Mafie,...un cancro infinito
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Mafie,...un cancro infinito
La mafia in casa....
L'INCHIESTA
Trattativa Stato-mafia
indagato Giovanni Conso
False informazioni a pubblico ministero. E' l'accusa rivolta all'ex Guardasigilli dai magistrati che si occupano della vicenda. Indagato anche il boss Giovanni Brusca. E' il terzo ministro a entrare nell'indagine. Sono stati iscritti, infatti, anche l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e Calogero Mannino per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato
L'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, 91 anni, è indagato per false informazioni a pubblico ministero nell'ambito dell'inchiesta condotta a Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia. Sentito dai pm sulla revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi, disse di "avere agito in solitudine", versione che non ha convinto i magistrati.
Oltre a Conso è indagato anche Giovanni Brusca. Il boss mafioso risponde dell'accusa di violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
Giovanni Conso, guardasigilli dal febbraio del 1993 ad aprile del 1994, è stato sentito più volte dai pm di Palermo che indagano sulla trattativa. Il suo nome è entrato nell'inchiesta dopo una sua audizione alla commissione Antimafia dell'11 novembre del 2010 nel corso della quale affrontò il capitolo dei 41 bis fatti scadere o non rinnovati. Il 1 novembre del 1993 non vennero rinnovati 140 decreti di carcere duro e altrettanti vennero fatti scadere tra fine novembre dello stesso anno e gennaio del 1994. "Una scelta fatta in autonomia" ha sempre ripetuto l'ex Guardasigilli, sia all'Antimafia che ai pm di Palermo. Ma per la Procura, invece, proprio l'alleggerimento del carcere duro sarebbe stato uno dei punti al centro della trattativa Stato-mafia.
Conso è il terzo ministro a entrare nell'indagine: sono stati iscritti anche l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e Calogero Mannino per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Nei loro confronti e nei confronti degli altri indagati, in tutto una decina, si attende nelle prossime ore la notifica dell'avviso di conclusione dell'indagine. Nel caso del reato di false informazioni a pm contestato a Conso, prevede il codice penale, l'inchiesta si sospende fino alla definizione in primo grado del procedimento principale: in questo caso quello sulla trattativa.
Per quanto riguarda Mancino, l'ex ministro era stato ascoltato lo scorso febbraio come teste al processo Mori, e al termine dell'udienza i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo avevano detto che "qualche uomo delle istituzioni mente". I pm, in sostanza, ritengono che Mancino insediatosi al Viminale il primo luglio 1992 sapesse della trattativa che prevedeva di cedere al ricatto dei boss in cambio della rinuncia all'aggressione terroristica e ai progetti di uccisione di altri uomini politici. E che ora l'ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Csm neghi l'evidenza per coprire "responsabilità proprie e di altri".
Nell'avviso di garanzia ricevuto da Mannino, ex ministro democristiano, oggi deputato, si parla genericamente di "pressioni" che il politico siciliano avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni", sulla "tematica del 41 bis", il carcere duro che i capimafia cercavano di far revocare.
(13 giugno 2012)
http://palermo.repubblica.it/cronaca/20 ... -37131550/
L'INCHIESTA
Trattativa Stato-mafia
indagato Giovanni Conso
False informazioni a pubblico ministero. E' l'accusa rivolta all'ex Guardasigilli dai magistrati che si occupano della vicenda. Indagato anche il boss Giovanni Brusca. E' il terzo ministro a entrare nell'indagine. Sono stati iscritti, infatti, anche l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e Calogero Mannino per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato
L'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, 91 anni, è indagato per false informazioni a pubblico ministero nell'ambito dell'inchiesta condotta a Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia. Sentito dai pm sulla revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi, disse di "avere agito in solitudine", versione che non ha convinto i magistrati.
Oltre a Conso è indagato anche Giovanni Brusca. Il boss mafioso risponde dell'accusa di violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
Giovanni Conso, guardasigilli dal febbraio del 1993 ad aprile del 1994, è stato sentito più volte dai pm di Palermo che indagano sulla trattativa. Il suo nome è entrato nell'inchiesta dopo una sua audizione alla commissione Antimafia dell'11 novembre del 2010 nel corso della quale affrontò il capitolo dei 41 bis fatti scadere o non rinnovati. Il 1 novembre del 1993 non vennero rinnovati 140 decreti di carcere duro e altrettanti vennero fatti scadere tra fine novembre dello stesso anno e gennaio del 1994. "Una scelta fatta in autonomia" ha sempre ripetuto l'ex Guardasigilli, sia all'Antimafia che ai pm di Palermo. Ma per la Procura, invece, proprio l'alleggerimento del carcere duro sarebbe stato uno dei punti al centro della trattativa Stato-mafia.
Conso è il terzo ministro a entrare nell'indagine: sono stati iscritti anche l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e Calogero Mannino per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Nei loro confronti e nei confronti degli altri indagati, in tutto una decina, si attende nelle prossime ore la notifica dell'avviso di conclusione dell'indagine. Nel caso del reato di false informazioni a pm contestato a Conso, prevede il codice penale, l'inchiesta si sospende fino alla definizione in primo grado del procedimento principale: in questo caso quello sulla trattativa.
Per quanto riguarda Mancino, l'ex ministro era stato ascoltato lo scorso febbraio come teste al processo Mori, e al termine dell'udienza i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo avevano detto che "qualche uomo delle istituzioni mente". I pm, in sostanza, ritengono che Mancino insediatosi al Viminale il primo luglio 1992 sapesse della trattativa che prevedeva di cedere al ricatto dei boss in cambio della rinuncia all'aggressione terroristica e ai progetti di uccisione di altri uomini politici. E che ora l'ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Csm neghi l'evidenza per coprire "responsabilità proprie e di altri".
Nell'avviso di garanzia ricevuto da Mannino, ex ministro democristiano, oggi deputato, si parla genericamente di "pressioni" che il politico siciliano avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni", sulla "tematica del 41 bis", il carcere duro che i capimafia cercavano di far revocare.
(13 giugno 2012)
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Re: Mafie,...un cancro infinito
Da Wikipedia
Giovanni Battista [1] Conso (Torino, 23 marzo 1922) è un giurista e accademico italiano, già ministro della giustizia nel governo Amato I (12 febbraio - 28 aprile 1993) e del governo Ciampi (28 aprile 1993-16 aprile 1994). È stato presidente dell'Accademia dei Lincei.
Attività accademica e giurisdizionale [modifica]
Laureatosi in giurisprudenza a Torino nel 1945, è allievo di Francesco Antolisei. Avvocato, professore universitario, insegna procedura penale nelle facoltà di giurisprudenza delle Università di Genova, Urbino, Torino, della "Sapienza" di Roma e della LUMSA di Roma. È professore emerito di Procedura penale presso l'Università di Torino.
Dal 1974 al 1976 è vice presidente della commissione guidata da Giandomenico Pisapia presso il Ministero di grazia e giustizia che ha redatto un progetto di codice di procedura penale mai giunto all'approvazione. Una parte del contenuto di questo testo è riversato nel codice di procedura penale redatto tra il 1987 e il 1988 da una seconda commissione presieduta sempre dal Pisapia. Il nuovo codice entra in vigore nel 1989 ed è tuttora vigente, ancorché notevolmente modificato.
Membro "laico" (perché eletto dal parlamento in seduta comune) del Consiglio superiore della magistratura dal 1976 al 1981, ne è vicepresidente nel corso degli ultimi mesi del suo mandato a seguito delle dimissioni di Ugo Zilletti.
Nominato giudice costituzionale dal Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini il 25 gennaio 1982, giura il 3 febbraio 1982. È eletto presidente della Corte Costituzionale il 18 ottobre 1990, esercitando le funzioni dal 23 ottobre 1990. Cessa dalla carica per scadenza del mandato il 3 febbraio 1991.[2]
Attività politica [modifica]
Candidato ufficiale del Pds al quattordicesimo scrutinio delle elezioni per il presidente della Repubblica del 1992. È ministro di grazia e giustizia dal 12 febbraio 1993 al 9 maggio 1994, come espressione dell'area cattolica ma senza appartenere ad alcun partito politico. È nominato nel governo Amato I al posto di Claudio Martelli, dimissionario, e riconfermato nel successivo governo Ciampi.
Il 5 marzo 1993 il governo Amato vara un decreto legge, che depenalizza il finanziamento illecito ai partiti e definito per questo il "colpo di spugna". Il decreto, che recepisce un testo già discusso e approvato dalla commissione affari costituzionali del Senato[3], contiene un controverso articolo che dà alla legge un valore retroattivo, e che quindi comprende anche gli inquisiti di Mani Pulite. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, non firma il decreto e il provvedimento viene così ritirato.
Il decreto-legge in questione fu chiamato "decreto Conso" dal nome del ministro della giustizia proponente, ma in realtà tenne i contatti col Quirinale - ai fini della sua emanazione - il presidente del consiglio dei ministri dell'epoca, Amato, che durante la riunione del governo era stato per questo anche criticato dalla delegazione del PLI (per essere stato prono alle indicazioni del Quirinale, che per la prima volta s'ingeriva così pesantemente nella redazione di un testo di competenza del governo). Ecco perché Conso offrì immediatamente le dimissioni all'indomani della scelta di Scalfaro di non firmare il decreto, dettata da esigenze sopravvenute in seguito alla protesta dei magistrati della procura di Milano. Consapevoli della sua totale estraneità alla vicenda, sia Amato che Scalfaro lo scagionarono agli occhi dell'opinione pubblica, inducendolo a recedere dalle dimissioni, e anzi confermandolo nel dicastero della giustizia anche nel successivo governo di quella legislatura.
Da Ministro di grazia e giustizia, nel marzo 1993, non rinnova il 41 bis a 140 mafiosi sottoposti a carcere duro che (che infatti decade nel novembre 1993). In seguito, davanti alla commissione parlamentare antimafia e alla procura di Palermo che lo interrogheranno, dirà che lo ha fatto per indurre cosa nostra a smettere con le stragi, aggiungendo, che si è trattato di una sua iniziativa personale non concordata con nessuno.
Il ritorno all'attività culturale e scientifica [modifica]
Dal 15 giugno al 17 luglio 1998 presiede la Commissione dei plenipotenziari dell'ONU che ha approvato lo Statuto istitutivo della Corte criminale mondiale permanente.
Dall'anno accademico 1995/1996 all'anno accademico 2002/2003, è docente di "Tutela internazionale dei diritti umani" presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Urbino.
Nel 1984 gli viene conferito il diploma di benemerito dell'istruzione, della cultura e dell'arte, con medaglia d'oro, e, nel 1985, il premio "Giuseppe Capograssi" per il diritto. Dal 1989, già socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino e poi di quella di Modena, è pure membro dell'Accademia dei Lincei, della quale è stato presidente dal 1º agosto 2003 al 31 luglio 2009, per due mandati consecutivi.
È inoltre presidente del consiglio scientifico dell'istituto "Giuseppe Toniolo" dell'Azione Cattolica per il diritto internazionale e la pace e membro del consiglio scientifico dell'Istituto Treccani.
Autore di una copiosa produzione giuridica e curatore o collaboratore di numerose riviste specializzate. Tra i suoi allievi figurano Carlo Taormina e Glauco Giostra.
Giovanni Battista [1] Conso (Torino, 23 marzo 1922) è un giurista e accademico italiano, già ministro della giustizia nel governo Amato I (12 febbraio - 28 aprile 1993) e del governo Ciampi (28 aprile 1993-16 aprile 1994). È stato presidente dell'Accademia dei Lincei.
Attività accademica e giurisdizionale [modifica]
Laureatosi in giurisprudenza a Torino nel 1945, è allievo di Francesco Antolisei. Avvocato, professore universitario, insegna procedura penale nelle facoltà di giurisprudenza delle Università di Genova, Urbino, Torino, della "Sapienza" di Roma e della LUMSA di Roma. È professore emerito di Procedura penale presso l'Università di Torino.
Dal 1974 al 1976 è vice presidente della commissione guidata da Giandomenico Pisapia presso il Ministero di grazia e giustizia che ha redatto un progetto di codice di procedura penale mai giunto all'approvazione. Una parte del contenuto di questo testo è riversato nel codice di procedura penale redatto tra il 1987 e il 1988 da una seconda commissione presieduta sempre dal Pisapia. Il nuovo codice entra in vigore nel 1989 ed è tuttora vigente, ancorché notevolmente modificato.
Membro "laico" (perché eletto dal parlamento in seduta comune) del Consiglio superiore della magistratura dal 1976 al 1981, ne è vicepresidente nel corso degli ultimi mesi del suo mandato a seguito delle dimissioni di Ugo Zilletti.
Nominato giudice costituzionale dal Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini il 25 gennaio 1982, giura il 3 febbraio 1982. È eletto presidente della Corte Costituzionale il 18 ottobre 1990, esercitando le funzioni dal 23 ottobre 1990. Cessa dalla carica per scadenza del mandato il 3 febbraio 1991.[2]
Attività politica [modifica]
Candidato ufficiale del Pds al quattordicesimo scrutinio delle elezioni per il presidente della Repubblica del 1992. È ministro di grazia e giustizia dal 12 febbraio 1993 al 9 maggio 1994, come espressione dell'area cattolica ma senza appartenere ad alcun partito politico. È nominato nel governo Amato I al posto di Claudio Martelli, dimissionario, e riconfermato nel successivo governo Ciampi.
Il 5 marzo 1993 il governo Amato vara un decreto legge, che depenalizza il finanziamento illecito ai partiti e definito per questo il "colpo di spugna". Il decreto, che recepisce un testo già discusso e approvato dalla commissione affari costituzionali del Senato[3], contiene un controverso articolo che dà alla legge un valore retroattivo, e che quindi comprende anche gli inquisiti di Mani Pulite. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, non firma il decreto e il provvedimento viene così ritirato.
Il decreto-legge in questione fu chiamato "decreto Conso" dal nome del ministro della giustizia proponente, ma in realtà tenne i contatti col Quirinale - ai fini della sua emanazione - il presidente del consiglio dei ministri dell'epoca, Amato, che durante la riunione del governo era stato per questo anche criticato dalla delegazione del PLI (per essere stato prono alle indicazioni del Quirinale, che per la prima volta s'ingeriva così pesantemente nella redazione di un testo di competenza del governo). Ecco perché Conso offrì immediatamente le dimissioni all'indomani della scelta di Scalfaro di non firmare il decreto, dettata da esigenze sopravvenute in seguito alla protesta dei magistrati della procura di Milano. Consapevoli della sua totale estraneità alla vicenda, sia Amato che Scalfaro lo scagionarono agli occhi dell'opinione pubblica, inducendolo a recedere dalle dimissioni, e anzi confermandolo nel dicastero della giustizia anche nel successivo governo di quella legislatura.
Da Ministro di grazia e giustizia, nel marzo 1993, non rinnova il 41 bis a 140 mafiosi sottoposti a carcere duro che (che infatti decade nel novembre 1993). In seguito, davanti alla commissione parlamentare antimafia e alla procura di Palermo che lo interrogheranno, dirà che lo ha fatto per indurre cosa nostra a smettere con le stragi, aggiungendo, che si è trattato di una sua iniziativa personale non concordata con nessuno.
Il ritorno all'attività culturale e scientifica [modifica]
Dal 15 giugno al 17 luglio 1998 presiede la Commissione dei plenipotenziari dell'ONU che ha approvato lo Statuto istitutivo della Corte criminale mondiale permanente.
Dall'anno accademico 1995/1996 all'anno accademico 2002/2003, è docente di "Tutela internazionale dei diritti umani" presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Urbino.
Nel 1984 gli viene conferito il diploma di benemerito dell'istruzione, della cultura e dell'arte, con medaglia d'oro, e, nel 1985, il premio "Giuseppe Capograssi" per il diritto. Dal 1989, già socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino e poi di quella di Modena, è pure membro dell'Accademia dei Lincei, della quale è stato presidente dal 1º agosto 2003 al 31 luglio 2009, per due mandati consecutivi.
È inoltre presidente del consiglio scientifico dell'istituto "Giuseppe Toniolo" dell'Azione Cattolica per il diritto internazionale e la pace e membro del consiglio scientifico dell'Istituto Treccani.
Autore di una copiosa produzione giuridica e curatore o collaboratore di numerose riviste specializzate. Tra i suoi allievi figurano Carlo Taormina e Glauco Giostra.
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Re: Mafie,...un cancro infinito
Da Wikipedia
Nicola Mancino (Montefalcione, 15 ottobre 1931) è un politico italiano, già vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, già ministro dell'Interno e presidente del Senato.
Biografia [modifica]
Esponente della Democrazia Cristiana, di cui divenne segretario dapprima della provincia di Avellino e poi della regione Campania (di cui fu due volte presidente della giunta regionale), fu eletto per la prima volta senatore nel 1976 e da allora è stato sempre riconfermato.
È stato Ministro dell'Interno dal 1992 al 1994: in questa veste firmò il Decreto per il Riordino della finanza degli enti territoriali DM 504 /1992, decreto che introdusse l'ICI Imposta Comunale sugli Immobili. Firmò anche il decreto che istituiva il reato per istigazione razziale, che ebbe come conseguenza la chiusura di numerose associazioni neofasciste come Meridiano Zero. Durante il suo mandato fu modificato l'Articolo 41 bis, che stabilì condizioni di carcere duro per i boss mafiosi, furono sciolte decine di consigli comunali per infiltrazione mafiose e le forze dell'ordine assicurarono alla giustizia alcuni tra i più pericolosi capi di Cosa nostra, tra cui Totò Riina e Nitto Santapaola.
Nel 1994 dopo lo scioglimento della DC aderisce al Partito Popolare Italiano ed è tra i più stretti collaboratori di Mino Martinazzoli. Nel luglio 1994 partecipa al congresso del PPI ed è tra i principali esponenti contrari ad alleanze col centrodestra di Silvio Berlusconi e all'elezione di Rocco Buttiglione alla segreteria del partito. Nell'ultimo giorno del congresso viene scelto dall'ala sinistra del PPI come candidato alla segreteria da contrapporre a Buttiglione. Tuttavia non riesce a coagulare attorno a sé la maggioranza del partito.
Dopo la vittoria elettorale di Romano Prodi e dell'Ulivo, è stato Presidente del Senato della Repubblica dal 9 maggio 1996 al 29 maggio 2001, durante la XIII Legislatura.
È stato rieletto senatore alle elezioni politiche del 2006, sempre per la Margherita. Il 24 luglio 2006 lascia il Senato dopo 30 anni di attività parlamentare perché eletto dal Parlamento in seduta comune come componente del Consiglio Superiore della Magistratura, in seno al quale ha ricoperto l'ufficio di vicepresidente dal 1º agosto 2006 al 1º agosto 2010.
La polemica con Salvatore Borsellino
Secondo testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia dopo la strage di Capaci si è avviata una trattativa tra pezzi dello Stato Italiano e Cosa Nostra di cui il giudice Paolo Borsellino sarebbe verosimilmente stato al corrente[1] poco prima di venire ucciso il 19 luglio 1992. In quest'ottica diventa importante sapere se e quando Borsellino abbia appreso dell'esistenza della trattativa in quanto una sua mancata adesione avrebbe potuto essere un movente per l'omicidio. Secondo Massimo Ciancimino la trattativa era gestita dal padre Vito Ciancimino che avrebbe chiesto – sempre secondo la testimonianza del figlio – ed ottenuto di informare Mancino. Mancino dal canto suo nega di aver avuto questa informazione.
Il 1º luglio 1992 alle ore 19:30 Paolo Borsellino aveva un appuntamento al Viminale con Mancino che in quel giorno assumeva la carica di ministro: così è segnato nella agenda del magistrato e così è confermato dalla ricostruzione della giornata di Rita Borsellino secondo la quale vi si sarebbe recato in seguito ad una telefonata del ministro. Il collaboratore di giustizia Mutolo al riguardo racconta che Borsellino gli disse «mi ha telefonato il ministro, manco due ore e poi torno» e poi racconta però «[Borsellino] molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del ministro, si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada». Tuttavia l'avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò racconta che quel giorno accompagnò Borsellino sulla soglia della stanza del neo-ministro, lo vide entrare, lo vide uscire poco dopo e quindi entrò a sua volta, ma da solo[2], non ricorda di aver incontrato Bruno Contrada ed esclude che Borsellino gliene abbia parlato. Mancino interpellato sulla vicenda ha sostenuto «Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla, era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali. Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui però non ho avuto alcuno specifico colloquio e perciò non posso ricordare in modo sicuro la circostanza» e inoltre nega di averlo convocato.[3]
In seguito a tali dichiarazioni Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha accusato Mancino di non essere credibile quando afferma di non ricordare di un eventuale incontro con Paolo considerata la visibilità mediatica che stava avendo il magistrato dopo la strage di Capaci.[4] Mancino ha replicato con una lettera al Corriere.it del 17 luglio 2009[5] dove fa presente che stando a quanto racconta Mutolo il giudice Borsellino non avrebbe incontrato lui ma altre persone, Mancino sostiene anche che non avrebbe comunque nessun motivo di negare quell'incontro nel caso ci fosse stato e fa notare che il giorno del presunto incontro era per lui il primo giorno di insediamento al Viminale.
Il 9 giugno 2012 viene diffusa la notizia secondo la quale Mancino sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Palermo con l'ipotesi di falsa testimonianza nell'ambito delle indagini sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.
Nicola Mancino (Montefalcione, 15 ottobre 1931) è un politico italiano, già vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, già ministro dell'Interno e presidente del Senato.
Biografia [modifica]
Esponente della Democrazia Cristiana, di cui divenne segretario dapprima della provincia di Avellino e poi della regione Campania (di cui fu due volte presidente della giunta regionale), fu eletto per la prima volta senatore nel 1976 e da allora è stato sempre riconfermato.
È stato Ministro dell'Interno dal 1992 al 1994: in questa veste firmò il Decreto per il Riordino della finanza degli enti territoriali DM 504 /1992, decreto che introdusse l'ICI Imposta Comunale sugli Immobili. Firmò anche il decreto che istituiva il reato per istigazione razziale, che ebbe come conseguenza la chiusura di numerose associazioni neofasciste come Meridiano Zero. Durante il suo mandato fu modificato l'Articolo 41 bis, che stabilì condizioni di carcere duro per i boss mafiosi, furono sciolte decine di consigli comunali per infiltrazione mafiose e le forze dell'ordine assicurarono alla giustizia alcuni tra i più pericolosi capi di Cosa nostra, tra cui Totò Riina e Nitto Santapaola.
Nel 1994 dopo lo scioglimento della DC aderisce al Partito Popolare Italiano ed è tra i più stretti collaboratori di Mino Martinazzoli. Nel luglio 1994 partecipa al congresso del PPI ed è tra i principali esponenti contrari ad alleanze col centrodestra di Silvio Berlusconi e all'elezione di Rocco Buttiglione alla segreteria del partito. Nell'ultimo giorno del congresso viene scelto dall'ala sinistra del PPI come candidato alla segreteria da contrapporre a Buttiglione. Tuttavia non riesce a coagulare attorno a sé la maggioranza del partito.
Dopo la vittoria elettorale di Romano Prodi e dell'Ulivo, è stato Presidente del Senato della Repubblica dal 9 maggio 1996 al 29 maggio 2001, durante la XIII Legislatura.
È stato rieletto senatore alle elezioni politiche del 2006, sempre per la Margherita. Il 24 luglio 2006 lascia il Senato dopo 30 anni di attività parlamentare perché eletto dal Parlamento in seduta comune come componente del Consiglio Superiore della Magistratura, in seno al quale ha ricoperto l'ufficio di vicepresidente dal 1º agosto 2006 al 1º agosto 2010.
La polemica con Salvatore Borsellino
Secondo testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia dopo la strage di Capaci si è avviata una trattativa tra pezzi dello Stato Italiano e Cosa Nostra di cui il giudice Paolo Borsellino sarebbe verosimilmente stato al corrente[1] poco prima di venire ucciso il 19 luglio 1992. In quest'ottica diventa importante sapere se e quando Borsellino abbia appreso dell'esistenza della trattativa in quanto una sua mancata adesione avrebbe potuto essere un movente per l'omicidio. Secondo Massimo Ciancimino la trattativa era gestita dal padre Vito Ciancimino che avrebbe chiesto – sempre secondo la testimonianza del figlio – ed ottenuto di informare Mancino. Mancino dal canto suo nega di aver avuto questa informazione.
Il 1º luglio 1992 alle ore 19:30 Paolo Borsellino aveva un appuntamento al Viminale con Mancino che in quel giorno assumeva la carica di ministro: così è segnato nella agenda del magistrato e così è confermato dalla ricostruzione della giornata di Rita Borsellino secondo la quale vi si sarebbe recato in seguito ad una telefonata del ministro. Il collaboratore di giustizia Mutolo al riguardo racconta che Borsellino gli disse «mi ha telefonato il ministro, manco due ore e poi torno» e poi racconta però «[Borsellino] molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del ministro, si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada». Tuttavia l'avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò racconta che quel giorno accompagnò Borsellino sulla soglia della stanza del neo-ministro, lo vide entrare, lo vide uscire poco dopo e quindi entrò a sua volta, ma da solo[2], non ricorda di aver incontrato Bruno Contrada ed esclude che Borsellino gliene abbia parlato. Mancino interpellato sulla vicenda ha sostenuto «Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla, era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali. Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui però non ho avuto alcuno specifico colloquio e perciò non posso ricordare in modo sicuro la circostanza» e inoltre nega di averlo convocato.[3]
In seguito a tali dichiarazioni Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha accusato Mancino di non essere credibile quando afferma di non ricordare di un eventuale incontro con Paolo considerata la visibilità mediatica che stava avendo il magistrato dopo la strage di Capaci.[4] Mancino ha replicato con una lettera al Corriere.it del 17 luglio 2009[5] dove fa presente che stando a quanto racconta Mutolo il giudice Borsellino non avrebbe incontrato lui ma altre persone, Mancino sostiene anche che non avrebbe comunque nessun motivo di negare quell'incontro nel caso ci fosse stato e fa notare che il giorno del presunto incontro era per lui il primo giorno di insediamento al Viminale.
Il 9 giugno 2012 viene diffusa la notizia secondo la quale Mancino sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Palermo con l'ipotesi di falsa testimonianza nell'ambito delle indagini sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.
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Re: Mafie,...un cancro infinito
Caro camillobenso.Questo succede:per il semplice motivo che rimangono troppo nel giro della politica alla fine................
Ciao
Paolo11
Ciao
Paolo11
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Re: Mafie,...un cancro infinito
Si dimette nessuno?
di Marco Travaglio | 19 giugno 2012
Commenti (212)
“A sua disposizione!”. Il Pg della Cassazione, membro di diritto del Csm, massima autorità della Pubblica Accusa in Italia, scatta sull’attenti come un soldatino di piombo dinanzi a Nicola Mancino, privato cittadino, che lo chiama “guagliò”, gli dà del tu e continua a tempestare lui e il consigliere giuridico del Capo dello Stato perché quei rompiscatole dei pm di Palermo Ingroia e Di Matteo (e anche quello di Caltanissetta Nico Gozzo, che viene da Palermo dunque è infetto) si ostinano a cercare la verità sulla trattativa Stato-mafia, avvenuta quando lui era ministro dell’Interno, dunque naturalmente a sua insaputa. Sono talmente fissati da non credergli quando smentisce l’agenda di Borsellino e i suoi ex colleghi Martelli e Scotti.
Vorrebbero persino metterlo a confronto con loro (gli ex ministri, si capisce: Borsellino, purtroppo o per fortuna, non può più parlare). “Possibile che non si possa proprio fare niente” per fermarli? Ecco la lettera di Esposito al gip di Caltanissetta che si è permesso di evidenziare le contraddizioni di Mancino, per acquisire – non si sa bene a che titolo – la sua ordinanza. Così si capisce che in alto loco c’è chi non gradisce e bisogna stare attenti, perché il Pg è il titolare dell’azione disciplinare. “Ho letto che hai chiesto gli atti a Caltanissetta”, dice Mancino a Esposito, e gli fa i complimenti perché “difende i politici”. È lì che l’alto magistrato si dice “a sua disposizione” e lo invita ad andarlo a trovare. “Eh, guagliò, come vengo? Vado sui giornali”. “Ahahah”.
Già, perché lo sanno anche loro che certe cose non si possono fare. Mancino comunque è insoddisfatto, c’è il rischio che lo mettano a confronto con Martelli al processo Mori. D’Ambrosio promette – non si sa bene a che titolo – di “parlare col Presidente” che – non si sa bene a che titolo – “si è preso a cuore la questione”. E suggerisce di “parlare coi pm”, o col loro capo Messineo, o meglio ancora “col direttore nazionale Grasso”, perché quel Di Matteo è “autonomo” e “intervenire sul collegio è molto delicato”. C’è il rischio che qualche giudice non sia “a disposizione”. Ecco, Mancino vorrebbe un appuntamento con Grasso via Quirinale, ma “riservatissimo”, aumma aumma, “che nessuno sappia niente”. Perché lo sa anche lui che queste cose non si possono fare.
D’Ambrosio prepara la lettera al nuovo Pg della Cassazione Ciani, poi firmata dal segretario generale del Quirinale Marra, per raccomandare – non si sa bene a che titolo – un maggiore “coordinamento” delle indagini di Firenze, Caltanissetta e Palermo per orientarle sulla linea più morbida per i “politici”. Lettera – dice D’Ambrosio – concordata con lo stesso Ciani e letta in diretta a Mancino. Ciani esegue immantinente convocando Grasso, che però pretende ordini scritti: sa bene che queste cose non si possono fare.
Da questo nauseabondo scambio di telefonate, depositate dai pm di Palermo, si desumono alcuni fatti inequivocabili. A Roma decine di “uomini delle istituzioni” (si fa per dire) sanno perfettamente cosa accadde nel 1992-’93, ma anche dopo, fra Stato e mafia.
Temono che molte porcherie saltino fuori e si attivano per impedirlo. Si conoscono tutti da tempo. D’Ambrosio era all’Alto Commissariato Antimafia assieme a Mori e Francesco Di Maggio (altro uomo chiave della trattativa), poi fu vicecapogabinetto di Conso, nello stesso governo in cui c’era Mancino. Napolitano era presidente della Camera. Poi le parti s’invertirono: Mancino alla Camera e Napolitano al Viminale. Poi Mancino vicepresidente del Csm di cui Esposito è membro e Napolitano presidente con D’Ambrosio consigliere.
Poi, naturalmente, a ogni anniversario, tutti a Capaci e in Via D’Amelio a chiedere “tutta la verità”. Forse è il caso che si dimetta qualcuno, per aiutarci a credere che tutto sia avvenuto alle spalle di Napolitano. A questo siamo ridotti: a sperare nell’“a sua insaputa”.
Il Fatto Quotidiano, 19 Giugno 2012
Un commento
Momy64 8 ore ago
No, caro Marco, non si dimette e non si dimetterà mai nessuno, perchè non si salva nessuno, Capo dello Stato compreso. Mi sono sempre chiesta del perchè abbia firmato le più grosse porcate nel corso di questi anni. Credo che, proseguendo nell'inchiesta che state coraggiosamente e in solitudine assoluta mandando avanti, verranno fuori molti altarini che riguardano anche lui.
Nessuno si dimetterà mai perchè si coprono le proprie nefandezze l'uno con l'altro, sono tutti d'accordo e quindi nessuno farà mai un passo per rovinare altri o per perdere i propri privilegi, immunità compresa.
di Marco Travaglio | 19 giugno 2012
Commenti (212)
“A sua disposizione!”. Il Pg della Cassazione, membro di diritto del Csm, massima autorità della Pubblica Accusa in Italia, scatta sull’attenti come un soldatino di piombo dinanzi a Nicola Mancino, privato cittadino, che lo chiama “guagliò”, gli dà del tu e continua a tempestare lui e il consigliere giuridico del Capo dello Stato perché quei rompiscatole dei pm di Palermo Ingroia e Di Matteo (e anche quello di Caltanissetta Nico Gozzo, che viene da Palermo dunque è infetto) si ostinano a cercare la verità sulla trattativa Stato-mafia, avvenuta quando lui era ministro dell’Interno, dunque naturalmente a sua insaputa. Sono talmente fissati da non credergli quando smentisce l’agenda di Borsellino e i suoi ex colleghi Martelli e Scotti.
Vorrebbero persino metterlo a confronto con loro (gli ex ministri, si capisce: Borsellino, purtroppo o per fortuna, non può più parlare). “Possibile che non si possa proprio fare niente” per fermarli? Ecco la lettera di Esposito al gip di Caltanissetta che si è permesso di evidenziare le contraddizioni di Mancino, per acquisire – non si sa bene a che titolo – la sua ordinanza. Così si capisce che in alto loco c’è chi non gradisce e bisogna stare attenti, perché il Pg è il titolare dell’azione disciplinare. “Ho letto che hai chiesto gli atti a Caltanissetta”, dice Mancino a Esposito, e gli fa i complimenti perché “difende i politici”. È lì che l’alto magistrato si dice “a sua disposizione” e lo invita ad andarlo a trovare. “Eh, guagliò, come vengo? Vado sui giornali”. “Ahahah”.
Già, perché lo sanno anche loro che certe cose non si possono fare. Mancino comunque è insoddisfatto, c’è il rischio che lo mettano a confronto con Martelli al processo Mori. D’Ambrosio promette – non si sa bene a che titolo – di “parlare col Presidente” che – non si sa bene a che titolo – “si è preso a cuore la questione”. E suggerisce di “parlare coi pm”, o col loro capo Messineo, o meglio ancora “col direttore nazionale Grasso”, perché quel Di Matteo è “autonomo” e “intervenire sul collegio è molto delicato”. C’è il rischio che qualche giudice non sia “a disposizione”. Ecco, Mancino vorrebbe un appuntamento con Grasso via Quirinale, ma “riservatissimo”, aumma aumma, “che nessuno sappia niente”. Perché lo sa anche lui che queste cose non si possono fare.
D’Ambrosio prepara la lettera al nuovo Pg della Cassazione Ciani, poi firmata dal segretario generale del Quirinale Marra, per raccomandare – non si sa bene a che titolo – un maggiore “coordinamento” delle indagini di Firenze, Caltanissetta e Palermo per orientarle sulla linea più morbida per i “politici”. Lettera – dice D’Ambrosio – concordata con lo stesso Ciani e letta in diretta a Mancino. Ciani esegue immantinente convocando Grasso, che però pretende ordini scritti: sa bene che queste cose non si possono fare.
Da questo nauseabondo scambio di telefonate, depositate dai pm di Palermo, si desumono alcuni fatti inequivocabili. A Roma decine di “uomini delle istituzioni” (si fa per dire) sanno perfettamente cosa accadde nel 1992-’93, ma anche dopo, fra Stato e mafia.
Temono che molte porcherie saltino fuori e si attivano per impedirlo. Si conoscono tutti da tempo. D’Ambrosio era all’Alto Commissariato Antimafia assieme a Mori e Francesco Di Maggio (altro uomo chiave della trattativa), poi fu vicecapogabinetto di Conso, nello stesso governo in cui c’era Mancino. Napolitano era presidente della Camera. Poi le parti s’invertirono: Mancino alla Camera e Napolitano al Viminale. Poi Mancino vicepresidente del Csm di cui Esposito è membro e Napolitano presidente con D’Ambrosio consigliere.
Poi, naturalmente, a ogni anniversario, tutti a Capaci e in Via D’Amelio a chiedere “tutta la verità”. Forse è il caso che si dimetta qualcuno, per aiutarci a credere che tutto sia avvenuto alle spalle di Napolitano. A questo siamo ridotti: a sperare nell’“a sua insaputa”.
Il Fatto Quotidiano, 19 Giugno 2012
Un commento
Momy64 8 ore ago
No, caro Marco, non si dimette e non si dimetterà mai nessuno, perchè non si salva nessuno, Capo dello Stato compreso. Mi sono sempre chiesta del perchè abbia firmato le più grosse porcate nel corso di questi anni. Credo che, proseguendo nell'inchiesta che state coraggiosamente e in solitudine assoluta mandando avanti, verranno fuori molti altarini che riguardano anche lui.
Nessuno si dimetterà mai perchè si coprono le proprie nefandezze l'uno con l'altro, sono tutti d'accordo e quindi nessuno farà mai un passo per rovinare altri o per perdere i propri privilegi, immunità compresa.
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Re: Mafie,...un cancro infinito
I VERBALI
E il Colle rassicurò Mancino
"Il presidente sa già tutto"
Inchiesta Stato-mafia, ecco le telefonate segrete. Contatti frenetici tra i palazzi del potere romano mentre i pm di Palermo indagano sulla trattativa con Cosa nostra. Dalle carte emergono i ripetuti contatti tra l'ex ministro dell'Interno e il consigliere giuridico del Quirinale
di ATTILIO BOLZONI e SALVO PALAZZOLO
PALERMO - Un patto lungo vent'anni fa tremare ancora oggi molti potenti. E dopo tanto tempo, chi ha paura cerca appoggi e protezioni. In alto, fino al Capo dello Stato. Come l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino. Lui fa intendere che da solo non può sopportare tutto il peso di quel patto cercato con la mafia.
E qualcuno, al Quirinale, spende anche il nome del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Poi, si muove nell'ombra per risolvere nel più indolore dei modi un affaire che sembra trascinare nel gorgo rais della politica e burocrati di rango finiti nelle indagini dei magistrati di Palermo.
"Eccomi, io ho parlato con il Presidente e ho parlato anche con Grasso (il procuratore nazionale antimafia, ndr)", dice il consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio il 12 marzo 2012 rispondendo alle insistenti richieste dell'ex ministro Mancino che, per l'ennesima volta, gli chiede un intervento per tirarlo fuori dall'inchiesta dei pm siciliani sulla trattativa. Nicola Mancino si sente perduto, è incalzato dai magistrati che gli chiedono conto e ragione di certi suoi comportamenti al tempo delle stragi, e allora prova a chiedere aiuto al Quirinale. Protesta. Sostiene che i magistrati di Palermo e Caltanissetta e Firenze - quelli che indagano sulla trattativa - non si coordinano "e che arrivano a conclusioni contraddittorie fra di loro". L'ex ministro parla sempre con il consigliere giuridico del Presidente Napolitano. Ed è ascoltato, giorno dopo giorno.
L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA O SU REPUBBLICA+ 1
http://tweb.interno.it/news/daily/rasse ... STAMPA.pdf
Ma anche sulla rassegna stampa del Ministero dell'Interno
LA REPUBBLICA 20-06-2012 1
TRATTATIVA STATO-MAFIA, LE TELEFONATE SEGRETE
Bolzoni Attilio
Numero di riferimento a destra 57
oppure
CORRIERE DELLA SERA 20-06-2012 1
ECCO IL TESTO DELLE TELEFONATE TRA MANCINO E IL QUIRINALE
Bianconi Giovanni
Numero di riferimento a destra 4
E il Colle rassicurò Mancino
"Il presidente sa già tutto"
Inchiesta Stato-mafia, ecco le telefonate segrete. Contatti frenetici tra i palazzi del potere romano mentre i pm di Palermo indagano sulla trattativa con Cosa nostra. Dalle carte emergono i ripetuti contatti tra l'ex ministro dell'Interno e il consigliere giuridico del Quirinale
di ATTILIO BOLZONI e SALVO PALAZZOLO
PALERMO - Un patto lungo vent'anni fa tremare ancora oggi molti potenti. E dopo tanto tempo, chi ha paura cerca appoggi e protezioni. In alto, fino al Capo dello Stato. Come l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino. Lui fa intendere che da solo non può sopportare tutto il peso di quel patto cercato con la mafia.
E qualcuno, al Quirinale, spende anche il nome del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Poi, si muove nell'ombra per risolvere nel più indolore dei modi un affaire che sembra trascinare nel gorgo rais della politica e burocrati di rango finiti nelle indagini dei magistrati di Palermo.
"Eccomi, io ho parlato con il Presidente e ho parlato anche con Grasso (il procuratore nazionale antimafia, ndr)", dice il consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio il 12 marzo 2012 rispondendo alle insistenti richieste dell'ex ministro Mancino che, per l'ennesima volta, gli chiede un intervento per tirarlo fuori dall'inchiesta dei pm siciliani sulla trattativa. Nicola Mancino si sente perduto, è incalzato dai magistrati che gli chiedono conto e ragione di certi suoi comportamenti al tempo delle stragi, e allora prova a chiedere aiuto al Quirinale. Protesta. Sostiene che i magistrati di Palermo e Caltanissetta e Firenze - quelli che indagano sulla trattativa - non si coordinano "e che arrivano a conclusioni contraddittorie fra di loro". L'ex ministro parla sempre con il consigliere giuridico del Presidente Napolitano. Ed è ascoltato, giorno dopo giorno.
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Re: Mafie,...un cancro infinito
L'Unità.it si comporta come la Pravda, ignora la notizia.
E' finito un ciclo,....siamo arrivati all'ultima fermata,...si scende dalla vettura.....
http://tweb.interno.it/news/daily/rasse ... STAMPA.pdf
FATTO QUOTIDIANO 20-06-2012 1
VOLEVANO SCIPPARE L'INCHIESTA ALLA PROCURA DI PALERMO
Lillo Marco
Numero di riferimento a destra 47
FATTO QUOTIDIANO 20-06-2012 1
LA GIUSTIZIA DI LORSIG
Travaglio Marco
Numero di riferimento a destra 49
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Re: Mafie,...un cancro infinito
Nient’altro che la verità
di Paolo Flores d'Arcais | 20 giugno 2012
Commenti (0)
Il Fatto ha qualche giorno fa avanzato interrogativi sul “mistero” delle telefonate a go go di Nicola Mancino (ex ogni potere) al consigliere giuridico del Quirinale per sollecitare un intervento presidenziale che intralciasse l’azione del Pubblico Ministero di Palermo che interrogava il Mancino come testimone (ora è anche indagato). Il Colle più alto ha dovuto ammettere il diluvio delle telefonate/rimostranze e una lettera assai discutibile del Quirinale al Procuratore generale della Cassazione, che pareva condividerne alcune. Da allora, mentre questo giornale continua a pubblicare notizie e fatti sempre più inquietanti (che rendono più che opportuna – doverosa – la richiesta di Di Pietro di una commissione parlamentare di inchiesta) è tutto uno “stracciarsi di vesti” e un rincorrersi di anatemi. Domandiamoci allora chi è che sta compiendo il delitto di lesa maestà, il più grave (non a caso, storicamente, l’aggressione e la “bestemmia” contro il Sovrano costituiscono il reato capitale per eccellenza).
Chi è il Sovrano? In democrazia uno solo: i cittadini. Tu, e tu, e tu e io. La “sacralità” che deve circondare le istituzionirepubblicane si giustifica perché esse costituiscono gli strumenti attraverso cui il cittadino esercita il potere. Perciò, chi si trovi transitoriamente ai vertici delle istituzioni deve alla maestà dei cittadini tutti trasparenza e verità. Come minimo. Che il potere abbia il diritto di mentire è luogo comune della storia del pensiero politico. Ma troppi “machiavelli” un tanto al chilo dimenticano che si ha il diritto di mentire al nemico, e a nessun altro. Un potere (compreso il “quarto”, i media) che menta ai propri cittadini li tratta “ipso facto” da nemici e con ciò si fa esso stesso nemico mortale della democrazia. Sta mentendo al Sovrano, sta compiendo il delitto di lesa maestà.
Negli Stati Uniti d’America, dove l’istituzione “Presidente” è circondata quasi da venerazione, quando alcuni cittadini chiesero conto a Clinton di mezza menzogna pronunciata per tergiversare su un comportamento per altro lecito, non ci fu un solo giornale o una sola tv che giudicasse tale richiesta “risibile” . Clinton fu costretto a nominare un procuratore speciale, legato al partito avverso, e a rispondere in streaming a tutte le sue domande.
La libera informazione deve perciò continuare ad onorare la “sacralità” che è dovuta al Sovrano (i cittadini), pretendendo da ogni figura istituzionale di oggi e di ieri la verità, tutta la verità, niente altro che la verità.
Il Fatto Quotidiano, 20 Giugno 2012
di Paolo Flores d'Arcais | 20 giugno 2012
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Il Fatto ha qualche giorno fa avanzato interrogativi sul “mistero” delle telefonate a go go di Nicola Mancino (ex ogni potere) al consigliere giuridico del Quirinale per sollecitare un intervento presidenziale che intralciasse l’azione del Pubblico Ministero di Palermo che interrogava il Mancino come testimone (ora è anche indagato). Il Colle più alto ha dovuto ammettere il diluvio delle telefonate/rimostranze e una lettera assai discutibile del Quirinale al Procuratore generale della Cassazione, che pareva condividerne alcune. Da allora, mentre questo giornale continua a pubblicare notizie e fatti sempre più inquietanti (che rendono più che opportuna – doverosa – la richiesta di Di Pietro di una commissione parlamentare di inchiesta) è tutto uno “stracciarsi di vesti” e un rincorrersi di anatemi. Domandiamoci allora chi è che sta compiendo il delitto di lesa maestà, il più grave (non a caso, storicamente, l’aggressione e la “bestemmia” contro il Sovrano costituiscono il reato capitale per eccellenza).
Chi è il Sovrano? In democrazia uno solo: i cittadini. Tu, e tu, e tu e io. La “sacralità” che deve circondare le istituzionirepubblicane si giustifica perché esse costituiscono gli strumenti attraverso cui il cittadino esercita il potere. Perciò, chi si trovi transitoriamente ai vertici delle istituzioni deve alla maestà dei cittadini tutti trasparenza e verità. Come minimo. Che il potere abbia il diritto di mentire è luogo comune della storia del pensiero politico. Ma troppi “machiavelli” un tanto al chilo dimenticano che si ha il diritto di mentire al nemico, e a nessun altro. Un potere (compreso il “quarto”, i media) che menta ai propri cittadini li tratta “ipso facto” da nemici e con ciò si fa esso stesso nemico mortale della democrazia. Sta mentendo al Sovrano, sta compiendo il delitto di lesa maestà.
Negli Stati Uniti d’America, dove l’istituzione “Presidente” è circondata quasi da venerazione, quando alcuni cittadini chiesero conto a Clinton di mezza menzogna pronunciata per tergiversare su un comportamento per altro lecito, non ci fu un solo giornale o una sola tv che giudicasse tale richiesta “risibile” . Clinton fu costretto a nominare un procuratore speciale, legato al partito avverso, e a rispondere in streaming a tutte le sue domande.
La libera informazione deve perciò continuare ad onorare la “sacralità” che è dovuta al Sovrano (i cittadini), pretendendo da ogni figura istituzionale di oggi e di ieri la verità, tutta la verità, niente altro che la verità.
Il Fatto Quotidiano, 20 Giugno 2012
Re: Mafie,...un cancro infinito
mah...
queste telefonate ora si scoprono?
dopo la repubblica delle idee il FQ ha cambiato bersaglio?
di solito non mi lascio sedurre dai complottismi ma ...ora... prendere di punta il PDR , l'unica figura istituzionale che gode di una certo consenso popolare, cui prodest?
demolire demolire dissacrare dissacrare fa il gioco di chi?
certo non della democrazia .
queste telefonate ora si scoprono?
dopo la repubblica delle idee il FQ ha cambiato bersaglio?
di solito non mi lascio sedurre dai complottismi ma ...ora... prendere di punta il PDR , l'unica figura istituzionale che gode di una certo consenso popolare, cui prodest?
demolire demolire dissacrare dissacrare fa il gioco di chi?
certo non della democrazia .
Re: Mafie,...un cancro infinito
Non so se il FQ ha cambiato bersaglio, quello che so è che la stessa presidenza della repubblica ha ammesso in un comunicato, con riferimento al caso Mancino, di aver inviato una lettera al procuratore generale della cassazione in cui sollecitava "l'omogeneità ed il coordinamento" delle procure interessate alle stesse indagini.
Qual'è il senso di questo intervento, guarda caso appena prima che Mancino venisse indagato per falsa testimonianza?
E' un'interferenza di una gravità inaudita che in un altro paese avrebbe provocato uno scandalo da prime pagine di tutti i quotidiani, forse anche con richieste di dimissioni.
Quando parliamo dei giornali, FQ o altri, dovremmo chiederci se i fatti di cui parlano hanno qualche fondamento o se sono solo bufale. Se vi sono poi altri obiettivi nella linea editoriale è un aspetto francamente quasi irrilevante.
Qual'è il senso di questo intervento, guarda caso appena prima che Mancino venisse indagato per falsa testimonianza?
E' un'interferenza di una gravità inaudita che in un altro paese avrebbe provocato uno scandalo da prime pagine di tutti i quotidiani, forse anche con richieste di dimissioni.
Quando parliamo dei giornali, FQ o altri, dovremmo chiederci se i fatti di cui parlano hanno qualche fondamento o se sono solo bufale. Se vi sono poi altri obiettivi nella linea editoriale è un aspetto francamente quasi irrilevante.
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