La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
(...) “Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti,
tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge così diverso da tutto quello che si era immaginato,
scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani.
Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno
scorto i motivi dell'attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l'eredità di tutti i
movimenti di elevazione dell'umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o
dei mezzi come raggiungerlo.
La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.”
Così, conclude il manifesto di Ventotene Scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni nell'agosto del 1941.
Pensavano che il loro messaggio venisse raccolto, contavano su politici capaci e uomini degni.
A quanto pare sono mancati sia i politici validi che gli uomini degni.
tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge così diverso da tutto quello che si era immaginato,
scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani.
Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno
scorto i motivi dell'attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l'eredità di tutti i
movimenti di elevazione dell'umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o
dei mezzi come raggiungerlo.
La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.”
Così, conclude il manifesto di Ventotene Scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni nell'agosto del 1941.
Pensavano che il loro messaggio venisse raccolto, contavano su politici capaci e uomini degni.
A quanto pare sono mancati sia i politici validi che gli uomini degni.
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Re: La crisi dell'Europa
erding ha scritto:(...) “Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti,
tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge così diverso da tutto quello che si era immaginato,
scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani.
Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno
scorto i motivi dell'attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l'eredità di tutti i
movimenti di elevazione dell'umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o
dei mezzi come raggiungerlo.
La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.”
Così, conclude il manifesto di Ventotene Scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni nell'agosto del 1941.
Pensavano che il loro messaggio venisse raccolto, contavano su politici capaci e uomini degni.
A quanto pare sono mancati sia i politici validi che gli uomini degni.
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, un risultato positivo l’hanno ottenuto.
Dopo tremila anni, per 71 anni questo continente non è stato teatro di guerre. Non abbiamo inzuppato di sangue le terre del continente.
Non è un risultato da poco se si osserva la storia.
La mia generazione e quella che segue(1951-1975), non possono che ringraziare. Non era mai successo alle generazioni precedenti, compresa l’ultima dei nostri padri.
Questo basta? Certamente NO.
Ma Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, non potevano immaginare che una società diversa da quella in cui erano cresciuti e si erano formati, alla fine nel tempo si decompone.
Sarebbe importante conoscere il loro pensiero 74 anni dopo il documento di Ventotene. Ma non è possibile.
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Re: La crisi dell'Europa
Il virus del nazifascismo è di nuovo in incubazione nella nuova Europa. E’ un virus in incubazione già dal 2015.
Padellaro a Otto e Mezzo ha fatto presente che con la Merkel, La Qualunque ha parlato della crescita dei populismi in Europa.
Una visione minimale del fenomeno della rinascita del neo nazifascismo.
Anche se dopo Colonia all’ultimo dell’anno si è dato la stura perché il virus si sviluppi con successo.
Quanto successo questa notte è solo un piccolo sintomo.
Villingen-Schwenningen
Germania, attentato contro un campo profughi
Lanciata una granata, ma non esplode
di Redazione. Categoria: Cronaca, Esteri
Attentato fallito contro un campo profughi in Germania. Una granata è stata lanciata nella notte contro un centro d’accoglienza per rifugiati a Villingen-Schwenningen, nel sud del Paese, che ospita circa 170 persone.
Il dispositivo fortunatamente non è esploso. A scoprire la granata è stata una guardia di sicurezza, che ha avvertito le autorità.
9 ore fa, Il Giornale.it, sul suo sito pubblicava:
"Basta profughi, siamo stufi"
I tedeschi non vogliono Merkel
Giovanni Masini
Germania in rivolta contro la Merkel: "Basta accoglienza indiscriminata dei profughi"
Questa notte nel sud del Paese un centro per rifugiati è stato attaccato con una bomba che per fortuna non è esplosa. Nel 2015 quasi mille attacchi contro i migranti: l'anno prima erano stati meno di duecento
Giovanni Masini - Ven, 29/01/2016 - 12:10
Non si fermano, in Germania, le violenze contro i centri d'accoglienza e più in generale contro i migranti.
Nella notte un centro d'accoglienza a Villingen-Schwenningen, nel sud del Paese, è stato attaccato con una granata che fortunatamente non è esplosa - nonostante l'arma fosse stata innescata correttamente.
Nel centro, che accoglie circa 170 persone, non si sono registrati feriti, ma l'episodio è indicativo di una tendenza che interessa tutta la Germania. Secondo l'Ufficio federale per le investigazioni criminali, nel 2015 il numero di reati contro i centri per rifugiati è esploso: 924 attacchi contro i 199 dell'anno precedente. Fra i tedeschi cresce lo scontento per un numero di arrivi senza precedenti, che ha fatto della Germania, con oltre un milione di immigrati accolti nel corso dell'anno appena concluso, il Paese Ue con il maggior numero di profughi.
Spesso le formazioni di estrema destra vengono accusate degli attacchi più violenti, ma la contestazione contro le politiche governative di Angela Merkel non riguardano solamente gli estremisti. Recentemente un sondaggio di Insa realizzato per la rivista Focus ha evidenziato come quasi il 40% dei tedeschi ritiene che la cancelliera - che fino a pochi mesi fa raggiungeva la massima popolarità di sempre - debba dimettersi per le scelte adottate in materia d'accoglienza.
Parallelamente i partiti di destra raccolgono sempre più consensi proprio a causa dell'opposizione dura alle politiche governative in materia d'immigrazione: gli euroscettici e nazionalisti di Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, ndr) hanno raggiunto il massimo storico, arrivando quasi a triplicare i consensi rispetto alle ultime elezioni politiche.
Il dissenso è alimentato dai numerosi casi di cronaca che certo non contribuiscono a distendere gli animi e a favorire l'integrazione. Dopo le violenze di Colonia, che hanno suscitato un'ondata di risentimento popolare - anche e soprattutto per il tentativo della polizia di minimizzare le molestie - , il Paese è stato scosso dalle notizie della chiusura di alcune piscine pubbliche e di alcune discoteche dopo altrettanti epsiodi di molestie imputabili a richiedenti asilo.
Nonostante la decisione del governo di lasciare entrare in Germania solamente i migranti provienenti da Paesi in guerra come Siria ed Iraq l'afflusso di profughi rimane comunque imponente. Come anche l'inquietudine della popolazione. Che sempre più spesso, purtroppo, sfocia in atti di esasperata violenza.
@giovannimasini
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/ger ... 18251.html
Padellaro a Otto e Mezzo ha fatto presente che con la Merkel, La Qualunque ha parlato della crescita dei populismi in Europa.
Una visione minimale del fenomeno della rinascita del neo nazifascismo.
Anche se dopo Colonia all’ultimo dell’anno si è dato la stura perché il virus si sviluppi con successo.
Quanto successo questa notte è solo un piccolo sintomo.
Villingen-Schwenningen
Germania, attentato contro un campo profughi
Lanciata una granata, ma non esplode
di Redazione. Categoria: Cronaca, Esteri
Attentato fallito contro un campo profughi in Germania. Una granata è stata lanciata nella notte contro un centro d’accoglienza per rifugiati a Villingen-Schwenningen, nel sud del Paese, che ospita circa 170 persone.
Il dispositivo fortunatamente non è esploso. A scoprire la granata è stata una guardia di sicurezza, che ha avvertito le autorità.
9 ore fa, Il Giornale.it, sul suo sito pubblicava:
"Basta profughi, siamo stufi"
I tedeschi non vogliono Merkel
Giovanni Masini
Germania in rivolta contro la Merkel: "Basta accoglienza indiscriminata dei profughi"
Questa notte nel sud del Paese un centro per rifugiati è stato attaccato con una bomba che per fortuna non è esplosa. Nel 2015 quasi mille attacchi contro i migranti: l'anno prima erano stati meno di duecento
Giovanni Masini - Ven, 29/01/2016 - 12:10
Non si fermano, in Germania, le violenze contro i centri d'accoglienza e più in generale contro i migranti.
Nella notte un centro d'accoglienza a Villingen-Schwenningen, nel sud del Paese, è stato attaccato con una granata che fortunatamente non è esplosa - nonostante l'arma fosse stata innescata correttamente.
Nel centro, che accoglie circa 170 persone, non si sono registrati feriti, ma l'episodio è indicativo di una tendenza che interessa tutta la Germania. Secondo l'Ufficio federale per le investigazioni criminali, nel 2015 il numero di reati contro i centri per rifugiati è esploso: 924 attacchi contro i 199 dell'anno precedente. Fra i tedeschi cresce lo scontento per un numero di arrivi senza precedenti, che ha fatto della Germania, con oltre un milione di immigrati accolti nel corso dell'anno appena concluso, il Paese Ue con il maggior numero di profughi.
Spesso le formazioni di estrema destra vengono accusate degli attacchi più violenti, ma la contestazione contro le politiche governative di Angela Merkel non riguardano solamente gli estremisti. Recentemente un sondaggio di Insa realizzato per la rivista Focus ha evidenziato come quasi il 40% dei tedeschi ritiene che la cancelliera - che fino a pochi mesi fa raggiungeva la massima popolarità di sempre - debba dimettersi per le scelte adottate in materia d'accoglienza.
Parallelamente i partiti di destra raccolgono sempre più consensi proprio a causa dell'opposizione dura alle politiche governative in materia d'immigrazione: gli euroscettici e nazionalisti di Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, ndr) hanno raggiunto il massimo storico, arrivando quasi a triplicare i consensi rispetto alle ultime elezioni politiche.
Il dissenso è alimentato dai numerosi casi di cronaca che certo non contribuiscono a distendere gli animi e a favorire l'integrazione. Dopo le violenze di Colonia, che hanno suscitato un'ondata di risentimento popolare - anche e soprattutto per il tentativo della polizia di minimizzare le molestie - , il Paese è stato scosso dalle notizie della chiusura di alcune piscine pubbliche e di alcune discoteche dopo altrettanti epsiodi di molestie imputabili a richiedenti asilo.
Nonostante la decisione del governo di lasciare entrare in Germania solamente i migranti provienenti da Paesi in guerra come Siria ed Iraq l'afflusso di profughi rimane comunque imponente. Come anche l'inquietudine della popolazione. Che sempre più spesso, purtroppo, sfocia in atti di esasperata violenza.
@giovannimasini
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/ger ... 18251.html
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Re: La crisi dell'Europa
Qualcuno può avere la presunzione di credere che questo fenomeno riguardi solo gli americani?
Non in noi europei che nel secolo scorso siamo stati le levatrici del nazifascismo???
Vota il nazista che è in te: gli americani la sanno lunga
Scritto il 16/1/16 • nella Categoria: segnalazioni
Scorciatoie, da Hitler a Donald Trump. Copione identico, per mietere consensi: il nemico è là fuori, e il nostro eroe vigilerà sulla nazione. «Per tutti coloro che temono e odiano con intensità e consapevolezza i musulmani (e la maggior parte delle persone non bianche) Trump può sembrare una persona sensibile: si batte contro l’Uomo Nero e permette agli americani di dormire sogni tranquilli», scrive il blog “InfoShop”. «Decenni di inarrestabile ed efficace propaganda militare hanno seminato i frutti maturi che Trump sta raccogliendo. Nel 2016 scopriremo quante mele marce riuscirà a scovare». Secondo la fonte statunitense, «ogni volta che l’Isis (o qualche gruppo affine) ammazza un americano o qualcuno di uno Stato alleato, la fama di Trump aumenta, con i suoi seguaci che affermano cose del tipo: “Anche se la gente non vuole ascoltarlo perché spesso ciò che dice è provocatorio, lui dice la verità e tiene d’occhio quei musulmani”». Il candidato repubblicano sarà anche imbarazzante, ma certo non è il primo. E una lunga storia, non segreta ma neppure messa in mostra, lega alcuni campioni americani al nazismo: dai boss di Wall Street al trasvolatore Lindbergh, fino al magnate Ford e ai pesi massimi di alcuni tra le maggiori multinazionali.
In una singolare panoramica storica proprosta da “Mickey Z” e tradotta da “Come Don Chisciotte”, il blog “InfoShop” racconta di Fritz Kuhn, un veterano che nella Prima Guerra Mondiale combattè nell’esercito tedesco e il 20 febbraio 1939 arringò al Madison Square Garden 22.000 membri ferventi dell’associazione tedesco-americana «di fianco a un ritratto di George Washington alto 30 piedi, adornato di svastiche nere», e con 1.300 agenti di guardia all’esterno dell’edificio newyorkese. «Kuhn si assicurò un gran numero di fedeli seguaci “spiegando” come sia Lenin che J.P. Morgan fossero ebrei e che il vero nome di Franklin Delano Roosevelt fosse in realtà “Rosenfeld” (altre voci divulgate da Kuhn riguardavano la first lady: si vociferava, per esempio, che Eleanor passò al presidente la gonorrea “contratta da un negro” e che visitò Mosca per imparare “innominabili pratiche sessuali”)». Il proselitismo di Kuhn non passò inosservato al Terzo Reich, che lo aveva invitato alle Olimpiadi del 1936, dove potè incontrare il Führer. Ma non fu il solo filonazista: durante la Grande Depressione, padre Charles Coughlin pregava tutti i giorni per le paure degli americani, e ne parlava a 40 milioni di ascoltatori sintonizzati su 47 stazioni radio. Chiamava “comunista” il leader del partito laburista David Dubinsky, ricorda lo storico Robert Herzstein. «Quando un giornalista del “Boston Globe” chiese a Coughlin di provare questa accusa, venne preso a cinghiate in faccia».
Anche se i suoi attacchi xenofobi gli fecero perdere parte dei suoi sostenitori, Coughlin rimase popolare e continuò ad inveire indisturbato contro “gli assassini e gli oppositori di Cristo”, continua “InfoShop”. Nel 1938 ristampò sul suo giornale “Social Justice” il noto trattato antisemita “I protocolli dei savi anziani di Sion”. Per i suoi sforzi, la stampa nazista lo nominò Coughlin “il commentatore radiofonico più potente d’America”. Nel frattempo, l’eroe dell’aria Charles Lindbergh avvicinò moltissimo gli Usa alla Germania nazista: «Quando godeva ancora del prestigio internazionale grazie al suo “Spirit of St. Louis”, Lucky Lindy venne invitato a visitare la Germania nel 1936 “a nome del generale Goering e del ministro dell’aviazione tedesca”. Dopo aver ampiamente pubblicizzato la potenza aerea tedesca, l’aquila solitaria Lindbergh fu onorata da Goering e invitata a partecipare alla cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Berlino, dove definì Hitler “un uomo di indubbia grandezza” che “aveva fatto molto per i tedeschi” e che rese la Germania “la nazione più interessante del mondo”». Lo storico Kenneth Davis ricorda che Lindbergh divenne un leader del movimento isolazionista “America First”, finanziato da Ford, il cui intento era quello di tenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto mondiale. «In uno dei suoi discorsi Lindbergh disse agli ebrei americani di “chiudere il becco” e accusò “la stampa in mano agli ebrei” di spingere gli Stati Uniti verso la guerra».
Nei suoi diari, Goebbels ne elogiava le gesta. «L’opinione pubblica negli Usa inizia a vacillare», scriveva il “profeta” di Hitler il 19 aprile 1941. «Gli isolazionisti sono molto attivi. Il colonnello Lindbergh rimane fedele ai suoi ideali con tenacia e coraggio. Un uomo d’onore!». E il 30 aprile 1941: «Lindbergh ha scritto a Roosevelt una lettera molto animata. E’ indubbiamente il più tenace oppositore del presidente». E ancora, l’8 giugno dello stesso anno: «Questi ebrei americani vogliono la guerra. E quando arriverà il tempo, con la guerra ci si strozzeranno. Ho letto una brillante lettera di Lindbergh a tutti gli americani. Spiega agli interventisti come se la caveranno. Stilisticamente magnificente. Quell’uomo ha qualcosa». Dopo che l’America entrò nella Seconda Guerra Mondiale, annota “InfoShop”, Lindbergh cominciò a venire deriso perché si era schierato con i nemici dell’America e l’opinione pubblica gli si rivoltò contro. «L’insegna pubblicitaria luminosa di Lindbergh in cima a un grattacielo di Chicago venne presto rinominata “l’insegna Palmolive”, e la montagna rocciosa del Colorado soprannominata “Picco Lindbergh” venne immediatamente ribattezzata “Picco dell’Aquila Solitaria”. Tuttavia il danno recato alla sua immagine fu contenuto grazie alle sue innumerevoli missioni come pilota nella guerra nel Pacifico. Alla fine la sua reputazione rimase intatta».
«Parte della mia bellezza sta nel fatto che sono molto ricco», dice oggi Trump. In realtà, scrove il blog, «i “ricconi” mandavano avanti i loro loschi affari fascisti molto prima che Donald ricevesse il suo primo “piccolo prestito”». Nei decenni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, «fare affari con la Germania di Hitler o l’Italia di Mussolini (o, per delega, con la Spagna di Franco) non creava scalpore ai dirigenti dell’industria, così come al giorno d’oggi non stupisce la vendita di hardware militare all’Arabia Saudita». Il giornalista investigativo Christopher Simpson afferma che «dagli anni Venti, svariati leader di Wall Street e dell’establishment della politica estera Usa mantennero stretti legami con la loro controparte tedesca, attraverso matrimoni combinati o condividendo gli investimenti», che in Germania aumentarono rapidamente dopo l’ascesa al potere di Hitler, incrementando addirittura del 48,5 % tra il 1929 e il 1940. «Alcune delle corporations statunitensi che investirono in Germania durante gli anni Venti furono la Ford, la General Motors, la General Electric, la Standard Oil, la Texaco, la Itt e la Ibm, e tutte miravano al crollo della manodopera e del partito della classe operaia. Numerose di queste aziende continuarono le loro operazioni in Germania durante la guerra, usando a volte la forza lavoro degli schiavi dei campi di concentramento, con pieno appoggio del governo americano».
«Ai piloti veniva dato l’ordine di non colpire in Germania le fabbriche di proprietà americana», scrive Michael Parenti. «Così, Colonia venne quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti alleati ma lo stabilimento della Ford, che forniva equipaggiamento militare all’armata nazista, rimase indenne, così i civili tedeschi cominciarono ad usare lo stabilimento come riparo antiaereo». Sullivan e Cromwell, due tra le più potenti imprese legali di Wall Street dagli anni Trenta, «sostennero il fascismo globale». Allen e John Foster Dulles, i due fratelli che erano a capo dell’azienda, «boicottarono nel 1932 il matrimonio della sorella perché lo sposo era ebreo». I fratelli Dulles «fungevano da contatto con la Ig Farben, la ditta che forniva il gas letale usato nelle camere a gas naziste». Prima della guerra, «il fratello maggiore John Foster mandava telegrammi ai suoi clienti tedeschi che cominciavano con il saluto “Heil Hitler” e, nel 1935, negò con superficialità l’idea di una minaccia nazista in un articolo scritto per l’“Atlantic Monthly”». E nel 1939 dichiarò all’Economic Club di New York: «Dobbiamo accogliere e coltivare il desiderio della Nuova Germania di trovare nuove possibilità per le sue iniziative».
Il fratello minore, Allen, che nel frattempo aveva incontrato il dittatore tedesco, promosse il concetto post-bellico che le multinazionali erano uno strumento della politica estera americana e, che per questo, dovevano essere immuni dalle legislazioni dei singoli Stati. «Questo concetto venne poi applicato a istituzioni quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio». Nel 1946 i fratelli Dulles ebbero un ruolo di spicco nella fondazione dell’intelligence americana e nel conseguente reclutamento dei criminali di guerra nazisti. Secondo “InfoShop”, però, «il sostenitore del Terzo Reich più simile a Trump fu Henry Ford, il magnate autocratico che disprezzava i sindacati, schiavizzava i suoi lavoratori e licenziava i dipendenti beccati a guidare macchine di altre case automobilistiche». Un antisemita dichiarato, convinto che gli ebrei corrompessero i “gentili” con «sifilide, Hollywood, gioco d’azzardo e jazz». Nel 1918, Ford comprò e diresse la testata “The Dearborn Independent”, «che diventò presto un forum antisemita». Nel loro libro “Chi finanziò Hitler”, James e Suzanne Pool citano il “New York Times”, che nel 1922 sostenne che «a Berlino vi erano voci ampiamente diffuse circa il finanziamento da parte di Henry Ford al movimento nazionalista antisemita di Adolf Hitler a Monaco».
Nel suo romanzo su Ford “Il re macinino”, Upton Sinclair afferma che i nazisti ricevettero 40.000 dollari dal magnate per ristampare volantini antisemiti tradotti in tedesco, mentre altri 300.000 dollari vennero inviati a Hitler attraverso un nipote del Kaiser. «Adolf Hitler gli fu sempre grato, tanto da tenere una foto di grandi dimensioni del pioniere dell’automobile sulla sua scrivania». Il Kaiser sosteneva: «Consideriamo Heinrich (sic) Ford il leader del crescente movimento fascista in America». Hitler sperava un giorno di «importare truppe d’assalto negli Stati Uniti per aiutarlo a diventare presidente». Nel 1938, il giorno del suo settantacinquesimo compleanno, a Henry Ford venne conferita la Gran Croce dell’ordine supremo dell’ Aquila Tedesca dal Führer in persona. Fu il primo americano (il secondo fu James Mooney della Gm) e la quarta persona al mondo (tra queste, Mussolini) a ricevere il più grande riconoscimento concesso a cittadini non tedeschi. Conclude “Mickey Z”: «Spero non ci sia bisogno di dimostrare ulteriormente che il fascismo, la xenofobia e la demagogia sono americani quanto una torta di mele geneticamente modificata». Non fa accezione Trump, che «demonizza chi è già stato demonizzato» (i messicani, gli attivisti neri), e vede aumentare i consensi grazie a quel tipo di retorica.
Non in noi europei che nel secolo scorso siamo stati le levatrici del nazifascismo???
Vota il nazista che è in te: gli americani la sanno lunga
Scritto il 16/1/16 • nella Categoria: segnalazioni
Scorciatoie, da Hitler a Donald Trump. Copione identico, per mietere consensi: il nemico è là fuori, e il nostro eroe vigilerà sulla nazione. «Per tutti coloro che temono e odiano con intensità e consapevolezza i musulmani (e la maggior parte delle persone non bianche) Trump può sembrare una persona sensibile: si batte contro l’Uomo Nero e permette agli americani di dormire sogni tranquilli», scrive il blog “InfoShop”. «Decenni di inarrestabile ed efficace propaganda militare hanno seminato i frutti maturi che Trump sta raccogliendo. Nel 2016 scopriremo quante mele marce riuscirà a scovare». Secondo la fonte statunitense, «ogni volta che l’Isis (o qualche gruppo affine) ammazza un americano o qualcuno di uno Stato alleato, la fama di Trump aumenta, con i suoi seguaci che affermano cose del tipo: “Anche se la gente non vuole ascoltarlo perché spesso ciò che dice è provocatorio, lui dice la verità e tiene d’occhio quei musulmani”». Il candidato repubblicano sarà anche imbarazzante, ma certo non è il primo. E una lunga storia, non segreta ma neppure messa in mostra, lega alcuni campioni americani al nazismo: dai boss di Wall Street al trasvolatore Lindbergh, fino al magnate Ford e ai pesi massimi di alcuni tra le maggiori multinazionali.
In una singolare panoramica storica proprosta da “Mickey Z” e tradotta da “Come Don Chisciotte”, il blog “InfoShop” racconta di Fritz Kuhn, un veterano che nella Prima Guerra Mondiale combattè nell’esercito tedesco e il 20 febbraio 1939 arringò al Madison Square Garden 22.000 membri ferventi dell’associazione tedesco-americana «di fianco a un ritratto di George Washington alto 30 piedi, adornato di svastiche nere», e con 1.300 agenti di guardia all’esterno dell’edificio newyorkese. «Kuhn si assicurò un gran numero di fedeli seguaci “spiegando” come sia Lenin che J.P. Morgan fossero ebrei e che il vero nome di Franklin Delano Roosevelt fosse in realtà “Rosenfeld” (altre voci divulgate da Kuhn riguardavano la first lady: si vociferava, per esempio, che Eleanor passò al presidente la gonorrea “contratta da un negro” e che visitò Mosca per imparare “innominabili pratiche sessuali”)». Il proselitismo di Kuhn non passò inosservato al Terzo Reich, che lo aveva invitato alle Olimpiadi del 1936, dove potè incontrare il Führer. Ma non fu il solo filonazista: durante la Grande Depressione, padre Charles Coughlin pregava tutti i giorni per le paure degli americani, e ne parlava a 40 milioni di ascoltatori sintonizzati su 47 stazioni radio. Chiamava “comunista” il leader del partito laburista David Dubinsky, ricorda lo storico Robert Herzstein. «Quando un giornalista del “Boston Globe” chiese a Coughlin di provare questa accusa, venne preso a cinghiate in faccia».
Anche se i suoi attacchi xenofobi gli fecero perdere parte dei suoi sostenitori, Coughlin rimase popolare e continuò ad inveire indisturbato contro “gli assassini e gli oppositori di Cristo”, continua “InfoShop”. Nel 1938 ristampò sul suo giornale “Social Justice” il noto trattato antisemita “I protocolli dei savi anziani di Sion”. Per i suoi sforzi, la stampa nazista lo nominò Coughlin “il commentatore radiofonico più potente d’America”. Nel frattempo, l’eroe dell’aria Charles Lindbergh avvicinò moltissimo gli Usa alla Germania nazista: «Quando godeva ancora del prestigio internazionale grazie al suo “Spirit of St. Louis”, Lucky Lindy venne invitato a visitare la Germania nel 1936 “a nome del generale Goering e del ministro dell’aviazione tedesca”. Dopo aver ampiamente pubblicizzato la potenza aerea tedesca, l’aquila solitaria Lindbergh fu onorata da Goering e invitata a partecipare alla cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Berlino, dove definì Hitler “un uomo di indubbia grandezza” che “aveva fatto molto per i tedeschi” e che rese la Germania “la nazione più interessante del mondo”». Lo storico Kenneth Davis ricorda che Lindbergh divenne un leader del movimento isolazionista “America First”, finanziato da Ford, il cui intento era quello di tenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto mondiale. «In uno dei suoi discorsi Lindbergh disse agli ebrei americani di “chiudere il becco” e accusò “la stampa in mano agli ebrei” di spingere gli Stati Uniti verso la guerra».
Nei suoi diari, Goebbels ne elogiava le gesta. «L’opinione pubblica negli Usa inizia a vacillare», scriveva il “profeta” di Hitler il 19 aprile 1941. «Gli isolazionisti sono molto attivi. Il colonnello Lindbergh rimane fedele ai suoi ideali con tenacia e coraggio. Un uomo d’onore!». E il 30 aprile 1941: «Lindbergh ha scritto a Roosevelt una lettera molto animata. E’ indubbiamente il più tenace oppositore del presidente». E ancora, l’8 giugno dello stesso anno: «Questi ebrei americani vogliono la guerra. E quando arriverà il tempo, con la guerra ci si strozzeranno. Ho letto una brillante lettera di Lindbergh a tutti gli americani. Spiega agli interventisti come se la caveranno. Stilisticamente magnificente. Quell’uomo ha qualcosa». Dopo che l’America entrò nella Seconda Guerra Mondiale, annota “InfoShop”, Lindbergh cominciò a venire deriso perché si era schierato con i nemici dell’America e l’opinione pubblica gli si rivoltò contro. «L’insegna pubblicitaria luminosa di Lindbergh in cima a un grattacielo di Chicago venne presto rinominata “l’insegna Palmolive”, e la montagna rocciosa del Colorado soprannominata “Picco Lindbergh” venne immediatamente ribattezzata “Picco dell’Aquila Solitaria”. Tuttavia il danno recato alla sua immagine fu contenuto grazie alle sue innumerevoli missioni come pilota nella guerra nel Pacifico. Alla fine la sua reputazione rimase intatta».
«Parte della mia bellezza sta nel fatto che sono molto ricco», dice oggi Trump. In realtà, scrove il blog, «i “ricconi” mandavano avanti i loro loschi affari fascisti molto prima che Donald ricevesse il suo primo “piccolo prestito”». Nei decenni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, «fare affari con la Germania di Hitler o l’Italia di Mussolini (o, per delega, con la Spagna di Franco) non creava scalpore ai dirigenti dell’industria, così come al giorno d’oggi non stupisce la vendita di hardware militare all’Arabia Saudita». Il giornalista investigativo Christopher Simpson afferma che «dagli anni Venti, svariati leader di Wall Street e dell’establishment della politica estera Usa mantennero stretti legami con la loro controparte tedesca, attraverso matrimoni combinati o condividendo gli investimenti», che in Germania aumentarono rapidamente dopo l’ascesa al potere di Hitler, incrementando addirittura del 48,5 % tra il 1929 e il 1940. «Alcune delle corporations statunitensi che investirono in Germania durante gli anni Venti furono la Ford, la General Motors, la General Electric, la Standard Oil, la Texaco, la Itt e la Ibm, e tutte miravano al crollo della manodopera e del partito della classe operaia. Numerose di queste aziende continuarono le loro operazioni in Germania durante la guerra, usando a volte la forza lavoro degli schiavi dei campi di concentramento, con pieno appoggio del governo americano».
«Ai piloti veniva dato l’ordine di non colpire in Germania le fabbriche di proprietà americana», scrive Michael Parenti. «Così, Colonia venne quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti alleati ma lo stabilimento della Ford, che forniva equipaggiamento militare all’armata nazista, rimase indenne, così i civili tedeschi cominciarono ad usare lo stabilimento come riparo antiaereo». Sullivan e Cromwell, due tra le più potenti imprese legali di Wall Street dagli anni Trenta, «sostennero il fascismo globale». Allen e John Foster Dulles, i due fratelli che erano a capo dell’azienda, «boicottarono nel 1932 il matrimonio della sorella perché lo sposo era ebreo». I fratelli Dulles «fungevano da contatto con la Ig Farben, la ditta che forniva il gas letale usato nelle camere a gas naziste». Prima della guerra, «il fratello maggiore John Foster mandava telegrammi ai suoi clienti tedeschi che cominciavano con il saluto “Heil Hitler” e, nel 1935, negò con superficialità l’idea di una minaccia nazista in un articolo scritto per l’“Atlantic Monthly”». E nel 1939 dichiarò all’Economic Club di New York: «Dobbiamo accogliere e coltivare il desiderio della Nuova Germania di trovare nuove possibilità per le sue iniziative».
Il fratello minore, Allen, che nel frattempo aveva incontrato il dittatore tedesco, promosse il concetto post-bellico che le multinazionali erano uno strumento della politica estera americana e, che per questo, dovevano essere immuni dalle legislazioni dei singoli Stati. «Questo concetto venne poi applicato a istituzioni quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio». Nel 1946 i fratelli Dulles ebbero un ruolo di spicco nella fondazione dell’intelligence americana e nel conseguente reclutamento dei criminali di guerra nazisti. Secondo “InfoShop”, però, «il sostenitore del Terzo Reich più simile a Trump fu Henry Ford, il magnate autocratico che disprezzava i sindacati, schiavizzava i suoi lavoratori e licenziava i dipendenti beccati a guidare macchine di altre case automobilistiche». Un antisemita dichiarato, convinto che gli ebrei corrompessero i “gentili” con «sifilide, Hollywood, gioco d’azzardo e jazz». Nel 1918, Ford comprò e diresse la testata “The Dearborn Independent”, «che diventò presto un forum antisemita». Nel loro libro “Chi finanziò Hitler”, James e Suzanne Pool citano il “New York Times”, che nel 1922 sostenne che «a Berlino vi erano voci ampiamente diffuse circa il finanziamento da parte di Henry Ford al movimento nazionalista antisemita di Adolf Hitler a Monaco».
Nel suo romanzo su Ford “Il re macinino”, Upton Sinclair afferma che i nazisti ricevettero 40.000 dollari dal magnate per ristampare volantini antisemiti tradotti in tedesco, mentre altri 300.000 dollari vennero inviati a Hitler attraverso un nipote del Kaiser. «Adolf Hitler gli fu sempre grato, tanto da tenere una foto di grandi dimensioni del pioniere dell’automobile sulla sua scrivania». Il Kaiser sosteneva: «Consideriamo Heinrich (sic) Ford il leader del crescente movimento fascista in America». Hitler sperava un giorno di «importare truppe d’assalto negli Stati Uniti per aiutarlo a diventare presidente». Nel 1938, il giorno del suo settantacinquesimo compleanno, a Henry Ford venne conferita la Gran Croce dell’ordine supremo dell’ Aquila Tedesca dal Führer in persona. Fu il primo americano (il secondo fu James Mooney della Gm) e la quarta persona al mondo (tra queste, Mussolini) a ricevere il più grande riconoscimento concesso a cittadini non tedeschi. Conclude “Mickey Z”: «Spero non ci sia bisogno di dimostrare ulteriormente che il fascismo, la xenofobia e la demagogia sono americani quanto una torta di mele geneticamente modificata». Non fa accezione Trump, che «demonizza chi è già stato demonizzato» (i messicani, gli attivisti neri), e vede aumentare i consensi grazie a quel tipo di retorica.
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Re: La crisi dell'Europa
UNA LETTURA CHE VALE LA PENA NON PERDERE
L’INTERVISTA
Michel Onfray: «La civiltà europea è finita. Chi di noi sarebbe disposto a morire per i nostri valori?»
Il filosofo francese presenta in anteprima mondiale il libro «Pensare l’Islam» in vendita da giovedì 4 febbraio in edicola con il «Corriere della Sera» Version française
di STEFANO MONTEFIORI, corrispondente a Parigi (Epa/Khan)
Due volumi che raccontano l’Islam da due autorevoli punti di vista lontani tra loro, in edicola per la collana del «Corriere della Sera»: dal 4 febbraio un’anteprima mondiale, Pensare L’islam di Michel Onfray con la collaborazione di Asma Kouar (traduzione di Michele Zaffarano, a 8,50 euro, più il prezzo del quotidiano) e dall’11 febbraio il saggio di Olivier Roy, La paura dell’Islam.
Conversazioni con Nicolas Truong, tradotto per la prima volta in italiano (da Laura De Tomasi) per questa collana (a 7,50 euro).
I temi sono scottanti e di estrema attualità, a cominciare dall’ipotesi del tramonto dei valori europei.
Il libro di Onfray è anche in libreria per Ponte alle Grazie. Michel Onfray, giovedì si apre il Carnevale di Colonia, con la giornata della donna che sarà l’occasione per ricordare le aggressioni sessuali di massa del 31 dicembre.
Qual è stata la sua reazione a quei fatti? «Trovo inaudito che la nostra élite giornalistica e mondana, intellettuale e parigina, così pronta a dare del sessista a chiunque rifiuti di scrivere professeure o auteure al femminile (in francese professore e autore non si declinavano, ndr), non abbia niente da dire sulla violenza a centinaia di donne a opera di orde di emigrati o immigrati, come non si dice più, perché il politicamente corretto impone migranti.
Questa stessa élite - così pronta a trovare dell’antisemitismo ovunque, me compreso quando scrivo un libro contro Freud che vuole lavorare con i nazisti per salvare la psicanalisi sotto il III Reich - non ha niente a che ridire neppure sulle dichiarazioni antisemite quando vengono da musulmani integralisti.
La Francia ha rinunciato all’intelligenza e alla ragione, alla lucidità e allo spirito critico. Michel Houellebecq ha ragione: viviamo già sotto il regime della sottomissione». In Pensare l’Islam, lei dedica qualche pagina al ruolo della donna nel Corano trattata come inferiore rispetto all’uomo.
I problemi di Colonia trovano le loro radici nel Corano, secondo lei? «Questi problemi dipendono soprattutto dalla libido di giovani uomini senza partner sessuali e in una situazione sociologica priva di punti di riferimento.
Questa regressione fa immaginare quel che furono probabilmente i ratti delle donne nelle orde primitive.
Il Corano afferma l’ineguaglianza tra uomini e donne, una sura dice così: “Le vostre donne sono per voi un campo di lavoro: andate nel vostro campo come vorrete” (II.223), ma la violenza collettiva non è comunque esplicitamente raccomandata».
Qual è la sua impressione sulla comunicazione delle autorità tedesche sui fatti avvenuti a Colonia e nelle altre città?
«Per cancellare il reale è sufficiente non dirlo. È la legge dei media: ciò che non viene mostrato non esiste. Ma la moltiplicazione delle reti libere fa sì che la dominazione dei media di Stato si trovi soppressa dai media liberi che riportano quel che è avvenuto veramente».
Elisabeth Badinter ha detto a proposito di Colonia che «non bisogna avere paura di farsi trattare da islamofobi», se è per dire la verità. Che cosa ne pensa? «Ha completamente ragione. E sono sufficientemente insultato per sottoscrivere senza riserve».
Sulla questione del terrorismo islamista, lei indica come responsabili «decenni di bombardamenti occidentali» da un lato, ma dall’altro spiega che un atteggiamento bellicoso e totalitario dell’Islam è ben presente nel Corano. Non c’è una contraddizione? Di chi è la colpa maggiore?
«I due aspetti non si escludono: a partire dalla prima guerra del Golfo l’Occidente ha ucciso quattro milioni di musulmani (secondo un rapporto pubblicato da Physicians for Social Responsability, ndr) e il Corano invita alla guerra contro gli infedeli. Questa miscela esplosiva produce la situazione nella quale ci troviamo. Ricordo che all’epoca in cui gli Stati Uniti lavoravano con Bin Laden contro i sovietici in Afghanistan il terrorismo islamico non era di attualità sul Pianeta».
Ma perché prende la prima guerra del Golfo nel 1991 come punto di partenza? Se la «guerra di civiltà» esiste, come lei sostiene nel suo libro, non risale allora a più indietro nel tempo?
«Sì, certamente, esiste dall’Ègira (l’inizio dell’era musulmana, ndr) e lo mostro in un libro molto voluminoso al quale sto lavorando e che si chiamerà Decadenza. Le Crociate, la caduta di Costantinopoli, la battaglia di Lepanto, la collaborazione del Gran Mufti di Gerusalemme con i nazisti, la fatwa contro Salman Rushdie, fanno parte di questa storia tormentata che dura ancora. Questa cattiva conoscenza delle relazioni tra le due civiltà diffusa tra i nostri governanti, sommata alla loro imprudenza, alla loro incapacità, spiega lo stato attuale delle cose. L’Islam politico è una bomba con la quale l’Occidente gioca da sempre».
Secondo la sua analisi, nel Corano si trovano passi che giustificano ugualmente un Islam di pace e uno di guerra. È ragionevole sperare in una vittoria dell’Islam di pace? E che cosa potrebbe fare l’Occidente per favorirla?
«Si può fare la pace solo volendola e solo con i nostri nemici. Il pacifismo si basa sul cervello e l’intelligenza, la ragione e il dialogo, la cultura e la civiltà; la guerra, invece, punta sugli istinti e le passioni, la vendetta e l’odio, la barbarie e la disumanità. La Francia è stata la patria dei diritti dell’uomo, ma non lo è più, la Francia è stata la patria della pace perpetua con l’abate di San Pietro (al quale si ispira Kant), ma non lo è più, la Francia è stata la patria del pacifismo con Jean Jaurès, ma non lo è più. Questa stessa Francia potrebbe prendere una grande iniziativa diplomatica e promuovere una conferenza mondiale per la pace. Ma non ci credo. François Hollande non ha alcun carisma internazionale e la sua solo prospettiva è l’essere rieletto. E succede che il testosterone del comandante in capo sia purtroppo un argomento elettorale».
Lei scrive che l’Islam in questo momento non ha interesse a essere pacifico, perché è in condizioni di vincere e di dominare. Davvero considera la civiltà occidentale così priva di forze, e quella musulmana così dilagante in Europa?
«Si, la nostra civiltà giudaico-cristiana è sfinita, morta. Dopo duemila anni di esistenza, si compiace nel nichilismo e nella distruzione, nella pulsione di morte e nell’odio di sé, non crea più niente e vive solo di risentimento e rancore. L’Islam manifesta quel che Nietzsche chiama “una grande salute”: dispone di giovani soldati pronti a morire per esso. Quale occidentale è pronto a morire per i valori della nostra civiltà: il supermercato e l’e-commerce, il consumismo triviale e il narcisismo egotista, l’edonismo volgare e il monopattino per adulti?».
Lei suggerisce di negoziare con lo Stato islamico, che però proclama di lavorare per l’Apocalisse e la battaglia finale tra musulmani e «miscredenti» a Dabiq. Non le pare che gli jihadisti agiscano secondo una logica diversa rispetto alla nostra razionalità?
«La Francia non trova indegno negoziare con dei Paesi che sostengono questo terrorismo quando si tratta di fare del commercio e di vendere degli aerei da combattimento: Arabia saudita, Qatar, Turchia… Gli jihadisti sono dei soldati che ubbidiscono al loro califfo che è un capo di guerra e un capo di Stato. La diplomazia allora funziona solo con degli Stati amici, moralmente impeccabili e sconosciuti ad Amnesty International. Invece bisogna cenare in compagnia del diavolo con un lungo cucchiaio (per tenerlo a distanza, secondo il proverbio, ndr)».
Si definisce sempre di sinistra, ma sul terrorismo e numerosi altri temi le sue opinioni sono opposte alla linea politica della sinistra di governo. Sarebbe pronto a presentarsi alle elezioni del 2017?
«La sinistra liberista che è al potere in Francia dal 1983 è molto liberista e per niente di sinistra ormai. Dal canto mio, io sono rimasto di sinistra e anti-liberista. Questa sinistra che sopprime le 35 ore, manda dei sindacalisti in prigione, legittima l’affitto degli uteri delle donne povere per le donne ricche, fa della scuola il luogo dove solo i figli dei borghesi se la cavano, dà i pieni poteri al denaro nella sanità e nella cultura, nei trasporti e nei media, nella polizia e nella difesa, questa sinistra dicevo non è di sinistra. Adesso si mette persino a mettere in pratica le idee del Front National sullo stato di emergenza e la revoca della nazionalità, e i principi della destra sulla guerra imperialista! Quanto a presentarmi alle presidenziali, è impossibile: sono un uomo solo e senza partito, senza soldi e senza rete di alleanze. Ma, peggio, sono un uomo di etica e di convinzioni, cosa che è in contrasto con l’esercizio di una campagna presidenziale dove la menzogna e la demagogia dettano legge».
Perché ha deciso di pubblicare «Pensare l’Islam» in Francia solo in un secondo momento? E dopo l’uscita del libro oggi in Italia, pensa di tornare ad apparire nei media francesi?
«La data di pubblicazione originaria coincideva con la data di commemorazione degli attentati di gennaio 2015 a «Charlie Hebdo» e al supermercato ebraico, e in Francia ormai c’è posto solo per il compassionevole, che è agli antipodi del filosofico. Deporre peluche ai piedi della statua in place de la République è la sola manifestazione di intelligenza autorizzata dal potere di Stato sostenuto dal potere mediatico. Riprenderò la parola, sì, certamente, a marzo con la pubblicazione di Pensare l’Islam e del libro politico Lo specchietto per le allodole. E poi sto creando il mio media indipendente per risparmiarmi la stupidità mediatica francese».
@Stef_Montefiori 3 febbraio 2016 (modifica il 3 febbraio 2016 | 18:36) © RIPRODUZIONE RISERVATA]
L’INTERVISTA
Michel Onfray: «La civiltà europea è finita. Chi di noi sarebbe disposto a morire per i nostri valori?»
Il filosofo francese presenta in anteprima mondiale il libro «Pensare l’Islam» in vendita da giovedì 4 febbraio in edicola con il «Corriere della Sera» Version française
di STEFANO MONTEFIORI, corrispondente a Parigi (Epa/Khan)
Due volumi che raccontano l’Islam da due autorevoli punti di vista lontani tra loro, in edicola per la collana del «Corriere della Sera»: dal 4 febbraio un’anteprima mondiale, Pensare L’islam di Michel Onfray con la collaborazione di Asma Kouar (traduzione di Michele Zaffarano, a 8,50 euro, più il prezzo del quotidiano) e dall’11 febbraio il saggio di Olivier Roy, La paura dell’Islam.
Conversazioni con Nicolas Truong, tradotto per la prima volta in italiano (da Laura De Tomasi) per questa collana (a 7,50 euro).
I temi sono scottanti e di estrema attualità, a cominciare dall’ipotesi del tramonto dei valori europei.
Il libro di Onfray è anche in libreria per Ponte alle Grazie. Michel Onfray, giovedì si apre il Carnevale di Colonia, con la giornata della donna che sarà l’occasione per ricordare le aggressioni sessuali di massa del 31 dicembre.
Qual è stata la sua reazione a quei fatti? «Trovo inaudito che la nostra élite giornalistica e mondana, intellettuale e parigina, così pronta a dare del sessista a chiunque rifiuti di scrivere professeure o auteure al femminile (in francese professore e autore non si declinavano, ndr), non abbia niente da dire sulla violenza a centinaia di donne a opera di orde di emigrati o immigrati, come non si dice più, perché il politicamente corretto impone migranti.
Questa stessa élite - così pronta a trovare dell’antisemitismo ovunque, me compreso quando scrivo un libro contro Freud che vuole lavorare con i nazisti per salvare la psicanalisi sotto il III Reich - non ha niente a che ridire neppure sulle dichiarazioni antisemite quando vengono da musulmani integralisti.
La Francia ha rinunciato all’intelligenza e alla ragione, alla lucidità e allo spirito critico. Michel Houellebecq ha ragione: viviamo già sotto il regime della sottomissione». In Pensare l’Islam, lei dedica qualche pagina al ruolo della donna nel Corano trattata come inferiore rispetto all’uomo.
I problemi di Colonia trovano le loro radici nel Corano, secondo lei? «Questi problemi dipendono soprattutto dalla libido di giovani uomini senza partner sessuali e in una situazione sociologica priva di punti di riferimento.
Questa regressione fa immaginare quel che furono probabilmente i ratti delle donne nelle orde primitive.
Il Corano afferma l’ineguaglianza tra uomini e donne, una sura dice così: “Le vostre donne sono per voi un campo di lavoro: andate nel vostro campo come vorrete” (II.223), ma la violenza collettiva non è comunque esplicitamente raccomandata».
Qual è la sua impressione sulla comunicazione delle autorità tedesche sui fatti avvenuti a Colonia e nelle altre città?
«Per cancellare il reale è sufficiente non dirlo. È la legge dei media: ciò che non viene mostrato non esiste. Ma la moltiplicazione delle reti libere fa sì che la dominazione dei media di Stato si trovi soppressa dai media liberi che riportano quel che è avvenuto veramente».
Elisabeth Badinter ha detto a proposito di Colonia che «non bisogna avere paura di farsi trattare da islamofobi», se è per dire la verità. Che cosa ne pensa? «Ha completamente ragione. E sono sufficientemente insultato per sottoscrivere senza riserve».
Sulla questione del terrorismo islamista, lei indica come responsabili «decenni di bombardamenti occidentali» da un lato, ma dall’altro spiega che un atteggiamento bellicoso e totalitario dell’Islam è ben presente nel Corano. Non c’è una contraddizione? Di chi è la colpa maggiore?
«I due aspetti non si escludono: a partire dalla prima guerra del Golfo l’Occidente ha ucciso quattro milioni di musulmani (secondo un rapporto pubblicato da Physicians for Social Responsability, ndr) e il Corano invita alla guerra contro gli infedeli. Questa miscela esplosiva produce la situazione nella quale ci troviamo. Ricordo che all’epoca in cui gli Stati Uniti lavoravano con Bin Laden contro i sovietici in Afghanistan il terrorismo islamico non era di attualità sul Pianeta».
Ma perché prende la prima guerra del Golfo nel 1991 come punto di partenza? Se la «guerra di civiltà» esiste, come lei sostiene nel suo libro, non risale allora a più indietro nel tempo?
«Sì, certamente, esiste dall’Ègira (l’inizio dell’era musulmana, ndr) e lo mostro in un libro molto voluminoso al quale sto lavorando e che si chiamerà Decadenza. Le Crociate, la caduta di Costantinopoli, la battaglia di Lepanto, la collaborazione del Gran Mufti di Gerusalemme con i nazisti, la fatwa contro Salman Rushdie, fanno parte di questa storia tormentata che dura ancora. Questa cattiva conoscenza delle relazioni tra le due civiltà diffusa tra i nostri governanti, sommata alla loro imprudenza, alla loro incapacità, spiega lo stato attuale delle cose. L’Islam politico è una bomba con la quale l’Occidente gioca da sempre».
Secondo la sua analisi, nel Corano si trovano passi che giustificano ugualmente un Islam di pace e uno di guerra. È ragionevole sperare in una vittoria dell’Islam di pace? E che cosa potrebbe fare l’Occidente per favorirla?
«Si può fare la pace solo volendola e solo con i nostri nemici. Il pacifismo si basa sul cervello e l’intelligenza, la ragione e il dialogo, la cultura e la civiltà; la guerra, invece, punta sugli istinti e le passioni, la vendetta e l’odio, la barbarie e la disumanità. La Francia è stata la patria dei diritti dell’uomo, ma non lo è più, la Francia è stata la patria della pace perpetua con l’abate di San Pietro (al quale si ispira Kant), ma non lo è più, la Francia è stata la patria del pacifismo con Jean Jaurès, ma non lo è più. Questa stessa Francia potrebbe prendere una grande iniziativa diplomatica e promuovere una conferenza mondiale per la pace. Ma non ci credo. François Hollande non ha alcun carisma internazionale e la sua solo prospettiva è l’essere rieletto. E succede che il testosterone del comandante in capo sia purtroppo un argomento elettorale».
Lei scrive che l’Islam in questo momento non ha interesse a essere pacifico, perché è in condizioni di vincere e di dominare. Davvero considera la civiltà occidentale così priva di forze, e quella musulmana così dilagante in Europa?
«Si, la nostra civiltà giudaico-cristiana è sfinita, morta. Dopo duemila anni di esistenza, si compiace nel nichilismo e nella distruzione, nella pulsione di morte e nell’odio di sé, non crea più niente e vive solo di risentimento e rancore. L’Islam manifesta quel che Nietzsche chiama “una grande salute”: dispone di giovani soldati pronti a morire per esso. Quale occidentale è pronto a morire per i valori della nostra civiltà: il supermercato e l’e-commerce, il consumismo triviale e il narcisismo egotista, l’edonismo volgare e il monopattino per adulti?».
Lei suggerisce di negoziare con lo Stato islamico, che però proclama di lavorare per l’Apocalisse e la battaglia finale tra musulmani e «miscredenti» a Dabiq. Non le pare che gli jihadisti agiscano secondo una logica diversa rispetto alla nostra razionalità?
«La Francia non trova indegno negoziare con dei Paesi che sostengono questo terrorismo quando si tratta di fare del commercio e di vendere degli aerei da combattimento: Arabia saudita, Qatar, Turchia… Gli jihadisti sono dei soldati che ubbidiscono al loro califfo che è un capo di guerra e un capo di Stato. La diplomazia allora funziona solo con degli Stati amici, moralmente impeccabili e sconosciuti ad Amnesty International. Invece bisogna cenare in compagnia del diavolo con un lungo cucchiaio (per tenerlo a distanza, secondo il proverbio, ndr)».
Si definisce sempre di sinistra, ma sul terrorismo e numerosi altri temi le sue opinioni sono opposte alla linea politica della sinistra di governo. Sarebbe pronto a presentarsi alle elezioni del 2017?
«La sinistra liberista che è al potere in Francia dal 1983 è molto liberista e per niente di sinistra ormai. Dal canto mio, io sono rimasto di sinistra e anti-liberista. Questa sinistra che sopprime le 35 ore, manda dei sindacalisti in prigione, legittima l’affitto degli uteri delle donne povere per le donne ricche, fa della scuola il luogo dove solo i figli dei borghesi se la cavano, dà i pieni poteri al denaro nella sanità e nella cultura, nei trasporti e nei media, nella polizia e nella difesa, questa sinistra dicevo non è di sinistra. Adesso si mette persino a mettere in pratica le idee del Front National sullo stato di emergenza e la revoca della nazionalità, e i principi della destra sulla guerra imperialista! Quanto a presentarmi alle presidenziali, è impossibile: sono un uomo solo e senza partito, senza soldi e senza rete di alleanze. Ma, peggio, sono un uomo di etica e di convinzioni, cosa che è in contrasto con l’esercizio di una campagna presidenziale dove la menzogna e la demagogia dettano legge».
Perché ha deciso di pubblicare «Pensare l’Islam» in Francia solo in un secondo momento? E dopo l’uscita del libro oggi in Italia, pensa di tornare ad apparire nei media francesi?
«La data di pubblicazione originaria coincideva con la data di commemorazione degli attentati di gennaio 2015 a «Charlie Hebdo» e al supermercato ebraico, e in Francia ormai c’è posto solo per il compassionevole, che è agli antipodi del filosofico. Deporre peluche ai piedi della statua in place de la République è la sola manifestazione di intelligenza autorizzata dal potere di Stato sostenuto dal potere mediatico. Riprenderò la parola, sì, certamente, a marzo con la pubblicazione di Pensare l’Islam e del libro politico Lo specchietto per le allodole. E poi sto creando il mio media indipendente per risparmiarmi la stupidità mediatica francese».
@Stef_Montefiori 3 febbraio 2016 (modifica il 3 febbraio 2016 | 18:36) © RIPRODUZIONE RISERVATA]
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Re: La crisi dell'Europa
C'era una volta Tsipras
il manifesto 5.2.16
Creditori alla porta e scioperi. Tsipras sotto il tiro incrociato
Atene. Il governo di Syriza ha bisogno di alleanze sempre più forti e guarda con interesse crescente allo scontro ingaggiato da Roma con Bruxelles. Ieri trentamila persone in piazza contro la riforma del sistema previdenziale. Incontro di nove ore tra i ministri e i rappresentanti dell’Fmi, che chiede di tagliare ulteriomente la spesa e le pensioni
di Teodoro Andreadis Synghellakis
La Grecia ha incrociato le braccia, ieri, contro la riforma del sistema previdenziale. Circa trentamila persone hanno manifestato nel centro di Atene, partecipando alla mobilitazione organizzata dai due maggiori sindacati del pubblico impiego e del settore privato, Gsee e Adedy, con l’appoggio del sindacato dei commercianti, degli artigiani, dei medici e dei farmacisti.
Nel frattempo, continua anche la mobilitazione degli agricoltori, sempre contro l’aumento dei contributi previdenziali e la riforma della tassazione: hanno annunciato che bloccheranno per 24 ore, fino a domani mattina, gli aeroporti, le dogane, i porti e le autostrade di tutto il paese. Le tasse dovrebbero aumentare in modo più evidente dal 2019, arrivando anche al 46% del loro reddito imponibile.
Il governo di Alexis Tsipras cerca di non rompere con i creditori e di garantire, contemporaneamente, la maggior tenuta possibile della coesione sociale. La proposta dell’esecutivo ellenico, per quel che riguarda la riforma previdenziale, nella sua versione più aggiornata prevede, secondo quanto filtrato sulla stampa, l’aumento della contribuzione e una nuova base di calcolo dell’importo pensionistico.
L’aumento dei contributi, in totale, è dell’1% per i datori di lavoro e dello 0,5% per i lavoratori, mentre la tassa sulle operazioni bancarie potrebbe toccare lo 0,1% del totale.
Per quel che riguarda il nuovo metodo di calcolo dell’ammontare pensionistico, il governo si impegna – attraverso un sistema di compensazioni – a non tagliare, in realtà, l’ammontare delle pensioni più basse già erogate, ma è chiaro che per importi oltre i mille euro, la diminuzione dell’assegno dei nuovi pensionati sarà evidente. Tsipras si batte per ridurre questi tagli al minimo possibile, mentre il Fondo Monetario Internazionale arriva a chiedere che le riduzioni delle pensioni raggiungano il 15% della somma percepita. In un paese che negli anni della crisi, dal 2010 in poi, ha subito ben cinque decurtazioni di stipendi e pensioni, è facile comprendere come le pretese dei creditori creino fortissime reazioni avverse.
E proprio questi creditori, nel frattempo, sono ad Atene, per discutere delle riforme in atto. L’incontro con il ministro delle finanze, Efklidis Tsakalotos, e quello dell’economia, Jorgos Stathakis, è durato ben nove ore e la rappresentante dell’Fmi, secondo quanto è filtrato, ha chiesto, come sempre, maggiori tagli alle spese di bilancio e alle pensioni. Più in dettaglio, a non essere accettata, prima di tutto, è l’intenzione del governo di Syriza di concedere una pensione di 384 euro a tutti i cittadini che, all’età di 67 anni, abbiano almeno quindici anni di contributi. Parliamo – è palese – di cifre minime, che non riuscirebbero, molto probabilmente, neanche a garantire le esigenze basilari di un cittadino. Eppure, anche la mera sopravvivenza provoca ancora la reazione dei più ultraliberisti tra i creditori.
I colloqui tra il governo e il quartetto delle istituzioni creditrici (Fondo Monetario, Banca centrale europea, Meccanismo europeo di stabilità e Commissione europea), dovrebbero concludersi a fine mese, sempre che si riesca ad arrivare ad una soluzione che tenga conto della situazione sociale ed economica del paese.
Il premier Alexis Tsipras, nei suoi interventi, insiste sul fatto che «con questo governo non ci sono stati licenziamenti di pubblici dipendenti, non sono stati toccati stipendi e pensioni, sono stati compiuti tutti gli sforzi possibili per proteggere la prima casa di proprietà delle famiglie indebitate. Tutte cose che la destra non avrebbe fatto».
Ma è indubbio che per riuscire a contrastare, in parte, le richieste dei rappresentanti delle istituzioni europee ed internazionali, il governo di Atene ha bisogno di alleanze sempre più forti: e in questa chiave si guarda con interesse a Roma – con tutti i possibili sviluppi dello scontro con Bruxelles sull’austerità – e alla realtà politica spagnola, sperando che si arrivi, quanto prima, a un governo di collaborazione tra Podemos, la sinistra e i socialisti.
il manifesto 5.2.16
Creditori alla porta e scioperi. Tsipras sotto il tiro incrociato
Atene. Il governo di Syriza ha bisogno di alleanze sempre più forti e guarda con interesse crescente allo scontro ingaggiato da Roma con Bruxelles. Ieri trentamila persone in piazza contro la riforma del sistema previdenziale. Incontro di nove ore tra i ministri e i rappresentanti dell’Fmi, che chiede di tagliare ulteriomente la spesa e le pensioni
di Teodoro Andreadis Synghellakis
La Grecia ha incrociato le braccia, ieri, contro la riforma del sistema previdenziale. Circa trentamila persone hanno manifestato nel centro di Atene, partecipando alla mobilitazione organizzata dai due maggiori sindacati del pubblico impiego e del settore privato, Gsee e Adedy, con l’appoggio del sindacato dei commercianti, degli artigiani, dei medici e dei farmacisti.
Nel frattempo, continua anche la mobilitazione degli agricoltori, sempre contro l’aumento dei contributi previdenziali e la riforma della tassazione: hanno annunciato che bloccheranno per 24 ore, fino a domani mattina, gli aeroporti, le dogane, i porti e le autostrade di tutto il paese. Le tasse dovrebbero aumentare in modo più evidente dal 2019, arrivando anche al 46% del loro reddito imponibile.
Il governo di Alexis Tsipras cerca di non rompere con i creditori e di garantire, contemporaneamente, la maggior tenuta possibile della coesione sociale. La proposta dell’esecutivo ellenico, per quel che riguarda la riforma previdenziale, nella sua versione più aggiornata prevede, secondo quanto filtrato sulla stampa, l’aumento della contribuzione e una nuova base di calcolo dell’importo pensionistico.
L’aumento dei contributi, in totale, è dell’1% per i datori di lavoro e dello 0,5% per i lavoratori, mentre la tassa sulle operazioni bancarie potrebbe toccare lo 0,1% del totale.
Per quel che riguarda il nuovo metodo di calcolo dell’ammontare pensionistico, il governo si impegna – attraverso un sistema di compensazioni – a non tagliare, in realtà, l’ammontare delle pensioni più basse già erogate, ma è chiaro che per importi oltre i mille euro, la diminuzione dell’assegno dei nuovi pensionati sarà evidente. Tsipras si batte per ridurre questi tagli al minimo possibile, mentre il Fondo Monetario Internazionale arriva a chiedere che le riduzioni delle pensioni raggiungano il 15% della somma percepita. In un paese che negli anni della crisi, dal 2010 in poi, ha subito ben cinque decurtazioni di stipendi e pensioni, è facile comprendere come le pretese dei creditori creino fortissime reazioni avverse.
E proprio questi creditori, nel frattempo, sono ad Atene, per discutere delle riforme in atto. L’incontro con il ministro delle finanze, Efklidis Tsakalotos, e quello dell’economia, Jorgos Stathakis, è durato ben nove ore e la rappresentante dell’Fmi, secondo quanto è filtrato, ha chiesto, come sempre, maggiori tagli alle spese di bilancio e alle pensioni. Più in dettaglio, a non essere accettata, prima di tutto, è l’intenzione del governo di Syriza di concedere una pensione di 384 euro a tutti i cittadini che, all’età di 67 anni, abbiano almeno quindici anni di contributi. Parliamo – è palese – di cifre minime, che non riuscirebbero, molto probabilmente, neanche a garantire le esigenze basilari di un cittadino. Eppure, anche la mera sopravvivenza provoca ancora la reazione dei più ultraliberisti tra i creditori.
I colloqui tra il governo e il quartetto delle istituzioni creditrici (Fondo Monetario, Banca centrale europea, Meccanismo europeo di stabilità e Commissione europea), dovrebbero concludersi a fine mese, sempre che si riesca ad arrivare ad una soluzione che tenga conto della situazione sociale ed economica del paese.
Il premier Alexis Tsipras, nei suoi interventi, insiste sul fatto che «con questo governo non ci sono stati licenziamenti di pubblici dipendenti, non sono stati toccati stipendi e pensioni, sono stati compiuti tutti gli sforzi possibili per proteggere la prima casa di proprietà delle famiglie indebitate. Tutte cose che la destra non avrebbe fatto».
Ma è indubbio che per riuscire a contrastare, in parte, le richieste dei rappresentanti delle istituzioni europee ed internazionali, il governo di Atene ha bisogno di alleanze sempre più forti: e in questa chiave si guarda con interesse a Roma – con tutti i possibili sviluppi dello scontro con Bruxelles sull’austerità – e alla realtà politica spagnola, sperando che si arrivi, quanto prima, a un governo di collaborazione tra Podemos, la sinistra e i socialisti.
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Re: La crisi dell'Europa
C'era una volta Tsipras
Il Sole 5.2.16
Austerità senza fine. Le richieste della troika a Tsipras
Grecia paralizzata dagli scioperi contro i tagli alle pensioni
di Vittorio Da Rold
In 50mila hanno incrociato le braccia ad Atene, e altri 14mila hanno manifestato a Salonicco, per protesta contro la riforma delle pensioni. Nella capitale, frange violente hanno innescato scontri lanciando molotov contro le forze dell’ordine. Per il terzo sciopero generale in diversi mesi si sono fermati treni e traghetti, bloccando a terra dozzine di voli. Gli ospedali hanno funzionato solo per gli interventi di emergenza, i benzinai sono rimasti chiusi.
Dopo la protesta dei giornalisti, ieri hanno incrociato le braccia anche anche avvocati, notai, medici, farmacisti, benzinai, tassisti, guidatori di tir e agricoltori, che hanno bloccato le autostrade in diversi punti con i loro trattori, in una protesta che va avanti da due settimane.
Il governo propone di abbassare il tetto massimo previdenziale da 2.700 a 2.300 euro e intende introdurre una pensione minima garantita di 384 euro con 15 anni di contributi. Il governo vuole anche accorpare i fondi pensione e aumentare i contributi previdenziali per i nuovi assunti.
Le pensioni dovrebbero essere tagliate di un altro 15%, pari all’1% di Pil di risparmi, cioè 1,8 miliardi di euro all’anno. Tsipras è tra l’incudine e il martello: il Paese dice no ai nuovi tagli alla spesa mentre il governo di sinistra ha cercato di aumentare i contributi per i nuovi assunti ma la troika si è opposta a questo tentativo di scaricare sulle nuove generazioni il costo delle riforme.
Il premier, Alexis Tsipras, è accusato di aver tradito le promesse elettorali una volta arrivato al potere. Tra le rimostranze dei manifestanti, l’imminente privatizzazione del porto del Pireo da parte del gigante cinese Cosco.
Inoltre c’è la crisi dei migranti dove Bruxelles ha chiesto ad Atene di blindare le frontiere con la Turchia e di far funzionare gli hotspot per il riconoscimento dei migranti. Chi non dovesse provenire da Stati in guerra e quindi non avere lo status di rifugiato dovrebbe essere rispedito nel Paese di provenienza. Altrimenti Bruxelles minaccia di chiudere la frontiere con la Macedonia e i profughi resterebbero chiusi in Grecia, dove la Ue minaccia di costruire un campo profughi da 400mila persone ad Atene.
Il ministro dell’immigrazione greca Mouzalas ha parlato di fronte a questa ipotesi di una Grecia «trasformata in un cimitero di anime» e praticamente espulsa da Schengen. Un’altra ipotesi prevede che i migranti, vedendo chiusa la frontiera macedone, potrebbero decidere di dirigersi verso l’Italia dalla costa adriatica. Atene resta ancora l’anello debole di una crisi dei migranti che si collega a quella del debito non ancora risolta.
«Non mischiamo i due processi» sui migranti e sul piano di assistenza finanziaria in Grecia. Questo l’invito del commissario Ue agli affari economici Pierre Moscovici, che ha sottolineato che il programma di aiuti in corso «ha la sua logica, non è Schengen né gli hotspot». La revisione da parte della ex troika «è in corso ad Atene» e l’obiettivo è «concluderla il prima possibile», ha detto Moscovici, invitando a «non perdere lo slancio» di attuazione delle riforme degli ultimi mesi.
Il Sole 5.2.16
Austerità senza fine. Le richieste della troika a Tsipras
Grecia paralizzata dagli scioperi contro i tagli alle pensioni
di Vittorio Da Rold
In 50mila hanno incrociato le braccia ad Atene, e altri 14mila hanno manifestato a Salonicco, per protesta contro la riforma delle pensioni. Nella capitale, frange violente hanno innescato scontri lanciando molotov contro le forze dell’ordine. Per il terzo sciopero generale in diversi mesi si sono fermati treni e traghetti, bloccando a terra dozzine di voli. Gli ospedali hanno funzionato solo per gli interventi di emergenza, i benzinai sono rimasti chiusi.
Dopo la protesta dei giornalisti, ieri hanno incrociato le braccia anche anche avvocati, notai, medici, farmacisti, benzinai, tassisti, guidatori di tir e agricoltori, che hanno bloccato le autostrade in diversi punti con i loro trattori, in una protesta che va avanti da due settimane.
Il governo propone di abbassare il tetto massimo previdenziale da 2.700 a 2.300 euro e intende introdurre una pensione minima garantita di 384 euro con 15 anni di contributi. Il governo vuole anche accorpare i fondi pensione e aumentare i contributi previdenziali per i nuovi assunti.
Le pensioni dovrebbero essere tagliate di un altro 15%, pari all’1% di Pil di risparmi, cioè 1,8 miliardi di euro all’anno. Tsipras è tra l’incudine e il martello: il Paese dice no ai nuovi tagli alla spesa mentre il governo di sinistra ha cercato di aumentare i contributi per i nuovi assunti ma la troika si è opposta a questo tentativo di scaricare sulle nuove generazioni il costo delle riforme.
Il premier, Alexis Tsipras, è accusato di aver tradito le promesse elettorali una volta arrivato al potere. Tra le rimostranze dei manifestanti, l’imminente privatizzazione del porto del Pireo da parte del gigante cinese Cosco.
Inoltre c’è la crisi dei migranti dove Bruxelles ha chiesto ad Atene di blindare le frontiere con la Turchia e di far funzionare gli hotspot per il riconoscimento dei migranti. Chi non dovesse provenire da Stati in guerra e quindi non avere lo status di rifugiato dovrebbe essere rispedito nel Paese di provenienza. Altrimenti Bruxelles minaccia di chiudere la frontiere con la Macedonia e i profughi resterebbero chiusi in Grecia, dove la Ue minaccia di costruire un campo profughi da 400mila persone ad Atene.
Il ministro dell’immigrazione greca Mouzalas ha parlato di fronte a questa ipotesi di una Grecia «trasformata in un cimitero di anime» e praticamente espulsa da Schengen. Un’altra ipotesi prevede che i migranti, vedendo chiusa la frontiera macedone, potrebbero decidere di dirigersi verso l’Italia dalla costa adriatica. Atene resta ancora l’anello debole di una crisi dei migranti che si collega a quella del debito non ancora risolta.
«Non mischiamo i due processi» sui migranti e sul piano di assistenza finanziaria in Grecia. Questo l’invito del commissario Ue agli affari economici Pierre Moscovici, che ha sottolineato che il programma di aiuti in corso «ha la sua logica, non è Schengen né gli hotspot». La revisione da parte della ex troika «è in corso ad Atene» e l’obiettivo è «concluderla il prima possibile», ha detto Moscovici, invitando a «non perdere lo slancio» di attuazione delle riforme degli ultimi mesi.
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Re: La crisi dell'Europa
il manifesto 5.2.16
Chi sono i nemici di Mr Draghi?
Inflazione. Il presidente della Bce ha messo in allarme il continente su una possibile "cospirazione", ma la risposta è semplice: a marciare contro sono gli stessi governi che perseguono le politiche di austerity
di Alfonso Gianni
Non c’è dubbio che Mario Draghi sia uno di quegli uomini che quando parla è bene starlo a sentire. Sia che si concordi o meno. Celebre ed efficace è stato il «whatever it takes!» pronunciato nel luglio del 2012 che ha permesso di evitare – almeno finora – l’implosione dell’Eurozona e della moneta unica. Per questo non si può restare indifferenti di fronte alla denuncia nei confronti di «forze che cospirano per tenere bassa l’inflazione» che il Presidente della Bce ha elevato in una pubblica conferenza organizzata dalla Bundesbank a Francoforte.
Di solito era la sinistra a indulgere alle teorie del complotto. Al punto che uno dei più importanti dirigenti del Pci, Aldo Tortorella, intellettuale raffinato e dotato di senso dell’umorismo, è solito ironizzarci sopra, dicendo che la sinistra è spesso vittima delle sue stesse macchinazioni. Qui invece il “complottismo” viene agitato da ben altra sponda.
Da quando la dichiarazione è comparsa sulle agenzie di tutto il mondo si è aperta una caccia all’interpretazione autentica del pensiero draghiano. Cosa avrà voluto dire? Con chi ce l’ha questa volta? Non vogliamo ergerci a esegeti, ma forse se applichiamo lo schema “alla Tortorella”, cambiandone i protagonisti, ci avviciniamo alla verità: i cospiratori vanno ricercati tra i palesi responsabili della grande crisi.
La stessa Bce nel suo bollettino mensile prevede «che i tassi di inflazione rimangano estremamente contenuti o che passino in territorio negativo nei prossimi mesi». L’obiettivo della Bce, di raggiungere e stabilizzare il 2% di inflazione è quindi assai lontano. Per questo Draghi aveva assunto nuove misure e un potenziamento del Quantitative Easing. Ma l’esito, come non era difficile prevedere, è stato per ora una debacle. Al punto che le previsioni della stessa banca centrale su un innalzamento dei tassi inflazionistici alla fine del 2016 non appaiono fondate altro che sulla speranza che le nuove misure di politica monetaria abbiano una qualche influenza diretta sulla crescita dell’economia reale. Poiché questo non è avvenuto, malgrado i fiumi di denaro pompati dalla Bce, non vi è ragione di credere che possa avvenire domani a situazione dell’economia reale inalterata. Siamo nel campo assai aleatorio del pensiero desiderante, ovvero del wishful thinking.
Chi sono dunque i «cospiratori»? Le forze che concorrono a tenere bassa l’inflazione? Non c’è bisogno della cassetta degli attrezzi del piccolo investigatore per scoprirlo. Basta guardarsi intorno. Sono in primo luogo le forze economiche e politiche che con particolare accanimento in Europa perseguono politiche di austerità e torsioni neoautoritarie, che impediscono lo sviluppo della domanda di consumi, non solo materiali, e di investimenti in settori innovativi capaci di rispondere ai bisogni di una società matura. Quelle che distruggono il welfare state per farne un campo di conquista della finanza. Quelle che aprono alle pretese del Regno Unito – vedi il nuovo progetto di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, per impedire Brexit (considerato assai più pericoloso di Grexit) – di distinguere tra lavoratori nazionali e migranti in termini di accesso al welfare, mettendo in discussione così uno dei pilastri dello stesso mercato unico, ovvero la libertà di circolare e lavorare a parità di diritti sociali rispetto ai residenti locali.
Sono le forze che infieriscono brutalmente sul sistema pensionistico greco. Quelle che puntano tutto sulla speculazione finanziaria quale forma preferenziale se non esclusiva di massimizzazione dei profitti, facendo così levitare nuovamente la massa di titoli finanziari derivati sopra ai livelli antecrisi. Sono quelle che giocano sul prezzo del petrolio e delle materie prime, anche contro i loro interessi immediati in nome di mirabolanti disegni di riposizionamento su uno scacchiere mondiale in movimento, minacciato da guerre che si allargano. Quelle che si preparano a fare le barricate contro l’invasione dei prodotti cinesi, a seguito dell’accettazione della clausola di economia di mercato, mentre contemporaneamente spingono per la firma del Ttip, che renderebbe indifendibile lo spazio giuridico ed economico europeo dal dominio delle multinazionali a prevalenza statunitensi.
Quelle, come il “nostro” Renzi, che invocano la flessibilità per alcuni decimali contro le norme di trattati che essi stessi hanno contribuito a scrivere, e a costituzionalizzare, anziché proporsi di cambiarli da cima a fondo.
Chi sono i nemici di Mr Draghi?
Inflazione. Il presidente della Bce ha messo in allarme il continente su una possibile "cospirazione", ma la risposta è semplice: a marciare contro sono gli stessi governi che perseguono le politiche di austerity
di Alfonso Gianni
Non c’è dubbio che Mario Draghi sia uno di quegli uomini che quando parla è bene starlo a sentire. Sia che si concordi o meno. Celebre ed efficace è stato il «whatever it takes!» pronunciato nel luglio del 2012 che ha permesso di evitare – almeno finora – l’implosione dell’Eurozona e della moneta unica. Per questo non si può restare indifferenti di fronte alla denuncia nei confronti di «forze che cospirano per tenere bassa l’inflazione» che il Presidente della Bce ha elevato in una pubblica conferenza organizzata dalla Bundesbank a Francoforte.
Di solito era la sinistra a indulgere alle teorie del complotto. Al punto che uno dei più importanti dirigenti del Pci, Aldo Tortorella, intellettuale raffinato e dotato di senso dell’umorismo, è solito ironizzarci sopra, dicendo che la sinistra è spesso vittima delle sue stesse macchinazioni. Qui invece il “complottismo” viene agitato da ben altra sponda.
Da quando la dichiarazione è comparsa sulle agenzie di tutto il mondo si è aperta una caccia all’interpretazione autentica del pensiero draghiano. Cosa avrà voluto dire? Con chi ce l’ha questa volta? Non vogliamo ergerci a esegeti, ma forse se applichiamo lo schema “alla Tortorella”, cambiandone i protagonisti, ci avviciniamo alla verità: i cospiratori vanno ricercati tra i palesi responsabili della grande crisi.
La stessa Bce nel suo bollettino mensile prevede «che i tassi di inflazione rimangano estremamente contenuti o che passino in territorio negativo nei prossimi mesi». L’obiettivo della Bce, di raggiungere e stabilizzare il 2% di inflazione è quindi assai lontano. Per questo Draghi aveva assunto nuove misure e un potenziamento del Quantitative Easing. Ma l’esito, come non era difficile prevedere, è stato per ora una debacle. Al punto che le previsioni della stessa banca centrale su un innalzamento dei tassi inflazionistici alla fine del 2016 non appaiono fondate altro che sulla speranza che le nuove misure di politica monetaria abbiano una qualche influenza diretta sulla crescita dell’economia reale. Poiché questo non è avvenuto, malgrado i fiumi di denaro pompati dalla Bce, non vi è ragione di credere che possa avvenire domani a situazione dell’economia reale inalterata. Siamo nel campo assai aleatorio del pensiero desiderante, ovvero del wishful thinking.
Chi sono dunque i «cospiratori»? Le forze che concorrono a tenere bassa l’inflazione? Non c’è bisogno della cassetta degli attrezzi del piccolo investigatore per scoprirlo. Basta guardarsi intorno. Sono in primo luogo le forze economiche e politiche che con particolare accanimento in Europa perseguono politiche di austerità e torsioni neoautoritarie, che impediscono lo sviluppo della domanda di consumi, non solo materiali, e di investimenti in settori innovativi capaci di rispondere ai bisogni di una società matura. Quelle che distruggono il welfare state per farne un campo di conquista della finanza. Quelle che aprono alle pretese del Regno Unito – vedi il nuovo progetto di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, per impedire Brexit (considerato assai più pericoloso di Grexit) – di distinguere tra lavoratori nazionali e migranti in termini di accesso al welfare, mettendo in discussione così uno dei pilastri dello stesso mercato unico, ovvero la libertà di circolare e lavorare a parità di diritti sociali rispetto ai residenti locali.
Sono le forze che infieriscono brutalmente sul sistema pensionistico greco. Quelle che puntano tutto sulla speculazione finanziaria quale forma preferenziale se non esclusiva di massimizzazione dei profitti, facendo così levitare nuovamente la massa di titoli finanziari derivati sopra ai livelli antecrisi. Sono quelle che giocano sul prezzo del petrolio e delle materie prime, anche contro i loro interessi immediati in nome di mirabolanti disegni di riposizionamento su uno scacchiere mondiale in movimento, minacciato da guerre che si allargano. Quelle che si preparano a fare le barricate contro l’invasione dei prodotti cinesi, a seguito dell’accettazione della clausola di economia di mercato, mentre contemporaneamente spingono per la firma del Ttip, che renderebbe indifendibile lo spazio giuridico ed economico europeo dal dominio delle multinazionali a prevalenza statunitensi.
Quelle, come il “nostro” Renzi, che invocano la flessibilità per alcuni decimali contro le norme di trattati che essi stessi hanno contribuito a scrivere, e a costituzionalizzare, anziché proporsi di cambiarli da cima a fondo.
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Re: La crisi dell'Europa
Repubblica 5.2.16
I tre messaggi di super-Mario
di Ferdinando Giugliano
IERI Mario Draghi non avrebbe potuto scegliere un ambiente intellettualmente più ostile per le sue parole.
UN appello in favore di nuovi interventi da parte della Banca Centrale Europea per far risalire l’inflazione nella zona euro. Il presidente della Bce stava infatti parlando all’interno degli uffici regionali della Bundesbank, la potente banca centrale tedesca che da sempre è scettica sulle misure non convenzionali di politica monetaria come l’acquisto di titoli di stato. Seduto in platea c’era Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, che spesso si trova a dissentire da Draghi all’interno del consiglio direttivo della Bce.
Il discorso è solo l’ultimo di una serie di interventi che il presidente della Bce sta pronunciando prima della riunione del consiglio direttivo di marzo, da cui i mercati si aspettano nuove misure di stimolo. L’obiettivo è presumibilmente quello di assicurarsi che ai piani alti della Bce ci sia il sostegno necessario per approvare un pacchetto che non deluda le attese. A gennaio, il presidente della Bce ha parlato di un consiglio unanime nel sostenere la necessità di rivedere la politica monetaria tra un mese, ma il rischio è che si crei un fronte interno, che limiti le azioni di Draghi come è già successo a dicembre.
Ci sono pochi dubbi che la lettura del presidente della Bce sia corretta dal punto di vista economico. L’inflazione nella zona euro è allo 0,4 per cento, ben al di sotto dell’obbiettivo di poco inferiore al 2 per cento che la Bce si è posta. È proprio l’ortodossia monetaria cara alla Bundesbank a richiedere che la banca centrale si muova per far tornare l’inflazione al suo target.
Un’obiezione ripetuta più volte da Weidmann è che la debolezza nella crescita dei prezzi sia legata soprattutto al crollo del costo delle materie prime, un elemento che le banche centrali dovrebbero ignorare perché temporaneo. Ma se questo ragionamento è in teoria corretto, è anche vero che l’andamento dei prezzi escludendo il costo di prodotti come il greggio resta comunque debole. Anche le aspettative di inflazione, che misurano il rischio che consumatori e aziende si aspettino prezzi più bassi in futuro e dunque rimandino le loro decisioni di spesa e investimento, sono sotto il livello di guardia.
Vincere la resistenza della Bundesbank, o quanto meno isolarla, è dunque fondamentale per aiutare la ripresa europea che, come mostrato dal taglio delle stime di crescita fatto ieri dalla Commissione Europea, si scopre oggi più vulnerabile del previsto alle debolezze delle economie emergenti. Il meeting della Bce di marzo è poi fondamentale per riaffermare la credibilità di Draghi davanti ai mercati: dopo le promesse di nuovi stimoli fatte a gennaio, le borse hanno reagito in modo positivo per meno tempo che in passato. Si tratta di un segnale che oggi gli investitori potrebbero essere meno convinti della capacità di quello che avevano ribattezzato Super Mario di passare dalle parole ai fatti.
Ma la Bundesbank non è l’unica istituzione che farebbe bene a prendere nota del punto di vista del presidente della Bce. Draghi ha parlato anche al governo di Berlino, uno dei suoi più forti alleati nella decisione di lanciare prima lo scudo monetario chiamato “Outright Monetary Transactions”, che rassicura i mercati che la Bce si comporterà come prestatore di ultima istanza ai governi, e poi il “Quantitative Easing”. Oggi Berlino punta i piedi sulla cosiddetta garanzia comune sui depositi, che, come ha ricordato ieri Draghi, è necessaria per completare il progetto di unione bancaria. Senza questa garanzia, alcune banche, come quelle tedesche, verranno percepite come più forti, per esempio, di quelle italiane, solo perché hanno alle spalle un cordone di protezione — bancario e governativo — più solido.
Il grido d’allarme di Draghi dovrebbe però raggiungere anche il nostro governo a Roma, che giustamente si aspetta passi in avanti sia sul fronte della politica monetaria sia su quello del completamento dell’unione bancaria. Come ha dimostrato la storia recente, questi progressi avvengono anche grazie a un clima di fiducia reciproca fra i diversi Paesi che compongono la zona euro.
Gli attacchi continui di porzioni del nostro esecutivo verso le istituzioni europee rischiano di indebolire i già fragili compromessi su cui si basano i passi avanti della moneta unica. L’indebolimento della spinta riformista, insieme ad alcune scelte fiscali come il taglio delle tasse sulla prima casa invece di un più forte sostegno agli investimenti o alle assunzioni, possono poi finire col rafforzare quelle voci critiche che sostengono che proprio quando la Bce agisce i governi si rilassano.
Un nuovo rallentamento dell’economia mondiale potrebbe portare la Bce e le altre istituzioni europee a discutere di misure che fino a pochi mesi fa sembravano lontane. L’Italia deve essere una voce autorevole a questo tavolo, non un lamento di sottofondo che gli altri Paesi fanno fatica a ascoltare.
I tre messaggi di super-Mario
di Ferdinando Giugliano
IERI Mario Draghi non avrebbe potuto scegliere un ambiente intellettualmente più ostile per le sue parole.
UN appello in favore di nuovi interventi da parte della Banca Centrale Europea per far risalire l’inflazione nella zona euro. Il presidente della Bce stava infatti parlando all’interno degli uffici regionali della Bundesbank, la potente banca centrale tedesca che da sempre è scettica sulle misure non convenzionali di politica monetaria come l’acquisto di titoli di stato. Seduto in platea c’era Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, che spesso si trova a dissentire da Draghi all’interno del consiglio direttivo della Bce.
Il discorso è solo l’ultimo di una serie di interventi che il presidente della Bce sta pronunciando prima della riunione del consiglio direttivo di marzo, da cui i mercati si aspettano nuove misure di stimolo. L’obiettivo è presumibilmente quello di assicurarsi che ai piani alti della Bce ci sia il sostegno necessario per approvare un pacchetto che non deluda le attese. A gennaio, il presidente della Bce ha parlato di un consiglio unanime nel sostenere la necessità di rivedere la politica monetaria tra un mese, ma il rischio è che si crei un fronte interno, che limiti le azioni di Draghi come è già successo a dicembre.
Ci sono pochi dubbi che la lettura del presidente della Bce sia corretta dal punto di vista economico. L’inflazione nella zona euro è allo 0,4 per cento, ben al di sotto dell’obbiettivo di poco inferiore al 2 per cento che la Bce si è posta. È proprio l’ortodossia monetaria cara alla Bundesbank a richiedere che la banca centrale si muova per far tornare l’inflazione al suo target.
Un’obiezione ripetuta più volte da Weidmann è che la debolezza nella crescita dei prezzi sia legata soprattutto al crollo del costo delle materie prime, un elemento che le banche centrali dovrebbero ignorare perché temporaneo. Ma se questo ragionamento è in teoria corretto, è anche vero che l’andamento dei prezzi escludendo il costo di prodotti come il greggio resta comunque debole. Anche le aspettative di inflazione, che misurano il rischio che consumatori e aziende si aspettino prezzi più bassi in futuro e dunque rimandino le loro decisioni di spesa e investimento, sono sotto il livello di guardia.
Vincere la resistenza della Bundesbank, o quanto meno isolarla, è dunque fondamentale per aiutare la ripresa europea che, come mostrato dal taglio delle stime di crescita fatto ieri dalla Commissione Europea, si scopre oggi più vulnerabile del previsto alle debolezze delle economie emergenti. Il meeting della Bce di marzo è poi fondamentale per riaffermare la credibilità di Draghi davanti ai mercati: dopo le promesse di nuovi stimoli fatte a gennaio, le borse hanno reagito in modo positivo per meno tempo che in passato. Si tratta di un segnale che oggi gli investitori potrebbero essere meno convinti della capacità di quello che avevano ribattezzato Super Mario di passare dalle parole ai fatti.
Ma la Bundesbank non è l’unica istituzione che farebbe bene a prendere nota del punto di vista del presidente della Bce. Draghi ha parlato anche al governo di Berlino, uno dei suoi più forti alleati nella decisione di lanciare prima lo scudo monetario chiamato “Outright Monetary Transactions”, che rassicura i mercati che la Bce si comporterà come prestatore di ultima istanza ai governi, e poi il “Quantitative Easing”. Oggi Berlino punta i piedi sulla cosiddetta garanzia comune sui depositi, che, come ha ricordato ieri Draghi, è necessaria per completare il progetto di unione bancaria. Senza questa garanzia, alcune banche, come quelle tedesche, verranno percepite come più forti, per esempio, di quelle italiane, solo perché hanno alle spalle un cordone di protezione — bancario e governativo — più solido.
Il grido d’allarme di Draghi dovrebbe però raggiungere anche il nostro governo a Roma, che giustamente si aspetta passi in avanti sia sul fronte della politica monetaria sia su quello del completamento dell’unione bancaria. Come ha dimostrato la storia recente, questi progressi avvengono anche grazie a un clima di fiducia reciproca fra i diversi Paesi che compongono la zona euro.
Gli attacchi continui di porzioni del nostro esecutivo verso le istituzioni europee rischiano di indebolire i già fragili compromessi su cui si basano i passi avanti della moneta unica. L’indebolimento della spinta riformista, insieme ad alcune scelte fiscali come il taglio delle tasse sulla prima casa invece di un più forte sostegno agli investimenti o alle assunzioni, possono poi finire col rafforzare quelle voci critiche che sostengono che proprio quando la Bce agisce i governi si rilassano.
Un nuovo rallentamento dell’economia mondiale potrebbe portare la Bce e le altre istituzioni europee a discutere di misure che fino a pochi mesi fa sembravano lontane. L’Italia deve essere una voce autorevole a questo tavolo, non un lamento di sottofondo che gli altri Paesi fanno fatica a ascoltare.
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Re: La crisi dell'Europa
La cavalcata delle valchirie
https://www.youtube.com/watch?v=-lxlQITXBAQ
Deutsche Bank: 20 volte il Pil tedesco, ma è carta straccia
Scritto il 08/2/16 • nella Categoria: segnalazioni
E’ arrivato il momento del panico per Deutsche Bank? Quello che sembrava un colosso finanziario, si rivela la banca speculativa più esposta al mondo, con un mostruoso giacimento di titoli tossici: qualcosa come 75.000 miliardi di dollari in derivati, cioè 20 volte il Pil della Germania. E ora la realtà sta venendo alla luce, facendo temere il minaccioso collasso del “gigante d’argilla” tedesco. Un evento che – da solo – potrebbe terremotare in modo irreparabile la finanza europea, mettendo in pericolo il sistema finanziario mondiale. Lo sostiene “Zero Hedge”, in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero” che riprende e rilancia un allarme datato almeno 2013 sul rischio sistemico rappresentato dall’istituto bancario di Francoforte. Già nell’aprile del 2013, infatti, “Zero Hedge” aveva mostrato per la prima volta qualcosa di cui pochi erano a conoscenza, vale a dire che «con 72.800 miliardi di dollari, la banca più esposta ai derivati del mondo» non era Jp Morgan come alcuni pensavano, ma il colosso bancario tedesco, Deutsche Bank. Alcuni hanno alzato le spalle, dicendo che non si dovrebbe mai guardare l’esposizione lorda ai derivati ma solo la netta. Risposta: «Il netto diventa immediatamente pari al lordo quando anche una sola controparte nella catena dei collaterali va a picco: si vedano ad esempio i fallimenti Lehman e Aig e il conseguente terremoto per salvare il mondo intero, costato migliaia di miliardi di fondi dei contribuenti».
L’anno seguente, nuovo allarme: Deutsche Bank diventa “l’elefante nella stanza”, con una devastante esposizione in derivati (75.000 miliardi di dollari, 20 volte superiore al Pil tedesco). Lo scorso giugno, una domanda ancora più diretta: «Deutsche Bank è la prossima Lehman?». A preoccupare, non era solo il gigantesco rischio sullo stato patrimoniale della banca, «ma il fatto che le sue attività deteriorate avevano finalmente iniziato a intaccare il conto economico, portando a una perdita dopo l’altra, una cambio al vertice dopo l’altro, un accordo giudiziale per aggiotaggio dopo l’altro». Tutto è culminato ora «con la perdita titanica, e da record per la banca, di 7 miliardi di euro, peggiore perfino delle difficoltà della banca anche nel pieno della crisi finanziaria globale», scrive “Zero Hedge”. Come se non bastasse, «anche le altre banche hanno iniziato a prestare attenzione allo stato patrimoniale di Db». Per Citigroup, il “rapporto di leva” (vincolo fondamentale per il capitale) nel caso di Deutsche è al 3,5%, cioè «ben al di sotto dei suoi concorrenti e dell’obiettivo del 4,5% dell’azienda». Ciò implica «un deficit di 15 miliardi di euro». Al netto di manovre possibili, resterebbe ancora una voragine da 7 miliardi che entro il 2017 «rischia di rendere necessario un aumento di capitale fino a 7 miliardi di euro».
E poi, aggiuge “Zero Hedge”, c’è l’enorme buco nero che è la Cina, verso la quale Deutsche Bank è super-esposta. Secondo “New Europe”, «le più grandi banche europee sono esposte in modo significativo verso la Cina e, se dovesse esserci una significativa riduzione della leva finanziaria, l’impatto sarebbe senza dubbio globale». Parliamo di tutto questo, spiega “Zero Hedge”, perché a preoccupare è l’andamento del prezzo delle azioni di Deutsche Bank, in calo vertiginoso dal primo “avvertimento” del 2013 circa i rischi potenziali, enormi, connessi all’azzardo finanziario della banca tedesca. «Ma il grafico a cui tutti dovrebbero prestare attenzione – conclude “Zero Hedge” – non è neppure quello del rischio d’impresa, che è da allarme rosso, bensì quello dei Cds, i “credit default swaps”, relativi al mercato e all’ammissione del rischio: finalmente i dati reali «sono saltati fuori e hanno urlato che c’è qualcosa di molto, molto sbagliato nella banca con la più grande esposizione di derivati nozionali lorda nel mondo. Quindi, ecco la nostra domanda di oggi: è già arrivato il momento del panico per Deutsche Bank?».
E’ arrivato il momento del panico per Deutsche Bank? Quello che sembrava un colosso finanziario, si rivela la banca speculativa più esposta al mondo, con un mostruoso giacimento di titoli tossici: qualcosa come 75.000 miliardi di dollari in derivati, cioè 20 volte il Pil della Germania. E ora la realtà sta venendo alla luce, facendo temere il minaccioso collasso del “gigante d’argilla” tedesco. Un evento che – da solo – potrebbe terremotare in modo irreparabile la finanza europea, mettendo in pericolo il sistema finanziario mondiale. Lo sostiene “Zero Hedge”, in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero” che riprende e rilancia un allarme datato almeno 2013 sul rischio sistemico rappresentato dall’istituto bancario di Francoforte. Già nell’aprile del 2013, infatti, “Zero Hedge” aveva mostrato per la prima volta qualcosa di cui pochi erano a conoscenza, vale a dire che «con 72.800 miliardi di dollari, la banca più esposta ai derivati del mondo» non era Jp Morgan come alcuni pensavano, ma il colosso bancario tedesco, Deutsche Bank. Alcuni hanno alzato le spalle, dicendo che non si dovrebbe mai guardare l’esposizione lorda ai derivati ma solo la netta. Risposta: «Il netto diventa immediatamente pari al lordo quando anche una sola controparte nella catena dei collaterali va a picco: si vedano ad esempio i fallimenti Lehman e Aig e il conseguente terremoto per salvare il mondo intero, costato migliaia di miliardi di fondi dei contribuenti».
L’anno seguente, nuovo allarme: Deutsche Bank diventa “l’elefante nella stanza”, con una devastante esposizione in derivati (75.000 miliardi di dollari, 20 volte superiore al Pil tedesco). Lo scorso giugno, una domanda ancora più diretta: «Deutsche Deutsche BankBank è la prossima Lehman?». A preoccupare, non era solo il gigantesco rischio sullo stato patrimoniale della banca, «ma il fatto che le sue attività deteriorate avevano finalmente iniziato a intaccare il conto economico, portando a una perdita dopo l’altra, una cambio al vertice dopo l’altro, un accordo giudiziale per aggiotaggio dopo l’altro». Tutto è culminato ora «con la perdita titanica, e da record per la banca, di 7 miliardi di euro, peggiore perfino delle difficoltà della banca anche nel pieno della crisi finanziaria globale», scrive “Zero Hedge”. Come se non bastasse, «anche le altre banche hanno iniziato a prestare attenzione allo stato patrimoniale di Db». Per Citigroup, il “rapporto di leva” (vincolo fondamentale per il capitale) nel caso di Deutsche è al 3,5%, cioè «ben al di sotto dei suoi concorrenti e dell’obiettivo del 4,5% dell’azienda». Ciò implica «un deficit di 15 miliardi di euro». Al netto di manovre possibili, resterebbe ancora una voragine da 7 miliardi che entro il 2017 «rischia di rendere necessario un aumento di capitale fino a 7 miliardi di euro».
E poi, aggiuge “Zero Hedge”, c’è l’enorme buco nero che è la Cina, verso la quale Deutsche Bank è super-esposta. Secondo “New Europe”, «le più grandi banche europee sono esposte in modo significativo verso la Cina e, se dovesse esserci una significativa riduzione della leva finanziaria, l’impatto sarebbe senza dubbio globale». Parliamo di tutto questo, spiega “Zero Hedge”, perché a preoccupare è l’andamento del prezzo delle azioni di Deutsche Bank, in calo vertiginoso dal primo “avvertimento” del 2013 circa i rischi potenziali, enormi, connessi all’azzardo finanziario della banca tedesca. «Ma il grafico a cui tutti dovrebbero prestare attenzione – conclude “Zero Hedge” – non è neppure quello del rischio d’impresa, che è da allarme rosso, bensì quello dei Cds, i “credit default swaps”, relativi al mercato e all’ammissione del rischio: finalmente i dati reali «sono saltati fuori e hanno urlato che c’è qualcosa di molto, molto sbagliato nella banca con la più grande esposizione di derivati nozionali lorda nel mondo. Quindi, ecco la nostra domanda di oggi: è già arrivato il momento del panico per Deutsche Bank?».
https://www.youtube.com/watch?v=-lxlQITXBAQ
Deutsche Bank: 20 volte il Pil tedesco, ma è carta straccia
Scritto il 08/2/16 • nella Categoria: segnalazioni
E’ arrivato il momento del panico per Deutsche Bank? Quello che sembrava un colosso finanziario, si rivela la banca speculativa più esposta al mondo, con un mostruoso giacimento di titoli tossici: qualcosa come 75.000 miliardi di dollari in derivati, cioè 20 volte il Pil della Germania. E ora la realtà sta venendo alla luce, facendo temere il minaccioso collasso del “gigante d’argilla” tedesco. Un evento che – da solo – potrebbe terremotare in modo irreparabile la finanza europea, mettendo in pericolo il sistema finanziario mondiale. Lo sostiene “Zero Hedge”, in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero” che riprende e rilancia un allarme datato almeno 2013 sul rischio sistemico rappresentato dall’istituto bancario di Francoforte. Già nell’aprile del 2013, infatti, “Zero Hedge” aveva mostrato per la prima volta qualcosa di cui pochi erano a conoscenza, vale a dire che «con 72.800 miliardi di dollari, la banca più esposta ai derivati del mondo» non era Jp Morgan come alcuni pensavano, ma il colosso bancario tedesco, Deutsche Bank. Alcuni hanno alzato le spalle, dicendo che non si dovrebbe mai guardare l’esposizione lorda ai derivati ma solo la netta. Risposta: «Il netto diventa immediatamente pari al lordo quando anche una sola controparte nella catena dei collaterali va a picco: si vedano ad esempio i fallimenti Lehman e Aig e il conseguente terremoto per salvare il mondo intero, costato migliaia di miliardi di fondi dei contribuenti».
L’anno seguente, nuovo allarme: Deutsche Bank diventa “l’elefante nella stanza”, con una devastante esposizione in derivati (75.000 miliardi di dollari, 20 volte superiore al Pil tedesco). Lo scorso giugno, una domanda ancora più diretta: «Deutsche Bank è la prossima Lehman?». A preoccupare, non era solo il gigantesco rischio sullo stato patrimoniale della banca, «ma il fatto che le sue attività deteriorate avevano finalmente iniziato a intaccare il conto economico, portando a una perdita dopo l’altra, una cambio al vertice dopo l’altro, un accordo giudiziale per aggiotaggio dopo l’altro». Tutto è culminato ora «con la perdita titanica, e da record per la banca, di 7 miliardi di euro, peggiore perfino delle difficoltà della banca anche nel pieno della crisi finanziaria globale», scrive “Zero Hedge”. Come se non bastasse, «anche le altre banche hanno iniziato a prestare attenzione allo stato patrimoniale di Db». Per Citigroup, il “rapporto di leva” (vincolo fondamentale per il capitale) nel caso di Deutsche è al 3,5%, cioè «ben al di sotto dei suoi concorrenti e dell’obiettivo del 4,5% dell’azienda». Ciò implica «un deficit di 15 miliardi di euro». Al netto di manovre possibili, resterebbe ancora una voragine da 7 miliardi che entro il 2017 «rischia di rendere necessario un aumento di capitale fino a 7 miliardi di euro».
E poi, aggiuge “Zero Hedge”, c’è l’enorme buco nero che è la Cina, verso la quale Deutsche Bank è super-esposta. Secondo “New Europe”, «le più grandi banche europee sono esposte in modo significativo verso la Cina e, se dovesse esserci una significativa riduzione della leva finanziaria, l’impatto sarebbe senza dubbio globale». Parliamo di tutto questo, spiega “Zero Hedge”, perché a preoccupare è l’andamento del prezzo delle azioni di Deutsche Bank, in calo vertiginoso dal primo “avvertimento” del 2013 circa i rischi potenziali, enormi, connessi all’azzardo finanziario della banca tedesca. «Ma il grafico a cui tutti dovrebbero prestare attenzione – conclude “Zero Hedge” – non è neppure quello del rischio d’impresa, che è da allarme rosso, bensì quello dei Cds, i “credit default swaps”, relativi al mercato e all’ammissione del rischio: finalmente i dati reali «sono saltati fuori e hanno urlato che c’è qualcosa di molto, molto sbagliato nella banca con la più grande esposizione di derivati nozionali lorda nel mondo. Quindi, ecco la nostra domanda di oggi: è già arrivato il momento del panico per Deutsche Bank?».
E’ arrivato il momento del panico per Deutsche Bank? Quello che sembrava un colosso finanziario, si rivela la banca speculativa più esposta al mondo, con un mostruoso giacimento di titoli tossici: qualcosa come 75.000 miliardi di dollari in derivati, cioè 20 volte il Pil della Germania. E ora la realtà sta venendo alla luce, facendo temere il minaccioso collasso del “gigante d’argilla” tedesco. Un evento che – da solo – potrebbe terremotare in modo irreparabile la finanza europea, mettendo in pericolo il sistema finanziario mondiale. Lo sostiene “Zero Hedge”, in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero” che riprende e rilancia un allarme datato almeno 2013 sul rischio sistemico rappresentato dall’istituto bancario di Francoforte. Già nell’aprile del 2013, infatti, “Zero Hedge” aveva mostrato per la prima volta qualcosa di cui pochi erano a conoscenza, vale a dire che «con 72.800 miliardi di dollari, la banca più esposta ai derivati del mondo» non era Jp Morgan come alcuni pensavano, ma il colosso bancario tedesco, Deutsche Bank. Alcuni hanno alzato le spalle, dicendo che non si dovrebbe mai guardare l’esposizione lorda ai derivati ma solo la netta. Risposta: «Il netto diventa immediatamente pari al lordo quando anche una sola controparte nella catena dei collaterali va a picco: si vedano ad esempio i fallimenti Lehman e Aig e il conseguente terremoto per salvare il mondo intero, costato migliaia di miliardi di fondi dei contribuenti».
L’anno seguente, nuovo allarme: Deutsche Bank diventa “l’elefante nella stanza”, con una devastante esposizione in derivati (75.000 miliardi di dollari, 20 volte superiore al Pil tedesco). Lo scorso giugno, una domanda ancora più diretta: «Deutsche Deutsche BankBank è la prossima Lehman?». A preoccupare, non era solo il gigantesco rischio sullo stato patrimoniale della banca, «ma il fatto che le sue attività deteriorate avevano finalmente iniziato a intaccare il conto economico, portando a una perdita dopo l’altra, una cambio al vertice dopo l’altro, un accordo giudiziale per aggiotaggio dopo l’altro». Tutto è culminato ora «con la perdita titanica, e da record per la banca, di 7 miliardi di euro, peggiore perfino delle difficoltà della banca anche nel pieno della crisi finanziaria globale», scrive “Zero Hedge”. Come se non bastasse, «anche le altre banche hanno iniziato a prestare attenzione allo stato patrimoniale di Db». Per Citigroup, il “rapporto di leva” (vincolo fondamentale per il capitale) nel caso di Deutsche è al 3,5%, cioè «ben al di sotto dei suoi concorrenti e dell’obiettivo del 4,5% dell’azienda». Ciò implica «un deficit di 15 miliardi di euro». Al netto di manovre possibili, resterebbe ancora una voragine da 7 miliardi che entro il 2017 «rischia di rendere necessario un aumento di capitale fino a 7 miliardi di euro».
E poi, aggiuge “Zero Hedge”, c’è l’enorme buco nero che è la Cina, verso la quale Deutsche Bank è super-esposta. Secondo “New Europe”, «le più grandi banche europee sono esposte in modo significativo verso la Cina e, se dovesse esserci una significativa riduzione della leva finanziaria, l’impatto sarebbe senza dubbio globale». Parliamo di tutto questo, spiega “Zero Hedge”, perché a preoccupare è l’andamento del prezzo delle azioni di Deutsche Bank, in calo vertiginoso dal primo “avvertimento” del 2013 circa i rischi potenziali, enormi, connessi all’azzardo finanziario della banca tedesca. «Ma il grafico a cui tutti dovrebbero prestare attenzione – conclude “Zero Hedge” – non è neppure quello del rischio d’impresa, che è da allarme rosso, bensì quello dei Cds, i “credit default swaps”, relativi al mercato e all’ammissione del rischio: finalmente i dati reali «sono saltati fuori e hanno urlato che c’è qualcosa di molto, molto sbagliato nella banca con la più grande esposizione di derivati nozionali lorda nel mondo. Quindi, ecco la nostra domanda di oggi: è già arrivato il momento del panico per Deutsche Bank?».
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