Un'Europa vera, federalista, patria comune.
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Un'Europa vera, federalista, patria comune.
PAG. 34 del Corriere della Sera del 6 giugno, 2012
Federalismo
La spinta necessaria a un'Europa politica.
Caro direttore, abbiamo letto con interesse il suo editoriale del 3 giugno sulla "moneta di tutti (e di nessuno)".
Abbiamo preso anche nota del giudizio di Angelo Panebianco nell'editoriale del 4 giugno sulla "distanza insostenibile" che esisterebbe tra elite europeiste e una parte consistente dei cittadini comuni.
Come lei sa, alcuni di noi fanno parte di coloro che in tempi e responsabilita' diversi hanno partecipato alla battaglia federalista che e' stata rappresentata in Italia soprattutto dall'azione e dal pensiero di Altiero Spinelli.
Nonostante la crisi o meglio a causa della crisi non abbiamo rinunciato a questa battaglia, non condividendo ne' l'opinione ancora minoritaria di chi crede nelle capacita' taumaturghiche del ritorno alle apparenti sovranita' nazionali ne' la "variante ingenua dell'ideologia del Progresso" - come la definisce Angelo Panebianco - che pervade chi crede de l'Europa reale e viva perche' razionale e logicamente indispensabile.
Come lei sa, non abbiamo taciuto in questi mesi e abbiamo anzi cercato di compensare il silenzio - si'! - assordante delle classi di governo nazionali su questioni che toccano i nervi scoperti dei cittadini. Questioni che riguardano la sostenibilita' sociale, ambientale, culturale, democratica di politiche limitate al solo rigore finanziario e concepite, elaborate e adottate dall'insime dei governi nazionali negli ultimi quindici mesi.
L'appello pubblicato dal suo quotidiano il 10 marzo scorso, firmato da sostenitori tedeschi e italiani della causa federalista, fa parte del nostro impegno nel compensare le assenze governative, cosi' come la successiva dichiarazione del 9 maggio che ha coinvolto anche federalisti francesi, spagnoli, portoghesi, greci, bulgari, polacchi e belgi. Prendiamo ora atto che alcune delle nostre proposte potrebbero essere innestate nei piu' o meno segreti, piu' o meno innovativi di cui si discuterebbe ora nelle cancellerie nazionali. Prendiamo anche atto dell'interesse che il suo giornale, pur dando libero spazio ad opinioni diametralmente opposte, manifesta verso una corrente di pensiero e di azione - il federalismo europeo - del tutto sottostimata dai media italiani per decenni.
E' come se la stampa si accorgesse solo ora che esiste l'Europa! Quando le cose andavano apparentemente bene non un rigo veniva dedicato agli sforzi di coloro che volevano una maggiore integrazione o che avvertivano i rischi della disintegrazione.
Non solo, ma ogni iniziativa non ispirata alla Real Politik veniva o ignorata o considerata mera utopia.
Solo adesso si comincia a capire che decisioni come il fiscal compact o il pareggio di bilancio non possono essere accolte senza essere accompagnate da un piano di sviluppo equilibrato e da cessioni di sovranita', che l'uno e le altre esigono un coinvolgimento pieno della pubblica opinione e che solo la consapevolezza di partecipare a una sovranita' condivisa puo' superare il deficit democratico europeo.
Non tutto edifica nei tentativi di salvare la casa europea. Non siamo ad esempio convinti che possa rappresentare una strada piu' coinvolgente per mass media e opinioni pubbliche l'idea di affiancare al Parlamento europeo, dato per fallito, un'assemblea indirettamente eletta dall'eurozona, senza poteri di controllo, legislativi e di bilancio e senza avere di fronte a se' un governo europeo. Non condividiamo nemmeno il giudizio sbrigativamente liquidatorio sul Parlamento europeo, un'assemblea direttamente eletta che - pur indebolita dall'assenza di una vera agora' politica europea - e' protagonista di battaglie significative per la difesa dei diritti della persona e dove l'azione di innovatori provenienti dalle file socialiste, verdi, radicali e liberali ha saputo contrastare l'immobilismo di vecchi e nuovi conservatori.
Le opinioni pubbliche esprimono in periodici sondaggi un alto livello di sfiducia nelle istituzioni nazionali e un seppur debole livello di fiducia nelle istituzioni europee, e in 34 referendum nazionali sull'Europa, da quello promosso da Harold Wilson nel 1974 all'ultimo irlandese sul fiscal compact, hanno risposto 5 volte no e ventinove volte si'.
Noi non sottovalutiamo le tendenze nazionaliste ed i populismi di destra e di sinistra che le nutrono e se ne nutrono, ma stiamo agendo per contribuire a superare il gap di fiducia che gli errori delle classi di governo hanno permesso che si splancasse, trovando in questa nazione un numero crescente di compagni e compagne di azione.
Ci consenta due ultime considerazioni, una che riguarda la buona politica e una che riguarda la cittadinanza attiva. La buona politica agisce per conquistare un potere e per usarlo nell'interesse dei cittadini: ci troviamo oggi di fronte al paradosso di partiti che si battono per conquistare poteri oramai impotenti a livello nazionale e che non hanno ancora preso coscienza del fatto che la loro sopravvivenza e' legata alla creazione di un potere (europeo) che ancora non c'e' alla cui costruzione bisogna finalmente accingersi. La cittadinanza attiva (europea) puo' compensare il silenzio assordante delle classi di governo nazionali.
Noi riteniamo essenziale la mobilitazione dell'opinione pubblica europea e speriamo per questa ragione che milioni di cittadini europei usino rapidamente il grimaldello dell'iniziativa legislativa, per scardinare l'asfittico sistema istituzionale europeo, ed esigere la sostenibilita' sociale, ambientale, culturale e democratica delle politiche europee.
Noi speriamo che da questa mobilitazione possa scaturire una forte spinta popolare per promuovere il riconoscimento di un potere costituente al Parlamento europeo in occasione delle elezioni europee della primavera 2014.
Giuliano Amato
Emma Bonino
Rocco Cangelosi
Pier Virgilio Dastoli
Monica Frassoni
Sandro Gozi
Alberto Majocchi
Giacomo Marramao
Luisa Passerini
Guido Rossi
Barbara Spinelli
Federalismo
La spinta necessaria a un'Europa politica.
Caro direttore, abbiamo letto con interesse il suo editoriale del 3 giugno sulla "moneta di tutti (e di nessuno)".
Abbiamo preso anche nota del giudizio di Angelo Panebianco nell'editoriale del 4 giugno sulla "distanza insostenibile" che esisterebbe tra elite europeiste e una parte consistente dei cittadini comuni.
Come lei sa, alcuni di noi fanno parte di coloro che in tempi e responsabilita' diversi hanno partecipato alla battaglia federalista che e' stata rappresentata in Italia soprattutto dall'azione e dal pensiero di Altiero Spinelli.
Nonostante la crisi o meglio a causa della crisi non abbiamo rinunciato a questa battaglia, non condividendo ne' l'opinione ancora minoritaria di chi crede nelle capacita' taumaturghiche del ritorno alle apparenti sovranita' nazionali ne' la "variante ingenua dell'ideologia del Progresso" - come la definisce Angelo Panebianco - che pervade chi crede de l'Europa reale e viva perche' razionale e logicamente indispensabile.
Come lei sa, non abbiamo taciuto in questi mesi e abbiamo anzi cercato di compensare il silenzio - si'! - assordante delle classi di governo nazionali su questioni che toccano i nervi scoperti dei cittadini. Questioni che riguardano la sostenibilita' sociale, ambientale, culturale, democratica di politiche limitate al solo rigore finanziario e concepite, elaborate e adottate dall'insime dei governi nazionali negli ultimi quindici mesi.
L'appello pubblicato dal suo quotidiano il 10 marzo scorso, firmato da sostenitori tedeschi e italiani della causa federalista, fa parte del nostro impegno nel compensare le assenze governative, cosi' come la successiva dichiarazione del 9 maggio che ha coinvolto anche federalisti francesi, spagnoli, portoghesi, greci, bulgari, polacchi e belgi. Prendiamo ora atto che alcune delle nostre proposte potrebbero essere innestate nei piu' o meno segreti, piu' o meno innovativi di cui si discuterebbe ora nelle cancellerie nazionali. Prendiamo anche atto dell'interesse che il suo giornale, pur dando libero spazio ad opinioni diametralmente opposte, manifesta verso una corrente di pensiero e di azione - il federalismo europeo - del tutto sottostimata dai media italiani per decenni.
E' come se la stampa si accorgesse solo ora che esiste l'Europa! Quando le cose andavano apparentemente bene non un rigo veniva dedicato agli sforzi di coloro che volevano una maggiore integrazione o che avvertivano i rischi della disintegrazione.
Non solo, ma ogni iniziativa non ispirata alla Real Politik veniva o ignorata o considerata mera utopia.
Solo adesso si comincia a capire che decisioni come il fiscal compact o il pareggio di bilancio non possono essere accolte senza essere accompagnate da un piano di sviluppo equilibrato e da cessioni di sovranita', che l'uno e le altre esigono un coinvolgimento pieno della pubblica opinione e che solo la consapevolezza di partecipare a una sovranita' condivisa puo' superare il deficit democratico europeo.
Non tutto edifica nei tentativi di salvare la casa europea. Non siamo ad esempio convinti che possa rappresentare una strada piu' coinvolgente per mass media e opinioni pubbliche l'idea di affiancare al Parlamento europeo, dato per fallito, un'assemblea indirettamente eletta dall'eurozona, senza poteri di controllo, legislativi e di bilancio e senza avere di fronte a se' un governo europeo. Non condividiamo nemmeno il giudizio sbrigativamente liquidatorio sul Parlamento europeo, un'assemblea direttamente eletta che - pur indebolita dall'assenza di una vera agora' politica europea - e' protagonista di battaglie significative per la difesa dei diritti della persona e dove l'azione di innovatori provenienti dalle file socialiste, verdi, radicali e liberali ha saputo contrastare l'immobilismo di vecchi e nuovi conservatori.
Le opinioni pubbliche esprimono in periodici sondaggi un alto livello di sfiducia nelle istituzioni nazionali e un seppur debole livello di fiducia nelle istituzioni europee, e in 34 referendum nazionali sull'Europa, da quello promosso da Harold Wilson nel 1974 all'ultimo irlandese sul fiscal compact, hanno risposto 5 volte no e ventinove volte si'.
Noi non sottovalutiamo le tendenze nazionaliste ed i populismi di destra e di sinistra che le nutrono e se ne nutrono, ma stiamo agendo per contribuire a superare il gap di fiducia che gli errori delle classi di governo hanno permesso che si splancasse, trovando in questa nazione un numero crescente di compagni e compagne di azione.
Ci consenta due ultime considerazioni, una che riguarda la buona politica e una che riguarda la cittadinanza attiva. La buona politica agisce per conquistare un potere e per usarlo nell'interesse dei cittadini: ci troviamo oggi di fronte al paradosso di partiti che si battono per conquistare poteri oramai impotenti a livello nazionale e che non hanno ancora preso coscienza del fatto che la loro sopravvivenza e' legata alla creazione di un potere (europeo) che ancora non c'e' alla cui costruzione bisogna finalmente accingersi. La cittadinanza attiva (europea) puo' compensare il silenzio assordante delle classi di governo nazionali.
Noi riteniamo essenziale la mobilitazione dell'opinione pubblica europea e speriamo per questa ragione che milioni di cittadini europei usino rapidamente il grimaldello dell'iniziativa legislativa, per scardinare l'asfittico sistema istituzionale europeo, ed esigere la sostenibilita' sociale, ambientale, culturale e democratica delle politiche europee.
Noi speriamo che da questa mobilitazione possa scaturire una forte spinta popolare per promuovere il riconoscimento di un potere costituente al Parlamento europeo in occasione delle elezioni europee della primavera 2014.
Giuliano Amato
Emma Bonino
Rocco Cangelosi
Pier Virgilio Dastoli
Monica Frassoni
Sandro Gozi
Alberto Majocchi
Giacomo Marramao
Luisa Passerini
Guido Rossi
Barbara Spinelli
Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.
Ovviamente concordo.Noi speriamo che da questa mobilitazione possa scaturire una forte spinta popolare per promuovere il riconoscimento di un potere costituente al Parlamento europeo in occasione delle elezioni europee della primavera 2014.
Un'unica osservazione è che il 2014 potrebbe essere troppo tardi.
Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.
“IL VIETNAM DELL’EUROPA” di BARBARA SPINELLI da La Repubblica del 27 giugno 2012
ALLA vigilia del vertice europeo di domani, l’economista greco Yanis Varoufakis scruta l’incaponita ottusità delle politiche con cui i governi dell’Unione pretendono di salvare la moneta unica, e si stupisce di fronte a tanto guazzabuglio dei cuori e delle azioni. Un’attesa quasi messianica di palingenesi si combina all’abulia dei politici, alla pigrizia mentale degli economisti, alla sbalorditiva mancanza di leadership. Ancora una volta siamo alla vigilia di un vertice definito cruciale.Ci sarà un prima e un dopo, decideremo cose grandi o fatalmente naufragheremo. In Italia, chi punta allo sfascio annuncia che Monti avrà fallito, se fallisce il summit: come se il guazzabuglio europeo fosse suo, come se le responsabilità di Berlusconi si dissolvessero in quelle del successore. Alcuni si esercitano a contare i minuti: l’euro non vivrà più di tre mesi, dicono, pensando forse che l’orologio stia fermo. Sono anni che i mesi di vita sono quasi sempre tre.
È quello che spinge Varoufakis a fare due paragoni storici che impaurano a pensarci. Il primo rimanda alla crisi del ’29, e alla condotta che il Presidente americano Hoover ebbe a quel tempo. La ricetta era uguale a quella di oggi: ridurre drasticamente la spesa pubblica, tagliare salari e potere d’acquisto, il tutto mentre l’economia Usa implodeva. Seguirono povertà, furore, e in Europa fine della democrazia.
Non meno inquietante il paragone con la guerra del Vietnam: negli anni ’60-’70, gli uomini del Pentagono erano già certi della sconfitta. Continuarono a gettar bombe sul Vietnam, convulsamente, perché non riuscivano a mettersi d’accordo su come smettere un attivismo palesemente sciagurato. Riconoscere l’errore e cambiar rotta avrebbe salvato migliaia di vite americana, centinaia di migliaia di vite vietnamite, e risparmiato parecchi soldi. Disfatte simili a queste lo storico Marc Bloch le chiamò «strane», nel 1940: le avanguardie politico-militari sono senza visione né guida, mentre nelle retrovie società e classi dirigenti franano. Chi guida oggi l’Europa è animato dalla stessa non-volontà (l’antico peccato di nolitio): la crisi delle banche e dei debiti non è guerra armata, ma certi riflessi sono identici. Il povero cittadino perde la testa, non si raccapezza.
Sono mesi che si succedono vertici (a due, quattro, diciassette, ventisette) e ognuno è detto risolutivo. Sono mesi che sul palcoscenico vengono e vanno personaggi, declamando frasi inalterabili. Merkel e Schäuble entrano in sala di Consiglio, si siedono, e recitano: «Non si può fare, prima della solidarietà ognuno faccia ordine a casa». E sempre c’è qualcuno, della periferia-Sud, che invece di negoziare sul serio implora: «Ma fate uno sforzo, qui si sta naufragando!». Sembra la musica che nei dischi di vinile d’improvviso s’incantava. Si siedono e ripetono se stessi (ecolalia è il termine medico), come i generali quando continuavano a cannoneggiare i vietnamiti nella speranza che la guerra, come i mercati, si sarebbe placata da sola, esaurendosi.
Qualcosa, è vero, sta muovendosi in Europa. Grazie alle pressioni di socialdemocratici e verdi, il governo tedesco ammette d’un tratto che qualcosa bisogna fare per la crescita (una parola vana come quando i generali in guerra dicono: pace). Nella riunione a 4 che si è svolta a Roma tra Merkel, Hollande, Monti, Rajoy si è deciso di mobilitare 120 miliardi di euro (una bella somma ma sporadica, visto che contemporaneamente non si vuole un aumento del comune bilancio europeo). Si è anche deciso, finalmente, di ignorare le riserve inglesi e svedesi e di approvare una tassa sulle transazioni finanziarie, per dar respiro all’eurozona. Chi da anni lotta per la Tobin tax spera che nasca, per la prima volta, una vera fiscalità europea: il gettito previsto è di 30-50 miliardi all’anno, senza aggravi per i contribuenti.
Ma la tassa ha difetti non ancora risolti: come pensare che l’Unione possa avviare con propri soldi investimenti congiunti, se il gettito non andrà nella cassa comune? Il 29 marzo, sulla Zeit, il ministro delle finanze austriaco si felicitò in anticipo per la tassa, i cui proventi erano già iscritti nel bilancio del 2014: nel bilancio austriaco, non europeo.
Passi avanti sono stati fatti, assicurano i governi, ma l’essenziale manca: ancora non si possono emettere eurobond, e Berlino esita sul progetto – concepito in novembre dal Consiglio tedesco degli esperti economici – di una redenzione parziale dei debiti. «Ci vuole un salto federale», si comincia a sussurrare, ma anche queste parole rischiano di tramutarsi in nomi nudi, apparenti: come crescita, pace. Perfino cultura della stabilità diventa nome nudo, senz’alcun rapporto con l’idea che ci facciamo di una vita stabile. La sostanza che resta è il dogma tedesco della casa in ordine.
E resta il nuovo potere di controllo sui bilanci nazionali, conferito alla Commissione di Bruxelles. Ma un potere strano, di tecnici che censurano e castigano. Non un potere che edifica politiche, dispone di proprie risorse, è controbilanciato democraticamente. Non dimentichiamolo: le spese federali in America coprono il 24 per cento circa del prodotto nazionale. Quelle dell’Unione l’1,2. Quanto alla tassa sulle emissioni di biossido di carbonio (carbon tax), nessuno ne parla più.
Il fatto è che le misure non bastano perché il male non è tecnico: è politico. Ci siamo abituati a criminalizzare i mercati, a dire che l’Europa non deve dipendere dalla loro vista corta. Ma li ascoltiamo, i mercati? Sono imprevedibili, ma se diffidano dei nostri rimedi significa che c’è dell’altro nella loro domanda: «Siete proprio intenzionati a salvare l’Euro? La volete fare o no, l’unione politica che nominate sempre, restando fermi?». Se i mercati somigliano a una muta aizzata è perché fiutano un’Europa e una Germania che il potere non se lo vogliono prendere, che scelgono l’irrilevanza mondiale. Si calmeranno solo di fronte a un piano con precise scadenze (importa dare la data, anche se non immedia-ta): un piano che preveda un fisco europeo, un bilancio europeo credibile, un controllo del Parlamento europeo, una Banca centrale simile alla Federal reserve, un’unica politica estera. Hanno ragione a insistere. Anche perché stavolta, manca l’America postbellica che spinse alla federazione. Obama chiede misurette all’Europa, non un grande disegno unitario.
In una conferenza dei verdi tedeschi, domenica a Berlino, Monica Frassoni, Presidente del Verdi europei, ha detto parole giuste: «Quello di cui tutti (mercati compresi) abbiamo bisogno è che la parola
più Europa significhi qualcosa», non sia flatus vocis.
Deve esser chiaro in maniera lampante che Grecia, Italia, Portogallo, Spagna non potranno sanare i debiti con terapie che il debito addirittura l’accrescono. Urge un cambio di passo, dunque «una dichiarazione che dica: non si permetterà a nessuno Stato di fallire; la Bce interverrà comprando titoli delle nazioni indebitate se il Fondo salva- Stati non basta; l’Unione si darà un bilancio federale degno di questo nome, capace di avviare una crescita diversa, ecologicamente sostenibile ».
Il salto federale di cui c’è bisogno, pochi vogliono compierlo. Hollande dice che l’unione politica voluta da Berlino è accettabile solo se subito c’è solidarietà. La Merkel non esclude la solidarietà, ma prima chiede l’unione politica (anche se ieri ogni idea di scambio è svanita: «Finché vivrònon accetterò gli eurobond »). Qualcuno dunque bluffa. È come la scena del film Gioventù bruciata: due ragazzi guidano simultaneamente le loro auto verso un dirupo. Il primo che sterza sarà chiamato coniglio o pollo (per questo si parla di chicken game).
Se entrambi insistono nella corsa finiranno nella fossa. È tragico il gioco, perché riproduce il vecchio equilibrio di potenze nazionali che ha condotto il continente alla rovina. L’Unione europea era nata per abolire simili gare di morte.
“IL VIETNAM DELL’EUROPA” di BARBARA SPINELLI da La Repubblica del 27 giugno 2012
ALLA vigilia del vertice europeo di domani, l’economista greco Yanis Varoufakis scruta l’incaponita ottusità delle politiche con cui i governi dell’Unione pretendono di salvare la moneta unica, e si stupisce di fronte a tanto guazzabuglio dei cuori e delle azioni. Un’attesa quasi messianica di palingenesi si combina all’abulia dei politici, alla pigrizia mentale degli economisti, alla sbalorditiva mancanza di leadership. Ancora una volta siamo alla vigilia di un vertice definito cruciale.Ci sarà un prima e un dopo, decideremo cose grandi o fatalmente naufragheremo. In Italia, chi punta allo sfascio annuncia che Monti avrà fallito, se fallisce il summit: come se il guazzabuglio europeo fosse suo, come se le responsabilità di Berlusconi si dissolvessero in quelle del successore. Alcuni si esercitano a contare i minuti: l’euro non vivrà più di tre mesi, dicono, pensando forse che l’orologio stia fermo. Sono anni che i mesi di vita sono quasi sempre tre.
È quello che spinge Varoufakis a fare due paragoni storici che impaurano a pensarci. Il primo rimanda alla crisi del ’29, e alla condotta che il Presidente americano Hoover ebbe a quel tempo. La ricetta era uguale a quella di oggi: ridurre drasticamente la spesa pubblica, tagliare salari e potere d’acquisto, il tutto mentre l’economia Usa implodeva. Seguirono povertà, furore, e in Europa fine della democrazia.
Non meno inquietante il paragone con la guerra del Vietnam: negli anni ’60-’70, gli uomini del Pentagono erano già certi della sconfitta. Continuarono a gettar bombe sul Vietnam, convulsamente, perché non riuscivano a mettersi d’accordo su come smettere un attivismo palesemente sciagurato. Riconoscere l’errore e cambiar rotta avrebbe salvato migliaia di vite americana, centinaia di migliaia di vite vietnamite, e risparmiato parecchi soldi. Disfatte simili a queste lo storico Marc Bloch le chiamò «strane», nel 1940: le avanguardie politico-militari sono senza visione né guida, mentre nelle retrovie società e classi dirigenti franano. Chi guida oggi l’Europa è animato dalla stessa non-volontà (l’antico peccato di nolitio): la crisi delle banche e dei debiti non è guerra armata, ma certi riflessi sono identici. Il povero cittadino perde la testa, non si raccapezza.
Sono mesi che si succedono vertici (a due, quattro, diciassette, ventisette) e ognuno è detto risolutivo. Sono mesi che sul palcoscenico vengono e vanno personaggi, declamando frasi inalterabili. Merkel e Schäuble entrano in sala di Consiglio, si siedono, e recitano: «Non si può fare, prima della solidarietà ognuno faccia ordine a casa». E sempre c’è qualcuno, della periferia-Sud, che invece di negoziare sul serio implora: «Ma fate uno sforzo, qui si sta naufragando!». Sembra la musica che nei dischi di vinile d’improvviso s’incantava. Si siedono e ripetono se stessi (ecolalia è il termine medico), come i generali quando continuavano a cannoneggiare i vietnamiti nella speranza che la guerra, come i mercati, si sarebbe placata da sola, esaurendosi.
Qualcosa, è vero, sta muovendosi in Europa. Grazie alle pressioni di socialdemocratici e verdi, il governo tedesco ammette d’un tratto che qualcosa bisogna fare per la crescita (una parola vana come quando i generali in guerra dicono: pace). Nella riunione a 4 che si è svolta a Roma tra Merkel, Hollande, Monti, Rajoy si è deciso di mobilitare 120 miliardi di euro (una bella somma ma sporadica, visto che contemporaneamente non si vuole un aumento del comune bilancio europeo). Si è anche deciso, finalmente, di ignorare le riserve inglesi e svedesi e di approvare una tassa sulle transazioni finanziarie, per dar respiro all’eurozona. Chi da anni lotta per la Tobin tax spera che nasca, per la prima volta, una vera fiscalità europea: il gettito previsto è di 30-50 miliardi all’anno, senza aggravi per i contribuenti.
Ma la tassa ha difetti non ancora risolti: come pensare che l’Unione possa avviare con propri soldi investimenti congiunti, se il gettito non andrà nella cassa comune? Il 29 marzo, sulla Zeit, il ministro delle finanze austriaco si felicitò in anticipo per la tassa, i cui proventi erano già iscritti nel bilancio del 2014: nel bilancio austriaco, non europeo.
Passi avanti sono stati fatti, assicurano i governi, ma l’essenziale manca: ancora non si possono emettere eurobond, e Berlino esita sul progetto – concepito in novembre dal Consiglio tedesco degli esperti economici – di una redenzione parziale dei debiti. «Ci vuole un salto federale», si comincia a sussurrare, ma anche queste parole rischiano di tramutarsi in nomi nudi, apparenti: come crescita, pace. Perfino cultura della stabilità diventa nome nudo, senz’alcun rapporto con l’idea che ci facciamo di una vita stabile. La sostanza che resta è il dogma tedesco della casa in ordine.
E resta il nuovo potere di controllo sui bilanci nazionali, conferito alla Commissione di Bruxelles. Ma un potere strano, di tecnici che censurano e castigano. Non un potere che edifica politiche, dispone di proprie risorse, è controbilanciato democraticamente. Non dimentichiamolo: le spese federali in America coprono il 24 per cento circa del prodotto nazionale. Quelle dell’Unione l’1,2. Quanto alla tassa sulle emissioni di biossido di carbonio (carbon tax), nessuno ne parla più.
Il fatto è che le misure non bastano perché il male non è tecnico: è politico. Ci siamo abituati a criminalizzare i mercati, a dire che l’Europa non deve dipendere dalla loro vista corta. Ma li ascoltiamo, i mercati? Sono imprevedibili, ma se diffidano dei nostri rimedi significa che c’è dell’altro nella loro domanda: «Siete proprio intenzionati a salvare l’Euro? La volete fare o no, l’unione politica che nominate sempre, restando fermi?». Se i mercati somigliano a una muta aizzata è perché fiutano un’Europa e una Germania che il potere non se lo vogliono prendere, che scelgono l’irrilevanza mondiale. Si calmeranno solo di fronte a un piano con precise scadenze (importa dare la data, anche se non immedia-ta): un piano che preveda un fisco europeo, un bilancio europeo credibile, un controllo del Parlamento europeo, una Banca centrale simile alla Federal reserve, un’unica politica estera. Hanno ragione a insistere. Anche perché stavolta, manca l’America postbellica che spinse alla federazione. Obama chiede misurette all’Europa, non un grande disegno unitario.
In una conferenza dei verdi tedeschi, domenica a Berlino, Monica Frassoni, Presidente del Verdi europei, ha detto parole giuste: «Quello di cui tutti (mercati compresi) abbiamo bisogno è che la parola
più Europa significhi qualcosa», non sia flatus vocis.
Deve esser chiaro in maniera lampante che Grecia, Italia, Portogallo, Spagna non potranno sanare i debiti con terapie che il debito addirittura l’accrescono. Urge un cambio di passo, dunque «una dichiarazione che dica: non si permetterà a nessuno Stato di fallire; la Bce interverrà comprando titoli delle nazioni indebitate se il Fondo salva- Stati non basta; l’Unione si darà un bilancio federale degno di questo nome, capace di avviare una crescita diversa, ecologicamente sostenibile ».
Il salto federale di cui c’è bisogno, pochi vogliono compierlo. Hollande dice che l’unione politica voluta da Berlino è accettabile solo se subito c’è solidarietà. La Merkel non esclude la solidarietà, ma prima chiede l’unione politica (anche se ieri ogni idea di scambio è svanita: «Finché vivrònon accetterò gli eurobond »). Qualcuno dunque bluffa. È come la scena del film Gioventù bruciata: due ragazzi guidano simultaneamente le loro auto verso un dirupo. Il primo che sterza sarà chiamato coniglio o pollo (per questo si parla di chicken game).
Se entrambi insistono nella corsa finiranno nella fossa. È tragico il gioco, perché riproduce il vecchio equilibrio di potenze nazionali che ha condotto il continente alla rovina. L’Unione europea era nata per abolire simili gare di morte.
“IL VIETNAM DELL’EUROPA” di BARBARA SPINELLI da La Repubblica del 27 giugno 2012
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- Iscritto il: 24/02/2012, 18:16
Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.
Come perdere o vincere gli Europei Presto una road map e riforme fort
: così si afferma l’Europa Così perdiamo gli Europei…e non mi riferisco al calcio, ma a quel senso di appartenenza ad un comune destino necessario per la costruzione e coesione di una Europa unita, socialmente, fiscalmente e finanziariamente. È umiliante vedere che i politici europei (che non è possibile definire Leaders perché fanno solo ciò che suggeriscono i sondaggi del proprio elettorato) mettono Tedeschi, Olandesi e Finlandesi contro Italiani, Spagnoli, Greci, Portoghesi ed Irlandesi. Se si desidera tenere insieme un paese occorre spingere su quanto ha di più prezioso: l’essere parte di una comunità. In questi tempi di crisi, da cittadina europea, avrei voluto vedere velocemente consolidate voci di spesa come quella militare, o di rappresentanza all’estero. Ha un qualche senso lasciare che ogni stato si paghi il suo esercito personale? Avrei voluto vedere l’accelerazione di una politica previdenziale e del mercato del lavoro comune, l’uniformarsi del sistema giudiziario. Oggi gli Europei, in quanto cittadini di un unico paese, esistono solo nella mente dei cittadini americani, cinesi e dei paesi sottosviluppati a cui viene chiesto di aiutare a salvare paesi ricchi. È difficile spiegare ad uno Statunitense quello che sta succedendo in Europa. È come se gli abitanti dell’Oregon si opponessero all’intervento della Federal Reserve al salvataggio dell’Aig, o all’acquisto di titoli di stato Usa perché non vogliono pagare per gli errori dei banchieri Californiani e New Yorkesi, o per gli eccessi immobiliari fatti in Nevada e Florida. Questo non significa che i responsabili di comportamenti sbagliati debbano passarla liscia, ma a cosa serve punire alcuni cittadini europei che, a causa di errori politici, si sono trovati in un inferno? Se gli Spagnoli e gli Irlandesi (forse presto anche gli Olandesi) sono stati travolti dal disastro immobiliare è anche e sopratutto a causa del fatto che le banche centrali mondiali (non solo quelle dei propri paesi) non hanno voluto frenare la bolla immobiliare, ma anzi l’hanno vista di buon occhio (vedi Stati Uniti), senza preoccuparsi dell’eccessivo indebitamento privato. È fastidioso ma necessario ricordare che fu la Germania nel 2003 a chiedere di non rispettare i parametri di Mastricht, senza pagare le sanzioni previste. Non si può ignorare il fatto che per entrare nell’euro molti paesi fecero ricorso a derivati per abbellire i propri conti. Pratica nota ma ignorata dagli altri perché era nel loro interesse allargare l’area euro. Inoltre: perché non fu creato un fondo europeo di garanzia ai depositi bancari? Per pigrizia e irresponsabilità politica. Questo per dire che è inutile e ingiusto demonizzare cittadini europei appartenenti a questo o quel paese. Oggi fa bene la Merkel a richiedere a tutti gli Europei una maggiore serietà, ma espliciti in proposte concrete le condizioni alle quali è disposta a spiegare ai propri concittadini che nella storia a volte si prende e a volte si da. Fare solo austerity forse non è la soluzione, bisogna diventare più efficienti. Tagliare spese poco produttive e favorire quelle che creano sviluppo. In quest’ottica non ha senso che un paese dell’eurozona debba pagare tassi di interesse tripli o quadrupli rispetto a quelli dei paesi più virtuosi, perché li punisci senza aiutarli a cambiare. Se la Bce comprasse titoli di stato, come la Federal Reserve fa per gli Usa, lo spread si ridurrebbe, e risparmiare 4 punti di interesse è la differenza che passa fra la recessione e la crescita. Nell’attuale contesto economico mondiale non si rischierebbero certo spinte inflazionistiche. Il rischio, dice la Merkel, è quello “morale”, ovvero, così facendo, gli stati membri non sono incentivati a cambiare le condizioni che li hanno portati a perdere la fiducia dei mercati, e quindi le concessioni finanziarie e di solidarietà devono essere accompagnate da concessioni di sovranità. Benissimo. Allora cari politici europei che sedete attorno al tavolo del summit comportatevi da leaders, e sbrigatevi a delineare date e riforme forti e concrete (la chiamate roadmap), da implementare entro i prossimi mesi, non anni. I cittadini europei, e quelli del resto del mondo, non capiscono più le ragioni di lungaggini burocratiche che ci separano da una soluzione dei problemi. Se non avete la forza di fare questo, ora, avrete decretato la fine dell’euro e degli Europei. Le strade del continente si stanno riempiendo di persone che hanno cominciato a preparare la loro di roadmap, quella che porta fuori dall’euro e dentro ai nazionalismi di sempre. Milena Gabanelli 29 giugno 2012 | 12:11© RIPRODUZIONE RISERVATA]
Come perdere o vincere gli Europei
Presto una road map e riforme forti: così si afferma l'Europa
Così perdiamo gli Europei…e non mi riferisco al calcio, ma a quel senso di appartenenza ad un comune destino necessario per la costruzione e coesione di una Europa unita, socialmente, fiscalmente e finanziariamente.
È umiliante vedere che i politici europei (che non è possibile definire Leaders perché fanno solo ciò che suggeriscono i sondaggi del proprio elettorato) mettono Tedeschi, Olandesi e Finlandesi contro Italiani, Spagnoli, Greci, Portoghesi ed Irlandesi. Se si desidera tenere insieme un paese occorre spingere su quanto ha di più prezioso: l’essere parte di una comunità.
In questi tempi di crisi, da cittadina europea, avrei voluto vedere velocemente consolidate voci di spesa come quella militare, o di rappresentanza all’estero. Ha un qualche senso lasciare che ogni stato si paghi il suo esercito personale? Avrei voluto vedere l’accelerazione di una politica previdenziale e del mercato del lavoro comune, l’uniformarsi del sistema giudiziario.
Oggi gli Europei, in quanto cittadini di un unico paese, esistono solo nella mente dei cittadini americani, cinesi e dei paesi sottosviluppati a cui viene chiesto di aiutare a salvare paesi ricchi.
È difficile spiegare ad uno Statunitense quello che sta succedendo in Europa. È come se gli abitanti dell’Oregon si opponessero all’intervento della Federal Reserve al salvataggio dell’Aig, o all’acquisto di titoli di stato Usa perché non vogliono pagare per gli errori dei banchieri Californiani e New Yorkesi, o per gli eccessi immobiliari fatti in Nevada e Florida.
Questo non significa che i responsabili di comportamenti sbagliati debbano passarla liscia, ma a cosa serve punire alcuni cittadini europei che, a causa di errori politici, si sono trovati in un inferno? Se gli Spagnoli e gli Irlandesi (forse presto anche gli Olandesi) sono stati travolti dal disastro immobiliare è anche e sopratutto a causa del fatto che le banche centrali mondiali (non solo quelle dei propri paesi) non hanno voluto frenare la bolla immobiliare, ma anzi l’hanno vista di buon occhio (vedi Stati Uniti), senza preoccuparsi dell’eccessivo indebitamento privato.
È fastidioso ma necessario ricordare che fu la Germania nel 2003 a chiedere di non rispettare i parametri di Mastricht, senza pagare le sanzioni previste. Non si può ignorare il fatto che per entrare nell’euro molti paesi fecero ricorso a derivati per abbellire i propri conti. Pratica nota ma ignorata dagli altri perché era nel loro interesse allargare l’area euro. Inoltre: perché non fu creato un fondo europeo di garanzia ai depositi bancari? Per pigrizia e irresponsabilità politica. Questo per dire che è inutile e ingiusto demonizzare cittadini europei appartenenti a questo o quel paese.
Oggi fa bene la Merkel a richiedere a tutti gli Europei una maggiore serietà, ma espliciti in proposte concrete le condizioni alle quali è disposta a spiegare ai propri concittadini che nella storia a volte si prende e a volte si da.
Fare solo austerity forse non è la soluzione, bisogna diventare più efficienti. Tagliare spese poco produttive e favorire quelle che creano sviluppo. In quest’ottica non ha senso che un paese dell’eurozona debba pagare tassi di interesse tripli o quadrupli rispetto a quelli dei paesi più virtuosi, perché li punisci senza aiutarli a cambiare.
Se la Bce comprasse titoli di stato, come la Federal Reserve fa per gli Usa, lo spread si ridurrebbe, e risparmiare 4 punti di interesse è la differenza che passa fra la recessione e la crescita. Nell’attuale contesto economico mondiale non si rischierebbero certo spinte inflazionistiche. Il rischio, dice la Merkel, è quello “morale”, ovvero, così facendo, gli stati membri non sono incentivati a cambiare le condizioni che li hanno portati a perdere la fiducia dei mercati, e quindi le concessioni finanziarie e di solidarietà devono essere accompagnate da concessioni di sovranità.
Benissimo. Allora cari politici europei che sedete attorno al tavolo del summit comportatevi da leaders, e sbrigatevi a delineare date e riforme forti e concrete (la chiamate roadmap), da implementare entro i prossimi mesi, non anni. I cittadini europei, e quelli del resto del mondo, non capiscono più le ragioni di lungaggini burocratiche che ci separano da una soluzione dei problemi.
Se non avete la forza di fare questo, ora, avrete decretato la fine dell’euro e degli Europei.
Le strade del continente si stanno riempiendo di persone che hanno cominciato a preparare la loro di roadmap, quella che porta fuori dall’euro e dentro ai nazionalismi di sempre.
Milena Gabanelli
29 giugno 2012 | 12:11
: così si afferma l’Europa Così perdiamo gli Europei…e non mi riferisco al calcio, ma a quel senso di appartenenza ad un comune destino necessario per la costruzione e coesione di una Europa unita, socialmente, fiscalmente e finanziariamente. È umiliante vedere che i politici europei (che non è possibile definire Leaders perché fanno solo ciò che suggeriscono i sondaggi del proprio elettorato) mettono Tedeschi, Olandesi e Finlandesi contro Italiani, Spagnoli, Greci, Portoghesi ed Irlandesi. Se si desidera tenere insieme un paese occorre spingere su quanto ha di più prezioso: l’essere parte di una comunità. In questi tempi di crisi, da cittadina europea, avrei voluto vedere velocemente consolidate voci di spesa come quella militare, o di rappresentanza all’estero. Ha un qualche senso lasciare che ogni stato si paghi il suo esercito personale? Avrei voluto vedere l’accelerazione di una politica previdenziale e del mercato del lavoro comune, l’uniformarsi del sistema giudiziario. Oggi gli Europei, in quanto cittadini di un unico paese, esistono solo nella mente dei cittadini americani, cinesi e dei paesi sottosviluppati a cui viene chiesto di aiutare a salvare paesi ricchi. È difficile spiegare ad uno Statunitense quello che sta succedendo in Europa. È come se gli abitanti dell’Oregon si opponessero all’intervento della Federal Reserve al salvataggio dell’Aig, o all’acquisto di titoli di stato Usa perché non vogliono pagare per gli errori dei banchieri Californiani e New Yorkesi, o per gli eccessi immobiliari fatti in Nevada e Florida. Questo non significa che i responsabili di comportamenti sbagliati debbano passarla liscia, ma a cosa serve punire alcuni cittadini europei che, a causa di errori politici, si sono trovati in un inferno? Se gli Spagnoli e gli Irlandesi (forse presto anche gli Olandesi) sono stati travolti dal disastro immobiliare è anche e sopratutto a causa del fatto che le banche centrali mondiali (non solo quelle dei propri paesi) non hanno voluto frenare la bolla immobiliare, ma anzi l’hanno vista di buon occhio (vedi Stati Uniti), senza preoccuparsi dell’eccessivo indebitamento privato. È fastidioso ma necessario ricordare che fu la Germania nel 2003 a chiedere di non rispettare i parametri di Mastricht, senza pagare le sanzioni previste. Non si può ignorare il fatto che per entrare nell’euro molti paesi fecero ricorso a derivati per abbellire i propri conti. Pratica nota ma ignorata dagli altri perché era nel loro interesse allargare l’area euro. Inoltre: perché non fu creato un fondo europeo di garanzia ai depositi bancari? Per pigrizia e irresponsabilità politica. Questo per dire che è inutile e ingiusto demonizzare cittadini europei appartenenti a questo o quel paese. Oggi fa bene la Merkel a richiedere a tutti gli Europei una maggiore serietà, ma espliciti in proposte concrete le condizioni alle quali è disposta a spiegare ai propri concittadini che nella storia a volte si prende e a volte si da. Fare solo austerity forse non è la soluzione, bisogna diventare più efficienti. Tagliare spese poco produttive e favorire quelle che creano sviluppo. In quest’ottica non ha senso che un paese dell’eurozona debba pagare tassi di interesse tripli o quadrupli rispetto a quelli dei paesi più virtuosi, perché li punisci senza aiutarli a cambiare. Se la Bce comprasse titoli di stato, come la Federal Reserve fa per gli Usa, lo spread si ridurrebbe, e risparmiare 4 punti di interesse è la differenza che passa fra la recessione e la crescita. Nell’attuale contesto economico mondiale non si rischierebbero certo spinte inflazionistiche. Il rischio, dice la Merkel, è quello “morale”, ovvero, così facendo, gli stati membri non sono incentivati a cambiare le condizioni che li hanno portati a perdere la fiducia dei mercati, e quindi le concessioni finanziarie e di solidarietà devono essere accompagnate da concessioni di sovranità. Benissimo. Allora cari politici europei che sedete attorno al tavolo del summit comportatevi da leaders, e sbrigatevi a delineare date e riforme forti e concrete (la chiamate roadmap), da implementare entro i prossimi mesi, non anni. I cittadini europei, e quelli del resto del mondo, non capiscono più le ragioni di lungaggini burocratiche che ci separano da una soluzione dei problemi. Se non avete la forza di fare questo, ora, avrete decretato la fine dell’euro e degli Europei. Le strade del continente si stanno riempiendo di persone che hanno cominciato a preparare la loro di roadmap, quella che porta fuori dall’euro e dentro ai nazionalismi di sempre. Milena Gabanelli 29 giugno 2012 | 12:11© RIPRODUZIONE RISERVATA]
Come perdere o vincere gli Europei
Presto una road map e riforme forti: così si afferma l'Europa
Così perdiamo gli Europei…e non mi riferisco al calcio, ma a quel senso di appartenenza ad un comune destino necessario per la costruzione e coesione di una Europa unita, socialmente, fiscalmente e finanziariamente.
È umiliante vedere che i politici europei (che non è possibile definire Leaders perché fanno solo ciò che suggeriscono i sondaggi del proprio elettorato) mettono Tedeschi, Olandesi e Finlandesi contro Italiani, Spagnoli, Greci, Portoghesi ed Irlandesi. Se si desidera tenere insieme un paese occorre spingere su quanto ha di più prezioso: l’essere parte di una comunità.
In questi tempi di crisi, da cittadina europea, avrei voluto vedere velocemente consolidate voci di spesa come quella militare, o di rappresentanza all’estero. Ha un qualche senso lasciare che ogni stato si paghi il suo esercito personale? Avrei voluto vedere l’accelerazione di una politica previdenziale e del mercato del lavoro comune, l’uniformarsi del sistema giudiziario.
Oggi gli Europei, in quanto cittadini di un unico paese, esistono solo nella mente dei cittadini americani, cinesi e dei paesi sottosviluppati a cui viene chiesto di aiutare a salvare paesi ricchi.
È difficile spiegare ad uno Statunitense quello che sta succedendo in Europa. È come se gli abitanti dell’Oregon si opponessero all’intervento della Federal Reserve al salvataggio dell’Aig, o all’acquisto di titoli di stato Usa perché non vogliono pagare per gli errori dei banchieri Californiani e New Yorkesi, o per gli eccessi immobiliari fatti in Nevada e Florida.
Questo non significa che i responsabili di comportamenti sbagliati debbano passarla liscia, ma a cosa serve punire alcuni cittadini europei che, a causa di errori politici, si sono trovati in un inferno? Se gli Spagnoli e gli Irlandesi (forse presto anche gli Olandesi) sono stati travolti dal disastro immobiliare è anche e sopratutto a causa del fatto che le banche centrali mondiali (non solo quelle dei propri paesi) non hanno voluto frenare la bolla immobiliare, ma anzi l’hanno vista di buon occhio (vedi Stati Uniti), senza preoccuparsi dell’eccessivo indebitamento privato.
È fastidioso ma necessario ricordare che fu la Germania nel 2003 a chiedere di non rispettare i parametri di Mastricht, senza pagare le sanzioni previste. Non si può ignorare il fatto che per entrare nell’euro molti paesi fecero ricorso a derivati per abbellire i propri conti. Pratica nota ma ignorata dagli altri perché era nel loro interesse allargare l’area euro. Inoltre: perché non fu creato un fondo europeo di garanzia ai depositi bancari? Per pigrizia e irresponsabilità politica. Questo per dire che è inutile e ingiusto demonizzare cittadini europei appartenenti a questo o quel paese.
Oggi fa bene la Merkel a richiedere a tutti gli Europei una maggiore serietà, ma espliciti in proposte concrete le condizioni alle quali è disposta a spiegare ai propri concittadini che nella storia a volte si prende e a volte si da.
Fare solo austerity forse non è la soluzione, bisogna diventare più efficienti. Tagliare spese poco produttive e favorire quelle che creano sviluppo. In quest’ottica non ha senso che un paese dell’eurozona debba pagare tassi di interesse tripli o quadrupli rispetto a quelli dei paesi più virtuosi, perché li punisci senza aiutarli a cambiare.
Se la Bce comprasse titoli di stato, come la Federal Reserve fa per gli Usa, lo spread si ridurrebbe, e risparmiare 4 punti di interesse è la differenza che passa fra la recessione e la crescita. Nell’attuale contesto economico mondiale non si rischierebbero certo spinte inflazionistiche. Il rischio, dice la Merkel, è quello “morale”, ovvero, così facendo, gli stati membri non sono incentivati a cambiare le condizioni che li hanno portati a perdere la fiducia dei mercati, e quindi le concessioni finanziarie e di solidarietà devono essere accompagnate da concessioni di sovranità.
Benissimo. Allora cari politici europei che sedete attorno al tavolo del summit comportatevi da leaders, e sbrigatevi a delineare date e riforme forti e concrete (la chiamate roadmap), da implementare entro i prossimi mesi, non anni. I cittadini europei, e quelli del resto del mondo, non capiscono più le ragioni di lungaggini burocratiche che ci separano da una soluzione dei problemi.
Se non avete la forza di fare questo, ora, avrete decretato la fine dell’euro e degli Europei.
Le strade del continente si stanno riempiendo di persone che hanno cominciato a preparare la loro di roadmap, quella che porta fuori dall’euro e dentro ai nazionalismi di sempre.
Milena Gabanelli
29 giugno 2012 | 12:11
Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.
L'ANALISI
Noi, appesi come foglie d'autunno
di BARBARA SPINELLI
NESSUNO di noi sa quel che voglia in concreto il governo tedesco: se vuol salvare l'euro sta sbagliando tutto. Se gioca allo sfascio ci sta mettendo troppo tempo. Nessuno sa come intenda procedere la Banca centrale europea. Draghi ha detto a Le Monde che l'euro è irreversibile, che la Bce "è molto aperta e non ha tabù". Ha detto perfino che "non siamo in recessione". Ma venerdì scorso ha deciso che non accetterà più titoli di stato greci in garanzia, dando il via alle danze macabre attorno a Atene e votandola all'espulsione.
Decisione singolare, perché qualche giorno prima Jörg Asmussen, socialdemocratico tedesco del direttorio Bce, aveva detto alla rivista Stern che bisogna "aver rispetto per gli sforzi greci". Una contrazione di 5 punti di pil sarebbe tremenda per chiunque, Germania compresa: "Dovremmo almeno dire a Atene: ben fatto, buon inizio". La maggioranza nella Bce non sembra d'accordo: smentendo che siamo in recessione, si allinea non tanto alla Merkel ma all'ala più dura del suo governo. Nessuno sa infine a che siano serviti 19 vertici di capi di Stato o di governo. Dicono che gli Europei stanno correndo contro il tempo. Ben più tragicamente l'ignorano, vivono nella denegazione del tempo, dei fatti. Se tutte queste cose non le sappiano noi, figuriamoci i mercati: il caos che producono è il riflesso molto fedele del caos che regna nelle teste, negli atti, nelle parole dei capi che pretendono governare l'Unione.
Il tempo imbalsamato, mentre la storia precipita. La nefasta lentezza con cui si muovono politici e Bce: nei libri di storia, se finisse l'euro, si parlerà di strana disfatta dovuta a questo tempo che s'insabbia: strana perché il tracollo, essendo politico più che economico, poteva essere evitato. La Grecia esce, non esce? Lo sapremo a settembre, quando parlerà la trojka (Commissione, Bce, Fmi). Il Fondo salva-Stati nascerà, anche se con pochi soldi? Da settimane, l'intero Sudeuropa sta appeso alla decisione che la Corte Costituzionale tedesca prenderà, il 12 settembre, su Fondo e Patto di bilancio (Fiscal Compact). I due accordi sono compatibili con la costituzione tedesca, e in particolare con il principio di democrazia che nell'articolo 20 fa discendere il potere dello Stato dalla sovranità del popolo e del Parlamento? Fino ad allora resteremo appesi, come d'autunno le foglie sugli alberi. La foglia greca già è semi-staccata, ma la morte va inflitta a fuoco lento. Alcuni dicono che l'espulsione serve a sfamare il sotterraneo bisogno tedesco di punire, più che di aggiustare. Di sfasciare e comandare, più che di ricostruire e guidare. Anche per questo, incerti più che mai sulla voglia europea d'esistere, i mercati impazziscono.
Non sono dilemmi secondari, quelli trattati a Karlsruhe: sono in gioco la sovranità del popolo, il suo diritto inalienabile a influire sui bilanci nazionali. Da anni la Corte tedesca se ne occupa, e certo gli occhiali che inforca sono nazionali: non conta nulla la sovranità del popolo europeo, rappresentato con flebile forza dal Parlamento europeo ma pur sempre rappresentato. Tuttavia è troppo facile tacciare lei, e i tedeschi, di nazionalismo. Il fatto è che da quasi vent'anni la Corte s'accanisce su materie essenziali per noi tutti. Che sovranità possiedono esattamente gli Stati, e com'è esautorata dall'Unione? Il Parlamento europeo ha la forza e le prerogative per incarnare un interesse generale europeo, una sovranità parallela cogente come quelle nazionali?
L'unica certezza, nell'odierno turbine monetario, è che gli Stati sono ormai un ibrido: non più sovrani, non sono ancora federali. Di questo si parla a Karlsruhe: non solo di democrazia tedesca, ma del profilo giuridico, costituzionale, politico che dovrà darsi l'Unione: sempre che la si voglia salvare. Che si voglia dire ai popoli il mondo caotico che abitano e come evolverà.
La cosa grave è che la Corte discute, sentenzia, in totale isolamento. Nessun'altra Corte, o partito, o governo, ragiona in Europa su tali problemi. Ci si lamenta del peso abnorme dei giudici tedeschi, ma su Unione e sovranità democratica non circolano idee alternative, né tantomeno comuni. Neppure il Parlamento europeo è scosso da accordi (Fiscal Compact, Meccanismo di stabilità ovvero Esm) che di fatto estromettono i deputati di Strasburgo, non essendo Trattati comunitari ma inter-nazionali. L'Unione già si trasforma, influenzando sempre più le vite dei cittadini, ma fino a quando non saranno sciolti i due nodi vitali - quello della democrazia, quello di una Bce che non può intervenire come la Banca centrale americana o giapponese, perché nessuno vuole affiancarle un governo federale - la sua sovranità sarà considerata illegittima, non credibile, sia dai cittadini sia dai mercati. L'indipendenza della Bce è importante, ma a che serve se l'Unione - a differenza dell'America, del Giappone, dell'Inghilterra - non ha il dominio della propria moneta? Uno scettro è stato tolto agli Stati, e giace per terra nella polvere.
Solo in Germania è forte, in alcuni dirigenti, l'esigenza di codificare le presenti mutazioni: lo impone il principio di non contraddizione (è impossibile che due proposizioni divergenti abbiano lo stesso significato). Per questo la Corte costituzionale sta lì e si rompe il cervello. Il ministro Schäuble, monotonamente chiamato il falco, lo ha detto in piena crisi dell'euro, il 18 novembre a Francoforte: "Dall'8 maggio 1945 la Germania non è mai stata sovrana (...) Da almeno un secolo la sovranità è finita ovunque in Europa". Di qui la necessità di una sovranità federale superiore: prospettiva invocata in Germania da molti, gradita da pochissimi. Non a caso Schäuble evita la parola sovranità: usa l'indecifrabile termine governance. Ecco un altro concetto senza peso costituzionale. Se è governance, non è vero governo federale. Anche ai vocabolari siamo appesi.
Neppure Schäuble tuttavia ha il senso del tempo, così come non lo ha Hollande sullo Stato-nazione. Quel che né Parigi né Berlino vedono, è che il problema della sovranità politica e democratica europea non va risolto in un secondo momento, superata la crisi. Essendo all'origine della crisi, è ora che va risolto. L'interrogativo di fondo (che sovranità spetti all'Unione, come ricucire Nord, Est e Sud) va posto in mezzo al tifone degli spread, prima di espellere un paese del Sud dopo l'altro. Altrimenti non staremmo ad aspettare il verdetto di una Corte costituzionale che mette al centro non i deficit pubblici, ma sovranità e democrazia.
Naturalmente l'Europa federale non si farà subito. Ma si può fissare una scadenza, come avvenne con l'euro. Il Parlamento può farsi assemblea costituente, come già negli anni '80. La Bce può riflettere sull'impotenza cui oggi è condannata. I mercati devono capire, finalmente, se l'Unione vogliamo farla o disfarla pezzo dopo pezzo. Cominciando col cacciare la Grecia non avremo un'Unione tedesca. Avremo una non-Unione. Intanto l'unità del continente torna a essere quella degli esordi: una questione di pace o guerra civile, di odii - anche razziali - che crescono per forza di inerzie mostruose.
Proprio perché è l'unico paese a pensare costituzionalmente, la Germania ha primarie responsabilità. Non può insistere sull'unione politica, e poi imporre il dogma nazional-liberale della "casa in ordine". Un dogma che sta facendo proseliti: "Abbiamo fatto i nostri compiti: come mai i mercati ci colpiscono lo stesso?". Ci colpiscono perché il compito casalingo non è tutto. Ha detto il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco: "200 punti di spread sono colpa nostra, il resto è dovuto ai problemi comuni dell'euro". È l'Unione che non fa propri compiti. Quando li farà, quando avrà una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, casa in ordine significherà qualcos'altro. Non diminuiranno gli obblighi di ognuno, ma la casa sarà europea e il suo volto muterà.
(25 luglio 2012)
http://www.repubblica.it/politica/2012/ ... ref=HREA-1
Noi, appesi come foglie d'autunno
di BARBARA SPINELLI
NESSUNO di noi sa quel che voglia in concreto il governo tedesco: se vuol salvare l'euro sta sbagliando tutto. Se gioca allo sfascio ci sta mettendo troppo tempo. Nessuno sa come intenda procedere la Banca centrale europea. Draghi ha detto a Le Monde che l'euro è irreversibile, che la Bce "è molto aperta e non ha tabù". Ha detto perfino che "non siamo in recessione". Ma venerdì scorso ha deciso che non accetterà più titoli di stato greci in garanzia, dando il via alle danze macabre attorno a Atene e votandola all'espulsione.
Decisione singolare, perché qualche giorno prima Jörg Asmussen, socialdemocratico tedesco del direttorio Bce, aveva detto alla rivista Stern che bisogna "aver rispetto per gli sforzi greci". Una contrazione di 5 punti di pil sarebbe tremenda per chiunque, Germania compresa: "Dovremmo almeno dire a Atene: ben fatto, buon inizio". La maggioranza nella Bce non sembra d'accordo: smentendo che siamo in recessione, si allinea non tanto alla Merkel ma all'ala più dura del suo governo. Nessuno sa infine a che siano serviti 19 vertici di capi di Stato o di governo. Dicono che gli Europei stanno correndo contro il tempo. Ben più tragicamente l'ignorano, vivono nella denegazione del tempo, dei fatti. Se tutte queste cose non le sappiano noi, figuriamoci i mercati: il caos che producono è il riflesso molto fedele del caos che regna nelle teste, negli atti, nelle parole dei capi che pretendono governare l'Unione.
Il tempo imbalsamato, mentre la storia precipita. La nefasta lentezza con cui si muovono politici e Bce: nei libri di storia, se finisse l'euro, si parlerà di strana disfatta dovuta a questo tempo che s'insabbia: strana perché il tracollo, essendo politico più che economico, poteva essere evitato. La Grecia esce, non esce? Lo sapremo a settembre, quando parlerà la trojka (Commissione, Bce, Fmi). Il Fondo salva-Stati nascerà, anche se con pochi soldi? Da settimane, l'intero Sudeuropa sta appeso alla decisione che la Corte Costituzionale tedesca prenderà, il 12 settembre, su Fondo e Patto di bilancio (Fiscal Compact). I due accordi sono compatibili con la costituzione tedesca, e in particolare con il principio di democrazia che nell'articolo 20 fa discendere il potere dello Stato dalla sovranità del popolo e del Parlamento? Fino ad allora resteremo appesi, come d'autunno le foglie sugli alberi. La foglia greca già è semi-staccata, ma la morte va inflitta a fuoco lento. Alcuni dicono che l'espulsione serve a sfamare il sotterraneo bisogno tedesco di punire, più che di aggiustare. Di sfasciare e comandare, più che di ricostruire e guidare. Anche per questo, incerti più che mai sulla voglia europea d'esistere, i mercati impazziscono.
Non sono dilemmi secondari, quelli trattati a Karlsruhe: sono in gioco la sovranità del popolo, il suo diritto inalienabile a influire sui bilanci nazionali. Da anni la Corte tedesca se ne occupa, e certo gli occhiali che inforca sono nazionali: non conta nulla la sovranità del popolo europeo, rappresentato con flebile forza dal Parlamento europeo ma pur sempre rappresentato. Tuttavia è troppo facile tacciare lei, e i tedeschi, di nazionalismo. Il fatto è che da quasi vent'anni la Corte s'accanisce su materie essenziali per noi tutti. Che sovranità possiedono esattamente gli Stati, e com'è esautorata dall'Unione? Il Parlamento europeo ha la forza e le prerogative per incarnare un interesse generale europeo, una sovranità parallela cogente come quelle nazionali?
L'unica certezza, nell'odierno turbine monetario, è che gli Stati sono ormai un ibrido: non più sovrani, non sono ancora federali. Di questo si parla a Karlsruhe: non solo di democrazia tedesca, ma del profilo giuridico, costituzionale, politico che dovrà darsi l'Unione: sempre che la si voglia salvare. Che si voglia dire ai popoli il mondo caotico che abitano e come evolverà.
La cosa grave è che la Corte discute, sentenzia, in totale isolamento. Nessun'altra Corte, o partito, o governo, ragiona in Europa su tali problemi. Ci si lamenta del peso abnorme dei giudici tedeschi, ma su Unione e sovranità democratica non circolano idee alternative, né tantomeno comuni. Neppure il Parlamento europeo è scosso da accordi (Fiscal Compact, Meccanismo di stabilità ovvero Esm) che di fatto estromettono i deputati di Strasburgo, non essendo Trattati comunitari ma inter-nazionali. L'Unione già si trasforma, influenzando sempre più le vite dei cittadini, ma fino a quando non saranno sciolti i due nodi vitali - quello della democrazia, quello di una Bce che non può intervenire come la Banca centrale americana o giapponese, perché nessuno vuole affiancarle un governo federale - la sua sovranità sarà considerata illegittima, non credibile, sia dai cittadini sia dai mercati. L'indipendenza della Bce è importante, ma a che serve se l'Unione - a differenza dell'America, del Giappone, dell'Inghilterra - non ha il dominio della propria moneta? Uno scettro è stato tolto agli Stati, e giace per terra nella polvere.
Solo in Germania è forte, in alcuni dirigenti, l'esigenza di codificare le presenti mutazioni: lo impone il principio di non contraddizione (è impossibile che due proposizioni divergenti abbiano lo stesso significato). Per questo la Corte costituzionale sta lì e si rompe il cervello. Il ministro Schäuble, monotonamente chiamato il falco, lo ha detto in piena crisi dell'euro, il 18 novembre a Francoforte: "Dall'8 maggio 1945 la Germania non è mai stata sovrana (...) Da almeno un secolo la sovranità è finita ovunque in Europa". Di qui la necessità di una sovranità federale superiore: prospettiva invocata in Germania da molti, gradita da pochissimi. Non a caso Schäuble evita la parola sovranità: usa l'indecifrabile termine governance. Ecco un altro concetto senza peso costituzionale. Se è governance, non è vero governo federale. Anche ai vocabolari siamo appesi.
Neppure Schäuble tuttavia ha il senso del tempo, così come non lo ha Hollande sullo Stato-nazione. Quel che né Parigi né Berlino vedono, è che il problema della sovranità politica e democratica europea non va risolto in un secondo momento, superata la crisi. Essendo all'origine della crisi, è ora che va risolto. L'interrogativo di fondo (che sovranità spetti all'Unione, come ricucire Nord, Est e Sud) va posto in mezzo al tifone degli spread, prima di espellere un paese del Sud dopo l'altro. Altrimenti non staremmo ad aspettare il verdetto di una Corte costituzionale che mette al centro non i deficit pubblici, ma sovranità e democrazia.
Naturalmente l'Europa federale non si farà subito. Ma si può fissare una scadenza, come avvenne con l'euro. Il Parlamento può farsi assemblea costituente, come già negli anni '80. La Bce può riflettere sull'impotenza cui oggi è condannata. I mercati devono capire, finalmente, se l'Unione vogliamo farla o disfarla pezzo dopo pezzo. Cominciando col cacciare la Grecia non avremo un'Unione tedesca. Avremo una non-Unione. Intanto l'unità del continente torna a essere quella degli esordi: una questione di pace o guerra civile, di odii - anche razziali - che crescono per forza di inerzie mostruose.
Proprio perché è l'unico paese a pensare costituzionalmente, la Germania ha primarie responsabilità. Non può insistere sull'unione politica, e poi imporre il dogma nazional-liberale della "casa in ordine". Un dogma che sta facendo proseliti: "Abbiamo fatto i nostri compiti: come mai i mercati ci colpiscono lo stesso?". Ci colpiscono perché il compito casalingo non è tutto. Ha detto il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco: "200 punti di spread sono colpa nostra, il resto è dovuto ai problemi comuni dell'euro". È l'Unione che non fa propri compiti. Quando li farà, quando avrà una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, casa in ordine significherà qualcos'altro. Non diminuiranno gli obblighi di ognuno, ma la casa sarà europea e il suo volto muterà.
(25 luglio 2012)
http://www.repubblica.it/politica/2012/ ... ref=HREA-1
Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.
Due banche centrali a confronto
di PierGiorgio Gawronski | 14 settembre 2012
Ieri la Federal Reserve ha annunciato un nuovo programma di rilancio dell’economia. L’obiettivo è ridurre la disoccupazione, che è all’8% ed è “una grave preoccupazione”. Non solo perché il livello è “abnorme”, ma anche perché “da sei mesi ha smesso di scendere”. Dice Bernanke: “L’alto livello della disoccupazione dovrebbe preoccupare ogni cittadino americano. Non solo crea enormi sofferenze e difficoltà, ma causa anche un enorme spreco di capacità e talenti”, e una “progressiva distruzione di queste capacità, a danno non solo dei disoccupati e delle loro famiglie, ma anche del benessere di tutta la nazione”.
Per raggiungere il suo scopo la Fed cerca di accelerare la crescita stimolando la domanda (= la spesa totale nell’economia). Tramite due target intermedi. In primo luogo, (oltre a tenere i tassi di policy a zero) cerca di comprimere una serie di tassi d’interesse a lungo termine (mutui, ecc.) in diversi settori, già molto bassi. A tal fine lo strumento utilizzato è l’aumento della liquidità. In secondo luogo, la FED indirizza le aspettative sulla crescita futura. Lo strumento che utilizza – “il più potente” – è la ‘comunicazione’. Bernanke ha annunciato che la ‘spinta’ della FED continuerà “almeno fino a metà del 2015”, e comunque “per molto tempo dopo che l’economia avrà ricominciato ad accelerare”. Così le imprese possono avere fiducia: sanno che se investono oggi troveranno nuovi clienti domani.
Bernanke ha spiegato che gli acquisti di titoli pubblici non sono affatto una monetizzazione del debito: “Noi non finanziamo spesa pubblica: acquistiamo attività finanziarie che rivenderemo al momento giusto… La nostra azione non aumenterà, bensì ridurrà il deficit pubblico”, grazie ai profitti della Fed e alla ripresa economica. Quanto all’inflazione, un giornalista tedesco ha chiesto se non ci sono rischi. Ma Bernanke ha spiegato che quando (a) c’è disoccupazione e (b) le aspettative di inflazione sono basse, i rischi non ci sono.
La BCE deve fronteggiare una situazione assai più grave. La disoccupazione in Europa è all’11%, e continua a salire. Al punto che la stabilità della stessa moneta è in dubbio. Eppure la BCE si disinteressa totalmente della disoccupazione, della crescita, della domanda. Tiene alti i tassi di policy. Ha varato un tardivo piano anti-spread, ma sterilizzerà eventuali aumenti della liquidità. Con la ‘comunicazione’ mira anch’essa ad aumentare la fiducia sul futuro, ma solo relativamente all’inflazione: perciò le imprese Europee sanno che se oggi investono, domani i prezzi dei loro prodotti saranno bassi, ammesso che trovino clienti.
Il 6 Settembre scorso la BCE ha fatto un passo avanti importante, accettando (tardivamente) il ruolo di prestatore di ultima istanza (negli USA è talmente ovvio che nemmeno si discute). Ma è rimasta in mezzo al guado: la finanza, senza l’economia, ignora la forza della gravità: a nostro rischio e pericolo!
La depressione della domanda rende inutilizzata tanta capacità produttiva: impossibile per i governi rispettare gli obiettivi di deficit. Perciò l’idea che ‘se un paese non rispetta gli accordi, la BCE rinuncerà a difenderlo sui mercati’ diventa pericolosa per la stessa stabilità finanziaria. Ma la BCE si muove in linea con il suo Statuto, sulla modifica del quale Draghi dice: “è già impegnativo stabilizzare i prezzi … non aggiungerei un secondo obiettivo”. Invece la Fed ha due obiettivi: stabilità dei prezzi e occupazione. E ieri Bernanke ha detto: “Abbiamo strumenti che riteniamo possano influenzare il livello dell’occupazione: pensiamo sia nostro dovere utilizzarli”.
All’origine di tutto c’è una ideologia. In Germania sono diventati tutti esperti di politica monetaria. Reagiscono istericamente alle manovre minimaliste della BCE, influenzando i politici e i rappresentanti tedeschi alla BCE: che non sono bravi economisti bensì funzionari del partito della Merkel. Molti lettori hanno difficoltà a capire cosa sia il liberismo in macroeconomia, e perché è importante. Hanno la sensazione di trovarsi di fronte a un linguaggio ideologico. Invece, sto parlando dell’origine dei nostri mali, e dei blocchi sulla via d’uscita. Il laissez faire nei confronti della disoccupazione (della domanda) è l’idea centrale del liberismo in macroeconomia. È l’idea di Monti, e della BCE. È un’idea sbagliata secondo Bernanke. Che non è particolarmente keynesiano o di sinistra: tanto è vero che è stato nominato da George W. Bush.
Ecco perché quel che succede da noi ha poco a che vedere con la democrazia: non occorre fare dietrologia. La gente non vuole disoccupazione. La FED ‘risponde’ ai bisogni della gente. La BCE, no; perché non è un problema dell’élite europea. E Monti può tranquillamente dirci: i miei provvedimenti? Certo che hanno aggravato la disoccupazione. Solo uno stolto poteva credere il contrario!
di PierGiorgio Gawronski | 14 settembre 2012
Ieri la Federal Reserve ha annunciato un nuovo programma di rilancio dell’economia. L’obiettivo è ridurre la disoccupazione, che è all’8% ed è “una grave preoccupazione”. Non solo perché il livello è “abnorme”, ma anche perché “da sei mesi ha smesso di scendere”. Dice Bernanke: “L’alto livello della disoccupazione dovrebbe preoccupare ogni cittadino americano. Non solo crea enormi sofferenze e difficoltà, ma causa anche un enorme spreco di capacità e talenti”, e una “progressiva distruzione di queste capacità, a danno non solo dei disoccupati e delle loro famiglie, ma anche del benessere di tutta la nazione”.
Per raggiungere il suo scopo la Fed cerca di accelerare la crescita stimolando la domanda (= la spesa totale nell’economia). Tramite due target intermedi. In primo luogo, (oltre a tenere i tassi di policy a zero) cerca di comprimere una serie di tassi d’interesse a lungo termine (mutui, ecc.) in diversi settori, già molto bassi. A tal fine lo strumento utilizzato è l’aumento della liquidità. In secondo luogo, la FED indirizza le aspettative sulla crescita futura. Lo strumento che utilizza – “il più potente” – è la ‘comunicazione’. Bernanke ha annunciato che la ‘spinta’ della FED continuerà “almeno fino a metà del 2015”, e comunque “per molto tempo dopo che l’economia avrà ricominciato ad accelerare”. Così le imprese possono avere fiducia: sanno che se investono oggi troveranno nuovi clienti domani.
Bernanke ha spiegato che gli acquisti di titoli pubblici non sono affatto una monetizzazione del debito: “Noi non finanziamo spesa pubblica: acquistiamo attività finanziarie che rivenderemo al momento giusto… La nostra azione non aumenterà, bensì ridurrà il deficit pubblico”, grazie ai profitti della Fed e alla ripresa economica. Quanto all’inflazione, un giornalista tedesco ha chiesto se non ci sono rischi. Ma Bernanke ha spiegato che quando (a) c’è disoccupazione e (b) le aspettative di inflazione sono basse, i rischi non ci sono.
La BCE deve fronteggiare una situazione assai più grave. La disoccupazione in Europa è all’11%, e continua a salire. Al punto che la stabilità della stessa moneta è in dubbio. Eppure la BCE si disinteressa totalmente della disoccupazione, della crescita, della domanda. Tiene alti i tassi di policy. Ha varato un tardivo piano anti-spread, ma sterilizzerà eventuali aumenti della liquidità. Con la ‘comunicazione’ mira anch’essa ad aumentare la fiducia sul futuro, ma solo relativamente all’inflazione: perciò le imprese Europee sanno che se oggi investono, domani i prezzi dei loro prodotti saranno bassi, ammesso che trovino clienti.
Il 6 Settembre scorso la BCE ha fatto un passo avanti importante, accettando (tardivamente) il ruolo di prestatore di ultima istanza (negli USA è talmente ovvio che nemmeno si discute). Ma è rimasta in mezzo al guado: la finanza, senza l’economia, ignora la forza della gravità: a nostro rischio e pericolo!
La depressione della domanda rende inutilizzata tanta capacità produttiva: impossibile per i governi rispettare gli obiettivi di deficit. Perciò l’idea che ‘se un paese non rispetta gli accordi, la BCE rinuncerà a difenderlo sui mercati’ diventa pericolosa per la stessa stabilità finanziaria. Ma la BCE si muove in linea con il suo Statuto, sulla modifica del quale Draghi dice: “è già impegnativo stabilizzare i prezzi … non aggiungerei un secondo obiettivo”. Invece la Fed ha due obiettivi: stabilità dei prezzi e occupazione. E ieri Bernanke ha detto: “Abbiamo strumenti che riteniamo possano influenzare il livello dell’occupazione: pensiamo sia nostro dovere utilizzarli”.
All’origine di tutto c’è una ideologia. In Germania sono diventati tutti esperti di politica monetaria. Reagiscono istericamente alle manovre minimaliste della BCE, influenzando i politici e i rappresentanti tedeschi alla BCE: che non sono bravi economisti bensì funzionari del partito della Merkel. Molti lettori hanno difficoltà a capire cosa sia il liberismo in macroeconomia, e perché è importante. Hanno la sensazione di trovarsi di fronte a un linguaggio ideologico. Invece, sto parlando dell’origine dei nostri mali, e dei blocchi sulla via d’uscita. Il laissez faire nei confronti della disoccupazione (della domanda) è l’idea centrale del liberismo in macroeconomia. È l’idea di Monti, e della BCE. È un’idea sbagliata secondo Bernanke. Che non è particolarmente keynesiano o di sinistra: tanto è vero che è stato nominato da George W. Bush.
Ecco perché quel che succede da noi ha poco a che vedere con la democrazia: non occorre fare dietrologia. La gente non vuole disoccupazione. La FED ‘risponde’ ai bisogni della gente. La BCE, no; perché non è un problema dell’élite europea. E Monti può tranquillamente dirci: i miei provvedimenti? Certo che hanno aggravato la disoccupazione. Solo uno stolto poteva credere il contrario!
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Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.
L'idea di Europa è stata tradita, purtroppo.
Non c'è unità politica e tantomeno economica, lo abbiamo visto.
Tanto vale almeno mettere fine alla moneta comune, tanto ormai è un'arma in mano alla speculazione e ai grandi interessi.
Non c'è unità politica e tantomeno economica, lo abbiamo visto.
Tanto vale almeno mettere fine alla moneta comune, tanto ormai è un'arma in mano alla speculazione e ai grandi interessi.
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
Robert Harris, "Archangel"
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Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.
Veramente nel discorso di Bernanke c'è una difesa dello schema Ponzi che ormai invade da decenni i mercati soprattutto quello yankee...
Per quanto riguarda l'Europa Van Rampouy sta cercando di convincere i singoli stati ad accettare un ministro dell'Economia europeo e quindi un'unica politica economica europea...
Per quanto riguarda l'Euro ripeto per l'ennesima volta che non si può tornare indietro perchè sarebbe ancora peggio di oggi e di molto... e senza prospettive di recupero (il mondo non è più quello degli anni '80/'90 e delle svalutazioni competitive...).
Per quanto riguarda l'Europa Van Rampouy sta cercando di convincere i singoli stati ad accettare un ministro dell'Economia europeo e quindi un'unica politica economica europea...
Per quanto riguarda l'Euro ripeto per l'ennesima volta che non si può tornare indietro perchè sarebbe ancora peggio di oggi e di molto... e senza prospettive di recupero (il mondo non è più quello degli anni '80/'90 e delle svalutazioni competitive...).
Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.
E' come dire: eliminiamo la sanità pubblica, tanto ormai è un'arma in mano alla corruzione dando servizi pessimi.Tanto vale almeno mettere fine alla moneta comune, tanto ormai è un'arma in mano alla speculazione e ai grandi interessi.
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Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.
Con l'euro invece dove stiamo andando? Al default.
Tanto vale farselo da soli il default e ripartire piano piano.
Ci sono nazioni che aderiscono alla comunità europea ma l'euro non ce l'hanno e mi pare che non stiano crollando.
Tanto vale farselo da soli il default e ripartire piano piano.
Ci sono nazioni che aderiscono alla comunità europea ma l'euro non ce l'hanno e mi pare che non stiano crollando.
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
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