EUROPA ,così non può continuare
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EUROPA ,così non può continuare
QUADERNI di POSSIBILE
DOPPIA VELOCITÀ, EUROPA, GOVERNO RENZI, UNIONE EUROPEA
L’Europa a 2 velocità è l’opposto di quello che serve
L’idea dell’Europa a due velocità improvvisamente tirata fuori dal governo e in particolar dal ministro Gentiloni è il tentativo di agganciare una narrazione abdicando al ruolo fondamentale e storico di questo paese di costruire strategie per l’Europa. Peccato che questa narrazione sia tossica per noi.
L’Europa a due velocità in questo momento non esiste, esiste un’Europa a MOLTE velocità, infatti non tutti i paesi partecipano alla totalità delle iniziative europee: esistono la zona euro ma anche una zona Schengen, fatte da diversi paesi ed altre iniziative a cui partecipano ancora altri paesi.
L’Europa quindi viaggia già su molti cerchi concentrici e la strategia di integrazione ha sempre cercato di procedere con binari molto chiari: si possono fare dei salti in avanti (per questo è stata creata anche una modalità codificata, ovvero le Cooperazioni rafforzate) mentre si cerca di integrare nelle politiche comuni i paesi che ancora non ne fanno parte.
2000px-Supranational_European_Bodies-it.svg
Certo ad un primo sguardo le due velocità potrebbero sembrare una buona idea: si mettono insieme i 6 paesi fondatori su politiche rafforzate e gli altri poi seguiranno. Il problema è che si tratta di un passo indietro: ora le politiche rafforzate riguardano 19 stati europei per l’euro, 26 per Schengen (compresi 4 paesi non appartenenti all’UE), prendono parte 25 stati all’area di “libertà, sicurezza e giustizia”, mentre la Carta dei diritti fondamentali è valida in 26 paesi.
Questo per dire che tornare al “nocciolo” duro dei 6 paesi fondatori è un salto indietro e non uno in avanti: è il salto che la Germania e i paesi del nord già accarezzavano quando hanno proposto di far uscire “temporaneamente” la Grecia dall’euro ma in realtà le elaborazioni su un “euro del nord” in cui lasciare solo paesi virtuosi ed un “euro del sud” in cui lasciare i PIGS non sono mai mancate. E allora andare a proporre una soluzione del genere sull’onda della crisi dei rifugiati è pericoloso: l’idea a cui ci stiamo consegnando è quella tedesca, quella del nucleo di “paesi virtuosi”, sotto la cui etichetta il nostro paese potrebbe non essere riconosciuto e non essere invitato a partecipare.
Nel caso che scuote il continente e rischia di far saltare l’UE il problema è il quadro complessivo: gli stati del nord accolgono ma poi chiudono unilateralmente le frontiere, gli stati del sud devono fare la prima accoglienza e poi? Dato che vogliamo tenere in vita Schengen dovrebbe esserci una riforma di Dublino che porti a quote automatiche di distribuzione e all’onere delle pratiche d’asilo al paese di seconda accoglienza.
Il piano della Commissione (l’unica che fa politica europea sul tema) prevede poi che funzionino gli hotspot e si rafforzino le frontiere esterne possibilmente con una guardia di frontiera e rimpatri comuni. Insomma, tutto si tiene: o si mette insieme il mosaico o non si può pretendere che funzioni il classico “armatevi e partite” (da qualsiasi parte la si guardi)…
Il nostro paese avrebbe tutto l’interesse ad essere inclusivo piuttosto che cercare di escludere. Abbiamo il problema di alcuni governi del nord-est (Danimarca, Polonia, Ungheria, Slovacchia) che si mettono costantemente di traverso rispetto ad ogni ipotesi di accordo sul tema dei rifugiati, un gruppo di paesi che sono alla frontiera della prima accoglienza (Italia, Grecia, molto meno la Spagna) e un gruppo di paesi che accolgono definitivamente (Germania, Svezia, Francia, Italia, Regno Unito, anche la Svizzera).
Varrebbe la pena cercare di convincere questi paesi ad arrivare ad un quadro unico, cercare di comporre le divergenze con gli strumenti che esistono nella politica europea e cercare di arrivare a nuovi strumenti federali o comunitari per gestire meglio i problemi tutti insieme. Anche perché il ritorno delle frontiere rappresenta un danno economico notevole per il continente: si parla di un minimo di 28 miliardi/anno se si dovesse tornare alla situazione pre-Schengen.
La narrazione delle due velocità fa il paio con l’altra, fallimentare e anch’essa tossica, della prova di forza in ambito economico e bancario con la Commissione, stile “picchiare i pugni sul tavolo”. Significa non aver capito, anche in questo caso, che bisognerebbe cercare alleanze e costruire politiche economiche alternative da contrapporre alla Germania anziché voler fare il muso duro contro le istituzioni comunitarie che comunque hanno sempre cercato di comporre i problemi con e tra gli stati membri.
Insomma, alla fine bisogna capire se il nostro paese vuole mantenere il suo ruolo di tradizionale costruttore dell’integrazione europea o vuole ritagliarsi il ruolo di smantellatore, come qualsiasi governo di destra che si rispetti.
Bisogna capire se abbiamo il coraggio di spingere affinchè l’Europa si definisca con un confine, un limes “perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com’è possibile costruire un’identità europea? Sentirsi e dirsi europei?” come scrive Ilvo Diamanti.
Qui c’è il passaggio delicato tra un’unione di paesi sui generis e qualcosa di più strutturato: la costruzione progressiva di una federazione a cui il nostro paese dovrebbe puntare fortemente.
Un’Europa a due velocità insomma è il contrario di quel che serve al continente ma anche di quello che serve al nostro paese: il mini-euro e il mini-schengen sarebbero un salto all’indietro, un danno economico, una ferita profonda al progetto europeo che difficilmente potrebbe rimarginarsi. Oltre al fatto che l’Italia difficilmente potrebbe avere posto di rilievo in uno scenario simile.
continua
DOPPIA VELOCITÀ, EUROPA, GOVERNO RENZI, UNIONE EUROPEA
L’Europa a 2 velocità è l’opposto di quello che serve
L’idea dell’Europa a due velocità improvvisamente tirata fuori dal governo e in particolar dal ministro Gentiloni è il tentativo di agganciare una narrazione abdicando al ruolo fondamentale e storico di questo paese di costruire strategie per l’Europa. Peccato che questa narrazione sia tossica per noi.
L’Europa a due velocità in questo momento non esiste, esiste un’Europa a MOLTE velocità, infatti non tutti i paesi partecipano alla totalità delle iniziative europee: esistono la zona euro ma anche una zona Schengen, fatte da diversi paesi ed altre iniziative a cui partecipano ancora altri paesi.
L’Europa quindi viaggia già su molti cerchi concentrici e la strategia di integrazione ha sempre cercato di procedere con binari molto chiari: si possono fare dei salti in avanti (per questo è stata creata anche una modalità codificata, ovvero le Cooperazioni rafforzate) mentre si cerca di integrare nelle politiche comuni i paesi che ancora non ne fanno parte.
2000px-Supranational_European_Bodies-it.svg
Certo ad un primo sguardo le due velocità potrebbero sembrare una buona idea: si mettono insieme i 6 paesi fondatori su politiche rafforzate e gli altri poi seguiranno. Il problema è che si tratta di un passo indietro: ora le politiche rafforzate riguardano 19 stati europei per l’euro, 26 per Schengen (compresi 4 paesi non appartenenti all’UE), prendono parte 25 stati all’area di “libertà, sicurezza e giustizia”, mentre la Carta dei diritti fondamentali è valida in 26 paesi.
Questo per dire che tornare al “nocciolo” duro dei 6 paesi fondatori è un salto indietro e non uno in avanti: è il salto che la Germania e i paesi del nord già accarezzavano quando hanno proposto di far uscire “temporaneamente” la Grecia dall’euro ma in realtà le elaborazioni su un “euro del nord” in cui lasciare solo paesi virtuosi ed un “euro del sud” in cui lasciare i PIGS non sono mai mancate. E allora andare a proporre una soluzione del genere sull’onda della crisi dei rifugiati è pericoloso: l’idea a cui ci stiamo consegnando è quella tedesca, quella del nucleo di “paesi virtuosi”, sotto la cui etichetta il nostro paese potrebbe non essere riconosciuto e non essere invitato a partecipare.
Nel caso che scuote il continente e rischia di far saltare l’UE il problema è il quadro complessivo: gli stati del nord accolgono ma poi chiudono unilateralmente le frontiere, gli stati del sud devono fare la prima accoglienza e poi? Dato che vogliamo tenere in vita Schengen dovrebbe esserci una riforma di Dublino che porti a quote automatiche di distribuzione e all’onere delle pratiche d’asilo al paese di seconda accoglienza.
Il piano della Commissione (l’unica che fa politica europea sul tema) prevede poi che funzionino gli hotspot e si rafforzino le frontiere esterne possibilmente con una guardia di frontiera e rimpatri comuni. Insomma, tutto si tiene: o si mette insieme il mosaico o non si può pretendere che funzioni il classico “armatevi e partite” (da qualsiasi parte la si guardi)…
Il nostro paese avrebbe tutto l’interesse ad essere inclusivo piuttosto che cercare di escludere. Abbiamo il problema di alcuni governi del nord-est (Danimarca, Polonia, Ungheria, Slovacchia) che si mettono costantemente di traverso rispetto ad ogni ipotesi di accordo sul tema dei rifugiati, un gruppo di paesi che sono alla frontiera della prima accoglienza (Italia, Grecia, molto meno la Spagna) e un gruppo di paesi che accolgono definitivamente (Germania, Svezia, Francia, Italia, Regno Unito, anche la Svizzera).
Varrebbe la pena cercare di convincere questi paesi ad arrivare ad un quadro unico, cercare di comporre le divergenze con gli strumenti che esistono nella politica europea e cercare di arrivare a nuovi strumenti federali o comunitari per gestire meglio i problemi tutti insieme. Anche perché il ritorno delle frontiere rappresenta un danno economico notevole per il continente: si parla di un minimo di 28 miliardi/anno se si dovesse tornare alla situazione pre-Schengen.
La narrazione delle due velocità fa il paio con l’altra, fallimentare e anch’essa tossica, della prova di forza in ambito economico e bancario con la Commissione, stile “picchiare i pugni sul tavolo”. Significa non aver capito, anche in questo caso, che bisognerebbe cercare alleanze e costruire politiche economiche alternative da contrapporre alla Germania anziché voler fare il muso duro contro le istituzioni comunitarie che comunque hanno sempre cercato di comporre i problemi con e tra gli stati membri.
Insomma, alla fine bisogna capire se il nostro paese vuole mantenere il suo ruolo di tradizionale costruttore dell’integrazione europea o vuole ritagliarsi il ruolo di smantellatore, come qualsiasi governo di destra che si rispetti.
Bisogna capire se abbiamo il coraggio di spingere affinchè l’Europa si definisca con un confine, un limes “perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com’è possibile costruire un’identità europea? Sentirsi e dirsi europei?” come scrive Ilvo Diamanti.
Qui c’è il passaggio delicato tra un’unione di paesi sui generis e qualcosa di più strutturato: la costruzione progressiva di una federazione a cui il nostro paese dovrebbe puntare fortemente.
Un’Europa a due velocità insomma è il contrario di quel che serve al continente ma anche di quello che serve al nostro paese: il mini-euro e il mini-schengen sarebbero un salto all’indietro, un danno economico, una ferita profonda al progetto europeo che difficilmente potrebbe rimarginarsi. Oltre al fatto che l’Italia difficilmente potrebbe avere posto di rilievo in uno scenario simile.
continua
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Re: EUROPA ,così non può continuare
la moneta EUROMED è stata lanciata per la prima volta in questo forum
purtroppo per mancanza di tempo non è stata documentata.
anche perché l 'argomento è molto complesso.
è composta da italia, francia del sud, grecia, spagna e portogallo esclude malta-
prevede un parlamento vero, un presidente della repubblica , una costituzione che sarebbe quella italiana, una lingua misto tra latino italiano e spagnolo, una banca centrale pubblica, sarebbe una repubblica basata su culture solidaristiche socialiste e cattolico sociali, politiche economiche statali.
tutte cose che non puoi fare con la germania e con il Lussemburgo.
comunque il tema centrale è la dissoluzione dell euro ormai inevitabile.
per questo oltre ad euromed ci sono sviluppi possibili su monete complementare, monete parallele e moneta fiscale.
l intervento di possibile è inutile perché non propositivo
buon lavoro
purtroppo per mancanza di tempo non è stata documentata.
anche perché l 'argomento è molto complesso.
è composta da italia, francia del sud, grecia, spagna e portogallo esclude malta-
prevede un parlamento vero, un presidente della repubblica , una costituzione che sarebbe quella italiana, una lingua misto tra latino italiano e spagnolo, una banca centrale pubblica, sarebbe una repubblica basata su culture solidaristiche socialiste e cattolico sociali, politiche economiche statali.
tutte cose che non puoi fare con la germania e con il Lussemburgo.
comunque il tema centrale è la dissoluzione dell euro ormai inevitabile.
per questo oltre ad euromed ci sono sviluppi possibili su monete complementare, monete parallele e moneta fiscale.
l intervento di possibile è inutile perché non propositivo
buon lavoro
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Re: EUROPA ,così non può continuare
da IlFattoQuotidiano.it
Euro a due velocità, i dubbi sull’idea di Stiglitz: ‘Moneta unica capro espiatorio. Il problema sono le politiche economiche’
Per Gustavo Piga, che insegna economia a Tor Vergata, il vero problema è che non c'è "solidarietà tra le aree ricche e quelle meno prospere". Negli Usa "il sistema ha iniziato a funzionare bene solo quando sono partiti i trasferimenti automatici tra gli Stati". Lorenzo Codogno, ex dg del Tesoro: "Parlare di addio all'euro è pericoloso: rischio corsa agli sportelli e default sovrani"
di Mauro Del Corno | 11 settembre 2016
La bordata contro l’euro lanciata dalle colonne del Financial Times dal premio Nobel Joseph Stiglitz piomba su un’Europa ancora disorientata dall’addio della Gran Bretagna. Un’Europa dove le spinte centrifughe acquistano forza, come dimostrano da ultimo le avanzate (o le ritirate) in ordine sparso sul tema del trattato commerciale con gli Usa, il Ttip. La tesi di Stiglitz, un euro strutturalmente debole che zavorra l’economia europea e che quindi sarebbe meglio abbandonare o dividere in due – uno per il Sud e uno per il Nord – è destinata a rinfocolare l’eterno dibattito sui pro e i contro moneta unica.
La posizione del premio Nobel è stata per la verità accolta con molte perplessità tra gli altri economisti e Paul De Grauwe, una delle massime autorità in materia di unioni monetarie, bolla l’ipotesi del doppio euro come “fantascienza“. Pregi e difetti di un’unica valuta per Paesi con caratteristiche economiche differenti sono da tempo al centro di studi e valutazioni non sempre concordanti. Tra i più noti quello condotto nel 1961 dall’economista e premio Nobel Robert Mundell, intitolato “teoria delle aree valutarie ottimali”, che enfatizza i costi che comporta l’adesione a un’unione monetaria e la rinuncia alla gestione di una propria politica monetaria. Il punto è che senza possibilità di manovrare i tassi di cambio (e dunque svalutare la moneta per rendere, almeno temporaneamente, i propri prodotti più competitivi) le crisi di domanda sono destinate ad abbattersi direttamente su occupazione e salari.
In assenza di flessibilità salariale o della possibilità di spostarsi facilmente dove c’è maggiore offerta di lavoro, diventa difficile per un Paese superare la fase di impasse. Della questione si occupò nel 1991 anche un altro premio Nobel, Paul Krugman, e nel 1990 la commissione Ue diffuse il rapporto “One Market, One Money” in cui, comprensibilmente, si poneva però l’accento sui benefici di un’unica moneta. Quel report servì da base per costruire l’edificio della moneta unica. Comunque la si pensi, è difficile affermare che finora l’euro abbia aiutato la crescita economica. Questo anche prima della crisi. L’incremento del pil dell’area euro tra il 1992 e il 1998 è stato infatti esattamente lo stesso del periodo 1999-2006: +1,5% l’anno circa.
Stiglitz sposta però la sua analisi sul periodo che va dal 2008 ad oggi, e di fronte alla deludente performance dell’economia europea afferma “l’euro avrebbe dovuto portare prosperità e accrescere la solidarietà tra gli stati membri. E’ successo esattamente l’opposto”. Quindi, è la sua conclusione, “è arrivato il momento di ripensare alla radice la struttura della moneta unica ipotizzando anche il suo smantellamento”. Secondo il premio Nobel l’euro è nato debole, la sua architettura è sbagliata all’origine e politiche economiche errate, troppo improntate all’austerità, hanno peggiorato la situazione. Sebbene secondo Stiglitz l’euro sia di per sè un problema, l’economista concede che con alcuni correttivi (unione bancaria, assicurazione comune sui depositi, maggiore solidarietà tra paesi ricchi e poveri) le cose potrebbero migliorare. Il premio Nobel è però pessimista sulla volontà politica dei Paesi membri di procedere in questa direzione. Se alla fine si scegliesse il divorzio consensuale Stiglitz suggerisce una fase di transizione con due euro. Uno per i paesi economicamente più forti del Nord Europa, un altro, con cambio più debole, per i paesi del Sud. Anche in questo caso non mancherebbero i problemi, a cominciare dalla ridenominazione dei debiti. Tuttavia, con una buona dose di volontà e impegno attraverso questa strada la separazione potrebbe non essere così traumatica.
Il professor Gustavo Piga, che insegna economia all’università Tor Vergata di Roma, condivide le considerazioni di Stiglitz sugli errori nelle politiche economiche ma ridimensiona il ruolo dell’euro nella genesi delle difficoltà del Vecchio Continente. “La moneta unica è spesso usata come un capro espiatorio“, spiega Piga, “ma la verità è che un’area che adotta una sola valuta può funzionare soltanto se c’è una forte solidarietà tra le aree ricche e quelle meno prospere. Gli Stati Uniti insegnano, il dollaro è stato per lungo tempo un generatore di tensioni e guerre civili. Soltanto quando si è introdotto un meccanismo di trasferimenti automatici tra le diverse aree della confederazione il sistema ha cominciato a funzionare bene e a generare vantaggi per tutti. Se ci sono sistemi di questo tipo gli choc che colpiscono i diversi paesi in modo asimmetrico possono essere gestiti”.
Il problema è la politica più che la moneta. La domanda chiave per i paesi euro è capire se valga la pena aspettare che si compia questa “rivoluzione”. Non è però detto che abbandonare l’euro cambierebbe radicalmente le cose. “Stiglitz sbaglia”, ragiona Piga, “quando pensa che l’uscita dall’euro produrrebbe di per sé un mutamento nelle politiche economiche dei singoli paesi. Se ci sono strategie improntate sull’austerità è perché esistono blocchi sociali e politici che le sostengono. E questo vale per tutti i paesi membri. Quello che è davvero importante”, continua il professore, “è che si rafforzino quelle forze di opposizione portatrici di una visione diversa in merito alle politiche economiche da adottare in un’unione monetaria”. Piga esprime perplessità anche sull’ipotesi dell’euro a due velocità. “Una volta che certe forze centrifughe vengono innescate”, avverte il professore, “è illusorio pensare che possano essere gestite e controllate. Se ci sarà una spaccatura dell’euro sarà definitiva e profonda e difficilmente è ipotizzabile un passaggio non traumatico ad un’Unione europea senza moneta unica”.
Anche Lorenzo Codogno, che oggi insegna alla London School of Economics ed è stato in passato direttore generale del Tesoro, non condivide le critiche di Stiglitz sull’euro in quanto tale. “A mio parere”, afferma Codogno, “è sbagliato affermare che anche con politiche diverse l’euro sia comunque destinato a fallire poiché costruito male. Le critiche di Stiglitz alle scelte fatte dopo la crisi le considero invece giuste”. Infatti, spiega l’economista, “è prevalsa la logica dell’ognuno per sé senza nessuna forma di solidarietà tra paesi e questa è stata senza dubbio un’impostazione sbagliata che ha prodotto danni”. “Purtroppo”, nota Codogno, “al momento non ritengo ci sia in Europa una volontà di cambiare le politiche economiche. In particolare la Germania appare particolarmente intransigente, anche perché tutto è bloccato in vista delle elezioni del settembre 2017”.
Qualche segnale di speranza però esiste, concede Codogno: “Il documento presentato dai cinque presidenti (Jean Claude Juncker, Donald Tusk, Mario Draghi, Martin Schultz, Jeroen Dijsselbloem) intitolato “Completare l’Unione politica e monetaria dell’Europa” è piuttosto timido ma è senza dubbio un passo nella giusta direzione. L’alternativa potrebbe essere molto problematica. Codogno ritiene che il Nobel commetta un errore quando afferma che si potrebbe abbandonare l’euro in modo relativamente indolore. I problemi tecnici sono tanti e notevoli, spiega Codogno ma soprattutto “il solo parlarne è pericoloso. Finché è un dibattito tra accademici non accade nulla ma appena l’ipotesi venisse anche lontanamente presa in considerazione da qualche politico si alzerebbe immediatamente il livello di rischio percepito dai mercati. Gli operatori economici reagirebbero immediatamente, si scatenerebbero corse agli sportelli e, a cascata, i default di debiti sovrani e privati”.
Personalmente ritengo che un'attesa estenuante e il non decidere degli attuali governi europei non sia più accettabile, ormai abbiamo constatato l'attuale debolezza di questa Europa e bisogna fare un pressing forte e deciso nei confronti della Germania affinché si decida a restituire quanto ottiene in più da un'Europa unita e forte che mette in comune il meglio di ciascun stato.
Qualsiasi governo in Italia sottoponga al volere degli italiani la scelta per il futuro sia dell'Italia che dell'Europa. un referendum sia reso possibile .
Euro a due velocità, i dubbi sull’idea di Stiglitz: ‘Moneta unica capro espiatorio. Il problema sono le politiche economiche’
Per Gustavo Piga, che insegna economia a Tor Vergata, il vero problema è che non c'è "solidarietà tra le aree ricche e quelle meno prospere". Negli Usa "il sistema ha iniziato a funzionare bene solo quando sono partiti i trasferimenti automatici tra gli Stati". Lorenzo Codogno, ex dg del Tesoro: "Parlare di addio all'euro è pericoloso: rischio corsa agli sportelli e default sovrani"
di Mauro Del Corno | 11 settembre 2016
La bordata contro l’euro lanciata dalle colonne del Financial Times dal premio Nobel Joseph Stiglitz piomba su un’Europa ancora disorientata dall’addio della Gran Bretagna. Un’Europa dove le spinte centrifughe acquistano forza, come dimostrano da ultimo le avanzate (o le ritirate) in ordine sparso sul tema del trattato commerciale con gli Usa, il Ttip. La tesi di Stiglitz, un euro strutturalmente debole che zavorra l’economia europea e che quindi sarebbe meglio abbandonare o dividere in due – uno per il Sud e uno per il Nord – è destinata a rinfocolare l’eterno dibattito sui pro e i contro moneta unica.
La posizione del premio Nobel è stata per la verità accolta con molte perplessità tra gli altri economisti e Paul De Grauwe, una delle massime autorità in materia di unioni monetarie, bolla l’ipotesi del doppio euro come “fantascienza“. Pregi e difetti di un’unica valuta per Paesi con caratteristiche economiche differenti sono da tempo al centro di studi e valutazioni non sempre concordanti. Tra i più noti quello condotto nel 1961 dall’economista e premio Nobel Robert Mundell, intitolato “teoria delle aree valutarie ottimali”, che enfatizza i costi che comporta l’adesione a un’unione monetaria e la rinuncia alla gestione di una propria politica monetaria. Il punto è che senza possibilità di manovrare i tassi di cambio (e dunque svalutare la moneta per rendere, almeno temporaneamente, i propri prodotti più competitivi) le crisi di domanda sono destinate ad abbattersi direttamente su occupazione e salari.
In assenza di flessibilità salariale o della possibilità di spostarsi facilmente dove c’è maggiore offerta di lavoro, diventa difficile per un Paese superare la fase di impasse. Della questione si occupò nel 1991 anche un altro premio Nobel, Paul Krugman, e nel 1990 la commissione Ue diffuse il rapporto “One Market, One Money” in cui, comprensibilmente, si poneva però l’accento sui benefici di un’unica moneta. Quel report servì da base per costruire l’edificio della moneta unica. Comunque la si pensi, è difficile affermare che finora l’euro abbia aiutato la crescita economica. Questo anche prima della crisi. L’incremento del pil dell’area euro tra il 1992 e il 1998 è stato infatti esattamente lo stesso del periodo 1999-2006: +1,5% l’anno circa.
Stiglitz sposta però la sua analisi sul periodo che va dal 2008 ad oggi, e di fronte alla deludente performance dell’economia europea afferma “l’euro avrebbe dovuto portare prosperità e accrescere la solidarietà tra gli stati membri. E’ successo esattamente l’opposto”. Quindi, è la sua conclusione, “è arrivato il momento di ripensare alla radice la struttura della moneta unica ipotizzando anche il suo smantellamento”. Secondo il premio Nobel l’euro è nato debole, la sua architettura è sbagliata all’origine e politiche economiche errate, troppo improntate all’austerità, hanno peggiorato la situazione. Sebbene secondo Stiglitz l’euro sia di per sè un problema, l’economista concede che con alcuni correttivi (unione bancaria, assicurazione comune sui depositi, maggiore solidarietà tra paesi ricchi e poveri) le cose potrebbero migliorare. Il premio Nobel è però pessimista sulla volontà politica dei Paesi membri di procedere in questa direzione. Se alla fine si scegliesse il divorzio consensuale Stiglitz suggerisce una fase di transizione con due euro. Uno per i paesi economicamente più forti del Nord Europa, un altro, con cambio più debole, per i paesi del Sud. Anche in questo caso non mancherebbero i problemi, a cominciare dalla ridenominazione dei debiti. Tuttavia, con una buona dose di volontà e impegno attraverso questa strada la separazione potrebbe non essere così traumatica.
Il professor Gustavo Piga, che insegna economia all’università Tor Vergata di Roma, condivide le considerazioni di Stiglitz sugli errori nelle politiche economiche ma ridimensiona il ruolo dell’euro nella genesi delle difficoltà del Vecchio Continente. “La moneta unica è spesso usata come un capro espiatorio“, spiega Piga, “ma la verità è che un’area che adotta una sola valuta può funzionare soltanto se c’è una forte solidarietà tra le aree ricche e quelle meno prospere. Gli Stati Uniti insegnano, il dollaro è stato per lungo tempo un generatore di tensioni e guerre civili. Soltanto quando si è introdotto un meccanismo di trasferimenti automatici tra le diverse aree della confederazione il sistema ha cominciato a funzionare bene e a generare vantaggi per tutti. Se ci sono sistemi di questo tipo gli choc che colpiscono i diversi paesi in modo asimmetrico possono essere gestiti”.
Il problema è la politica più che la moneta. La domanda chiave per i paesi euro è capire se valga la pena aspettare che si compia questa “rivoluzione”. Non è però detto che abbandonare l’euro cambierebbe radicalmente le cose. “Stiglitz sbaglia”, ragiona Piga, “quando pensa che l’uscita dall’euro produrrebbe di per sé un mutamento nelle politiche economiche dei singoli paesi. Se ci sono strategie improntate sull’austerità è perché esistono blocchi sociali e politici che le sostengono. E questo vale per tutti i paesi membri. Quello che è davvero importante”, continua il professore, “è che si rafforzino quelle forze di opposizione portatrici di una visione diversa in merito alle politiche economiche da adottare in un’unione monetaria”. Piga esprime perplessità anche sull’ipotesi dell’euro a due velocità. “Una volta che certe forze centrifughe vengono innescate”, avverte il professore, “è illusorio pensare che possano essere gestite e controllate. Se ci sarà una spaccatura dell’euro sarà definitiva e profonda e difficilmente è ipotizzabile un passaggio non traumatico ad un’Unione europea senza moneta unica”.
Anche Lorenzo Codogno, che oggi insegna alla London School of Economics ed è stato in passato direttore generale del Tesoro, non condivide le critiche di Stiglitz sull’euro in quanto tale. “A mio parere”, afferma Codogno, “è sbagliato affermare che anche con politiche diverse l’euro sia comunque destinato a fallire poiché costruito male. Le critiche di Stiglitz alle scelte fatte dopo la crisi le considero invece giuste”. Infatti, spiega l’economista, “è prevalsa la logica dell’ognuno per sé senza nessuna forma di solidarietà tra paesi e questa è stata senza dubbio un’impostazione sbagliata che ha prodotto danni”. “Purtroppo”, nota Codogno, “al momento non ritengo ci sia in Europa una volontà di cambiare le politiche economiche. In particolare la Germania appare particolarmente intransigente, anche perché tutto è bloccato in vista delle elezioni del settembre 2017”.
Qualche segnale di speranza però esiste, concede Codogno: “Il documento presentato dai cinque presidenti (Jean Claude Juncker, Donald Tusk, Mario Draghi, Martin Schultz, Jeroen Dijsselbloem) intitolato “Completare l’Unione politica e monetaria dell’Europa” è piuttosto timido ma è senza dubbio un passo nella giusta direzione. L’alternativa potrebbe essere molto problematica. Codogno ritiene che il Nobel commetta un errore quando afferma che si potrebbe abbandonare l’euro in modo relativamente indolore. I problemi tecnici sono tanti e notevoli, spiega Codogno ma soprattutto “il solo parlarne è pericoloso. Finché è un dibattito tra accademici non accade nulla ma appena l’ipotesi venisse anche lontanamente presa in considerazione da qualche politico si alzerebbe immediatamente il livello di rischio percepito dai mercati. Gli operatori economici reagirebbero immediatamente, si scatenerebbero corse agli sportelli e, a cascata, i default di debiti sovrani e privati”.
Personalmente ritengo che un'attesa estenuante e il non decidere degli attuali governi europei non sia più accettabile, ormai abbiamo constatato l'attuale debolezza di questa Europa e bisogna fare un pressing forte e deciso nei confronti della Germania affinché si decida a restituire quanto ottiene in più da un'Europa unita e forte che mette in comune il meglio di ciascun stato.
Qualsiasi governo in Italia sottoponga al volere degli italiani la scelta per il futuro sia dell'Italia che dell'Europa. un referendum sia reso possibile .
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Re: EUROPA ,così non può continuare
Se l’odore dei soldi può cambiare la Ue.
Il futuro dell'Unione può ripartire solo attraverso una politica che combatta le diseguaglianze e discuta nuove leggi per colpire il riciclaggio di denaro
di ROBERTO SAVIANO
Roberto Saviano riceve oggi a Potsdam l’M100 Media Award assegnato per la libertà di espressione. Anticipiamo il suo discorso. Durante la cerimonia, Angela Merkel parlerà di Europa e immigrazione. Il conferimento del premio è affidato a Giovanni di Lorenzo, direttore di Die Zeit
VI SIETE mai chiesti da dove venga la locuzione latina “pecunia non olet”? Svetonio in “De vita Caesarum” per primo racconta questo aneddoto: Tito, figlio di Vespasiano, rimprovera al padre di aver messo una tassa sull’urina raccolta nelle latrine, che da quel momento sono dette vespasiani. Tito si vergogna perché il popolo usa il nome di suo padre per indicare i bagni.
E in segno di sfida, dopo aver urinato, al cospetto di suo padre getta sprezzante a terra due monete, come fossero elemosina. Si narra che Vespasiano, raccolte le monete, le abbia avvicinate prima al suo naso e poi a quello del figlio e gli abbia chiesto quale fosse il loro odore. Quello che Vespasiano voleva dimostrare a Tito era che il denaro non ha odore, da qualunque parte arrivi, in qualunque modo venga guadagnato e per qualunque scopo. E invece no, il denaro ha odore. Bisogna saperlo riconoscere. Spesso puzza di sangue e di riciclaggio. Di droga, armi e petrolio e l’Europa, questa valanga di denaro, il cui odore dovremmo imparare a riconoscere, la accoglie di continuo tramite quelli che comunemente definiamo paradisi fiscali. Ogni Stato ha il suo buco nero: la Francia ha il Lussemburgo, la Germania ha il Liechtenstein, la Spagna ha Andorra, l’Italia ha San Marino. Tutto il mondo ha la Svizzera e Londra. Una Europa che sappia riconoscere l’odore del denaro potrebbe ripartire anche dalla Germania, da un Paese che sa cosa significhi deficit di diritti umani. Un Paese dove oggi mancano leggi antiriciclaggio efficaci e il reato di associazione mafiosa, ma che saprebbe affrontare questi delicatissimi temi tenendo presente dignità umana e diritti, tanto alto è stato il prezzo che ha pagato, nel Novecento, per la loro mancanza.
Dalla Germania potrebbe ripartire una Europa dei diritti che, oggi, ai capitali provento di riciclaggio dei cartelli messicani o che servono a finanziare le cellule terroristiche tramite il contrabbando di petrolio, stupefacenti e opere d’arte, spalanca porte. Le stesse che agli esseri umani sbatte in faccia. Avanti il denaro e fuori gli uomini: questo meccanismo cinico riassume cosa è oggi l’Europa, o meglio, cosa aspira compiutamente a essere. La strategia di Daesh è esattamente questa: creare terrore per indurre la comunità internazionale a gettare la spugna, a disinteressarsi di ciò che accade in Iraq, in Siria, in Kurdistan. Ma cosa accade esattamente laggiù, oltre alle stragi continue di civili che inducono parte della popolazione a trovare rifugio in Europa? Accade che il sedicente Stato Islamico mira essenzialmente al predominio dei giacimenti petroliferi e del traffico di stupefacenti, e pretende di farlo senza che nessuna entità straniera si ingerisca. Se chiudiamo le frontiere, cambierà qualcosa? Sostanzialmente no, la situazione anzi non potrà che peggiorare perché poi la guerra che adesso non ci appartiene se non in casi eccezionali (perché gli attentati da noi sono casi eccezionali, altrove sono routine quotidiana), diventerà una guerra civile tra le generazioni di immigrati, che in Europa vivono da decenni, e chi si sente purosangue europeo. A me francamente tutto questo spaventa moltissimo.
Se questo premio mi viene attribuito per le mie condizioni di vita, per dimostrare che ciò che scrivo e denuncio viene ascoltato, allora i media europei hanno il dovere, in questa delicatissima fase che l’Europa sta attraversando, di scegliere la complessità, di provare a spiegare senza cercare scorciatoie, quali sono i pericoli reali delle derive nazionaliste che molti Paesi stanno vivendo. Ma quello che brucia di più oggi è proprio il fallimento dell’Unione Europea non solo come soggetto politico internazionale, non solo come soggetto politico credibile e forte, ma anche e soprattutto nella sua capacità di integrare le tante anime che la compongono. L’Europa come fu nel sogno di Ventotene, ma ancor prima di Giuseppe Mazzini, non poteva essere solo un’Europa economica, un mercato o, peggio, una struttura che sembra mediare tra la finanza e i governi.
L’Europa sconta ora la sua rigidità interna, una rigidità che in politica economica è sembrata la ricetta giusta, ma che sta presentando un conto salatissimo.
Una rigidità che, in politica estera, si è tradotta nella mancanza di visione comunitaria. Quanto diversi oggi sarebbero i destini della Siria, del Kurdistan e della Turchia se quest’ultima facesse parte della Comunità Europea. Si sarebbe iniziata una stabilizzazione dei nostri confini senza arrivare alla tragedia umanitaria che oggi stiamo sperimentando. Di più: all’indomani del fallito golpe, se i cittadini turchi fossero oggi cittadini europei potrebbero ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo le cui decisioni avrebbero in Turchia un valore e un peso. E se pure non fossero rispettate, sarebbe una questione per noi di vitale importanza, ne discuteremmo in ogni sede. Ecco perché qui, nella seconda patria dei turchi, in Germania, voglio dedicare l’M100 Media Award a due intellettuali turchi, Ahmet Altan (giornalista e scrittore) e a suo fratello Mehmet Altan (professore di economia) arrestati il 10 settembre. Ahmet Altan e Mehmet Altan sono accusati di aver lanciato durante una trasmissione televisiva, andata in onda il giorno prima del golpe, messaggi subliminali per chiamare a raccolta i sostenitori del colpo di Stato. Taraf, il giornale che Ahmet dirigeva, ha sempre lavorato per il diritto dei cittadini turchi alla conoscenza, perché il governo rendesse conto delle proprie azioni. Ahmet è stato più volte processato e condannato perché oppositore di Erdogan. Suo fratello Mehmet ha sostenuto la necessità di ricostruire l’identità della Turchia sul rispetto dei diritti umani, non sulla razza o sulla religione. Sembrerà scontato, ma è un messaggio rivoluzionario. Ecco, se la Turchia fosse parte dell’Unione Europea, oggi i destini di Ahmet e di Mehmet Altan li sentiremmo vicini, talmente vicini da non poter tacere sulle loro sorti.
Concludo citando Ernesto Rossi, tra i padri fondatori dell’Unione Europa quello che sento più vicino, anche per origini geografiche, essendo lui nato a Caserta città dove a lungo ho vissuto. Della provincia di Caserta è il clan dei casalesi, il clan che ho denunciato in Gomorra e che mi ha minacciato, costringendomi a vivere gli ultimi dieci anni della mia vita scortato. In Pensieri e parole Ernesto Rossi scrive: «Comunque penosa sia la situazione presente, comunque avanzato sia il processo di involuzione confessionale della nostra Repubblica, noi, però, non disperiamo. Sulla storia dell’umanità non cala mai il sipario, ed attori del dramma siamo noi, con la nostra volontà e i nostri ideali». Quello che non è stato fatto in Europa, lo si può ancora fare.
L’Europa può ancora essere fucina di diritto e di convivenza, di miglioramento sociale. Può ancora essere quel luogo in cui i nazionalismi e i populismi vengono battuti prima che facciano danni ulteriori. Con la nostra volontà e con i nostri ideali si può fare.
Il futuro dell'Unione può ripartire solo attraverso una politica che combatta le diseguaglianze e discuta nuove leggi per colpire il riciclaggio di denaro
di ROBERTO SAVIANO
Roberto Saviano riceve oggi a Potsdam l’M100 Media Award assegnato per la libertà di espressione. Anticipiamo il suo discorso. Durante la cerimonia, Angela Merkel parlerà di Europa e immigrazione. Il conferimento del premio è affidato a Giovanni di Lorenzo, direttore di Die Zeit
VI SIETE mai chiesti da dove venga la locuzione latina “pecunia non olet”? Svetonio in “De vita Caesarum” per primo racconta questo aneddoto: Tito, figlio di Vespasiano, rimprovera al padre di aver messo una tassa sull’urina raccolta nelle latrine, che da quel momento sono dette vespasiani. Tito si vergogna perché il popolo usa il nome di suo padre per indicare i bagni.
E in segno di sfida, dopo aver urinato, al cospetto di suo padre getta sprezzante a terra due monete, come fossero elemosina. Si narra che Vespasiano, raccolte le monete, le abbia avvicinate prima al suo naso e poi a quello del figlio e gli abbia chiesto quale fosse il loro odore. Quello che Vespasiano voleva dimostrare a Tito era che il denaro non ha odore, da qualunque parte arrivi, in qualunque modo venga guadagnato e per qualunque scopo. E invece no, il denaro ha odore. Bisogna saperlo riconoscere. Spesso puzza di sangue e di riciclaggio. Di droga, armi e petrolio e l’Europa, questa valanga di denaro, il cui odore dovremmo imparare a riconoscere, la accoglie di continuo tramite quelli che comunemente definiamo paradisi fiscali. Ogni Stato ha il suo buco nero: la Francia ha il Lussemburgo, la Germania ha il Liechtenstein, la Spagna ha Andorra, l’Italia ha San Marino. Tutto il mondo ha la Svizzera e Londra. Una Europa che sappia riconoscere l’odore del denaro potrebbe ripartire anche dalla Germania, da un Paese che sa cosa significhi deficit di diritti umani. Un Paese dove oggi mancano leggi antiriciclaggio efficaci e il reato di associazione mafiosa, ma che saprebbe affrontare questi delicatissimi temi tenendo presente dignità umana e diritti, tanto alto è stato il prezzo che ha pagato, nel Novecento, per la loro mancanza.
Dalla Germania potrebbe ripartire una Europa dei diritti che, oggi, ai capitali provento di riciclaggio dei cartelli messicani o che servono a finanziare le cellule terroristiche tramite il contrabbando di petrolio, stupefacenti e opere d’arte, spalanca porte. Le stesse che agli esseri umani sbatte in faccia. Avanti il denaro e fuori gli uomini: questo meccanismo cinico riassume cosa è oggi l’Europa, o meglio, cosa aspira compiutamente a essere. La strategia di Daesh è esattamente questa: creare terrore per indurre la comunità internazionale a gettare la spugna, a disinteressarsi di ciò che accade in Iraq, in Siria, in Kurdistan. Ma cosa accade esattamente laggiù, oltre alle stragi continue di civili che inducono parte della popolazione a trovare rifugio in Europa? Accade che il sedicente Stato Islamico mira essenzialmente al predominio dei giacimenti petroliferi e del traffico di stupefacenti, e pretende di farlo senza che nessuna entità straniera si ingerisca. Se chiudiamo le frontiere, cambierà qualcosa? Sostanzialmente no, la situazione anzi non potrà che peggiorare perché poi la guerra che adesso non ci appartiene se non in casi eccezionali (perché gli attentati da noi sono casi eccezionali, altrove sono routine quotidiana), diventerà una guerra civile tra le generazioni di immigrati, che in Europa vivono da decenni, e chi si sente purosangue europeo. A me francamente tutto questo spaventa moltissimo.
Se questo premio mi viene attribuito per le mie condizioni di vita, per dimostrare che ciò che scrivo e denuncio viene ascoltato, allora i media europei hanno il dovere, in questa delicatissima fase che l’Europa sta attraversando, di scegliere la complessità, di provare a spiegare senza cercare scorciatoie, quali sono i pericoli reali delle derive nazionaliste che molti Paesi stanno vivendo. Ma quello che brucia di più oggi è proprio il fallimento dell’Unione Europea non solo come soggetto politico internazionale, non solo come soggetto politico credibile e forte, ma anche e soprattutto nella sua capacità di integrare le tante anime che la compongono. L’Europa come fu nel sogno di Ventotene, ma ancor prima di Giuseppe Mazzini, non poteva essere solo un’Europa economica, un mercato o, peggio, una struttura che sembra mediare tra la finanza e i governi.
L’Europa sconta ora la sua rigidità interna, una rigidità che in politica economica è sembrata la ricetta giusta, ma che sta presentando un conto salatissimo.
Una rigidità che, in politica estera, si è tradotta nella mancanza di visione comunitaria. Quanto diversi oggi sarebbero i destini della Siria, del Kurdistan e della Turchia se quest’ultima facesse parte della Comunità Europea. Si sarebbe iniziata una stabilizzazione dei nostri confini senza arrivare alla tragedia umanitaria che oggi stiamo sperimentando. Di più: all’indomani del fallito golpe, se i cittadini turchi fossero oggi cittadini europei potrebbero ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo le cui decisioni avrebbero in Turchia un valore e un peso. E se pure non fossero rispettate, sarebbe una questione per noi di vitale importanza, ne discuteremmo in ogni sede. Ecco perché qui, nella seconda patria dei turchi, in Germania, voglio dedicare l’M100 Media Award a due intellettuali turchi, Ahmet Altan (giornalista e scrittore) e a suo fratello Mehmet Altan (professore di economia) arrestati il 10 settembre. Ahmet Altan e Mehmet Altan sono accusati di aver lanciato durante una trasmissione televisiva, andata in onda il giorno prima del golpe, messaggi subliminali per chiamare a raccolta i sostenitori del colpo di Stato. Taraf, il giornale che Ahmet dirigeva, ha sempre lavorato per il diritto dei cittadini turchi alla conoscenza, perché il governo rendesse conto delle proprie azioni. Ahmet è stato più volte processato e condannato perché oppositore di Erdogan. Suo fratello Mehmet ha sostenuto la necessità di ricostruire l’identità della Turchia sul rispetto dei diritti umani, non sulla razza o sulla religione. Sembrerà scontato, ma è un messaggio rivoluzionario. Ecco, se la Turchia fosse parte dell’Unione Europea, oggi i destini di Ahmet e di Mehmet Altan li sentiremmo vicini, talmente vicini da non poter tacere sulle loro sorti.
Concludo citando Ernesto Rossi, tra i padri fondatori dell’Unione Europa quello che sento più vicino, anche per origini geografiche, essendo lui nato a Caserta città dove a lungo ho vissuto. Della provincia di Caserta è il clan dei casalesi, il clan che ho denunciato in Gomorra e che mi ha minacciato, costringendomi a vivere gli ultimi dieci anni della mia vita scortato. In Pensieri e parole Ernesto Rossi scrive: «Comunque penosa sia la situazione presente, comunque avanzato sia il processo di involuzione confessionale della nostra Repubblica, noi, però, non disperiamo. Sulla storia dell’umanità non cala mai il sipario, ed attori del dramma siamo noi, con la nostra volontà e i nostri ideali». Quello che non è stato fatto in Europa, lo si può ancora fare.
L’Europa può ancora essere fucina di diritto e di convivenza, di miglioramento sociale. Può ancora essere quel luogo in cui i nazionalismi e i populismi vengono battuti prima che facciano danni ulteriori. Con la nostra volontà e con i nostri ideali si può fare.
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Re: EUROPA ,così non può continuare
Con Diem25 Il New Deal per l’Europa: una storia nuova, credo sia opportuno che Possibie, se esiste ancora, senta gli iscritti e decida. Oltretutto Varoufakis ha proposto, in sintesi, di rilanciare l’economia europea e l’occupazione finanziando la riconversione dei sistemi produttivi verso soluzioni ambientalmente compatibili. Mi sembra una proposta chiara, ragionevole, condivisibile e facilmente comunicabile.
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Re: EUROPA ,così non può continuare
LE BANCHE ITALIANE HANNO PERSO 85 MILIARDI DI EURO COLPA DELLO SPREAD !!!
naturalmente dipende dai principi contabili.
Diciamo se applichiamo il principio CASSA sicuramente hanno perso 85 miliardi , ma se applichiamo il principio COMPETENZA allora hanno guadagnato 85 miliardi di euro.
Se applichiamo il principio STIAMO CALMI , non vendiamo e non facciamo attività speculativa allora le banche non hanno perso nulla e non hanno speculato su nulla.
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Questo intervento del dott. Gatti chiude definitivamente il capitolo Banca D'Italia, una nuova epoca deve nascere.
di Renato Gatti
I principi contabili
Il mark to market (mtm) è un principio contabile che prescrive alle banche di valutare i titoli posseduti al valore di mercato. Ciò comporta che se la quotazione di mercato è positiva la banca può registrare utili non realizzati; ma se le quotazioni di mercato sono negative gli assets detenuti dalle banche vanno svalutati al loro valore di mercato, si genera quindi una perdita non realizzata ma che va a ridurre il patrimonio netto e di conseguenza riduce i prestiti che la banca può erogare essendo parametrati al patrimonio netto in base ai criteri del Common Equity Tier 1 (CET1). La valutazione è determinata dal mercato, principalmente dal mercato dei Cds, dai credit default swaps che sono basati sul rischio di credito ovvero sul rischio che quel titolo possa non essere rimborsato per default dell’emittente.
L’altro principio contabile che viene contrapposto al mtm, è quello del costo storico, ovvero i titoli vanno iscritti a bilancio al costo sostenuto per acquistare i titoli stessi. La banca con questa valutazione non registra perdite se non al momento in cui, vendendo i titoli, realizzasse un eventuale ricavo inferiore al costo di acquisto. E’ ovvio che se parliamo di titoli di stato, che vengono rimborsati a scadenza, nessuna banca registrerà mai una perdita (a meno che lo stato vada in default). La banca, adottando il principio del mtm, dovrebbe invece registrare una perdita nei momenti in cui il mercato quotasse un valore inferiore.
I principi contabili sono determinati da istituzioni internazionali (FASB, IASB) e sono ispirati a principi economici che seguono filosofie orientate al liberismo. Il principio fondamentale è quello per cui il mercato dà sempre i valori corretti stante le informazioni di cui esso dispone, per cui nel rispetto della trasparenza, per correttezza verso i risparmiatori e gli investitori, i bilanci delle banche devono adeguarsi al principio del mark to market. Va altresì osservato che il mtm è coerente con il ragionamento per cui se la banca vendesse quell’asset, oggi ricaverebbe quello che il mercato indica; ma d’altra parte se la banca non vende non subisce nessuna perdita e non si vede perché perdite “potenziali” ma anche improbabili, debbano causare conseguenze reali e di grave portata nell’erogazione dei prestiti, causando un credit crunch ingiustificato, che oltretutto avrebbe riflessi pro-ciclici.
D’altro canto va osservato che la contabilizzazione al prezzo d’acquisto negherebbe di riconoscere il rischio di una reale difficoltà dell’emittente, nascondendo a risparmiatori e investitori i rischi che un default dell’emittente potrebbero causare alle banche, ai risparmi, alla finanza.
Non va infatti dimenticato che il valore di mercato viene determinato dalla valutazione del rischio che l’emittente non sia in grado di onorare il suo debito; lo spread è calcolato infatti dai credit default swaps ovvero quanto debbo aggiungere al tasso di interesse di riferimento (Bund tedesco ad esempio) come costo di assicurazione, come premio che dovrei pagare per assicurarmi contro il rischio di default dell’emittente.
La domanda è se il valore di mercato, determinato sul mercato secondario o dei cds, sia una risposta talmente valida ed equa, da generare difficoltà al sistema bancario e, a cascata, difficoltà alle imprese e alle famiglie richiedenti prestiti e in definitiva all’economia di un paese.
C’è anche da chiedersi se i mercati, nel caso in cui le banche adottassero il criterio del costo storico, si accontenterebbero della valutazione fatta dalle banche stesse, o procederebbero per conto proprio a rideterminare la valutazione con il criterio del mark to market.
Per completezza va ricordato che il principio mtm fu cancellato negli USA nel 1938 perché esso stava contribuendo al disordine finanziario durante la Grande depressione. Reintrodotto nel 2007 con il FASB n. 157 il principio mtm fu alla base del fallimento della Lehman Brothers e quindi fu contestato da più parti e fu sospeso il 2 aprile 2009.
I titoli tossici
Va ricordato che alcune banche detengono i famosi titoli tossici che non hanno una valutazione di mercato. In tal caso è applicabile il criterio del costo storico ma non il criterio del mark to market. Come si comporta la BCE? Incredibilmente la BCE accetta l’autovalutazione fatta dalle banche, senza costringere le stesse a svalutazioni e ricapitalizzazioni.
Da Il Sole 24 ore
Per cinque grandi banche europee la terribile crisi finanziaria che ha rischiato di far implodere il sistema bancario mondiale non è ancora dietro le spalle. Le scorie della crisi del 2007 sono ancora lì, depositate come una nube radioattiva nei loro bilanci. Sono i famigerati Cdo, gli Abs, i mutui subprime cartolarizzati e le altre diavolerie della turbo-finanza speculativa che non sono stati del tutto metabolizzati e “valgono” tuttora per 5 colossi bancari la cifra di 549 miliardi di dollari.
Le banche in questione che Moody's ha messo nel mirino, segnalandole in un report, sono nomi blasonati della finanza europea. Si tratta delle due britanniche Royal Bank of Scotland eBarclays; dei due colossi svizzeri dell'investment banking Credit Suisse e Ubs e della tedesca Deutsche Bank. Sono gli istituti su cui, secondo le valutazioni dell'agenzia Usa i cosiddetti legacy asset, i residui illiquidi e tossici dell'era travagliata dei subprime e dei derivati, pesano ancora in modo significativo. Nei bilanci dei 5 colossi sono infatti ancora contabilizzati, a dieci anni dall'avvio della crisi, ben 549 miliardi di dollari di asset illiquidi parcheggiati in attesa di uno smaltimento che è in buona parte avvenuto, ma che conserva questa pesante coda velenosa.
La parte del leone la fanno i due big inglesi: Barclays ha in pancia tuttora 303 miliardi di spazzatura finanziaria, ben il 20% del suo attivo di bilancio. Rbs ne vanta per 133 miliardi. Seguono le due svizzere Ubs e Credit Suisse con un ammontare di 57 e 56 miliardi di dollari, rispettivamente. In una posizione di maggior tranquillità sta Deutsche Bank che ha venduto molto e ha un residuo di soli 5,8 miliardi.
La Cassazione con sentenza 47421/11 sostiene che il mark to market “non esprime affatto un valore concreto ed attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata. Il valore del mark to market, infatti, è influenzato da una serie di fattori ed è quindi sistematicamente aggiustato in funzione dell’andamento dei mercati finanziari, dovendosi poi attrarre nell’ambito dei relativi parametri di determinazione anche l’up to front erogato e l’utile per la banca”.
Conclusioni
Con quanto riportato nei paragrafi precedenti, mi pare evidente che la materia è ostica e complessa ma una conclusione, anche se non r
I principi contabili
Il mark to market (mtm) è un principio contabile che prescrive alle banche di valutare i titoli posseduti al valore di mercato. Ciò comporta che se la quotazione di mercato è positiva la banca può registrare utili non realizzati; ma se le quotazioni di mercato sono negative gli assets detenuti dalle banche vanno svalutati al loro valore di mercato, si genera quindi una perdita non realizzata ma che va a ridurre il patrimonio netto e di conseguenza riduce i prestiti che la banca può erogare essendo parametrati al patrimonio netto in base ai criteri del Common Equity Tier 1 (CET1). La valutazione è determinata dal mercato, principalmente dal mercato dei Cds, dai credit default swaps che sono basati sul rischio di credito ovvero sul rischio che quel titolo possa non essere rimborsato per default dell’emittente.
L’altro principio contabile che viene contrapposto al mtm, è quello del costo storico, ovvero i titoli vanno iscritti a bilancio al costo sostenuto per acquistare i titoli stessi. La banca con questa valutazione non registra perdite se non al momento in cui, vendendo i titoli, realizzasse un eventuale ricavo inferiore al costo di acquisto. E’ ovvio che se parliamo di titoli di stato, che vengono rimborsati a scadenza, nessuna banca registrerà mai una perdita (a meno che lo stato vada in default). La banca, adottando il principio del mtm, dovrebbe invece registrare una perdita nei momenti in cui il mercato quotasse un valore inferiore.
I principi contabili sono determinati da istituzioni internazionali (FASB, IASB) e sono ispirati a principi economici che seguono filosofie orientate al liberismo. Il principio fondamentale è quello per cui il mercato dà sempre i valori corretti stante le informazioni di cui esso dispone, per cui nel rispetto della trasparenza, per correttezza verso i risparmiatori e gli investitori, i bilanci delle banche devono adeguarsi al principio del mark to market. Va altresì osservato che il mtm è coerente con il ragionamento per cui se la banca vendesse quell’asset, oggi ricaverebbe quello che il mercato indica; ma d’altra parte se la banca non vende non subisce nessuna perdita e non si vede perché perdite “potenziali” ma anche improbabili, debbano causare conseguenze reali e di grave portata nell’erogazione dei prestiti, causando un credit crunch ingiustificato, che oltretutto avrebbe riflessi pro-ciclici.
D’altro canto va osservato che la contabilizzazione al prezzo d’acquisto negherebbe di riconoscere il rischio di una reale difficoltà dell’emittente, nascondendo a risparmiatori e investitori i rischi che un default dell’emittente potrebbero causare alle banche, ai risparmi, alla finanza.
Non va infatti dimenticato che il valore di mercato viene determinato dalla valutazione del rischio che l’emittente non sia in grado di onorare il suo debito; lo spread è calcolato infatti dai credit default swaps ovvero quanto debbo aggiungere al tasso di interesse di riferimento (Bund tedesco ad esempio) come costo di assicurazione, come premio che dovrei pagare per assicurarmi contro il rischio di default dell’emittente.
La domanda è se il valore di mercato, determinato sul mercato secondario o dei cds, sia una risposta talmente valida ed equa, da generare difficoltà al sistema bancario e, a cascata, difficoltà alle imprese e alle famiglie richiedenti prestiti e in definitiva all’economia di un paese.
C’è anche da chiedersi se i mercati, nel caso in cui le banche adottassero il criterio del costo storico, si accontenterebbero della valutazione fatta dalle banche stesse, o procederebbero per conto proprio a rideterminare la valutazione con il criterio del mark to market.
Per completezza va ricordato che il principio mtm fu cancellato negli USA nel 1938 perché esso stava contribuendo al disordine finanziario durante la Grande depressione. Reintrodotto nel 2007 con il FASB n. 157 il principio mtm fu alla base del fallimento della Lehman Brothers e quindi fu contestato da più parti e fu sospeso il 2 aprile 2009.
I titoli tossici
Va ricordato che alcune banche detengono i famosi titoli tossici che non hanno una valutazione di mercato. In tal caso è applicabile il criterio del costo storico ma non il criterio del mark to market. Come si comporta la BCE? Incredibilmente la BCE accetta l’autovalutazione fatta dalle banche, senza costringere le stesse a svalutazioni e ricapitalizzazioni.
Da Il Sole 24 ore
Per cinque grandi banche europee la terribile crisi finanziaria che ha rischiato di far implodere il sistema bancario mondiale non è ancora dietro le spalle. Le scorie della crisi del 2007 sono ancora lì, depositate come una nube radioattiva nei loro bilanci. Sono i famigerati Cdo, gli Abs, i mutui subprime cartolarizzati e le altre diavolerie della turbo-finanza speculativa che non sono stati del tutto metabolizzati e “valgono” tuttora per 5 colossi bancari la cifra di 549 miliardi di dollari.
Le banche in questione che Moody's ha messo nel mirino, segnalandole in un report, sono nomi blasonati della finanza europea. Si tratta delle due britanniche Royal Bank of Scotland eBarclays; dei due colossi svizzeri dell'investment banking Credit Suisse e Ubs e della tedesca Deutsche Bank. Sono gli istituti su cui, secondo le valutazioni dell'agenzia Usa i cosiddetti legacy asset, i residui illiquidi e tossici dell'era travagliata dei subprime e dei derivati, pesano ancora in modo significativo. Nei bilanci dei 5 colossi sono infatti ancora contabilizzati, a dieci anni dall'avvio della crisi, ben 549 miliardi di dollari di asset illiquidi parcheggiati in attesa di uno smaltimento che è in buona parte avvenuto, ma che conserva questa pesante coda velenosa.
La parte del leone la fanno i due big inglesi: Barclays ha in pancia tuttora 303 miliardi di spazzatura finanziaria, ben il 20% del suo attivo di bilancio. Rbs ne vanta per 133 miliardi. Seguono le due svizzere Ubs e Credit Suisse con un ammontare di 57 e 56 miliardi di dollari, rispettivamente. In una posizione di maggior tranquillità sta Deutsche Bank che ha venduto molto e ha un residuo di soli 5,8 miliardi.
La Cassazione con sentenza 47421/11 sostiene che il mark to market “non esprime affatto un valore concreto ed attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata. Il valore del mark to market, infatti, è influenzato da una serie di fattori ed è quindi sistematicamente aggiustato in funzione dell’andamento dei mercati finanziari, dovendosi poi attrarre nell’ambito dei relativi parametri di determinazione anche l’up to front erogato e l’utile per la banca”.
Conclusioni
Con quanto riportato nei paragrafi precedenti, mi pare evidente che la materia è ostica e complessa ma una conclusione, anche se non risolutiva di tutti i problemi, mi pare possa essere raggiunta, a mio parere, nei seguenti termini.
Partiamo dall’assunto che sta alla base dell’applicazione del criterio del mark to market: “Il principio fondamentale è quello per cui il mercato dà sempre i valori corretti stante le informazioni di cui esso dispone, per cui nel rispetto della trasparenza, per correttezza verso i risparmiatori e gli investitori, i bilanci delle banche devono adeguarsi al principio del mark to market.”
Mi pare poter affermare che se il mercato “non sbagliasse mai” non si spiegherebbe il fenomeno delle “bolle speculative”, ricorrenti, continui, distruttivi quasi congeniti disastri che originano dal mercato smentendo l’assunto filosofico del liberismo. Quello che a mio parere va contestato non tanto il principio di trasparenza (se una banca è a rischio è bene che risparmiatori e investitori lo sappiano), quanto l’assumere il cosiddetto valore di mercato come parametro di riferimento delle valutazioni degli assets bancari e dei titoli di stato in primis. Quel tipo di valore di mercato estremamente sensibili ad influenze di fattori esterni (o forse meglio, interni alla logica capitalista) quali la politica (Draghi afferma che lo spread è una questione politica), e la speculazione (i ribassisti hanno facile gioco a svalutare titoli di stato con vendite a consegna differita, la storia ce lo insegna). Sarà, ritengo, legittimo dubitare:
di un principio contabile accusato del fallimento della Lehman Brothers che, dopo il fallimento, è stato sospeso forse anche perché quei titoli che furono svalutati, causando il fallimento, tornarono a quotazioni positive;
di un “mercato” che non riesce a spiegare la sua infallibilità nelle ripetute, ricorrenti, sempre più gravi “bolle speculative” che nascono non da difetti del sistema ma sono al contrario insite nel meccanismo del libero mercato, nel suo dna (vedasi il lungo elenco di bolle in Roubini);
di un principio contabile di dubbio fondamento che tuttavia se applicato crea fasulli utili non realizzati ma anche perniciose perdite potenziali che tuttavia incidono sul funzionamento delle banche e incidono sulle potenzialità di credito alle famiglie e alle imprese.
di un principio contabile che ignora come comportarsi, dichiarando la sua impotenza, nel valutare quei titoli tossici alla base della crisi del 2007, che ancora sono contabilizzati dalle banche secondo loro autovalutazioni.
Ci sono alcune prassi o proposte alternative ai due principi contabili sopra esaminati; una proposta è quella di valutare gli assets per il 50% al mtm e per l’altro 50% al costo storico; in Spagna le plusvalenze sulle quotazioni vanno accantonate in un fondo cui attingere in momenti di caduta delle quotazioni. Non ho ancora una proposta da avanzare, sono tuttavia convinto che il principio mtm vada superato e sostituito da un criterio meno isterico e manovrabile, sia dalla politica che dalla speculazione, e che sta diventando oggetto di conflitto tra i nazionalismi interni all’Unione Europea.
A conferma dell'irrazionalità del principio del "mark to market", rilevo che è stata recentemente introdotta una importante novità contabile per cui le banche hanno la possibilità di trasferire i titoli di Stato posseduti dal portafoglio di "trading" ovvero portafoglio di titoli destinati ad essere rivenduti sul mercato, al portafoglio in cui vengono custodite i titoli liquidabili solo alla loro scadenza. Questo criterio evita alle banche di svalutare i propri assets con le conseguenze sul patrimonio e quindi sulla capacità di erogare prestiti, praticamente è un ritorno al principio contabile del costo storico purchè quei titoli siano mantenuti in portafoglio fino a maturazione.
Tuttavia questo principio di buon senso disconosce ogni valore a quello che lo spread dovrebbe rappresentare, ovvero il costo di una polizza assicurativa contro il rischio di default dell'emittente; il principio così come innovato dà per scontato che a scadenza l'emittente onorerà completamente il suo debito. E ciò, in un momento in cui si parla anche di rischio di denominazione, non appare totalmente condivisibile.
naturalmente dipende dai principi contabili.
Diciamo se applichiamo il principio CASSA sicuramente hanno perso 85 miliardi , ma se applichiamo il principio COMPETENZA allora hanno guadagnato 85 miliardi di euro.
Se applichiamo il principio STIAMO CALMI , non vendiamo e non facciamo attività speculativa allora le banche non hanno perso nulla e non hanno speculato su nulla.
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Questo intervento del dott. Gatti chiude definitivamente il capitolo Banca D'Italia, una nuova epoca deve nascere.
di Renato Gatti
I principi contabili
Il mark to market (mtm) è un principio contabile che prescrive alle banche di valutare i titoli posseduti al valore di mercato. Ciò comporta che se la quotazione di mercato è positiva la banca può registrare utili non realizzati; ma se le quotazioni di mercato sono negative gli assets detenuti dalle banche vanno svalutati al loro valore di mercato, si genera quindi una perdita non realizzata ma che va a ridurre il patrimonio netto e di conseguenza riduce i prestiti che la banca può erogare essendo parametrati al patrimonio netto in base ai criteri del Common Equity Tier 1 (CET1). La valutazione è determinata dal mercato, principalmente dal mercato dei Cds, dai credit default swaps che sono basati sul rischio di credito ovvero sul rischio che quel titolo possa non essere rimborsato per default dell’emittente.
L’altro principio contabile che viene contrapposto al mtm, è quello del costo storico, ovvero i titoli vanno iscritti a bilancio al costo sostenuto per acquistare i titoli stessi. La banca con questa valutazione non registra perdite se non al momento in cui, vendendo i titoli, realizzasse un eventuale ricavo inferiore al costo di acquisto. E’ ovvio che se parliamo di titoli di stato, che vengono rimborsati a scadenza, nessuna banca registrerà mai una perdita (a meno che lo stato vada in default). La banca, adottando il principio del mtm, dovrebbe invece registrare una perdita nei momenti in cui il mercato quotasse un valore inferiore.
I principi contabili sono determinati da istituzioni internazionali (FASB, IASB) e sono ispirati a principi economici che seguono filosofie orientate al liberismo. Il principio fondamentale è quello per cui il mercato dà sempre i valori corretti stante le informazioni di cui esso dispone, per cui nel rispetto della trasparenza, per correttezza verso i risparmiatori e gli investitori, i bilanci delle banche devono adeguarsi al principio del mark to market. Va altresì osservato che il mtm è coerente con il ragionamento per cui se la banca vendesse quell’asset, oggi ricaverebbe quello che il mercato indica; ma d’altra parte se la banca non vende non subisce nessuna perdita e non si vede perché perdite “potenziali” ma anche improbabili, debbano causare conseguenze reali e di grave portata nell’erogazione dei prestiti, causando un credit crunch ingiustificato, che oltretutto avrebbe riflessi pro-ciclici.
D’altro canto va osservato che la contabilizzazione al prezzo d’acquisto negherebbe di riconoscere il rischio di una reale difficoltà dell’emittente, nascondendo a risparmiatori e investitori i rischi che un default dell’emittente potrebbero causare alle banche, ai risparmi, alla finanza.
Non va infatti dimenticato che il valore di mercato viene determinato dalla valutazione del rischio che l’emittente non sia in grado di onorare il suo debito; lo spread è calcolato infatti dai credit default swaps ovvero quanto debbo aggiungere al tasso di interesse di riferimento (Bund tedesco ad esempio) come costo di assicurazione, come premio che dovrei pagare per assicurarmi contro il rischio di default dell’emittente.
La domanda è se il valore di mercato, determinato sul mercato secondario o dei cds, sia una risposta talmente valida ed equa, da generare difficoltà al sistema bancario e, a cascata, difficoltà alle imprese e alle famiglie richiedenti prestiti e in definitiva all’economia di un paese.
C’è anche da chiedersi se i mercati, nel caso in cui le banche adottassero il criterio del costo storico, si accontenterebbero della valutazione fatta dalle banche stesse, o procederebbero per conto proprio a rideterminare la valutazione con il criterio del mark to market.
Per completezza va ricordato che il principio mtm fu cancellato negli USA nel 1938 perché esso stava contribuendo al disordine finanziario durante la Grande depressione. Reintrodotto nel 2007 con il FASB n. 157 il principio mtm fu alla base del fallimento della Lehman Brothers e quindi fu contestato da più parti e fu sospeso il 2 aprile 2009.
I titoli tossici
Va ricordato che alcune banche detengono i famosi titoli tossici che non hanno una valutazione di mercato. In tal caso è applicabile il criterio del costo storico ma non il criterio del mark to market. Come si comporta la BCE? Incredibilmente la BCE accetta l’autovalutazione fatta dalle banche, senza costringere le stesse a svalutazioni e ricapitalizzazioni.
Da Il Sole 24 ore
Per cinque grandi banche europee la terribile crisi finanziaria che ha rischiato di far implodere il sistema bancario mondiale non è ancora dietro le spalle. Le scorie della crisi del 2007 sono ancora lì, depositate come una nube radioattiva nei loro bilanci. Sono i famigerati Cdo, gli Abs, i mutui subprime cartolarizzati e le altre diavolerie della turbo-finanza speculativa che non sono stati del tutto metabolizzati e “valgono” tuttora per 5 colossi bancari la cifra di 549 miliardi di dollari.
Le banche in questione che Moody's ha messo nel mirino, segnalandole in un report, sono nomi blasonati della finanza europea. Si tratta delle due britanniche Royal Bank of Scotland eBarclays; dei due colossi svizzeri dell'investment banking Credit Suisse e Ubs e della tedesca Deutsche Bank. Sono gli istituti su cui, secondo le valutazioni dell'agenzia Usa i cosiddetti legacy asset, i residui illiquidi e tossici dell'era travagliata dei subprime e dei derivati, pesano ancora in modo significativo. Nei bilanci dei 5 colossi sono infatti ancora contabilizzati, a dieci anni dall'avvio della crisi, ben 549 miliardi di dollari di asset illiquidi parcheggiati in attesa di uno smaltimento che è in buona parte avvenuto, ma che conserva questa pesante coda velenosa.
La parte del leone la fanno i due big inglesi: Barclays ha in pancia tuttora 303 miliardi di spazzatura finanziaria, ben il 20% del suo attivo di bilancio. Rbs ne vanta per 133 miliardi. Seguono le due svizzere Ubs e Credit Suisse con un ammontare di 57 e 56 miliardi di dollari, rispettivamente. In una posizione di maggior tranquillità sta Deutsche Bank che ha venduto molto e ha un residuo di soli 5,8 miliardi.
La Cassazione con sentenza 47421/11 sostiene che il mark to market “non esprime affatto un valore concreto ed attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata. Il valore del mark to market, infatti, è influenzato da una serie di fattori ed è quindi sistematicamente aggiustato in funzione dell’andamento dei mercati finanziari, dovendosi poi attrarre nell’ambito dei relativi parametri di determinazione anche l’up to front erogato e l’utile per la banca”.
Conclusioni
Con quanto riportato nei paragrafi precedenti, mi pare evidente che la materia è ostica e complessa ma una conclusione, anche se non r
I principi contabili
Il mark to market (mtm) è un principio contabile che prescrive alle banche di valutare i titoli posseduti al valore di mercato. Ciò comporta che se la quotazione di mercato è positiva la banca può registrare utili non realizzati; ma se le quotazioni di mercato sono negative gli assets detenuti dalle banche vanno svalutati al loro valore di mercato, si genera quindi una perdita non realizzata ma che va a ridurre il patrimonio netto e di conseguenza riduce i prestiti che la banca può erogare essendo parametrati al patrimonio netto in base ai criteri del Common Equity Tier 1 (CET1). La valutazione è determinata dal mercato, principalmente dal mercato dei Cds, dai credit default swaps che sono basati sul rischio di credito ovvero sul rischio che quel titolo possa non essere rimborsato per default dell’emittente.
L’altro principio contabile che viene contrapposto al mtm, è quello del costo storico, ovvero i titoli vanno iscritti a bilancio al costo sostenuto per acquistare i titoli stessi. La banca con questa valutazione non registra perdite se non al momento in cui, vendendo i titoli, realizzasse un eventuale ricavo inferiore al costo di acquisto. E’ ovvio che se parliamo di titoli di stato, che vengono rimborsati a scadenza, nessuna banca registrerà mai una perdita (a meno che lo stato vada in default). La banca, adottando il principio del mtm, dovrebbe invece registrare una perdita nei momenti in cui il mercato quotasse un valore inferiore.
I principi contabili sono determinati da istituzioni internazionali (FASB, IASB) e sono ispirati a principi economici che seguono filosofie orientate al liberismo. Il principio fondamentale è quello per cui il mercato dà sempre i valori corretti stante le informazioni di cui esso dispone, per cui nel rispetto della trasparenza, per correttezza verso i risparmiatori e gli investitori, i bilanci delle banche devono adeguarsi al principio del mark to market. Va altresì osservato che il mtm è coerente con il ragionamento per cui se la banca vendesse quell’asset, oggi ricaverebbe quello che il mercato indica; ma d’altra parte se la banca non vende non subisce nessuna perdita e non si vede perché perdite “potenziali” ma anche improbabili, debbano causare conseguenze reali e di grave portata nell’erogazione dei prestiti, causando un credit crunch ingiustificato, che oltretutto avrebbe riflessi pro-ciclici.
D’altro canto va osservato che la contabilizzazione al prezzo d’acquisto negherebbe di riconoscere il rischio di una reale difficoltà dell’emittente, nascondendo a risparmiatori e investitori i rischi che un default dell’emittente potrebbero causare alle banche, ai risparmi, alla finanza.
Non va infatti dimenticato che il valore di mercato viene determinato dalla valutazione del rischio che l’emittente non sia in grado di onorare il suo debito; lo spread è calcolato infatti dai credit default swaps ovvero quanto debbo aggiungere al tasso di interesse di riferimento (Bund tedesco ad esempio) come costo di assicurazione, come premio che dovrei pagare per assicurarmi contro il rischio di default dell’emittente.
La domanda è se il valore di mercato, determinato sul mercato secondario o dei cds, sia una risposta talmente valida ed equa, da generare difficoltà al sistema bancario e, a cascata, difficoltà alle imprese e alle famiglie richiedenti prestiti e in definitiva all’economia di un paese.
C’è anche da chiedersi se i mercati, nel caso in cui le banche adottassero il criterio del costo storico, si accontenterebbero della valutazione fatta dalle banche stesse, o procederebbero per conto proprio a rideterminare la valutazione con il criterio del mark to market.
Per completezza va ricordato che il principio mtm fu cancellato negli USA nel 1938 perché esso stava contribuendo al disordine finanziario durante la Grande depressione. Reintrodotto nel 2007 con il FASB n. 157 il principio mtm fu alla base del fallimento della Lehman Brothers e quindi fu contestato da più parti e fu sospeso il 2 aprile 2009.
I titoli tossici
Va ricordato che alcune banche detengono i famosi titoli tossici che non hanno una valutazione di mercato. In tal caso è applicabile il criterio del costo storico ma non il criterio del mark to market. Come si comporta la BCE? Incredibilmente la BCE accetta l’autovalutazione fatta dalle banche, senza costringere le stesse a svalutazioni e ricapitalizzazioni.
Da Il Sole 24 ore
Per cinque grandi banche europee la terribile crisi finanziaria che ha rischiato di far implodere il sistema bancario mondiale non è ancora dietro le spalle. Le scorie della crisi del 2007 sono ancora lì, depositate come una nube radioattiva nei loro bilanci. Sono i famigerati Cdo, gli Abs, i mutui subprime cartolarizzati e le altre diavolerie della turbo-finanza speculativa che non sono stati del tutto metabolizzati e “valgono” tuttora per 5 colossi bancari la cifra di 549 miliardi di dollari.
Le banche in questione che Moody's ha messo nel mirino, segnalandole in un report, sono nomi blasonati della finanza europea. Si tratta delle due britanniche Royal Bank of Scotland eBarclays; dei due colossi svizzeri dell'investment banking Credit Suisse e Ubs e della tedesca Deutsche Bank. Sono gli istituti su cui, secondo le valutazioni dell'agenzia Usa i cosiddetti legacy asset, i residui illiquidi e tossici dell'era travagliata dei subprime e dei derivati, pesano ancora in modo significativo. Nei bilanci dei 5 colossi sono infatti ancora contabilizzati, a dieci anni dall'avvio della crisi, ben 549 miliardi di dollari di asset illiquidi parcheggiati in attesa di uno smaltimento che è in buona parte avvenuto, ma che conserva questa pesante coda velenosa.
La parte del leone la fanno i due big inglesi: Barclays ha in pancia tuttora 303 miliardi di spazzatura finanziaria, ben il 20% del suo attivo di bilancio. Rbs ne vanta per 133 miliardi. Seguono le due svizzere Ubs e Credit Suisse con un ammontare di 57 e 56 miliardi di dollari, rispettivamente. In una posizione di maggior tranquillità sta Deutsche Bank che ha venduto molto e ha un residuo di soli 5,8 miliardi.
La Cassazione con sentenza 47421/11 sostiene che il mark to market “non esprime affatto un valore concreto ed attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata. Il valore del mark to market, infatti, è influenzato da una serie di fattori ed è quindi sistematicamente aggiustato in funzione dell’andamento dei mercati finanziari, dovendosi poi attrarre nell’ambito dei relativi parametri di determinazione anche l’up to front erogato e l’utile per la banca”.
Conclusioni
Con quanto riportato nei paragrafi precedenti, mi pare evidente che la materia è ostica e complessa ma una conclusione, anche se non risolutiva di tutti i problemi, mi pare possa essere raggiunta, a mio parere, nei seguenti termini.
Partiamo dall’assunto che sta alla base dell’applicazione del criterio del mark to market: “Il principio fondamentale è quello per cui il mercato dà sempre i valori corretti stante le informazioni di cui esso dispone, per cui nel rispetto della trasparenza, per correttezza verso i risparmiatori e gli investitori, i bilanci delle banche devono adeguarsi al principio del mark to market.”
Mi pare poter affermare che se il mercato “non sbagliasse mai” non si spiegherebbe il fenomeno delle “bolle speculative”, ricorrenti, continui, distruttivi quasi congeniti disastri che originano dal mercato smentendo l’assunto filosofico del liberismo. Quello che a mio parere va contestato non tanto il principio di trasparenza (se una banca è a rischio è bene che risparmiatori e investitori lo sappiano), quanto l’assumere il cosiddetto valore di mercato come parametro di riferimento delle valutazioni degli assets bancari e dei titoli di stato in primis. Quel tipo di valore di mercato estremamente sensibili ad influenze di fattori esterni (o forse meglio, interni alla logica capitalista) quali la politica (Draghi afferma che lo spread è una questione politica), e la speculazione (i ribassisti hanno facile gioco a svalutare titoli di stato con vendite a consegna differita, la storia ce lo insegna). Sarà, ritengo, legittimo dubitare:
di un principio contabile accusato del fallimento della Lehman Brothers che, dopo il fallimento, è stato sospeso forse anche perché quei titoli che furono svalutati, causando il fallimento, tornarono a quotazioni positive;
di un “mercato” che non riesce a spiegare la sua infallibilità nelle ripetute, ricorrenti, sempre più gravi “bolle speculative” che nascono non da difetti del sistema ma sono al contrario insite nel meccanismo del libero mercato, nel suo dna (vedasi il lungo elenco di bolle in Roubini);
di un principio contabile di dubbio fondamento che tuttavia se applicato crea fasulli utili non realizzati ma anche perniciose perdite potenziali che tuttavia incidono sul funzionamento delle banche e incidono sulle potenzialità di credito alle famiglie e alle imprese.
di un principio contabile che ignora come comportarsi, dichiarando la sua impotenza, nel valutare quei titoli tossici alla base della crisi del 2007, che ancora sono contabilizzati dalle banche secondo loro autovalutazioni.
Ci sono alcune prassi o proposte alternative ai due principi contabili sopra esaminati; una proposta è quella di valutare gli assets per il 50% al mtm e per l’altro 50% al costo storico; in Spagna le plusvalenze sulle quotazioni vanno accantonate in un fondo cui attingere in momenti di caduta delle quotazioni. Non ho ancora una proposta da avanzare, sono tuttavia convinto che il principio mtm vada superato e sostituito da un criterio meno isterico e manovrabile, sia dalla politica che dalla speculazione, e che sta diventando oggetto di conflitto tra i nazionalismi interni all’Unione Europea.
A conferma dell'irrazionalità del principio del "mark to market", rilevo che è stata recentemente introdotta una importante novità contabile per cui le banche hanno la possibilità di trasferire i titoli di Stato posseduti dal portafoglio di "trading" ovvero portafoglio di titoli destinati ad essere rivenduti sul mercato, al portafoglio in cui vengono custodite i titoli liquidabili solo alla loro scadenza. Questo criterio evita alle banche di svalutare i propri assets con le conseguenze sul patrimonio e quindi sulla capacità di erogare prestiti, praticamente è un ritorno al principio contabile del costo storico purchè quei titoli siano mantenuti in portafoglio fino a maturazione.
Tuttavia questo principio di buon senso disconosce ogni valore a quello che lo spread dovrebbe rappresentare, ovvero il costo di una polizza assicurativa contro il rischio di default dell'emittente; il principio così come innovato dà per scontato che a scadenza l'emittente onorerà completamente il suo debito. E ciò, in un momento in cui si parla anche di rischio di denominazione, non appare totalmente condivisibile.
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Re: EUROPA ,così non può continuare
Vuoi farmi schiattare Antonio? Non riesco a leggerle tutte d'un fiato. Son lenzuolate sulle quali bisogna mettersi calmi e sereni per leggerle. Mi prometto che lo faro ma non ora poiche in queste settimane sono un po incasinato.aaa42 ha scritto:LE BANCHE ITALIANE HANNO PERSO 85 MILIARDI DI EURO COLPA DELLO SPREAD !!!
naturalmente dipende dai principi contabili.
Diciamo se applichiamo il principio CASSA sicuramente hanno perso 85 miliardi , ma se applichiamo il principio COMPETENZA allora hanno guadagnato 85 miliardi di euro.
Se applichiamo il principio STIAMO CALMI , non vendiamo e non facciamo attività speculativa allora le banche non hanno perso nulla e non hanno speculato su nulla.
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Questo intervento del dott. Gatti chiude definitivamente il capitolo Banca D'Italia, una nuova epoca deve nascere.
di Renato Gatti
I principi contabili
Il mark to market (mtm) è un principio contabile che prescrive alle banche di valutare i titoli posseduti al valore di mercato. Ciò comporta che se la quotazione di mercato è positiva la banca può registrare utili non realizzati; ma se le quotazioni di mercato sono negative gli assets detenuti dalle banche vanno svalutati al loro valore di mercato, si genera quindi una perdita non realizzata ma che va a ridurre il patrimonio netto e di conseguenza riduce i prestiti che la banca può erogare essendo parametrati al patrimonio netto in base ai criteri del Common Equity Tier 1 (CET1). La valutazione è determinata dal mercato, principalmente dal mercato dei Cds, dai credit default swaps che sono basati sul rischio di credito ovvero sul rischio che quel titolo possa non essere rimborsato per default dell’emittente............................
Leggo cmq le tue conclusioni.
Se hai il link tanto meglio
un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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- Iscritto il: 16/03/2018, 23:17
Re: EUROPA ,così non può continuare
Caro comandante Pancho
l analisi del dottor Gatti andava postata nella cartella la teoria del valore lavoro.
il problema e che stiamo vivendo un clima da guerra, la guerra la conducono i camerieri dei poteri forti, gli influencer sfortunati e burocrati europei tutto diventa fast veloce.
che il valore dei titoli di stato debba essere calcolato ai prezzi di vendita quando nessuna banca italiana vende titoli sotto il profilo della politica economica non ha alcun senso.
tutta la questione debito pubblico italiana va studiata e impostata con un altro paradigma economico.
in sintesi i prezzi dei titoli di stato si strutturano nel mercato primario, da noi a differenza dei tedeschi i prezzi si formano nel mercato secondario.
questo ci è costato probabilmente 600 miliardi di euro di interessi da quanto c è stata la separazione tra tesoro e banca d italia.
la questione di fondo non e far partire gli investimenti perche gli investimenti sia pubblici che privati dipendono dalle aspettative di lungo periodo.
quindi dobbiamo partire dai consumi.
il reddito di cittadinanza o meglio il reddito minimo garantito , la pensione di cittadinanza e quota 100 sviluppano le aspettative di breve periodo . le aspettative di breve periodo sviluppano i consumi e lo sviluppo del Pil viaggia in termini reali al 5 per cento e non al 1,6 come dice il governo sbagliando.
per lo sviluppo al 5 per cento che è il normale sviluppo dell economia italiana, i consumi al 70 per cento devono essere consumi italiani. la domanda aggregata consumi + investimenti deve essere di consumi italiani, nel breve periodo a investimenti costanti. per far questo il reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza va portato almeno a 15 miliardi, 10 miliardi non riesce a far partire i consumi. con i consumi il sistema si muove verso la piena occupazione.
la domanda aggregata produce reddito , il 33 di questo reddito sono imposte . in 5 anni il problema deficit viene risolto.
la social card per il reddito minimo garantito è stata progettata in questo piccolo forum. perchè ?
la relazione tra consumi e occupazione dipende dal perimetro del modello economico.
se aumento i consumi e con i consumi aumentano le importazione il moltiplicatore keynesiano si avvicino alla zero diminuiscono le imposte e aumenta il debito pubblico.
con la social card i consumi sono consumi primari e necessari e sviluppati nella teoria dei bisogni, consumi che sviluppano la domanda aggregata del modello economico italiano e quindi l occupazione italiana.
nel reddito di cittadinanza e nei pensionati la propensione al consumo e altissima e si ripercuote sul coefficiente del moltiplicatore molto alto.
la problematicità è insita nella propensione al debito, funzione non presente sul modello keynesiano in quanto non vi era la moneta elettronica.
la propensione al consumo per redditi bassi sarebbe alta e bassa la propensione al risparmio, ma vi e anche una propensione al debito che nei redditi bassi e anche molto alta, quindi una pare del redditi e pensioni basse non va ai consumi ma al debito.
e fondamentale quindi una politica di intervento sul sovradebito, come si sta facendo sui debiti erariali.
serve da subito una legge per ridurre il debito privato di carattere bancario e finanziario.
altrimenti la manovra economica che nei suoi fondamentali e corretta va a sbattere contro la nuova cina che non sono piu le importazioni ma il debito.
infine nel breve periodo keynesiano quindi a investimenti costanti e fondamentale la spesa pubblica.
un programma di spesa pubblica nel settore edilizio con la costruzione di una nuova citta di pensionati in basilicata e calabria costruendo un circuito economico semplice e sperimentato e sicuro.
presso la banca d italia vengono costituiti fondi d investimento immobiliari finanziati da bot e titoli pubblici a lungo termine.
il pil aumenterebbe del 5 per cento per 5 anni e moscovici sarebbe solo un auto russa.
l analisi del dottor Gatti andava postata nella cartella la teoria del valore lavoro.
il problema e che stiamo vivendo un clima da guerra, la guerra la conducono i camerieri dei poteri forti, gli influencer sfortunati e burocrati europei tutto diventa fast veloce.
che il valore dei titoli di stato debba essere calcolato ai prezzi di vendita quando nessuna banca italiana vende titoli sotto il profilo della politica economica non ha alcun senso.
tutta la questione debito pubblico italiana va studiata e impostata con un altro paradigma economico.
in sintesi i prezzi dei titoli di stato si strutturano nel mercato primario, da noi a differenza dei tedeschi i prezzi si formano nel mercato secondario.
questo ci è costato probabilmente 600 miliardi di euro di interessi da quanto c è stata la separazione tra tesoro e banca d italia.
la questione di fondo non e far partire gli investimenti perche gli investimenti sia pubblici che privati dipendono dalle aspettative di lungo periodo.
quindi dobbiamo partire dai consumi.
il reddito di cittadinanza o meglio il reddito minimo garantito , la pensione di cittadinanza e quota 100 sviluppano le aspettative di breve periodo . le aspettative di breve periodo sviluppano i consumi e lo sviluppo del Pil viaggia in termini reali al 5 per cento e non al 1,6 come dice il governo sbagliando.
per lo sviluppo al 5 per cento che è il normale sviluppo dell economia italiana, i consumi al 70 per cento devono essere consumi italiani. la domanda aggregata consumi + investimenti deve essere di consumi italiani, nel breve periodo a investimenti costanti. per far questo il reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza va portato almeno a 15 miliardi, 10 miliardi non riesce a far partire i consumi. con i consumi il sistema si muove verso la piena occupazione.
la domanda aggregata produce reddito , il 33 di questo reddito sono imposte . in 5 anni il problema deficit viene risolto.
la social card per il reddito minimo garantito è stata progettata in questo piccolo forum. perchè ?
la relazione tra consumi e occupazione dipende dal perimetro del modello economico.
se aumento i consumi e con i consumi aumentano le importazione il moltiplicatore keynesiano si avvicino alla zero diminuiscono le imposte e aumenta il debito pubblico.
con la social card i consumi sono consumi primari e necessari e sviluppati nella teoria dei bisogni, consumi che sviluppano la domanda aggregata del modello economico italiano e quindi l occupazione italiana.
nel reddito di cittadinanza e nei pensionati la propensione al consumo e altissima e si ripercuote sul coefficiente del moltiplicatore molto alto.
la problematicità è insita nella propensione al debito, funzione non presente sul modello keynesiano in quanto non vi era la moneta elettronica.
la propensione al consumo per redditi bassi sarebbe alta e bassa la propensione al risparmio, ma vi e anche una propensione al debito che nei redditi bassi e anche molto alta, quindi una pare del redditi e pensioni basse non va ai consumi ma al debito.
e fondamentale quindi una politica di intervento sul sovradebito, come si sta facendo sui debiti erariali.
serve da subito una legge per ridurre il debito privato di carattere bancario e finanziario.
altrimenti la manovra economica che nei suoi fondamentali e corretta va a sbattere contro la nuova cina che non sono piu le importazioni ma il debito.
infine nel breve periodo keynesiano quindi a investimenti costanti e fondamentale la spesa pubblica.
un programma di spesa pubblica nel settore edilizio con la costruzione di una nuova citta di pensionati in basilicata e calabria costruendo un circuito economico semplice e sperimentato e sicuro.
presso la banca d italia vengono costituiti fondi d investimento immobiliari finanziati da bot e titoli pubblici a lungo termine.
il pil aumenterebbe del 5 per cento per 5 anni e moscovici sarebbe solo un auto russa.
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