con più di 100 mila abitanti.
Il consenso trasversale nelle regioni rosse (che lo sono sempre meno) ha resistito fintanto che c’è stato un ricambio della classe dirigente locale, capace di una buona gestione economica a favore della propria la base, portando avanti un’agenda progressista, egualitaria. Le elezioni del 4 marzo hanno visto crollare questa certezza: per la prima volta dal 1946, in Emilia-Romagna la sinistra non è stata la prima forza politica. Qui, come altrove in Italia, Il grosso del bacino elettorale ha sofferto tutte le conseguenze del declino macroeconomico, senza paragoni nel mondo occidentale, patito dall’Italia dal 2000 in poi. I pochi investimenti e la mala-gestione della globalizzazione hanno decimato gli ecosistemi produttivi da cui dipendeva l’impiego degli elettori di sinistra. L’establishment di sinistra, come quello di destra, non ha saputo rispondere a questa sfida, se non a livello pratico sicuramentenon a livello di retorica, cultura e capacità di ascolto. Il bacino elettorale di riferimento ha quindi buone ragioni per aver perso fiducia, ed è tra questi delusi che i Cinque Stelle hanno trovato la loro più importante fonte di consenso.
Gli studi sui flussi elettorali confermano che sia nel 2013 che nel 2018 una parte consistente dell’elettorato del M5S aveva votato, in precedenza, per uno dei partiti progressisti “tradizionali”: PD, IDV o sinistra. Nel 2013 tale quota era pari al 42% dell’elettorato complessivo dei Cinque Stelle (dati ITANES), mentre la principale destinazione – ad eccezione dell’astensione – degli elettori che sia nel 2013 che nel 2014 avevano votato il PD (quindi, guidato sia da Bersani che da Renzi) è stata, nel 2018, il Movimento (secondo il sondaggio Quorum/YouTrend per Sky TG24). L’elettorato di riferimento della sinistra sembra aver trovato nel Movimento qualcosa che il suo establishment di riferimento ha perso.
Si può capire cosa esattamente analizzando le battaglie identitarie del Movimento. Analizzando i media, queste sono principalmente il richiamo all’onestà e il sostegno ai poveri. L’onestà è predicata attraverso la battaglia sui vitalizi, il giustizialismo sommario verso i politici indagati e una retorica distruttiva nei confronti di qualsiasi autorità sospettata di corruzione. Il reddito di cittadinanza – una proposta, per quanto fiscalmente discutibile , di normale social welfare – è invece l’espressione più concreta della battaglia contro la povertà.
Anche la lotta all’immigrazione, perlomeno a livello di cornice ideologica,gioca un ruolo. La battaglia contro il disagio sociale è al centro della cultura dei Cinque Stelle, che hanno nella restituzione della voce alle persone comuni uno dei loro valori fondanti.
I sondaggi confermano che le battaglie a cui gli elettori Cinque Stelle tengono maggiormente sono proprio queste. Sono temi che hanno una presa naturale su chi ha un profilo sociodemografico più giovane, tendenzialmente disagiato o comunque caratterizzato dall’aver subito le conseguenze della stagnazione economica che dura dal 2000. Il rapporto di fiducia tra l’elettorato dei Cinque Stelle e il suo nascente establishment passa per questa condivisione di obbiettivi.
È importante anche precisare che l’opposizione ai vaccini, il razzismo becero, l’anti-intellettualismo sono posizioni minoritarie tra i seguaci del Movimento.
La vera proposta del Movimento però non risiede nei suoi contenuti ma nei processi rappresentativi.
I Cinque Stelle teorizzano infatti la nascita di una democrazia digitale diretta, in cui internet consente la formazione di un consenso su posizioni trasversali. Le primarie digitali, battezzate parlamentarie, e i referendum online su decisioni cruciali del Movimento, per quanto amatoriali o manipolative nella loro esecuzione, sono prassi fondanti. Consentono all’ex-elettore di sinistra di sentirsi nuovamente ascoltato da un establishment.
Si tratta di idee tipiche della sinistra radicale. La genesi intellettuale della democrazia diretta digitale risale infatti ai campus universitari americani di sinistra. Discende intellettualmente dal sogno collettivista di Marx, attuato poi attraverso la Comune di Parigi del 1871, nei primi Soviet e nei kibbutz israeliani. Alcune scelte lessicali adoperate dai Cinque Stelle – direttorio, Rousseau – sembrano voler ricondurre idealmente i processi di governancedel Movimento allo spirito della rivoluzione francese.
Poche settimane fa, Luigi Di Maio è stato deriso dal New York Times per aver lasciato la casa dei genitori solo cinque anni prima. Le statistiche dimostrano che la vicenda personale di Di Maio, e di tanti altri quadri del Movimento, è simile a quella di molti dei loro elettori. L’inesperienza professionale e il disagio vissuti da Di Maio, Fico e altri sono asset politici.
Riassumendo, il nascente establishment del Movimento è uno in cui un elettorato mediamente giovane, che normalmente tenderebbe a sinistra, si riconosce. I processi partecipativi proposti dal Movimento sono, almeno filosoficamente, di sinistra. Le loro battaglie identitarie – onestà e sostegno ai poveri – sono di sinistra. Il bacino elettorale della sinistra – inteso sia come vecchi elettori che come profilo socio-demografico degli elettori del 2008 – è in buona parte defluito ai Cinque Stelle. Se la sinistra istituzionale paga l’aver tentato a lungo di offrire soluzioni al malcontento senza doverloascoltare e rappresentare, il Movimento, al contrario, nei suoi primi nove anni ha potuto sia ascoltare che rappresentare il malcontento egregiamente. Il Movimento Cinque Stelle è, con tutti i suoi difetti e con tutte le sue contraddizioni interne, il nuovo partito di sinistra italiano.
Le battaglie politiche dei Cinque Stelle sono le stesse che l’establishment e i partiti di sinistra hanno smesso di fare, almeno a livello comunicativo. Se i governi di sinistra hanno attuato misure di contrasto al disagio sociale come il reddito d’inclusione, raramente questa questione è stata al centro della loro retorica. La lotta alla corruzione e alle clientele, elementi centrali nell’identità dei Cinque Stelle, è avvenuta concretamente attraverso provvedimenti del PD quali l’istituzione dell’ANAC e il nuovo codice degli appalti. Eppure non sono diventati elementi identitari dei partiti di sinistra. In tempi più recenti, scandali minori come quello di Banca Etruria sono stati gestiti male sul piano comunicativo, accrescendo l’impressione che l’establishment di sinistra sia un sistema di potere più che l’espressione di un consenso politico.
Tutto ciò è vero non solo a livello partitico madi classe dirigente in senso lato e di cultura politica. Al calo continuo del numero degli iscritti dei partiti di sinistra negli ultimi 25 anni si è accompagnato il declino delle cooperative, dei centri sociali e delle banche e aziende con consigli direttivi espressi dai partiti di sinistra. La cultura di sinistra si è evoluta di pari passo. Nella percezione mediatica, i suoi simboli odierni sono diventati confusi e autoreferenziali: il cashmere, i film in lingua originale, Capalbio. Si tratta di ossessioni da élite che non verrebbero così derise se la sinistra istituzionale avesse mantenuto una capacità di ascolto e rappresentanzapropria delle élite politiche in una democrazia rappresentativa, come insegna Bernard Manin.
Più che il fallimento di un leader, Renzi o D’Alema o Bersani, è un fallimento di leadership. Renzi è solo l’espressione finale di un declino pluridecennale. Il suo tentativo di eversione èstato l’ultimo respiro dell’ultima classe dirigente giovane dell’ultima regione rossa. Questo scollamento dalla base è stato così lento da essere ignorabile dall’establishment di sinistra. Fino al risultato del 4 marzo.
Storicamente, nel mondo occidentale, l’asse sinistra-destra non scompare. Cambiano semplicemente i partiti e le loro identità. E le ragioni per cui i partiti cambiano ideologia sono spesso legate alle loro strutture di potere. In America, fino agli anni ’50, il partito Repubblicano era la forza progressista e il partito Democratico quella conservatrice. In passato questo bipolarismo è stato interpretato dai Whigs, i Federalisti e altri. Nel Regno Unito vi è stato un percorso simile. Gli odierni partiti progressisti del Regno Unito e degli USA nascono da frange insoddisfatte dei partiti progressistiche c’erano prima. In Italia molti attribuiscono l’emergere del proto-fascismo di ispirazione socialista alla perdita di contatto con la base della Sinistra Storica e alla frustrazione del primo Mussolini con l’establishment socialista.
Similmente, spesso i quadri grillini sono persone che hanno rinunciato a permeare l’establishment, spesso quello di destra, ma più spesso quello di sinistra. Se Di Maio e Di Battista hanno vissuto le delusioni dei padri, dirigenti locali delle destre sociali, Virginia Raggi e Roberto Fico sono dei delusi dalla leadership di sinistra. Da ragazzo, anche lo stesso Di Battista si è definito di sinistra. La rosa di ministri proposta per il governo dai Cinque Stelle è composta da persone relativamente giovani, relativamente di sinistra, rimaste però ai margini dell’establishment progressista.
Questo è l’altro specchio della medaglia degli elettori grillini, che sono appunto più spesso vecchi elettori delusi della sinistra che della destra.
I tanti delusi tra le aspiranti classi dirigenti del post‘92, soprattutto ma non solo di sinistra,stanno formando un nuovo establishment che, per quanto possa essere poco qualificato, sta sostituendo quello precedente. È verosimile che delle componenti dell’attuale o aspirante classe dirigente di sinistra si lascino cooptare dai Cinque Stelle pur di sopravvivere o avere la propria occasione di ribalta. In alcune frange della società civile, questo sta già avvenendo.
La destra in Italia non è cambiata in questi anni, rimanendo sostanzialmente reazionaria, nonostante la tentata evoluzione berlusconiana. Per l’elevata età anagrafica della sua leadership, e a causa della centralità di Silvio Berlusconi, Forza Italia e la rete di relazioni che la circonda sono irriformabili. L’ha scoperto Gianfranco Fini proprio come lo sta scoprendo Matteo Renzi con il PD. Molti vedono però nell’avventura di Matteo Salvini un altro percorso: un tentativo di superare Forza Italia sostituendola, piuttosto che cambiandola dall’interno. I quadri della Lega salviniana sono infatti più giovani dei berlusconiani, ma molti sufficientemente moderati da essere ideologicamente ascrivibili a Forza Italia se volessero.
Queste nuove destra e sinistra sono protagoniste di un nuovo bipolarismo geografico. Un Settentrione che esce dalla crisi, più che schierarsi contro l’Europa o la migrazione, ha semplicemente votato un partito che propone una misura pro-crescita: la flat tax, ovvero un’aliquota IRPEF unica. Si tratterebbe di una riforma, per quanto utopica nell’attuale contesto fiscale italiano, essenzialmente di destra. Il Meridione, che non ha visto la ripresa economica, ha sostenuto con maggioranze schiaccianti un partito, il Movimento Cinque Stelle, che propone una misura assistenzialista altrettanto inverosimile, ma fondamentalmente di sinistra. L’emergere della Lega e dei Cinque Stelle tra le principali forze politiche ha più a che vedere con un ricambio di establishment che con un superamento ideologico.
Con la fine della cortina di ferro, si afferma il Washington Consensus. È la convinzione, nel seno della sinistra istituzionale americana, che le soluzioni economiche tipicamente liberali – globalizzazione, competizione – rappresentino l’unica ricetta credibile per la crescita macroeconomica. La sempre minor attenzione all’egualitarismo che vediamo oggi nella sinistra italiana nasce qui, traducendosi per la prima volta in politiche pubbliche con la Terza Via di Bill Clinton. Il primo ad adottare la Terza Via in Europa è Tony Blair, seguito via via da altri colleghi europei. Il principale punto di riferimento estero di Renzi, sia dal punto di vista ideologico che per come ha riformato il proprio partito, è proprio Tony Blair.
E fino al duplice trauma dell’elezione di Trump e la Brexit, molte sinistre occidentali hanno più o meno continuato su questa scia. Oggi, non avendo saputo tradurre la Terza Via in una dottrina egualitaria e credibile per le proprie basi, i partiti di sinistra tornano alle loro origini, come Corbyn nel Regno Unito e Sanders negli USA, oppure rischiano di scomparire a causa della concorrenza di un’offerta politica più innovativa, come è avvenuto con i socialisti in Francia o il PASOK in Grecia.
La sinistra istituzionale italiana dovrebbe cambiare radicalmente visione politica per trovare o ritrovare una base. Potrebbe farlo in direzione centrista oppure tornando a valori di sinistra tradizionale. In entrambi i casi, l’establishment di sinistra e l’elettorato che gli è rimasto fedele dovranno partire dal riconoscimento che il Movimento Cinque Stelle si è impadronito delle loro battaglie storiche. I meme sul reddito di cittadinanza, condivisissimi nei giorni del post-voto, suggerirebbero che questo non stia avvenendo.
Un cambio di paradigma potrebbe arrivare da un cambio di leadership in seno ai partiti. Molti sperano che un NicolaZingaretti o unCarlo Calenda abbiano il carisma per dare una nuova identità politica alla sinistra. Ma il problema è di classe dirigente e non solo quella dei partiti. Un cambio di visione difficilmente può essere imposto univocamente dall’alto come ha provato a fare, nel bene e nel male, Renzi. Strutturalmente e storicamente, infatti, è molto raro che un establishment sostanzialmente anziano e diffuso viva grandi cambi di rotta. Non a caso Potere al Popolo, ovvero la parte della sinistra radicale che più aveva avvertito la distanza tra sinistra istituzionale ed elettorato, ha una leadership e unabase giovane. Se altri giovani dirigenti che si identificano nella sinistra percepiscono di avere maggiori chance di emergere altrove, appunto tra i Cinque Stelle, è giusto essere scettici chela sinistra istituzionale per come la conosciamo possa sopravvivere a questa legislatura. Il 18,7% registrato dal PD il 4 marzo potrebbe essere stata un’ultima resistenza. La sinistra è viva, ma non lotta insieme a noi.
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Dibattito
La sinistra ora è in prestito ai Cinque Stelle
Dalle battaglie sociali alla partecipazione. Il Movimento Cinque Stelle, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni interne, si è impadronito di un'eredità. Per adesso o per sempre?
di S. Borghese, V. Fabbrini, L. Newman
18 aprile 2018
Dopo l'intervento di Paola Natalicchio della scorsa settimana, prosegue il dibattito sul destino della sinistra. Gli autori sono tre giovani ricercatori*
Essere di sinistra può assumere tante connotazioni: estetiche, industriali, clientelari, campanilistiche, e dipolicy. In modi diversi sono identificabili come di sinistra le scarpe Camper, le cooperative, il sistema di relazioni che girava attorno alla Monte dei Paschi di Siena, il Livorno calcio e la legge Cirinnà. Nozioni di cosa è non è di sinistra possono però cambiare con il tempo. Che Guevara è un’icona della sinistra, ma è riverito anche da CasaPound.
Fondamentalmente, però, essere di sinistra vuol dire credere in un ideale di giustizia sociale in favore dei meno abbienti. Quest’accezione moderna di sinistra nasce nell’immediato post rivoluzione francese quando, durante l’assemblea degli Stati Generali, le forze rivoluzionarie occuparono la parte sinistra dell’emiciclo. Nel solco di questa tradizione, secondo il filosofo italiano Norberto Bobbio, chi è di sinistra vede l’eguaglianza come il valore più importante.
Il mezzo attraverso il quale si persegue l’ideale egualitario cambia però a seconda delle dottrine politico-economiche. Il socialismo offre il mezzo della collettivizzazione. Si tratta di una dottrina che è stata a lungo dominante e spesso identificata tout court con l’ideale di sinistra, ma non è l’unica. Il keynesismo, ad esempio, rientra nel paradigma economico capitalista, ma è generalmente considerato di sinistra perché prevede un sostegno alla domanda interna durante i cicli economici recessivi.
A prescindere da dottrine economiche, marche di calzatura e sistemi di potere, l’essere di sinistra significa senz’altro avere a cuore le condizioni di vita di chi sta peggio. È innanzitutto un’attitudine, qualcosa che si fa tutti i giorni, prima ancora di declinarsi in una posizione politica.
Dopo Tangentopoli e la caduta del muro di Berlino, si è presentata in Italia una classe dirigente nuova, che in tante aree non è mai cambiata. Sono gli anni in cui a destra emergono i berlusconiani e a sinistra i dalemiani e i veltroniani – forze sociali che hanno visto il loro tramonto solo con il risultato delle politiche del 2018.
L’establishment di sinistra, dai partiti ai sistemi di potere privato e pubblico che li circondano, è quindi rimasto sostanzialmente immutato in quest’ultimoquarto di secolo. L’elettorato, invece, no.
I dati elettorali più sofisticati, disponibili dalle politiche del 2008 in poi, dimostrano come quello che era il bacino elettorale di riferimento della sinistra ha visto cambiare radicalmente le proprie condizioni e prospettive socio economiche in questi anni. Quella classe operaia che aveva sempre votato a sinistra si è progressivamente impoverita, invecchiata o precarizzata. Anche la classe media ha visto ridursi drasticamente il proprio reddito pro-capite, in maniera talvolta vertiginosa. Continuano a votare a sinistra soprattutto coloro che continuano a sentirsi rappresentati da una leadership anziana che focalizza la propria offerta politica su tematiche tradizionalmente affini ai più anziani e chi da loro dipende: immigrazione, rigore fiscale, pensioni, tutti temi tradizionalmente di destra.
I dati più recenti evidenziano proprio come il bacino elettorale di riferimento sia cambiato, diventando anziano e arroccandosi nei centri borghesi delle grandi città.
Già nel 2013 infatti il voto al PD era stato quasi direttamente proporzionale all’età, restando sotto il 20 per cento tra chi aveva meno di 40 anni e salendo al 37 per cento tra gli over 65 (dati ITANES); una dinamica che si è ripetuta anche nel 2018, quando il PD ha ottenuto più del 20 per cento solo tra chi ha più di 55 anni, e il 28 tra gli ultra 65enni, secondo i dati del sondaggio Quorum/YouTrend per Sky Tg24.
Lo stesso istituto ha calcolato come il PD abbia fatto registrare la migliore tenuta, in un contesto di arretramento generale, proprio nei grandi centri urbani con più di 300 mila abitanti, mantenendo il 70% dei propri elettori 2013, a fronte di una tenuta del 65-66 per cento nei comuni inferiori; ancora più indicativo il dato in voti assoluti, dove si nota che il PD (e il centrosinistra “tradizionale” nel suo complesso) va meglio solo nei comuni di maggiori dimensioni, superando il 20 per cento (e il 30 per cento considerando tutta l’area progressista) soltanto nelle città con più di 100 mila abitanti.
Il consenso trasversale nelle regioni rosse (che lo sono sempre meno) ha resistito fintanto che c’è stato un ricambio della classe dirigente locale, capace di una buona gestione economica a favore della propria la base, portando avanti un’agenda progressista, egualitaria. Le elezioni del 4 marzo hanno visto crollare questa certezza: per la prima volta dal 1946, in Emilia-Romagna la sinistra non è stata la prima forza politica. Qui, come altrove in Italia, Il grosso del bacino elettorale ha sofferto tutte le conseguenze del declino macroeconomico, senza paragoni nel mondo occidentale, patito dall’Italia dal 2000 in poi. I pochi investimenti e la mala-gestione della globalizzazione hanno decimato gli ecosistemi produttivi da cui dipendeva l’impiego degli elettori di sinistra. L’establishment di sinistra, come quello di destra, non ha saputo rispondere a questa sfida, se non a livello pratico sicuramentenon a livello di retorica, cultura e capacità di ascolto. Il bacino elettorale di riferimento ha quindi buone ragioni per aver perso fiducia, ed è tra questi delusi che i Cinque Stelle hanno trovato la loro più importante fonte di consenso.
Gli studi sui flussi elettorali confermano che sia nel 2013 che nel 2018 una parte consistente dell’elettorato del M5S aveva votato, in precedenza, per uno dei partiti progressisti “tradizionali”: PD, IDV o sinistra. Nel 2013 tale quota era pari al 42% dell’elettorato complessivo dei Cinque Stelle (dati ITANES), mentre la principale destinazione – ad eccezione dell’astensione – degli elettori che sia nel 2013 che nel 2014 avevano votato il PD (quindi, guidato sia da Bersani che da Renzi) è stata, nel 2018, il Movimento (secondo il sondaggio Quorum/YouTrend per Sky TG24). L’elettorato di riferimento della sinistra sembra aver trovato nel Movimento qualcosa che il suo establishment di riferimento ha perso.
Si può capire cosa esattamente analizzando le battaglie identitarie del Movimento. Analizzando i media, queste sono principalmente il richiamo all’onestà e il sostegno ai poveri. L’onestà è predicata attraverso la battaglia sui vitalizi, il giustizialismo sommario verso i politici indagati e una retorica distruttiva nei confronti di qualsiasi autorità sospettata di corruzione. Il reddito di cittadinanza – una proposta, per quanto fiscalmente discutibile , di normale social welfare – è invece l’espressione più concreta della battaglia contro la povertà.
Anche la lotta all’immigrazione, perlomeno a livello di cornice ideologica,gioca un ruolo. La battaglia contro il disagio sociale è al centro della cultura dei Cinque Stelle, che hanno nella restituzione della voce alle persone comuni uno dei loro valori fondanti.
I sondaggi confermano che le battaglie a cui gli elettori Cinque Stelle tengono maggiormente sono proprio queste. Sono temi che hanno una presa naturale su chi ha un profilo sociodemografico più giovane, tendenzialmente disagiato o comunque caratterizzato dall’aver subito le conseguenze della stagnazione economica che dura dal 2000. Il rapporto di fiducia tra l’elettorato dei Cinque Stelle e il suo nascente establishment passa per questa condivisione di obbiettivi.
È importante anche precisare che l’opposizione ai vaccini, il razzismo becero, l’anti-intellettualismo sono posizioni minoritarie tra i seguaci del Movimento.
La vera proposta del Movimento però non risiede nei suoi contenuti ma nei processi rappresentativi.
I Cinque Stelle teorizzano infatti la nascita di una democrazia digitale diretta, in cui internet consente la formazione di un consenso su posizioni trasversali. Le primarie digitali, battezzate parlamentarie, e i referendum online su decisioni cruciali del Movimento, per quanto amatoriali o manipolative nella loro esecuzione, sono prassi fondanti. Consentono all’ex-elettore di sinistra di sentirsi nuovamente ascoltato da un establishment.
Si tratta di idee tipiche della sinistra radicale. La genesi intellettuale della democrazia diretta digitale risale infatti ai campus universitari americani di sinistra. Discende intellettualmente dal sogno collettivista di Marx, attuato poi attraverso la Comune di Parigi del 1871, nei primi Soviet e nei kibbutz israeliani. Alcune scelte lessicali adoperate dai Cinque Stelle – direttorio, Rousseau – sembrano voler ricondurre idealmente i processi di governancedel Movimento allo spirito della rivoluzione francese.
Poche settimane fa, Luigi Di Maio è stato deriso dal New York Times per aver lasciato la casa dei genitori solo cinque anni prima. Le statistiche dimostrano che la vicenda personale di Di Maio, e di tanti altri quadri del Movimento, è simile a quella di molti dei loro elettori. L’inesperienza professionale e il disagio vissuti da Di Maio, Fico e altri sono asset politici.
Riassumendo, il nascente establishment del Movimento è uno in cui un elettorato mediamente giovane, che normalmente tenderebbe a sinistra, si riconosce. I processi partecipativi proposti dal Movimento sono, almeno filosoficamente, di sinistra. Le loro battaglie identitarie – onestà e sostegno ai poveri – sono di sinistra. Il bacino elettorale della sinistra – inteso sia come vecchi elettori che come profilo socio-demografico degli elettori del 2008 – è in buona parte defluito ai Cinque Stelle. Se la sinistra istituzionale paga l’aver tentato a lungo di offrire soluzioni al malcontento senza doverloascoltare e rappresentare, il Movimento, al contrario, nei suoi primi nove anni ha potuto sia ascoltare che rappresentare il malcontento egregiamente. Il Movimento Cinque Stelle è, con tutti i suoi difetti e con tutte le sue contraddizioni interne, il nuovo partito di sinistra italiano.
Le battaglie politiche dei Cinque Stelle sono le stesse che l’establishment e i partiti di sinistra hanno smesso di fare, almeno a livello comunicativo. Se i governi di sinistra hanno attuato misure di contrasto al disagio sociale come il reddito d’inclusione, raramente questa questione è stata al centro della loro retorica. La lotta alla corruzione e alle clientele, elementi centrali nell’identità dei Cinque Stelle, è avvenuta concretamente attraverso provvedimenti del PD quali l’istituzione dell’ANAC e il nuovo codice degli appalti. Eppure non sono diventati elementi identitari dei partiti di sinistra. In tempi più recenti, scandali minori come quello di Banca Etruria sono stati gestiti male sul piano comunicativo, accrescendo l’impressione che l’establishment di sinistra sia un sistema di potere più che l’espressione di un consenso politico.
Tutto ciò è vero non solo a livello partitico madi classe dirigente in senso lato e di cultura politica. Al calo continuo del numero degli iscritti dei partiti di sinistra negli ultimi 25 anni si è accompagnato il declino delle cooperative, dei centri sociali e delle banche e aziende con consigli direttivi espressi dai partiti di sinistra. La cultura di sinistra si è evoluta di pari passo. Nella percezione mediatica, i suoi simboli odierni sono diventati confusi e autoreferenziali: il cashmere, i film in lingua originale, Capalbio. Si tratta di ossessioni da élite che non verrebbero così derise se la sinistra istituzionale avesse mantenuto una capacità di ascolto e rappresentanzapropria delle élite politiche in una democrazia rappresentativa, come insegna Bernard Manin.
Più che il fallimento di un leader, Renzi o D’Alema o Bersani, è un fallimento di leadership. Renzi è solo l’espressione finale di un declino pluridecennale. Il suo tentativo di eversione èstato l’ultimo respiro dell’ultima classe dirigente giovane dell’ultima regione rossa. Questo scollamento dalla base è stato così lento da essere ignorabile dall’establishment di sinistra. Fino al risultato del 4 marzo.
Storicamente, nel mondo occidentale, l’asse sinistra-destra non scompare. Cambiano semplicemente i partiti e le loro identità. E le ragioni per cui i partiti cambiano ideologia sono spesso legate alle loro strutture di potere. In America, fino agli anni ’50, il partito Repubblicano era la forza progressista e il partito Democratico quella conservatrice. In passato questo bipolarismo è stato interpretato dai Whigs, i Federalisti e altri. Nel Regno Unito vi è stato un percorso simile. Gli odierni partiti progressisti del Regno Unito e degli USA nascono da frange insoddisfatte dei partiti progressistiche c’erano prima. In Italia molti attribuiscono l’emergere del proto-fascismo di ispirazione socialista alla perdita di contatto con la base della Sinistra Storica e alla frustrazione del primo Mussolini con l’establishment socialista.
Similmente, spesso i quadri grillini sono persone che hanno rinunciato a permeare l’establishment, spesso quello di destra, ma più spesso quello di sinistra. Se Di Maio e Di Battista hanno vissuto le delusioni dei padri, dirigenti locali delle destre sociali, Virginia Raggi e Roberto Fico sono dei delusi dalla leadership di sinistra. Da ragazzo, anche lo stesso Di Battista si è definito di sinistra. La rosa di ministri proposta per il governo dai Cinque Stelle è composta da persone relativamente giovani, relativamente di sinistra, rimaste però ai margini dell’establishment progressista.
Questo è l’altro specchio della medaglia degli elettori grillini, che sono appunto più spesso vecchi elettori delusi della sinistra che della destra.
I tanti delusi tra le aspiranti classi dirigenti del post‘92, soprattutto ma non solo di sinistra,stanno formando un nuovo establishment che, per quanto possa essere poco qualificato, sta sostituendo quello precedente. È verosimile che delle componenti dell’attuale o aspirante classe dirigente di sinistra si lascino cooptare dai Cinque Stelle pur di sopravvivere o avere la propria occasione di ribalta. In alcune frange della società civile, questo sta già avvenendo.
La destra in Italia non è cambiata in questi anni, rimanendo sostanzialmente reazionaria, nonostante la tentata evoluzione berlusconiana. Per l’elevata età anagrafica della sua leadership, e a causa della centralità di Silvio Berlusconi, Forza Italia e la rete di relazioni che la circonda sono irriformabili. L’ha scoperto Gianfranco Fini proprio come lo sta scoprendo Matteo Renzi con il PD. Molti vedono però nell’avventura di Matteo Salvini un altro percorso: un tentativo di superare Forza Italia sostituendola, piuttosto che cambiandola dall’interno. I quadri della Lega salviniana sono infatti più giovani dei berlusconiani, ma molti sufficientemente moderati da essere ideologicamente ascrivibili a Forza Italia se volessero.
Queste nuove destra e sinistra sono protagoniste di un nuovo bipolarismo geografico. Un Settentrione che esce dalla crisi, più che schierarsi contro l’Europa o la migrazione, ha semplicemente votato un partito che propone una misura pro-crescita: la flat tax, ovvero un’aliquota IRPEF unica. Si tratterebbe di una riforma, per quanto utopica nell’attuale contesto fiscale italiano, essenzialmente di destra. Il Meridione, che non ha visto la ripresa economica, ha sostenuto con maggioranze schiaccianti un partito, il Movimento Cinque Stelle, che propone una misura assistenzialista altrettanto inverosimile, ma fondamentalmente di sinistra. L’emergere della Lega e dei Cinque Stelle tra le principali forze politiche ha più a che vedere con un ricambio di establishment che con un superamento ideologico.
Con la fine della cortina di ferro, si afferma il Washington Consensus. È la convinzione, nel seno della sinistra istituzionale americana, che le soluzioni economiche tipicamente liberali – globalizzazione, competizione – rappresentino l’unica ricetta credibile per la crescita macroeconomica. La sempre minor attenzione all’egualitarismo che vediamo oggi nella sinistra italiana nasce qui, traducendosi per la prima volta in politiche pubbliche con la Terza Via di Bill Clinton. Il primo ad adottare la Terza Via in Europa è Tony Blair, seguito via via da altri colleghi europei. Il principale punto di riferimento estero di Renzi, sia dal punto di vista ideologico che per come ha riformato il proprio partito, è proprio Tony Blair.
E fino al duplice trauma dell’elezione di Trump e la Brexit, molte sinistre occidentali hanno più o meno continuato su questa scia. Oggi, non avendo saputo tradurre la Terza Via in una dottrina egualitaria e credibile per le proprie basi, i partiti di sinistra tornano alle loro origini, come Corbyn nel Regno Unito e Sanders negli USA, oppure rischiano di scomparire a causa della concorrenza di un’offerta politica più innovativa, come è avvenuto con i socialisti in Francia o il PASOK in Grecia.
La sinistra istituzionale italiana dovrebbe cambiare radicalmente visione politica per trovare o ritrovare una base. Potrebbe farlo in direzione centrista oppure tornando a valori di sinistra tradizionale. In entrambi i casi, l’establishment di sinistra e l’elettorato che gli è rimasto fedele dovranno partire dal riconoscimento che il Movimento Cinque Stelle si è impadronito delle loro battaglie storiche. I meme sul reddito di cittadinanza, condivisissimi nei giorni del post-voto, suggerirebbero che questo non stia avvenendo.
Un cambio di paradigma potrebbe arrivare da un cambio di leadership in seno ai partiti. Molti sperano che un NicolaZingaretti o unCarlo Calenda abbiano il carisma per dare una nuova identità politica alla sinistra. Ma il problema è di classe dirigente e non solo quella dei partiti. Un cambio di visione difficilmente può essere imposto univocamente dall’alto come ha provato a fare, nel bene e nel male, Renzi. Strutturalmente e storicamente, infatti, è molto raro che un establishment sostanzialmente anziano e diffuso viva grandi cambi di rotta. Non a caso Potere al Popolo, ovvero la parte della sinistra radicale che più aveva avvertito la distanza tra sinistra istituzionale ed elettorato, ha una leadership e unabase giovane. Se altri giovani dirigenti che si identificano nella sinistra percepiscono di avere maggiori chance di emergere altrove, appunto tra i Cinque Stelle, è giusto essere scettici chela sinistra istituzionale per come la conosciamo possa sopravvivere a questa legislatura. Il 18,7% registrato dal PD il 4 marzo potrebbe essere stata un’ultima resistenza. La sinistra è viva, ma non lotta insieme a noi.
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<<<<<<)Editoriale
Nella sospensione della crisi italiana
Sospesa la soluzione della crisi politica. Sospesa la leadership nel Pd. Sospeso il nostro Paese in Europa. La Grande Attesa non è finita con il voto, anzi. Perché la crisi è uno stato mentale, e anche l’Italia.
di Marco Damilano
16 aprile 2018
La Grande Sospesa. L’avevamo chiamata così sei mesi fa sull’Espresso, quando le elezioni erano ancora lontane e nessuna previsione sull’esito del voto sembrava possibile. Un paese alla frontiera tra un vecchio sistema in declino e un nuovo che stentava a nascere, tra gli schieramenti degli ultimi venticinque anni e i candidati alla loro successione tutti da esaminare, un paese che viveva «nell’attesa perenne di una stabilità politica e istituzionale che verrà, ovviamente domani», scriveva Ilvo Diamanti su queste pagine, perché di oggi, invece, non c’è certezza. La sospensione, lo stato di attesa, com’era prevedibile dopo l’approvazione frettolosa e miope della legge Rosatellum, si è prolungata dall’appuntamento con le urne del 4 marzo in queste settimane post-elettorali. E si sta trasformando in qualcosa di più: un’attitudine, per qualcuno forse addirittura una virtù, perché una soluzione accettabile domani è meglio di una trovata pasticciata oggi, una condizione esistenziale.
L’Italia vive come Chance il giardiniere interpretato da Peter Sellers in “Oltre il giardino” che nella scena finale cammina sulle acque e sente ripetere: la vita è uno stato mentale. La crisi è uno stato mentale, di sospensione.
Sospesa è la trattativa per formare un nuovo governo, tra il rito delle consultazioni al Quirinale, le esplorazioni, i mandati affidati a personalità istituzionali di antico lignaggio e di recentissima generazione, quella di Elisabetta Alberti Casellati e di Roberto Fico. Sospesi i rapporti di forza tra i partiti, nonostante il corpo elettorale si sia appena espresso nella sua totalità, per raffinare i pesi c’è già l’attesa di altre elezioni, di nuove proiezioni, sondaggi, voti, verifiche elettorali.
Le consultazioni regionali delle prossime settimane in Molise e in Friuli Venezia Giulia, finiscono quasi di contare di più del 4 marzo, il Movimento 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini, i vincitori di un mese e mezzo fa, aspettano nuovi successi da rilanciare sul tavolo da poker nazionale.
Sospesa è la leadership nel secondo partito italiano, il Partito democratico, uscito dimezzato dalle elezioni eppure potenzialmente ancora decisivo per trovare una exit strategy alla crisi, ma senza una classe dirigente in grado di decidere: si rinvia all’assemblea, al congresso, alle primarie, intanto si moltiplicano le candidature e le auto-candidature, l’impasse per la guida del partito fotografa quella per la guida del governo, e viceversa. Sospesa è la ricerca di un’identità a sinistra, la questione su cui L’Espresso ha aperto la settimana scorsa un dibattito che mette in gioco una tavola di valori sconvolta negli ultimi anni, anche se i protagonisti sembrano non essersene mai accorti, e che per questo richiede nuove voci, anche sul piano generazionale (dopo l’intervento di Paola Natalicchio dell’ultimo numero, in questo pubblichiamo le idee di tre ricercatori trentenni).
Sospesi, in realtà, sono tutti i partiti, da Forza Italia che vivacchia con la guida di Silvio Berlusconi pietrificata come una statua immobile, in una sospensione del tempo e dello spazio, al Movimento 5 Stelle che a Roma si presenta con il volto rassicurante di Luigi Di Maio, ferocemente determinato a occupare le posizioni che il successo elettorale gli ha consegnato, più di potere che di governo, e a Ivrea rivela la sagoma di Davide Casaleggio, imperscrutabile e oscura, aliena al confronto con l’altro da sé.
L’unico che sembra muoversi in questa navicella in orbita che è la politica italiana, con il punto di caduta ancora misterioso, è il leader leghista Salvini, e si vede. Lui ha la sua direzione, il tempo gioca per lui, il tempo breve della crisi e il tempo lungo della conquista dell’intero centrodestra, in un’Europa a sua volta sospesa, inconsapevole degli effetti sistemici di quanto sta accadendo in Italia. Sospeso è il governo, forse in molti se ne sono dimenticati ma è ancora in carica Paolo Gentiloni, i suoi ministri lavorano, a partire da Marco Minniti al Viminale, la realtà e le sue urgenze non ammettono vuoto.
«In politica sembrava ovvio (e ancora sembra ai più) che una parte volesse prevalere sull’altra, che una minoranza volesse diventare maggioranza; che si volesse, insomma, vincere. Ma lentamente ci accorgeremo che la politica è ai nostri giorni condizionata dalla paura di prevalere, di vincere; e che quella che si suol dire l’arte della politica consisterà nel trovare gli accorgimenti più acuti e più nascosti per non prevalere, per non vincere», scriveva Leonardo Sciascia più di quarant’anni fa. Oggi siamo arrivati a questo: i vincitori si dichiarano trionfanti, ma non si prendono la responsabilità di andare avanti, di costruire una soluzione credibile. Vorrebbero il potere, il comando, ma non il governo e le sue spine.
Anche il Quirinale sembra sospeso, ma non lo è. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella procede guidato dalla bussola dell’interesse nazionale e da una cultura politica di origine cattolico-democratica che prevede l’inclusione nelle istituzioni dei fenomeni che si agitano nella società. Portare dentro, dentro le istituzioni, il Parlamento, l’area del governo, quello che è nato e cresciuto fuori. Con una conseguenza, però. Chi fa questo cammino non può essere oggetto di nessuna esclusione, nessuna conventio ad excludendum è immaginabile, come avveniva in passato per il Pci per motivi interni e internazionali, specie per chi ha raccolto milioni di voti, nel caso del Movimento 5 Stelle, ma deve accettare le regole dell’inclusione: il riconoscimento degli avversari, la serietà politica (che prevede, ad esempio, che gli alleati non siano interscambiabili, oggi la Lega, domani il Pd, e viceversa), il rispetto dei pesi e dei contrappesi che in democrazia valgono più di chi raggiunge la maggioranza. Nella Russia di Putin e nell’Egitto di Al-Sisi si vota e si elegge una maggioranza, ma non esistono standard accettabili di qualità dell’informazione e di autonomia e indipendenza della magistratura.
Sono due fronti su cui, in un passato recente, sono cadute le ambizioni di cambiamento dei nuovi arrivati. Nel 1994 il centrodestra appena nato vinse le elezioni sulla spinta delle inchieste di Mani Pulite che avevano travolto la precedente classe dirigente, si era intestato l’effetto politico della rivoluzione giudiziaria. Un deputato della Lega aveva sventolato un cappio nell’aula di Montecitorio, spettacolo mai superato di giustizialismo forcaiolo in un’aula parlamentare. Un gruppo di deputati dell’allora Msi, guidato dall’allora deputato di prima nomina Maurizio Gasparri, aveva assediato il palazzo della Camera con una manifestazione di protesta e il vetro del portone di ingresso scheggiato dal lancio di un oggetto: un’azione squadrista. E le reti Fininvest e l’impero mediatico del Biscione di Silvio Berlusconi tifavano per i pm di Milano. Dopo il voto, i vincitori convocarono i magistrati simbolo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, e proposero loro di entrare nel nuovo governo come ministro dell’Interno e ministro della Giustizia. Per Di Pietro il luogo scelto fu addirittura lo studio legale di via Cicerone a Roma dell’avvocato Cesare Previti, condannato poi per corruzione in atti giudiziari: uno che le toghe usava comprarle, come al supermercato. I magistrati dissero di no e si scoprì fin da subito che quei vincitori così solerti con le esigenze di giustizia, legalità e onestà non tolleravano in realtà i poteri di controllo della magistratura e della libera stampa. E cominciò così una lunga guerra civile.
Nella sospensione dei poteri c’è anche questa partita. La magistratura attende l’elezione del nuovo Consiglio superiore della magistratura, le toghe sono chiamate al voto per l’inizio di luglio, il Parlamento dovrà scegliere i membri laici. Nello stesso periodo, a metà estate, finirà il suo mandato il consiglio di amministrazione della Rai, il nuovo sarà nominato con la legge approvata dal governo Renzi, con i membri eletti dalle due Camere e dal governo. Giustizia e informazione pubblica sono ancora una volta, come sempre, il banco di prova, il sintomo da cui si capisce lo stato di salute di una democrazia. Se il cambiamento consiste in un mutamento di metodi, comportamenti, mentalità, oppure si riduce a una semplice sostituzione di classe dirigente: i miei al posto dei tuoi, i nostri invece dei vostri. Con gli stessi criteri di fedeltà e obbedienza che hanno caratterizzato il passato. In una stagione in cui sulla rete e sui social le diverse fazioni si combattono a colpi di fake e di dileggio degli avversari, esterni e interni. Succede perfino nella Chiesa, come ha denunciato papa Francesco nella sua esortazione: «Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta». Un ritratto non edificante dello stato del dibattito pubblico all’interno della Chiesa, e dei meccanismi che scatenano le campagne di informazione e di disinformazione attorno a questo pontificato, che può essere applicato senza cambiare nulla alla violenza delle tifoserie politiche che ogni giorno si contendono sul web il possesso della verità e la delegittimazione di chi la pensa diversamente.
In questa sospensione, dunque, non è in gioco soltanto la nascita del governo. Ma anche la tenuta dello Stato, gli equilibri istituzionali, la qualità del confronto tra leader, partiti, elettorati diversi. E il ruolo dell’Italia in un’Europa sempre più egemonizzata dalle forze che mirano a distruggere il senso dello stare insieme nell’Unione. Viktor Orbán è la perfetta risultante del centro-destra italiano, è aderente del Ppe, come Silvio Berlusconi, e alfiere del sovranismo, il ritorno del nazionalismo e delle chiusure delle frontiere, come Matteo Salvini. Nessuno sembra portarsi all’altezza di questo contesto, nelle piccole miserie tattiche della politica italiana di queste settimane.
Avanza un inedito, un governo di co-gestione parlamentare, di cui sono un modello le commissioni speciali di Camera e Senato chiamate a esaminare i provvedimenti più urgenti, in attesa che si formino le commissioni permanenti. Al Senato è presieduta da Vito Crimi (M5S), alla Camera dal leghista Giancarlo Giorgetti, il braccio destro di Salvini, la mente più lucida della Lega, ambasciatore tra i poteri economici e finanziari, immancabile convitato in tutte le trattative decollate e tramontate di questi giorni, candidato a Palazzo Chigi. Il governo del tutti dentro per far partire la legislatura, e chiuderla presto. La fine di uno stato di sospensione che serve ad aprirne un altro ancora più lungo. La crisi è uno stato mentale, e anche l’Italia.
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16 aprile 2018
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Nella sospensione della crisi italiana
Sospesa la soluzione della crisi politica. Sospesa la leadership nel Pd. Sospeso il nostro Paese in Europa. La Grande Attesa non è finita con il voto, anzi. Perché la crisi è uno stato mentale, e anche l’Italia.
di Marco Damilano
16 aprile 2018
La Grande Sospesa. L’avevamo chiamata così sei mesi fa sull’Espresso, quando le elezioni erano ancora lontane e nessuna previsione sull’esito del voto sembrava possibile. Un paese alla frontiera tra un vecchio sistema in declino e un nuovo che stentava a nascere, tra gli schieramenti degli ultimi venticinque anni e i candidati alla loro successione tutti da esaminare, un paese che viveva «nell’attesa perenne di una stabilità politica e istituzionale che verrà, ovviamente domani», scriveva Ilvo Diamanti su queste pagine, perché di oggi, invece, non c’è certezza. La sospensione, lo stato di attesa, com’era prevedibile dopo l’approvazione frettolosa e miope della legge Rosatellum, si è prolungata dall’appuntamento con le urne del 4 marzo in queste settimane post-elettorali. E si sta trasformando in qualcosa di più: un’attitudine, per qualcuno forse addirittura una virtù, perché una soluzione accettabile domani è meglio di una trovata pasticciata oggi, una condizione esistenziale.
L’Italia vive come Chance il giardiniere interpretato da Peter Sellers in “Oltre il giardino” che nella scena finale cammina sulle acque e sente ripetere: la vita è uno stato mentale. La crisi è uno stato mentale, di sospensione.
Sospesa è la trattativa per formare un nuovo governo, tra il rito delle consultazioni al Quirinale, le esplorazioni, i mandati affidati a personalità istituzionali di antico lignaggio e di recentissima generazione, quella di Elisabetta Alberti Casellati e di Roberto Fico. Sospesi i rapporti di forza tra i partiti, nonostante il corpo elettorale si sia appena espresso nella sua totalità, per raffinare i pesi c’è già l’attesa di altre elezioni, di nuove proiezioni, sondaggi, voti, verifiche elettorali.
Le consultazioni regionali delle prossime settimane in Molise e in Friuli Venezia Giulia, finiscono quasi di contare di più del 4 marzo, il Movimento 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini, i vincitori di un mese e mezzo fa, aspettano nuovi successi da rilanciare sul tavolo da poker nazionale.
Sospesa è la leadership nel secondo partito italiano, il Partito democratico, uscito dimezzato dalle elezioni eppure potenzialmente ancora decisivo per trovare una exit strategy alla crisi, ma senza una classe dirigente in grado di decidere: si rinvia all’assemblea, al congresso, alle primarie, intanto si moltiplicano le candidature e le auto-candidature, l’impasse per la guida del partito fotografa quella per la guida del governo, e viceversa. Sospesa è la ricerca di un’identità a sinistra, la questione su cui L’Espresso ha aperto la settimana scorsa un dibattito che mette in gioco una tavola di valori sconvolta negli ultimi anni, anche se i protagonisti sembrano non essersene mai accorti, e che per questo richiede nuove voci, anche sul piano generazionale (dopo l’intervento di Paola Natalicchio dell’ultimo numero, in questo pubblichiamo le idee di tre ricercatori trentenni).
Sospesi, in realtà, sono tutti i partiti, da Forza Italia che vivacchia con la guida di Silvio Berlusconi pietrificata come una statua immobile, in una sospensione del tempo e dello spazio, al Movimento 5 Stelle che a Roma si presenta con il volto rassicurante di Luigi Di Maio, ferocemente determinato a occupare le posizioni che il successo elettorale gli ha consegnato, più di potere che di governo, e a Ivrea rivela la sagoma di Davide Casaleggio, imperscrutabile e oscura, aliena al confronto con l’altro da sé.
L’unico che sembra muoversi in questa navicella in orbita che è la politica italiana, con il punto di caduta ancora misterioso, è il leader leghista Salvini, e si vede. Lui ha la sua direzione, il tempo gioca per lui, il tempo breve della crisi e il tempo lungo della conquista dell’intero centrodestra, in un’Europa a sua volta sospesa, inconsapevole degli effetti sistemici di quanto sta accadendo in Italia. Sospeso è il governo, forse in molti se ne sono dimenticati ma è ancora in carica Paolo Gentiloni, i suoi ministri lavorano, a partire da Marco Minniti al Viminale, la realtà e le sue urgenze non ammettono vuoto.
«In politica sembrava ovvio (e ancora sembra ai più) che una parte volesse prevalere sull’altra, che una minoranza volesse diventare maggioranza; che si volesse, insomma, vincere. Ma lentamente ci accorgeremo che la politica è ai nostri giorni condizionata dalla paura di prevalere, di vincere; e che quella che si suol dire l’arte della politica consisterà nel trovare gli accorgimenti più acuti e più nascosti per non prevalere, per non vincere», scriveva Leonardo Sciascia più di quarant’anni fa. Oggi siamo arrivati a questo: i vincitori si dichiarano trionfanti, ma non si prendono la responsabilità di andare avanti, di costruire una soluzione credibile. Vorrebbero il potere, il comando, ma non il governo e le sue spine.
Anche il Quirinale sembra sospeso, ma non lo è. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella procede guidato dalla bussola dell’interesse nazionale e da una cultura politica di origine cattolico-democratica che prevede l’inclusione nelle istituzioni dei fenomeni che si agitano nella società. Portare dentro, dentro le istituzioni, il Parlamento, l’area del governo, quello che è nato e cresciuto fuori. Con una conseguenza, però. Chi fa questo cammino non può essere oggetto di nessuna esclusione, nessuna conventio ad excludendum è immaginabile, come avveniva in passato per il Pci per motivi interni e internazionali, specie per chi ha raccolto milioni di voti, nel caso del Movimento 5 Stelle, ma deve accettare le regole dell’inclusione: il riconoscimento degli avversari, la serietà politica (che prevede, ad esempio, che gli alleati non siano interscambiabili, oggi la Lega, domani il Pd, e viceversa), il rispetto dei pesi e dei contrappesi che in democrazia valgono più di chi raggiunge la maggioranza. Nella Russia di Putin e nell’Egitto di Al-Sisi si vota e si elegge una maggioranza, ma non esistono standard accettabili di qualità dell’informazione e di autonomia e indipendenza della magistratura.
Sono due fronti su cui, in un passato recente, sono cadute le ambizioni di cambiamento dei nuovi arrivati. Nel 1994 il centrodestra appena nato vinse le elezioni sulla spinta delle inchieste di Mani Pulite che avevano travolto la precedente classe dirigente, si era intestato l’effetto politico della rivoluzione giudiziaria. Un deputato della Lega aveva sventolato un cappio nell’aula di Montecitorio, spettacolo mai superato di giustizialismo forcaiolo in un’aula parlamentare. Un gruppo di deputati dell’allora Msi, guidato dall’allora deputato di prima nomina Maurizio Gasparri, aveva assediato il palazzo della Camera con una manifestazione di protesta e il vetro del portone di ingresso scheggiato dal lancio di un oggetto: un’azione squadrista. E le reti Fininvest e l’impero mediatico del Biscione di Silvio Berlusconi tifavano per i pm di Milano. Dopo il voto, i vincitori convocarono i magistrati simbolo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, e proposero loro di entrare nel nuovo governo come ministro dell’Interno e ministro della Giustizia. Per Di Pietro il luogo scelto fu addirittura lo studio legale di via Cicerone a Roma dell’avvocato Cesare Previti, condannato poi per corruzione in atti giudiziari: uno che le toghe usava comprarle, come al supermercato. I magistrati dissero di no e si scoprì fin da subito che quei vincitori così solerti con le esigenze di giustizia, legalità e onestà non tolleravano in realtà i poteri di controllo della magistratura e della libera stampa. E cominciò così una lunga guerra civile.
Nella sospensione dei poteri c’è anche questa partita. La magistratura attende l’elezione del nuovo Consiglio superiore della magistratura, le toghe sono chiamate al voto per l’inizio di luglio, il Parlamento dovrà scegliere i membri laici. Nello stesso periodo, a metà estate, finirà il suo mandato il consiglio di amministrazione della Rai, il nuovo sarà nominato con la legge approvata dal governo Renzi, con i membri eletti dalle due Camere e dal governo. Giustizia e informazione pubblica sono ancora una volta, come sempre, il banco di prova, il sintomo da cui si capisce lo stato di salute di una democrazia. Se il cambiamento consiste in un mutamento di metodi, comportamenti, mentalità, oppure si riduce a una semplice sostituzione di classe dirigente: i miei al posto dei tuoi, i nostri invece dei vostri. Con gli stessi criteri di fedeltà e obbedienza che hanno caratterizzato il passato. In una stagione in cui sulla rete e sui social le diverse fazioni si combattono a colpi di fake e di dileggio degli avversari, esterni e interni. Succede perfino nella Chiesa, come ha denunciato papa Francesco nella sua esortazione: «Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta». Un ritratto non edificante dello stato del dibattito pubblico all’interno della Chiesa, e dei meccanismi che scatenano le campagne di informazione e di disinformazione attorno a questo pontificato, che può essere applicato senza cambiare nulla alla violenza delle tifoserie politiche che ogni giorno si contendono sul web il possesso della verità e la delegittimazione di chi la pensa diversamente.
In questa sospensione, dunque, non è in gioco soltanto la nascita del governo. Ma anche la tenuta dello Stato, gli equilibri istituzionali, la qualità del confronto tra leader, partiti, elettorati diversi. E il ruolo dell’Italia in un’Europa sempre più egemonizzata dalle forze che mirano a distruggere il senso dello stare insieme nell’Unione. Viktor Orbán è la perfetta risultante del centro-destra italiano, è aderente del Ppe, come Silvio Berlusconi, e alfiere del sovranismo, il ritorno del nazionalismo e delle chiusure delle frontiere, come Matteo Salvini. Nessuno sembra portarsi all’altezza di questo contesto, nelle piccole miserie tattiche della politica italiana di queste settimane.
Avanza un inedito, un governo di co-gestione parlamentare, di cui sono un modello le commissioni speciali di Camera e Senato chiamate a esaminare i provvedimenti più urgenti, in attesa che si formino le commissioni permanenti. Al Senato è presieduta da Vito Crimi (M5S), alla Camera dal leghista Giancarlo Giorgetti, il braccio destro di Salvini, la mente più lucida della Lega, ambasciatore tra i poteri economici e finanziari, immancabile convitato in tutte le trattative decollate e tramontate di questi giorni, candidato a Palazzo Chigi. Il governo del tutti dentro per far partire la legislatura, e chiuderla presto. La fine di uno stato di sospensione che serve ad aprirne un altro ancora più lungo. La crisi è uno stato mentale, e anche l’Italia.
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16 aprile 2018
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Re: Diario della caduta di un regime.
18 apr 2018 13:57
DAGO-ESCLUSIVO
- LE TRE CONDIZIONI DI MATTARELLA: NATO, LOTTA ALLA POVERTA’, RISPETTO PARAMETRI EUROPEI
– IL COLLE NON SI FIDA DI SALVINI E DI MAIO. MA SE A PARARE LE CAZZATE FILO RUSSE DEL LUMBARD CI PENSANO BERLUSCONI E LETTA, CHI FRENA “GIGGINO”?
- GRILLO SEMPRE CONTRO DI MAIO/CASALEGGIO: M5S E’ NATO PER FARE LE PULCI AL GOVERNO, NON PER ANDARE AL GOVERNO
- E PER UN ESECUTIVO DEL PRESIDENTE SI SCALDA UN GIOVANE CONSIGLIERE DI STATO
DAGONOTA
MATTARELLA CASELLATI
MATTARELLA CASELLATI
Al Colle raccontano che la missione che Mattarella affidata alla Casellati (ed a chiunque s’avvicini al Quirinale) si basa su tre principi inderogabili: A) lealtà all’Alleanza atlantica, senza essere subalterni agli Stati Uniti; B) combattere le diseguaglianze economiche, lotta alla povertà; C) fedele rispetto dei parametri di bilancio europei.
MATTARELLA E LUIGI DI MAIO
MATTARELLA E LUIGI DI MAIO
Solo chi sarà in grado di onorare i tre pilastri del Mattarella-pensiero potrà ambire ad approdare a Palazzo Chigi. E solo dopo una riforma della legge elettorale potrà portare nuovamente l’Italia al voto; di certo, non agganciato alle elezioni europee, visto che viene fatto divieto ad agganciare le urne di Strasburgo a quelle nazionali.
MATTARELLA E SALVINI
MATTARELLA E SALVINI
Fissati questi paletti, al Colle ne hanno un po’ per tutti. Per esempio, la formula utilizzata da Salvini (“se vinciamo in Molise facciamo il governo in 15 giorni”), è andata sulle palle alla Mummia del Quirinale. Così come non è passata inosservata la modifica del programma di Di Maio: troppe giravolte non offrono garanzie a livello internazionale.
salvini maglietta putin
salvini maglietta putin
Potrà sembrare strano a chi non lo conosce, ma Mattarella è tremendamente attento alla forma (ed alla Costituzione). Così, mal sopporta le esternazioni del leghista e la disinvoltura con cui il grillino cambia schieramento in politica estera.
Con un particolare. Se gli afflati filo russi del lumbard possono essere mitigati dall’atlantismo di Berlusconi (e Gianni Letta), ormai ai piedi della Merkel (via Tajani), chi frena Di Maio? Non basta sapersi fare il nodo alla cravatta anche il giorno di Pasqua per guidare un Paese G7: sempre populista resta agli occhi di Sergio.
putin berlusconi bush
putin berlusconi bush
Certo non lo frena Grillo. Il comico teorizza (con qualche seguito) che il Movimento è nato per fare le pulci ai governi, non per andare al governo. E per questo entra in rotta di collisione con Casaleggio Jr.
Verso l’erede ha un rapporto quasi filiale, anche se sa benissimo che a muoverlo sono argomentazioni economiche. E la stessa base irrequieta è piuttosto preoccupata per il secondo forno di “Giggino”, quello che intende aprire con il Pd. Per i pentastellati della prima ora sarebbe come accordarsi con la Casta di Renzi.
PALAZZO SPADA - CONSIGLIO DI STATO
PALAZZO SPADA - CONSIGLIO DI STATO
Ed è per queste ragioni (prendere tempo) che ha accolto la richiesta di un mandato esploratore alla Casellati. L’inquilino del Colle sa benissimo che non porterà ad alcuno risultato concreto, in compenso ha evitato che i “due ragazzini” (nei corridoio del Quirinale così qualcuno chiama Salvini e Di Maio) facciano schiamazzi nella ex residenza estiva dei Papi. E per un governo del Presidente già si scalderebbe a bordo campo un “giovane” consigliere di Stato.
DAGO-ESCLUSIVO
- LE TRE CONDIZIONI DI MATTARELLA: NATO, LOTTA ALLA POVERTA’, RISPETTO PARAMETRI EUROPEI
– IL COLLE NON SI FIDA DI SALVINI E DI MAIO. MA SE A PARARE LE CAZZATE FILO RUSSE DEL LUMBARD CI PENSANO BERLUSCONI E LETTA, CHI FRENA “GIGGINO”?
- GRILLO SEMPRE CONTRO DI MAIO/CASALEGGIO: M5S E’ NATO PER FARE LE PULCI AL GOVERNO, NON PER ANDARE AL GOVERNO
- E PER UN ESECUTIVO DEL PRESIDENTE SI SCALDA UN GIOVANE CONSIGLIERE DI STATO
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MATTARELLA CASELLATI
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Al Colle raccontano che la missione che Mattarella affidata alla Casellati (ed a chiunque s’avvicini al Quirinale) si basa su tre principi inderogabili: A) lealtà all’Alleanza atlantica, senza essere subalterni agli Stati Uniti; B) combattere le diseguaglianze economiche, lotta alla povertà; C) fedele rispetto dei parametri di bilancio europei.
MATTARELLA E LUIGI DI MAIO
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Solo chi sarà in grado di onorare i tre pilastri del Mattarella-pensiero potrà ambire ad approdare a Palazzo Chigi. E solo dopo una riforma della legge elettorale potrà portare nuovamente l’Italia al voto; di certo, non agganciato alle elezioni europee, visto che viene fatto divieto ad agganciare le urne di Strasburgo a quelle nazionali.
MATTARELLA E SALVINI
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Fissati questi paletti, al Colle ne hanno un po’ per tutti. Per esempio, la formula utilizzata da Salvini (“se vinciamo in Molise facciamo il governo in 15 giorni”), è andata sulle palle alla Mummia del Quirinale. Così come non è passata inosservata la modifica del programma di Di Maio: troppe giravolte non offrono garanzie a livello internazionale.
salvini maglietta putin
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Potrà sembrare strano a chi non lo conosce, ma Mattarella è tremendamente attento alla forma (ed alla Costituzione). Così, mal sopporta le esternazioni del leghista e la disinvoltura con cui il grillino cambia schieramento in politica estera.
Con un particolare. Se gli afflati filo russi del lumbard possono essere mitigati dall’atlantismo di Berlusconi (e Gianni Letta), ormai ai piedi della Merkel (via Tajani), chi frena Di Maio? Non basta sapersi fare il nodo alla cravatta anche il giorno di Pasqua per guidare un Paese G7: sempre populista resta agli occhi di Sergio.
putin berlusconi bush
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Certo non lo frena Grillo. Il comico teorizza (con qualche seguito) che il Movimento è nato per fare le pulci ai governi, non per andare al governo. E per questo entra in rotta di collisione con Casaleggio Jr.
Verso l’erede ha un rapporto quasi filiale, anche se sa benissimo che a muoverlo sono argomentazioni economiche. E la stessa base irrequieta è piuttosto preoccupata per il secondo forno di “Giggino”, quello che intende aprire con il Pd. Per i pentastellati della prima ora sarebbe come accordarsi con la Casta di Renzi.
PALAZZO SPADA - CONSIGLIO DI STATO
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Ed è per queste ragioni (prendere tempo) che ha accolto la richiesta di un mandato esploratore alla Casellati. L’inquilino del Colle sa benissimo che non porterà ad alcuno risultato concreto, in compenso ha evitato che i “due ragazzini” (nei corridoio del Quirinale così qualcuno chiama Salvini e Di Maio) facciano schiamazzi nella ex residenza estiva dei Papi. E per un governo del Presidente già si scalderebbe a bordo campo un “giovane” consigliere di Stato.
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Re: Diario della caduta di un regime.
18 apr 2018 13:07
DAGO-ESCLUSIVO
- LA FRUSTRAZIONE DI SILVIO DI SENTIRSI AL TRAMONTO E I DISPETTI A SALVINI
– GHEDINI IN NAFTALINA, GIANNI LETTA IN AUGE
– LE EPURAZIONI A MEDIASET NON SONO FINITE
– SALVINI GELATO DA GIORGETTI: DI MAIO TI HA OFFERTO 3 MINISTERI, MA PERDI TRE REGIONI. TI CONVIENE?
– TOTI PENSA DI ESSERE TREMONTI - L'ASTENSIONE DEL PD A UN GOVERNO 5 STELLE E IL NUOVO REGOLAMENTO DEL SENATO
DAGONOTA
berlusconi caduta
berlusconi caduta
Dalle parti di Arcore ancora ricordano quel giorno che precedette il 4 marzo. Quando fu inviato l’exit poll scritto a penna della Ghisleri che indicava il sorpasso della Lega su Forza Italia. Appena il padrone di casa lo ha letto si è chiuso per 20 minuti in una stanza. Da solo. Disperato. (Poi la Ghisleri lo rinnegò come un fake)
Quel sondaggio, poi confermato dai risultati elettorali, lo ha vissuto come una sofferenza psicofisica. Una vera e propria frustrazione, aggravata dalla prossima uscita del film di Sorrentino.
Il sentimento del declino lo ha prostato. Lo stesso gusto amaro di quando Carlo De Benedetti gli venne cassato dal Gruppo Espresso-Repubblica l’uso dell'aereo privato per fare le vacanze. Idem per Eugenio Scalfari quando la Mondardini gli tolse la macchina di servizio con autista. Sic transit gloria mundi.
de benedetti scalfari
de benedetti scalfari
Silvio sopporta controvoglia (eufemismo) l’atteggiamento da "io premier" di Salvini. E non riesce ancora a capire come sia stato possibile che la Lega di Bossi si fermava al 4% mentre quella di Matteo lo abbia superato.
Dove ho sbagliato? si chiede in continuazione. Senz’altro nella compilazione delle liste impostata da Ghedini. Così ha deciso di mettere in naftalina i consigli dell’avvocato (e la sua esuberanza) e di seguire i tatticismi di Gianni Letta.
BELPIETRO DEL DEBBIO
BELPIETRO DEL DEBBIO
In quest’ottica va interpretato l’allontanamento di Belpietro, Giordano e Del Debbio dal piccolo schermo. Qualcuno gli ha bisbigliato che sono diventati borghesi benestanti grazie a lui; e che per ripagarlo hanno soffiato sul populismo leghista e grillino.
Visto in quest’ottica nemmeno Gianluigi Nuzzi se la dovrebbe passare un gran bene: gran cerimoniere (via moglie) alla Leopolda grillina di Ivrea. E sull'argomento qualcuno si è ricordato come, a proposito di direttori, furono Fedele Confalonieri e Luca Lotti a decidere di spedire Mario Orfeo al settimo piano della Rai.
Davide Casaleggio e Nuzzi
Davide Casaleggio e Nuzzi
Un sondaggio di Pagnoncelli dice poi che il popolo di centrodestra non abbia particolarmente gradito la gag di Silvio al Quirinale. Berlusconi non ci crede: l’aveva messa a punto con Letta, dopo che Gianni aveva scritto il testo letto da Salvini a favore di telecamere.
SALVINI MELONI BERLUSCONI
SALVINI MELONI BERLUSCONI
Proprio il lumbard è diventato rosso in volto per l’imbarazzo nei giorni scorsi. Appena Di Maio gli aveva comunicato lo scambio (io a Palazzo Chigi, a te tre ministeri chiave: esteri, interno ed economia) era corso da Giorgetti come un bambino che ha preso un bel voto a scuola.
Peccato che l’eminenza grigia lumbard gli abbia rovesciato una secchiata gelata sugli entusiasmi: bene, prendi tre ministeri e perdi 3 regioni, Lombardia, Liguria e Veneto. Ti conviene?
TOTI E SALVINI INSIEME A PRANZO A PORTOFINO
TOTI E SALVINI INSIEME A PRANZO A PORTOFINO
Un altro, invece, che non arrossisce di fronte alle cazzate è Giovanni Toti. Il governatore della Liguria assicura che non mollerà mai Berlusconi: "assolutamente". La sua vera ambizione - confida - è di assumere il ruolo che fu di Giulio Tremonti. Vale a dire, ufficiale di collegamento tra Forza Italia e Lega.
BOSSI E TREMONTI GIURANO SULLA ZUCCA
BOSSI E TREMONTI GIURANO SULLA ZUCCA
Matteo comunque pensa solo al governo. Riflette che difficilmente M5S potrà contare sull’astensione del Pd per mandare Di Maio a Palazzo Chigi. Qualcuno dei suoi gli ha però ricordato che è cambiato il regolamento del Senato. Ora a Palazzo Madama l’astensione verrà conteggiata come tale e non più voto contrario, com’era prima. Insomma, sulla carta, le possibilità potrebbero esserci. Ma solo sulla carta.
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- LA FRUSTRAZIONE DI SILVIO DI SENTIRSI AL TRAMONTO E I DISPETTI A SALVINI
– GHEDINI IN NAFTALINA, GIANNI LETTA IN AUGE
– LE EPURAZIONI A MEDIASET NON SONO FINITE
– SALVINI GELATO DA GIORGETTI: DI MAIO TI HA OFFERTO 3 MINISTERI, MA PERDI TRE REGIONI. TI CONVIENE?
– TOTI PENSA DI ESSERE TREMONTI - L'ASTENSIONE DEL PD A UN GOVERNO 5 STELLE E IL NUOVO REGOLAMENTO DEL SENATO
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berlusconi caduta
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Dalle parti di Arcore ancora ricordano quel giorno che precedette il 4 marzo. Quando fu inviato l’exit poll scritto a penna della Ghisleri che indicava il sorpasso della Lega su Forza Italia. Appena il padrone di casa lo ha letto si è chiuso per 20 minuti in una stanza. Da solo. Disperato. (Poi la Ghisleri lo rinnegò come un fake)
Quel sondaggio, poi confermato dai risultati elettorali, lo ha vissuto come una sofferenza psicofisica. Una vera e propria frustrazione, aggravata dalla prossima uscita del film di Sorrentino.
Il sentimento del declino lo ha prostato. Lo stesso gusto amaro di quando Carlo De Benedetti gli venne cassato dal Gruppo Espresso-Repubblica l’uso dell'aereo privato per fare le vacanze. Idem per Eugenio Scalfari quando la Mondardini gli tolse la macchina di servizio con autista. Sic transit gloria mundi.
de benedetti scalfari
de benedetti scalfari
Silvio sopporta controvoglia (eufemismo) l’atteggiamento da "io premier" di Salvini. E non riesce ancora a capire come sia stato possibile che la Lega di Bossi si fermava al 4% mentre quella di Matteo lo abbia superato.
Dove ho sbagliato? si chiede in continuazione. Senz’altro nella compilazione delle liste impostata da Ghedini. Così ha deciso di mettere in naftalina i consigli dell’avvocato (e la sua esuberanza) e di seguire i tatticismi di Gianni Letta.
BELPIETRO DEL DEBBIO
BELPIETRO DEL DEBBIO
In quest’ottica va interpretato l’allontanamento di Belpietro, Giordano e Del Debbio dal piccolo schermo. Qualcuno gli ha bisbigliato che sono diventati borghesi benestanti grazie a lui; e che per ripagarlo hanno soffiato sul populismo leghista e grillino.
Visto in quest’ottica nemmeno Gianluigi Nuzzi se la dovrebbe passare un gran bene: gran cerimoniere (via moglie) alla Leopolda grillina di Ivrea. E sull'argomento qualcuno si è ricordato come, a proposito di direttori, furono Fedele Confalonieri e Luca Lotti a decidere di spedire Mario Orfeo al settimo piano della Rai.
Davide Casaleggio e Nuzzi
Davide Casaleggio e Nuzzi
Un sondaggio di Pagnoncelli dice poi che il popolo di centrodestra non abbia particolarmente gradito la gag di Silvio al Quirinale. Berlusconi non ci crede: l’aveva messa a punto con Letta, dopo che Gianni aveva scritto il testo letto da Salvini a favore di telecamere.
SALVINI MELONI BERLUSCONI
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Proprio il lumbard è diventato rosso in volto per l’imbarazzo nei giorni scorsi. Appena Di Maio gli aveva comunicato lo scambio (io a Palazzo Chigi, a te tre ministeri chiave: esteri, interno ed economia) era corso da Giorgetti come un bambino che ha preso un bel voto a scuola.
Peccato che l’eminenza grigia lumbard gli abbia rovesciato una secchiata gelata sugli entusiasmi: bene, prendi tre ministeri e perdi 3 regioni, Lombardia, Liguria e Veneto. Ti conviene?
TOTI E SALVINI INSIEME A PRANZO A PORTOFINO
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Un altro, invece, che non arrossisce di fronte alle cazzate è Giovanni Toti. Il governatore della Liguria assicura che non mollerà mai Berlusconi: "assolutamente". La sua vera ambizione - confida - è di assumere il ruolo che fu di Giulio Tremonti. Vale a dire, ufficiale di collegamento tra Forza Italia e Lega.
BOSSI E TREMONTI GIURANO SULLA ZUCCA
BOSSI E TREMONTI GIURANO SULLA ZUCCA
Matteo comunque pensa solo al governo. Riflette che difficilmente M5S potrà contare sull’astensione del Pd per mandare Di Maio a Palazzo Chigi. Qualcuno dei suoi gli ha però ricordato che è cambiato il regolamento del Senato. Ora a Palazzo Madama l’astensione verrà conteggiata come tale e non più voto contrario, com’era prima. Insomma, sulla carta, le possibilità potrebbero esserci. Ma solo sulla carta.
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- Iscritto il: 11/10/2016, 2:47
Re: Diario della caduta di un regime.
18 apr 2018 12:14
LE ELEZIONI IN MOLISE E FRIULI CONDIZIONERANNO LA CRISI DI GOVERNO
– SALVINI E' SICURO DI SORPASSARE FORZA ITALIA IN FRIULI E SPERA DI SCALZARE M5S A CAMPOBASSO
- ALLORA LA SUA LEADERSHIP SUL CENTRODESTRA SAREBBE CONCLAMATA E POTREBBE ALZARE LA VOCE CON MATTARELLA (CHE ABORRE IL POPULISMO LEGAIOLO)
DAGOREPORT
SALVINI IN FRIULI CON FEDRIGA
SALVINI IN FRIULI CON FEDRIGA
E’ curioso come due Regioni i cui abitanti, messi insieme, fanno il numero di abitanti di alcuni quartieri di Roma finiscano per diventare lo snodo di una crisi politica. In Friuli vivono 1,2 milioni di persone; in Molise hanno la residenza in 314 mila. Eppure, saranno costoro a determinare chi dovrà andare a Palazzo Chigi. Non è bislacco?
serracchiani
serracchiani
Follie a parte, la Lega conta di sorpassare Forza Italia anche in Friuli. Va considerato che il successo sarebbe doppio, visto che la regione oggi è governata da Debora Serracchiani del Pd.
luigi di maio salvini
luigi di maio salvini
Discorso diverso per il Molise. Nelle due province della Regione alle Politiche ha trionfato il Movimento 5 Stelle con percentuali quasi bulgare. Se il centrodestra riuscisse a ribaltare il risultato, Salvini potrebbe alzare la voce con il Colle.
LE ELEZIONI IN MOLISE E FRIULI CONDIZIONERANNO LA CRISI DI GOVERNO
– SALVINI E' SICURO DI SORPASSARE FORZA ITALIA IN FRIULI E SPERA DI SCALZARE M5S A CAMPOBASSO
- ALLORA LA SUA LEADERSHIP SUL CENTRODESTRA SAREBBE CONCLAMATA E POTREBBE ALZARE LA VOCE CON MATTARELLA (CHE ABORRE IL POPULISMO LEGAIOLO)
DAGOREPORT
SALVINI IN FRIULI CON FEDRIGA
SALVINI IN FRIULI CON FEDRIGA
E’ curioso come due Regioni i cui abitanti, messi insieme, fanno il numero di abitanti di alcuni quartieri di Roma finiscano per diventare lo snodo di una crisi politica. In Friuli vivono 1,2 milioni di persone; in Molise hanno la residenza in 314 mila. Eppure, saranno costoro a determinare chi dovrà andare a Palazzo Chigi. Non è bislacco?
serracchiani
serracchiani
Follie a parte, la Lega conta di sorpassare Forza Italia anche in Friuli. Va considerato che il successo sarebbe doppio, visto che la regione oggi è governata da Debora Serracchiani del Pd.
luigi di maio salvini
luigi di maio salvini
Discorso diverso per il Molise. Nelle due province della Regione alle Politiche ha trionfato il Movimento 5 Stelle con percentuali quasi bulgare. Se il centrodestra riuscisse a ribaltare il risultato, Salvini potrebbe alzare la voce con il Colle.
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