La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
Repubblica 21.4.16
Da Atene a Auschwitz chi ha tradito la democrazia
di Ezio Mauro
La lezione di Jules Isaac un inno alla libertà oggi sempre più attuale
LO splendore eterno della democrazia, tutta la fragilità della sua miseria sono rinchiusi nella vecchia borsa da professore che Jules Isaac si trascina dietro tra i campi e i boschi, i piccoli alberghi e i fienili della Francia meridionale, tra Aix-en-Provence, Chambon-sur-Lignon, Riom e Royat, scappando per nascondersi. Tutt’attorno, il governo di Vichy, l’umiliazione francese del collaborazionismo di Pétain con l’occupante nazista, la deportazione degli ebrei con tre convogli di mille persone che partono ogni settimana per i campi di sterminio. Isaac ha appena subito un rovesciamento totale della sua vita e non ha ancora visto il peggio. Ebreo laico di famiglia alsaziana, padre e nonno decorati con la Legion d’Onore per meriti militari, lui stesso ferito nella Prima guerra mondiale dopo 30 mesi di trincea.
Allievo di Bergson e compagno di Charles Péguy, scrive il manuale di storia su cui studieranno quattro generazioni di francesi e diventa Ispettore generale del ministero dell’Educazione Nazionale. Dal 1940, per le leggi razziali, il maresciallo Pétain che gli aveva chiesto di diventare il suo storiografo lo destituisce da ogni incarico, lo caccia dall’università, lo radia dall’Ordine della Legione. Il professore è bandito, deve lasciare Parigi, non sa dove andare. Ha un amico letterato che insegna ad Aix, lo raggiunge chiedendo
rifugio. Mentre attraversa la linea di demarcazione, con la moglie Laure e i tre figli, legge il cartello del bando di regime: «Passaggio vietato ai negri e agli ebrei».
Cravatta, baffetti grigi, camicia bianca dal colletto floscio, Jules si salva quasi inconsapevolmente passando di mano in mano tra un intellettuale che lo protegge e un professore che lo nasconde, mentre a Parigi l’accademico Abel Bonnard denuncia lo scandalo di vedere «la storia di Francia insegnata ai giovani dai libri di un Isaac». Nella semiclandestinità di Vichy la famiglia cambia nome, si chiama Marc. Ma la Gestapo si avvicina. Daniel, il figlio più grande, collabora con la Resistenza, i Marc finiscono sotto osservazione. All’inizio di ottobre del ’43 la polizia arresta il figlio minore, Jean-Claude, con la sorella Juliette e il marito. La madre parte subito per Vichy chiedendo notizie dei suoi: il giorno dopo la Gestapo verrà a Riom per arrestarla insieme col marito. Jules Isaac è fuori, sfugge per una casuale combinazione del destino al campo di Auschwitz dove moriranno la moglie, la figlia e il genero, mentre il figlio riesce a fuggire. Solo, senza più libri né famiglia, il professore sopravvive scrivendo. Anzi, scrivendo trova la forza per resistere, il suo modo per testimoniare. A Aix-en-Provence aveva iniziato un lavoro sulla caduta della democrazia di Atene per mano degli oligarchi. Tra gli spettri di Vichy il saggio entra e esce dalla cartella, trova tavoli di fortuna, luci notturne, angoli rubati alla disperazione. Si dilata nel suo spazio morale, i piani della tragedia contemporanea e del dramma dell’antichità si confondono e si sovrappongono, mentre la lezione di civismo si unifica in un atto di fede disperato nella democrazia che testimonia se stessa, morendo. Si può fare storia, nell’abisso di Vichy? Si deve, dice a se stesso Isaac, perché è l’unico modo che lui ha per restare se stesso mentre è privato di tutto, e soprattutto è il modo più giusto per interpretare il presente. «Voglio mostrare quale fu il ruolo del partito oligarchico di Atene, nemico mortale della democrazia — spiega nella prima pagina degli Oligarchi, ora pubblicato da Sellerio — Nel 404 avanti Cristo Atene dovette piegare le ginocchia davanti a Sparta. È nel 1942 dopo Cristo, nella Francia soggiogata dalla Germania hitleriana, che queste pagine sono state scritte. Duemilatrecentoquarantasei anni — la metà dei tempi storici — separano l’autore dal suo soggetto. Piuttosto che nello spazio ha scelto di fuggirsene nel tempo. Ed ecco quel che vi ha trovato ». La libertà, vista dal fondo del vortice nazista, è il cuore di ciò che Atene ha perduto e di ciò che aveva costruito negli anni della sua felicità insolente, con l’avorio, il marmo e l’oro dell’Acropoli che riflettevano la maestà imperiale di una democrazia sfavillante nella trinità senza mistero del potere, della ricchezza, delle belle arti riunite davanti al Pireo sui cui banconi si raccoglievano tutti i prodotti dell’universo. Se Sparta è quasi una creatura ideologica, incarnando nella sua durezza l’idealtipo oligarchico, Atene resta l’archetipo dell’ideale democratico, ingigantito nel suo fascino dallo splendore della città. Ma la bellezza non salva da sola la democrazia. Anzi, la bellezza si espone agli dei vendicatori che «per realizzare i loro disegni trovano sempre gli uomini adatti, all’ora adatta, quella del disastro».
Gli uomini sono gli oligarchi. La descrizione di questa classe-setta di Atene nel 404 a.C. vale per il potere collaborazionista del 1942, ma vale anche oggi, settant’anni dopo. Non sono la maggioranza moderata dell’aristocrazia ateniese (fatta di uomini d’ordine conservatori e moderati, nemici della violenza) ma il suo cuore radicale e ideologico, settario, nemico del popolo e della democrazia, trascinato da una capacità d’odio talmente assoluta da spingerli a puntare ogni volta sul peggio, a sognare il disastro da cui trarre profitto, invocando persino la guerra sperando che finisca male. Le parole d’ordine sono quelle eterne dell’ideologia conservatrice d’ogni tempo, Natura e Forza, con Callicle che nel Gorgia di Platone spiega come «la legge sia fatta dai deboli e per loro. Ma la natura stessa dimostra che per essere giusti colui che vale di più deve prevalere su colui che vale di meno, il capace sull’incapace». Se dunque la democrazia è questa istituzione contronatura da abbattere a tutti i costi e senza rimorsi, occorre ancora l’occasione, quel “vento cattivo” capace di gonfiare le vele dell’oligarchia. Insieme, come nota oggi Luciano Canfora in una bellissima prefazione, a due cedimenti nella democrazia ateniese che si riprodurranno anche negli anni di Vichy: una forte corrente politica interna al Paese stremato pronta ad accogliere il “nuovo ordine”, il trasformismo opportunistico dei capi popolari pronti sia in Francia che ad Atene a passare con gli estremisti del nuovo potere.
Quando la flotta ateniese della spedizione di Sicilia è annientata, con la città in lutto, ecco per gli oligarchi l’occasione, anzi “la divina sorpresa”, come Charles Maurras nel 1942 saluterà l’arrivo al potere a Vichy del maresciallo Pétain: «Nel disastro e nella rotta le nostre idee si trovavano molto vicine a giungere al potere». Ad Atene “la divina sorpresa” è un’opinione pubblica sconcertata e provata dalla guerra, pronta a tutto. Guardandosi attorno nelle campagne di Vichy, Isaac annota il clima del terrore ateniese: «Conversioni, servilismi verso i nuovi padroni, una splendida fioritura di vigliaccheria », mentre i Trenta oligarchi divideranno i pieni poteri, la violenza, la sopraffazione, perché è fatale che l’usurpazione finisca in repressione, finché i cittadini si ribellano e Atene intera giura nuovamente fedeltà alla democrazia. Ma ecco nel 406 il processo agli strateghi, con i membri delle famiglie degli equipaggi delle triremi morti senza sepoltura che prendono posto in Assemblea vestiti di nero e con la testa rasata a zero, insieme testimoni, vittime e accusatori dei sei strateghi schiacciati dalla forza simbolica della loro presenza. Così quando Callisseno chiede un verdetto collettivo, una sola sentenza che vincoli tutti gli accusati nella colpa mandandoli insieme al supplizio, a nulla vale il richiamo alla legge, al giuramento democratico, agli dei. «Come presa da follia la democrazia era caduta nella trappola in cui i suoi nemici l’avevano attirata», scrive Isaac. Meno di un anno dopo Lisandro annienta la flotta di Atene che dopo l’assedio e la fame capitola accettando di subordinarsi a Sparta su terra e in mare: «Era la libertà nella schiavitù».
La Francia collaborazionista con Hitler che la occupa spiega a Jules Isaac quel che è potuto accadere alla democrazia ateniese: come quando un uomo perde conoscenza per uno choc violento, scrive, così capita che un popolo precipitato dalla sua grandezza resti come inerte, privo di coscienza, alla mercé delle canaglie o dei fanatici. Così ad Atene il colpo di Stato va in scena «con il demos incatenato e il nemico all’Acropoli», come vogliono gli oligarchi. A loro infine si rivolgerà Trasibulo dopo aver sacrificato alla dea gratitudine per la città ritrovata dopo il terrore e l’arbitrio: «Ditemi, dunque, su che cosa voi fondate la vostra superiorità? Il popolo vale molto più di voi, dimentico del male che avete fatto saprà mantenere il suo giuramento». La malvagità dei cosiddetti “buoni”, nota Isaac, sarà stata superata solo dalla clemenza dei “cattivi”. Da allora, aggiunge, «sono trascorsi 2344 anni, e mentre sto scrivendo queste ultime righe da qualche parte in Francia — quella che fu la Francia — il sabato 17 ottobre 1942, i “buoni” sono sempre così malvagi, resta da sapere se i “cattivi” saranno così magnanimi».
Nelle stesse ore i giornali fascisti di Vichy spiegavano le ragioni dei “buoni”. Basta scorrere gli articoli di Robert Brasillach su Je suis partout scritti proprio in quei giorni e appena ripubblicati in Italia da Settimo Sigillo: «Il dottor Goebbels ha pronunciato parole che sarebbe uno sbaglio non meditare sui popoli che si ripiegano su se stessi, sui popoli che sognano solo della passata opulenza e non si rendono conto dello sforzo che fa la Germania ». Ma «il cancelliere Hitler ha agito in fretta. In mezzo agli innumerevoli impegni che l’ultimo cavaliere dell’ordine teutonico ha nel suo territorio orientale, egli ha avuto per la Francia questo pensiero simbolico, significativo e pratico. Non siamo spariti dal campo d’azione del mondo nuovo». Tuttavia «l’attendismo non paga». «Per andare d’accordo con il nuovo mondo ci vuole una Francia nuova. Per andare d’accordo con l’Europa fascista ci vuole una Francia fascista».
Era l’11 settembre 1942 quando Brasilach scriveva questa esortazione. Da qualche parte nella campagna, probabilmente di notte, Jules Isaac tirava fuori dalla sua borsa per un’ultima volta il manoscritto degli Oligarchi per la correzione finale. Da poco aveva cominciato a rileggere i Vangeli in greco, grazie al prestito di un curato di paese, e a ragionare sullo scarto tra gli scritti evangelici e l’insegnamento della Chiesa sugli ebrei. Incomincia a lavorare sul testo di Gesù e Israele, il libro in base al quale chiederà nel ’49 a Pio XII di rivedere la preghiera del Venerdì Santo, offensiva per gli ebrei, finché nel ’60 sarà ricevuto in udienza privata da Giovanni XXIII, ispirandogli la revisione fondamentale della Nostra Aetate.
In quei giorni un secondo manoscritto cresce dunque nella cartella del professore che si muove alla macchia, sulla strada tra Riom e Clermond Ferrand con indosso l’ultimo vestito che gli è rimasto, nascondendosi di giorno per scrivere di notte, fedele a quel messaggio che la moglie gli ha lasciato sull’ultimo biglietto prima dell’arresto, e che lui tiene nel portafoglio: «Mio caro, prenditi cura di te, abbi fiducia e finisci il tuo lavoro. Il mondo lo aspetta».
Parla delle vicende narrate da Tucidide ma ha negli occhi i collaborazionisti Sua moglie e sua figlia moriranno ad Auschwitz, lui si salverà per un caso
IL LIBRO Jules Isaac Gli Oligarchi ( trad. P. Fai Sellerio pagg. 392 14 euro)
Da Atene a Auschwitz chi ha tradito la democrazia
di Ezio Mauro
La lezione di Jules Isaac un inno alla libertà oggi sempre più attuale
LO splendore eterno della democrazia, tutta la fragilità della sua miseria sono rinchiusi nella vecchia borsa da professore che Jules Isaac si trascina dietro tra i campi e i boschi, i piccoli alberghi e i fienili della Francia meridionale, tra Aix-en-Provence, Chambon-sur-Lignon, Riom e Royat, scappando per nascondersi. Tutt’attorno, il governo di Vichy, l’umiliazione francese del collaborazionismo di Pétain con l’occupante nazista, la deportazione degli ebrei con tre convogli di mille persone che partono ogni settimana per i campi di sterminio. Isaac ha appena subito un rovesciamento totale della sua vita e non ha ancora visto il peggio. Ebreo laico di famiglia alsaziana, padre e nonno decorati con la Legion d’Onore per meriti militari, lui stesso ferito nella Prima guerra mondiale dopo 30 mesi di trincea.
Allievo di Bergson e compagno di Charles Péguy, scrive il manuale di storia su cui studieranno quattro generazioni di francesi e diventa Ispettore generale del ministero dell’Educazione Nazionale. Dal 1940, per le leggi razziali, il maresciallo Pétain che gli aveva chiesto di diventare il suo storiografo lo destituisce da ogni incarico, lo caccia dall’università, lo radia dall’Ordine della Legione. Il professore è bandito, deve lasciare Parigi, non sa dove andare. Ha un amico letterato che insegna ad Aix, lo raggiunge chiedendo
rifugio. Mentre attraversa la linea di demarcazione, con la moglie Laure e i tre figli, legge il cartello del bando di regime: «Passaggio vietato ai negri e agli ebrei».
Cravatta, baffetti grigi, camicia bianca dal colletto floscio, Jules si salva quasi inconsapevolmente passando di mano in mano tra un intellettuale che lo protegge e un professore che lo nasconde, mentre a Parigi l’accademico Abel Bonnard denuncia lo scandalo di vedere «la storia di Francia insegnata ai giovani dai libri di un Isaac». Nella semiclandestinità di Vichy la famiglia cambia nome, si chiama Marc. Ma la Gestapo si avvicina. Daniel, il figlio più grande, collabora con la Resistenza, i Marc finiscono sotto osservazione. All’inizio di ottobre del ’43 la polizia arresta il figlio minore, Jean-Claude, con la sorella Juliette e il marito. La madre parte subito per Vichy chiedendo notizie dei suoi: il giorno dopo la Gestapo verrà a Riom per arrestarla insieme col marito. Jules Isaac è fuori, sfugge per una casuale combinazione del destino al campo di Auschwitz dove moriranno la moglie, la figlia e il genero, mentre il figlio riesce a fuggire. Solo, senza più libri né famiglia, il professore sopravvive scrivendo. Anzi, scrivendo trova la forza per resistere, il suo modo per testimoniare. A Aix-en-Provence aveva iniziato un lavoro sulla caduta della democrazia di Atene per mano degli oligarchi. Tra gli spettri di Vichy il saggio entra e esce dalla cartella, trova tavoli di fortuna, luci notturne, angoli rubati alla disperazione. Si dilata nel suo spazio morale, i piani della tragedia contemporanea e del dramma dell’antichità si confondono e si sovrappongono, mentre la lezione di civismo si unifica in un atto di fede disperato nella democrazia che testimonia se stessa, morendo. Si può fare storia, nell’abisso di Vichy? Si deve, dice a se stesso Isaac, perché è l’unico modo che lui ha per restare se stesso mentre è privato di tutto, e soprattutto è il modo più giusto per interpretare il presente. «Voglio mostrare quale fu il ruolo del partito oligarchico di Atene, nemico mortale della democrazia — spiega nella prima pagina degli Oligarchi, ora pubblicato da Sellerio — Nel 404 avanti Cristo Atene dovette piegare le ginocchia davanti a Sparta. È nel 1942 dopo Cristo, nella Francia soggiogata dalla Germania hitleriana, che queste pagine sono state scritte. Duemilatrecentoquarantasei anni — la metà dei tempi storici — separano l’autore dal suo soggetto. Piuttosto che nello spazio ha scelto di fuggirsene nel tempo. Ed ecco quel che vi ha trovato ». La libertà, vista dal fondo del vortice nazista, è il cuore di ciò che Atene ha perduto e di ciò che aveva costruito negli anni della sua felicità insolente, con l’avorio, il marmo e l’oro dell’Acropoli che riflettevano la maestà imperiale di una democrazia sfavillante nella trinità senza mistero del potere, della ricchezza, delle belle arti riunite davanti al Pireo sui cui banconi si raccoglievano tutti i prodotti dell’universo. Se Sparta è quasi una creatura ideologica, incarnando nella sua durezza l’idealtipo oligarchico, Atene resta l’archetipo dell’ideale democratico, ingigantito nel suo fascino dallo splendore della città. Ma la bellezza non salva da sola la democrazia. Anzi, la bellezza si espone agli dei vendicatori che «per realizzare i loro disegni trovano sempre gli uomini adatti, all’ora adatta, quella del disastro».
Gli uomini sono gli oligarchi. La descrizione di questa classe-setta di Atene nel 404 a.C. vale per il potere collaborazionista del 1942, ma vale anche oggi, settant’anni dopo. Non sono la maggioranza moderata dell’aristocrazia ateniese (fatta di uomini d’ordine conservatori e moderati, nemici della violenza) ma il suo cuore radicale e ideologico, settario, nemico del popolo e della democrazia, trascinato da una capacità d’odio talmente assoluta da spingerli a puntare ogni volta sul peggio, a sognare il disastro da cui trarre profitto, invocando persino la guerra sperando che finisca male. Le parole d’ordine sono quelle eterne dell’ideologia conservatrice d’ogni tempo, Natura e Forza, con Callicle che nel Gorgia di Platone spiega come «la legge sia fatta dai deboli e per loro. Ma la natura stessa dimostra che per essere giusti colui che vale di più deve prevalere su colui che vale di meno, il capace sull’incapace». Se dunque la democrazia è questa istituzione contronatura da abbattere a tutti i costi e senza rimorsi, occorre ancora l’occasione, quel “vento cattivo” capace di gonfiare le vele dell’oligarchia. Insieme, come nota oggi Luciano Canfora in una bellissima prefazione, a due cedimenti nella democrazia ateniese che si riprodurranno anche negli anni di Vichy: una forte corrente politica interna al Paese stremato pronta ad accogliere il “nuovo ordine”, il trasformismo opportunistico dei capi popolari pronti sia in Francia che ad Atene a passare con gli estremisti del nuovo potere.
Quando la flotta ateniese della spedizione di Sicilia è annientata, con la città in lutto, ecco per gli oligarchi l’occasione, anzi “la divina sorpresa”, come Charles Maurras nel 1942 saluterà l’arrivo al potere a Vichy del maresciallo Pétain: «Nel disastro e nella rotta le nostre idee si trovavano molto vicine a giungere al potere». Ad Atene “la divina sorpresa” è un’opinione pubblica sconcertata e provata dalla guerra, pronta a tutto. Guardandosi attorno nelle campagne di Vichy, Isaac annota il clima del terrore ateniese: «Conversioni, servilismi verso i nuovi padroni, una splendida fioritura di vigliaccheria », mentre i Trenta oligarchi divideranno i pieni poteri, la violenza, la sopraffazione, perché è fatale che l’usurpazione finisca in repressione, finché i cittadini si ribellano e Atene intera giura nuovamente fedeltà alla democrazia. Ma ecco nel 406 il processo agli strateghi, con i membri delle famiglie degli equipaggi delle triremi morti senza sepoltura che prendono posto in Assemblea vestiti di nero e con la testa rasata a zero, insieme testimoni, vittime e accusatori dei sei strateghi schiacciati dalla forza simbolica della loro presenza. Così quando Callisseno chiede un verdetto collettivo, una sola sentenza che vincoli tutti gli accusati nella colpa mandandoli insieme al supplizio, a nulla vale il richiamo alla legge, al giuramento democratico, agli dei. «Come presa da follia la democrazia era caduta nella trappola in cui i suoi nemici l’avevano attirata», scrive Isaac. Meno di un anno dopo Lisandro annienta la flotta di Atene che dopo l’assedio e la fame capitola accettando di subordinarsi a Sparta su terra e in mare: «Era la libertà nella schiavitù».
La Francia collaborazionista con Hitler che la occupa spiega a Jules Isaac quel che è potuto accadere alla democrazia ateniese: come quando un uomo perde conoscenza per uno choc violento, scrive, così capita che un popolo precipitato dalla sua grandezza resti come inerte, privo di coscienza, alla mercé delle canaglie o dei fanatici. Così ad Atene il colpo di Stato va in scena «con il demos incatenato e il nemico all’Acropoli», come vogliono gli oligarchi. A loro infine si rivolgerà Trasibulo dopo aver sacrificato alla dea gratitudine per la città ritrovata dopo il terrore e l’arbitrio: «Ditemi, dunque, su che cosa voi fondate la vostra superiorità? Il popolo vale molto più di voi, dimentico del male che avete fatto saprà mantenere il suo giuramento». La malvagità dei cosiddetti “buoni”, nota Isaac, sarà stata superata solo dalla clemenza dei “cattivi”. Da allora, aggiunge, «sono trascorsi 2344 anni, e mentre sto scrivendo queste ultime righe da qualche parte in Francia — quella che fu la Francia — il sabato 17 ottobre 1942, i “buoni” sono sempre così malvagi, resta da sapere se i “cattivi” saranno così magnanimi».
Nelle stesse ore i giornali fascisti di Vichy spiegavano le ragioni dei “buoni”. Basta scorrere gli articoli di Robert Brasillach su Je suis partout scritti proprio in quei giorni e appena ripubblicati in Italia da Settimo Sigillo: «Il dottor Goebbels ha pronunciato parole che sarebbe uno sbaglio non meditare sui popoli che si ripiegano su se stessi, sui popoli che sognano solo della passata opulenza e non si rendono conto dello sforzo che fa la Germania ». Ma «il cancelliere Hitler ha agito in fretta. In mezzo agli innumerevoli impegni che l’ultimo cavaliere dell’ordine teutonico ha nel suo territorio orientale, egli ha avuto per la Francia questo pensiero simbolico, significativo e pratico. Non siamo spariti dal campo d’azione del mondo nuovo». Tuttavia «l’attendismo non paga». «Per andare d’accordo con il nuovo mondo ci vuole una Francia nuova. Per andare d’accordo con l’Europa fascista ci vuole una Francia fascista».
Era l’11 settembre 1942 quando Brasilach scriveva questa esortazione. Da qualche parte nella campagna, probabilmente di notte, Jules Isaac tirava fuori dalla sua borsa per un’ultima volta il manoscritto degli Oligarchi per la correzione finale. Da poco aveva cominciato a rileggere i Vangeli in greco, grazie al prestito di un curato di paese, e a ragionare sullo scarto tra gli scritti evangelici e l’insegnamento della Chiesa sugli ebrei. Incomincia a lavorare sul testo di Gesù e Israele, il libro in base al quale chiederà nel ’49 a Pio XII di rivedere la preghiera del Venerdì Santo, offensiva per gli ebrei, finché nel ’60 sarà ricevuto in udienza privata da Giovanni XXIII, ispirandogli la revisione fondamentale della Nostra Aetate.
In quei giorni un secondo manoscritto cresce dunque nella cartella del professore che si muove alla macchia, sulla strada tra Riom e Clermond Ferrand con indosso l’ultimo vestito che gli è rimasto, nascondendosi di giorno per scrivere di notte, fedele a quel messaggio che la moglie gli ha lasciato sull’ultimo biglietto prima dell’arresto, e che lui tiene nel portafoglio: «Mio caro, prenditi cura di te, abbi fiducia e finisci il tuo lavoro. Il mondo lo aspetta».
Parla delle vicende narrate da Tucidide ma ha negli occhi i collaborazionisti Sua moglie e sua figlia moriranno ad Auschwitz, lui si salverà per un caso
IL LIBRO Jules Isaac Gli Oligarchi ( trad. P. Fai Sellerio pagg. 392 14 euro)
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Re: La crisi dell'Europa
I TRICOLORI DA ANNI TRANGUGIANO SENZA RIFLETTERE TUTTO QUELLO CHE GLI PROPINANO.
MA ANCHE IN EUROPA NON SCHERZANO.
I doni di Draghi, un mago nero (più pericoloso di Schaeuble)
Scritto il 26/4/16 • nella Categoria: idee
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“Timeo Danaos et dona ferentes” (temo i Greci anche quando portano doni). Con queste parole un lungimirante Laocoonte tentava invano di convincere i Troiani a non fare entrare il famoso “cavallo di Troia” all’interno della città (Virgilio, Eneide, libro II, 49). Come andò a finire la faccenda è storia abbastanza nota. Allo stesso modo, e fatte le dovute proporzioni (Draghi è molto più feroce e cinico dei Greci di allora), gli uomini che conservano un po’ di sale in zucca dovrebbero guardare con estremo sospetto alle recenti mosse del banchiere centrale europeo, improvvisamente accortosi del perdurare di una crisi che ha già “distrutto intere generazioni”. Dopo avere egregiamente avallato la fase del “solve”, ovvero dopo avere promosso, pianificato, diretto e realizzato uno sterminio su larga scala mascherato da “crisi economica”, il mago nero Mario Draghi sente che è quasi giunta l’ora del “coagula”, ovvero della cristallizzazione di un nuovo equilibrio che, una volta raggiunti i risultati voluti in premessa, pacifichi un Vecchio Continente attraversato da crescenti tensioni e insofferenze.La bravura del “mago” non consiste tanto nell’evocare “spiriti” di paura, di ribellione, di odio, di risentimento o di riconoscenza; quanto nel dominarli sempre per scongiurare il rischio di emulare le tristi gesta del famoso dott. Frankenstein. Detta in termini più semplici. Il veleno dell’austerità, la soppressione della democrazia sostanziale e l’aumento di paure e povertà in tutta Europa (fase del “solve”) sono fenomeni – nell’ottica dei padroni occulti – funzionali al consolidamento di un Superstato europeo dominato riservatamente da una invisibile élite del denaro, tappa decisiva per la successiva e finale implementazione di un governo mondiale – calibrato su base federale – in grado di trasferire su un piano politico e materiale quel modello sincretista già trionfante su un piano eminentemente religioso e spirituale. Alla crisi, “solve”, si risponde con più Europa, “coagula”. Questo tipo di pietanze, cucinate dentro “laboratori riservati”, vengono poi portate sulla tavola dei profani da maggiordomi d’élite alla Eugenio Scalfari, non a caso lesto nel chiedere la rapida istituzione di un ministro dell’economia per l’intera eurozona (votato solo da Scalfari, magari).La bravura del mago, come dicevamo, consiste nel dosare gli elementi. In questa fase, mentre cioè il riemergere dei nazionalismi mette in discussione dalle fondamenta l’architettura comunitaria, Draghi sa di dover addolcire la retorica dei “sacrifici amari ma indispensabili” per non correre il rischio di spezzare la corda dopo averla tirata troppo. L’ostinazione invece con la quale Schaeuble e quelli come lui insistono nel mostrarsi feroci fino in fondo, nasconde a mio avviso il perseguimento – per ora sotterraneo – di un obiettivo dissimulato e diverso, palesato però ingenuamente dallo stesso Schaeuble che, nel fare finta di rivolgersi retoricamente a Draghi, si è lasciato sfuggire una excusatio non petita che parla direttamente alla sua lurida coscienza: «Il signor Draghi sarà contento di avere favorito l’exploit del partito Alternative fur Deutschland con le sue scellerate politiche monetarie», ha dichiarato di recente il “falco” (in questo caso più simile ad un asino) del governo Merkel.Non ci vuole un indovino per capire come Schaeuble, prigioniero di una sindrome proiettiva che tradisce un intimo sentimento di timore, attribuisca a Draghi “colpe” (o “meriti” a seconda dei punti di vista) che sono tutte sue. Tutti sanno come esista un rapporto di causa ed affetto tra le politiche di austerità – imposte dall’Ecofin capeggiato da Schaeuble – e il rafforzamento ovunque in Europa di partiti dichiaratamente antieuropeisti. Il Qe varato da Draghi non incide affatto su simili dinamiche politiche, limitandosi a riempire le tasche di quei grandi banchieri che l’ex direttore generale del Tesoro italiano – dimostrando invero una certa coerenza – serve da sempre con riconosciuto zelo, scrupolo e obbedienza. A questo punto chiediamoci: vista dalla visuale di tutti quelli che sperano di potersi un giorno liberare dalla dittatura invisibile e luciferina che opprime e violenta i nostri tempi, quale condotta è potenzialmente più pericolosa? Quella di Draghi o quella di Schaeuble? Io vi dico mille volte quella di Draghi, punta di diamante di un progetto lucido che può infine trionfare solo alternando con sapienza schiaffi (molti) e carezze (poche e solo quando non si può farne a meno). Schaeuble, invece – oramai è chiaro – non avendo il coraggio né la forza di combattere apertis verbis il meraviglioso “fogno europeo” (copyright Alberto Bagnai), prova a farlo fallire in via indiretta, esacerbando cioè un odio fra le nazioni per mezzo delle politiche del rigore; odio che dovrebbe infine generare un nuovo “caos” (dettato dal crescere esponenziale dei diversi nazionalismi in tutti i paesi dell’area euro) dal quale fare nascere un definitivo e diverso “ordine”, che, nella mente di Schaeuble e compari non dovrà somigliare affatto a quello immaginato da Draghi e rispettivi danti causa.Al punto in cui siamo, in sintesi, è meglio che le tensioni divampino fino ad esplodere completamente, consentendo agli eventi di prendere una direzione molto diversa rispetto a quella vagheggiata dal principio da “maghi neri” alla Mario Draghi, retrocessi infine al ruolo ridicolo di “apprendisti stregoni” agli occhi del mondo intero. Naturalmente questo tipo di ragionamento non rivaluta per nulla la figura di Wolfang Schaeuble, che era e resta materia d’inferno. Ma come si evince dalla lettura del “libro di Giobbe”, la benevolenza di Dio può trionfare anche per mezzo dell’opera del male. L’importante è mantenere sempre la forza e la lucidità di sapere che il “male” va tenuto costantemente in una posizione “strumentale” e “servente”, per mezzo di quella saldezza d’animo e atarassia della mente che rappresentano i doni più importanti con i quali lo “spirito” assiste e gratifica chi opera nel mondo mosso da un amore autentico, incondizionato, disinteressato e celeste.(Francesco Maria Toscano, “Mario Draghi è molto più pericoloso di Wolfgang Schaeuble”, dal blog “Il Moralista” del 21 aprile 2016).
MA ANCHE IN EUROPA NON SCHERZANO.
I doni di Draghi, un mago nero (più pericoloso di Schaeuble)
Scritto il 26/4/16 • nella Categoria: idee
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“Timeo Danaos et dona ferentes” (temo i Greci anche quando portano doni). Con queste parole un lungimirante Laocoonte tentava invano di convincere i Troiani a non fare entrare il famoso “cavallo di Troia” all’interno della città (Virgilio, Eneide, libro II, 49). Come andò a finire la faccenda è storia abbastanza nota. Allo stesso modo, e fatte le dovute proporzioni (Draghi è molto più feroce e cinico dei Greci di allora), gli uomini che conservano un po’ di sale in zucca dovrebbero guardare con estremo sospetto alle recenti mosse del banchiere centrale europeo, improvvisamente accortosi del perdurare di una crisi che ha già “distrutto intere generazioni”. Dopo avere egregiamente avallato la fase del “solve”, ovvero dopo avere promosso, pianificato, diretto e realizzato uno sterminio su larga scala mascherato da “crisi economica”, il mago nero Mario Draghi sente che è quasi giunta l’ora del “coagula”, ovvero della cristallizzazione di un nuovo equilibrio che, una volta raggiunti i risultati voluti in premessa, pacifichi un Vecchio Continente attraversato da crescenti tensioni e insofferenze.La bravura del “mago” non consiste tanto nell’evocare “spiriti” di paura, di ribellione, di odio, di risentimento o di riconoscenza; quanto nel dominarli sempre per scongiurare il rischio di emulare le tristi gesta del famoso dott. Frankenstein. Detta in termini più semplici. Il veleno dell’austerità, la soppressione della democrazia sostanziale e l’aumento di paure e povertà in tutta Europa (fase del “solve”) sono fenomeni – nell’ottica dei padroni occulti – funzionali al consolidamento di un Superstato europeo dominato riservatamente da una invisibile élite del denaro, tappa decisiva per la successiva e finale implementazione di un governo mondiale – calibrato su base federale – in grado di trasferire su un piano politico e materiale quel modello sincretista già trionfante su un piano eminentemente religioso e spirituale. Alla crisi, “solve”, si risponde con più Europa, “coagula”. Questo tipo di pietanze, cucinate dentro “laboratori riservati”, vengono poi portate sulla tavola dei profani da maggiordomi d’élite alla Eugenio Scalfari, non a caso lesto nel chiedere la rapida istituzione di un ministro dell’economia per l’intera eurozona (votato solo da Scalfari, magari).La bravura del mago, come dicevamo, consiste nel dosare gli elementi. In questa fase, mentre cioè il riemergere dei nazionalismi mette in discussione dalle fondamenta l’architettura comunitaria, Draghi sa di dover addolcire la retorica dei “sacrifici amari ma indispensabili” per non correre il rischio di spezzare la corda dopo averla tirata troppo. L’ostinazione invece con la quale Schaeuble e quelli come lui insistono nel mostrarsi feroci fino in fondo, nasconde a mio avviso il perseguimento – per ora sotterraneo – di un obiettivo dissimulato e diverso, palesato però ingenuamente dallo stesso Schaeuble che, nel fare finta di rivolgersi retoricamente a Draghi, si è lasciato sfuggire una excusatio non petita che parla direttamente alla sua lurida coscienza: «Il signor Draghi sarà contento di avere favorito l’exploit del partito Alternative fur Deutschland con le sue scellerate politiche monetarie», ha dichiarato di recente il “falco” (in questo caso più simile ad un asino) del governo Merkel.Non ci vuole un indovino per capire come Schaeuble, prigioniero di una sindrome proiettiva che tradisce un intimo sentimento di timore, attribuisca a Draghi “colpe” (o “meriti” a seconda dei punti di vista) che sono tutte sue. Tutti sanno come esista un rapporto di causa ed affetto tra le politiche di austerità – imposte dall’Ecofin capeggiato da Schaeuble – e il rafforzamento ovunque in Europa di partiti dichiaratamente antieuropeisti. Il Qe varato da Draghi non incide affatto su simili dinamiche politiche, limitandosi a riempire le tasche di quei grandi banchieri che l’ex direttore generale del Tesoro italiano – dimostrando invero una certa coerenza – serve da sempre con riconosciuto zelo, scrupolo e obbedienza. A questo punto chiediamoci: vista dalla visuale di tutti quelli che sperano di potersi un giorno liberare dalla dittatura invisibile e luciferina che opprime e violenta i nostri tempi, quale condotta è potenzialmente più pericolosa? Quella di Draghi o quella di Schaeuble? Io vi dico mille volte quella di Draghi, punta di diamante di un progetto lucido che può infine trionfare solo alternando con sapienza schiaffi (molti) e carezze (poche e solo quando non si può farne a meno). Schaeuble, invece – oramai è chiaro – non avendo il coraggio né la forza di combattere apertis verbis il meraviglioso “fogno europeo” (copyright Alberto Bagnai), prova a farlo fallire in via indiretta, esacerbando cioè un odio fra le nazioni per mezzo delle politiche del rigore; odio che dovrebbe infine generare un nuovo “caos” (dettato dal crescere esponenziale dei diversi nazionalismi in tutti i paesi dell’area euro) dal quale fare nascere un definitivo e diverso “ordine”, che, nella mente di Schaeuble e compari non dovrà somigliare affatto a quello immaginato da Draghi e rispettivi danti causa.Al punto in cui siamo, in sintesi, è meglio che le tensioni divampino fino ad esplodere completamente, consentendo agli eventi di prendere una direzione molto diversa rispetto a quella vagheggiata dal principio da “maghi neri” alla Mario Draghi, retrocessi infine al ruolo ridicolo di “apprendisti stregoni” agli occhi del mondo intero. Naturalmente questo tipo di ragionamento non rivaluta per nulla la figura di Wolfang Schaeuble, che era e resta materia d’inferno. Ma come si evince dalla lettura del “libro di Giobbe”, la benevolenza di Dio può trionfare anche per mezzo dell’opera del male. L’importante è mantenere sempre la forza e la lucidità di sapere che il “male” va tenuto costantemente in una posizione “strumentale” e “servente”, per mezzo di quella saldezza d’animo e atarassia della mente che rappresentano i doni più importanti con i quali lo “spirito” assiste e gratifica chi opera nel mondo mosso da un amore autentico, incondizionato, disinteressato e celeste.(Francesco Maria Toscano, “Mario Draghi è molto più pericoloso di Wolfgang Schaeuble”, dal blog “Il Moralista” del 21 aprile 2016).
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Re: La crisi dell'Europa
7 APR 2016 15:50
VIENNETTA AVVELENATA - L’AUSTRIA VUOLE SPEDIRE AL BRENNERO 250 POLIZIOTTI, E FORSE L'ESERCITO, PER FARE CONTROLLI SUI TRENI E SULLA STRADA GIÀ SUL TERRITORIO ITALIANO
- RENZI ROSICA: “LA CHIUSURA DEL BRENNERO È CONTRO LE REGOLE EUROPEE”
I controlli al Brennero prevedono una rete di 370 metri - "Si tratta di una normale rete e non di un filo spinato. Sarà allestita solo se necessario in caso di massiccio arrivo di migranti", ha spiegato ancora il capo della Polizia tirolese - La struttura portante sarà allestita prossimamente ma la rete sarà "attaccata" solo in caso di bisogno… -
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 123548.htm
VIENNETTA AVVELENATA - L’AUSTRIA VUOLE SPEDIRE AL BRENNERO 250 POLIZIOTTI, E FORSE L'ESERCITO, PER FARE CONTROLLI SUI TRENI E SULLA STRADA GIÀ SUL TERRITORIO ITALIANO
- RENZI ROSICA: “LA CHIUSURA DEL BRENNERO È CONTRO LE REGOLE EUROPEE”
I controlli al Brennero prevedono una rete di 370 metri - "Si tratta di una normale rete e non di un filo spinato. Sarà allestita solo se necessario in caso di massiccio arrivo di migranti", ha spiegato ancora il capo della Polizia tirolese - La struttura portante sarà allestita prossimamente ma la rete sarà "attaccata" solo in caso di bisogno… -
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Re: La crisi dell'Europa
E NOI INVECE DOBBIAMO SUBIRE?????????????
Stiglitz: inglesi, scappate dall’Ue e non firmate il tossico Ttip
Scritto il 30/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
Per la Gran Bretagna sarebbe meglio lasciare l’Unione Europea, se il Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti entrerà in vigore: lo ha dichiarato l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz. Lo riferisce il sito di “Russia Today”, citando l’intervento di Stiglitz a un recente seminario organizzato a Londra da John McDonnell, “cancelliere-ombra” del Labour Party. «Penso che le restrizioni imposte dal Ttip sarebbero talmente di ostacolo all’attività del governo, che questo mi farebbe riflettere nuovamente se davvero l’adesione all’Ue sia stata una buona idea», ha detto Stiglitz, secondo cui il Trattato Transatlantico rappresenta «una generale riscrittura delle regole in assenza di discussione pubblica», per cui «i pericoli per la nostra società sono molto significativi». Il Ttip creerà la più grande zona di libero scambio al mondo, abbattendo tariffe doganali: mentre chi lo propone sostiene che l’accordo incoraggerà gli investimenti e creerà posti di lavoro, i suoi critici mettono in guardia sul fatto che consentirà alle aziende di fare causa ai governi stranieri che minacciano i loro profitti.Punto centrale dell’accordo commerciale Usa-Ue, scrive “Voci dall’Estero”, è infatti la “Clausola di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato” (Isds), che darebbe alle aziende il potere di citare in giudizio i governi quando i politici introducono norme che potrebbero far diminuire i loro profitti. «I dettagli di queste clausole sono spesso avvolti nel segreto, e messi a punto in sessioni clandestine». Zero trasparenza: il Ttip interferisce con il diritto dei governi sovrani di governare nell’interesse pubblico, e potrebbe legare le mani a chi deve stabilire le regole. Dati delle Nazioni Unite rivelano che le imprese statunitensi hanno già rastrellato miliardi di dollari facendo causa ai governi nazionali, fino ad oggi: «Solo a partire dal 2000, le aziende americane hanno fatto causa agli Stati in base ad accordi di libero scambio in 130 distinte occasioni». La Philip Morris ha citato in giudizio l’Australia e l’Uruguay perché avevano fatto inserire avvertenze sui rischi per la salute sui pacchetti di sigarette. «Ogni volta che fate approvare un regolamento contro l’amianto o qualsiasi altra cosa, potete essere citati in giudizio», avverte Stiglitz.Non è detto però che, fuori dall’Ue, la Gran Bretagna sia al riparo dal Ttip: lo sostiene Nick Dearden, direttore del think-tank inglese “Global Justice Now”. «Non c’è dubbio che questo accordo commerciale tossico cucinato a Bruxelles stia spingendo molti a ritenere che il Regno Unito starebbe meglio fuori dall’Ue, ma niente suggerisce che la Brexit impedirebbe a qualcosa di peggio di prendere il suo posto». Cameron, ricorda Dearden, è stato uno dei più grandi sostenitori del Ttip e il Regno Unito «ha firmato una serie di spietati accordi commerciali bilaterali di libero mercato che contengono “Isds” con molti altri paesi – quindi è perfettamente possibile che nel Regno Unito ci sarebbe una spinta a creare un equivalente del Ttip tra Regno Unito e Stati Uniti, perfino peggiore». Finora, in Europa, milioni di persone si sono mobilitate contro il trattato, «per sfidare la presa di potere da parte delle aziende legata al Ttip». A spaventare i cittadini, gli obiettivi principali del trattato: e cioè privatizzare sanità pubblica, istruzione e fornitura di acqua in tutta Europa.Gli attivisti, continua “Voci dall’Estero”, sono preoccupati anche del programma di “convergenza normativa” del Ttip, che cercherà di rendere le norme Ue in materia di sicurezza alimentare più simili a quelle osservate negli Stati Uniti. «Dato che le normative statunitensi sono generalmente meno rigide rispetto alle loro equivalenti europee», si teme che vengano allentati gli standard di sicurezza e qualità alimentare in Europa: «Il mercato europeo potrebbe essere invaso da prodotti geneticamente modificati e cibi pieni di ormoni e pesticidi». Intanto, mentre i negoziati sul Ttip continuano a svolgersi (scandalosamente) a porte chiuse, si pensa che la City di Londra stia muovendosi per “ammorbidire” i regolamenti bancari in vigore negli Stati Uniti, che dopo il 2008 sono più severi di quelli osservati in Gran Bretagna. «Gli attivisti per la finanza etica temono che il Ttip rottamerà queste misure e restrizioni, restituendo così il potere ai banchieri». Paura anche per la perdita di posti di lavoro: «L’anno scorso, Bruxelles ha ammesso che il Ttip potrebbe causare notevoli livelli di disoccupazione. E ha dato consigli ai membri dell’Ue su come affrontare un aumento dei livelli di disoccupazione dopo l’entrata in vigore del Ttip».
Stiglitz: inglesi, scappate dall’Ue e non firmate il tossico Ttip
Scritto il 30/4/16 • nella Categoria: segnalazioni
Per la Gran Bretagna sarebbe meglio lasciare l’Unione Europea, se il Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti entrerà in vigore: lo ha dichiarato l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz. Lo riferisce il sito di “Russia Today”, citando l’intervento di Stiglitz a un recente seminario organizzato a Londra da John McDonnell, “cancelliere-ombra” del Labour Party. «Penso che le restrizioni imposte dal Ttip sarebbero talmente di ostacolo all’attività del governo, che questo mi farebbe riflettere nuovamente se davvero l’adesione all’Ue sia stata una buona idea», ha detto Stiglitz, secondo cui il Trattato Transatlantico rappresenta «una generale riscrittura delle regole in assenza di discussione pubblica», per cui «i pericoli per la nostra società sono molto significativi». Il Ttip creerà la più grande zona di libero scambio al mondo, abbattendo tariffe doganali: mentre chi lo propone sostiene che l’accordo incoraggerà gli investimenti e creerà posti di lavoro, i suoi critici mettono in guardia sul fatto che consentirà alle aziende di fare causa ai governi stranieri che minacciano i loro profitti.Punto centrale dell’accordo commerciale Usa-Ue, scrive “Voci dall’Estero”, è infatti la “Clausola di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato” (Isds), che darebbe alle aziende il potere di citare in giudizio i governi quando i politici introducono norme che potrebbero far diminuire i loro profitti. «I dettagli di queste clausole sono spesso avvolti nel segreto, e messi a punto in sessioni clandestine». Zero trasparenza: il Ttip interferisce con il diritto dei governi sovrani di governare nell’interesse pubblico, e potrebbe legare le mani a chi deve stabilire le regole. Dati delle Nazioni Unite rivelano che le imprese statunitensi hanno già rastrellato miliardi di dollari facendo causa ai governi nazionali, fino ad oggi: «Solo a partire dal 2000, le aziende americane hanno fatto causa agli Stati in base ad accordi di libero scambio in 130 distinte occasioni». La Philip Morris ha citato in giudizio l’Australia e l’Uruguay perché avevano fatto inserire avvertenze sui rischi per la salute sui pacchetti di sigarette. «Ogni volta che fate approvare un regolamento contro l’amianto o qualsiasi altra cosa, potete essere citati in giudizio», avverte Stiglitz.Non è detto però che, fuori dall’Ue, la Gran Bretagna sia al riparo dal Ttip: lo sostiene Nick Dearden, direttore del think-tank inglese “Global Justice Now”. «Non c’è dubbio che questo accordo commerciale tossico cucinato a Bruxelles stia spingendo molti a ritenere che il Regno Unito starebbe meglio fuori dall’Ue, ma niente suggerisce che la Brexit impedirebbe a qualcosa di peggio di prendere il suo posto». Cameron, ricorda Dearden, è stato uno dei più grandi sostenitori del Ttip e il Regno Unito «ha firmato una serie di spietati accordi commerciali bilaterali di libero mercato che contengono “Isds” con molti altri paesi – quindi è perfettamente possibile che nel Regno Unito ci sarebbe una spinta a creare un equivalente del Ttip tra Regno Unito e Stati Uniti, perfino peggiore». Finora, in Europa, milioni di persone si sono mobilitate contro il trattato, «per sfidare la presa di potere da parte delle aziende legata al Ttip». A spaventare i cittadini, gli obiettivi principali del trattato: e cioè privatizzare sanità pubblica, istruzione e fornitura di acqua in tutta Europa.Gli attivisti, continua “Voci dall’Estero”, sono preoccupati anche del programma di “convergenza normativa” del Ttip, che cercherà di rendere le norme Ue in materia di sicurezza alimentare più simili a quelle osservate negli Stati Uniti. «Dato che le normative statunitensi sono generalmente meno rigide rispetto alle loro equivalenti europee», si teme che vengano allentati gli standard di sicurezza e qualità alimentare in Europa: «Il mercato europeo potrebbe essere invaso da prodotti geneticamente modificati e cibi pieni di ormoni e pesticidi». Intanto, mentre i negoziati sul Ttip continuano a svolgersi (scandalosamente) a porte chiuse, si pensa che la City di Londra stia muovendosi per “ammorbidire” i regolamenti bancari in vigore negli Stati Uniti, che dopo il 2008 sono più severi di quelli osservati in Gran Bretagna. «Gli attivisti per la finanza etica temono che il Ttip rottamerà queste misure e restrizioni, restituendo così il potere ai banchieri». Paura anche per la perdita di posti di lavoro: «L’anno scorso, Bruxelles ha ammesso che il Ttip potrebbe causare notevoli livelli di disoccupazione. E ha dato consigli ai membri dell’Ue su come affrontare un aumento dei livelli di disoccupazione dopo l’entrata in vigore del Ttip».
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Re: La crisi dell'Europa
Rifugiati, ecco il fallimento del nostro sistema d'accoglienza
Su 175mila migranti sbarcati nelle coste italiane nel 2014 e di 121.500 nei primi 9 mesi dello scorso anno solo 65mila hanno fatto richiesta d'asilo nel 2014 e 25mila nei primi cinque mesi del 2015. Gli Sprar accolgono solo 20mila profughi, gli altri sono tutti nei Centri d'identificazione e nei Centri d'accoglienza straordinaria
Francesco Curridori - Lun, 02/05/2016 - 10:09
L’Unione Europea ha riformato il Trattato di Dublino in materia di immigrazione. Secondo le nuove regole lo Stato di “primo approdo” è sempre responsabile dell’accoglienza ma d’ora in poi ogni Paese potrà accogliere al massimo il 150% della sua capacità che verrà stabilita in base al Pil, al numero di abitanti e ad altri fattori.
Gli altri profughi verranno redistribuiti nel resto degli Stati Ue ma chi non volesse accoglierli dovrà sborsare circa 250mila euro per ogni migrante rifiutato.
L’Italia, insieme alla Grecia, è logicamente il Paese più coinvolto e ha avuto un sistema che definire ‘inefficiente’ sarebbe eufemistico. Ma vediamo come funziona. Per l’accoglienza dei profughi nel 2002 è stata istituito lo Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che prevede la realizzazione di progetti di ‘accoglienza integrata’ da parte degli enti locali che danno la loro disponibilità su base volontaria. Oltre al classico vitto e alloggio si prevedono misure di assistenza per l’inserimento socio-economico nella comunità ospitante quali, per esempio, l'insegnamento della lingua italiana.
I vari enti locali che fanno parte della rete Sprar per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo e per il bando del triennio 2014-2016 sono stati stanziati 180 milioni di euro. Il 23 luglio 2014, poi, il Ministero dell’Intero ha inviato al Servizio Centrale, che insieme all’Anci si occupa della gestione degli Sprar, una comunicazione per avviare “un’indagine conoscitiva” volta a verificare la disponibilità degli enti locali ad accogliere anche i minori stranieri non accompagnati anche non richiedenti asilo “specificando che il contributo statale pro capite/pro die per questi posti sarebbe stato di 45 euro”.
Nel bando per il 2016-2017 si sottolinea, invece, che “non esiste un costo giornaliero (prodie/procapite) definito, essendo il piano finanziario preventivo la formalizzazione economica delle attività che si intendono svolgere, così come descritte nella domanda di contributo” e che “in fase di valutazione di tali domande, la Commissione terrà conto dell'economicità della singola proposta progettuale, con riferimento allo standard rilevato all'interno dello SPRAR e in termini di coerenza di budget con i servizi previsti”. L’Anci, dal canto suo, nel luglio 2015, aveva giudicato in maniera positiva l'ampliamento di almeno 10.000 posti per la rete SPRAR' e la riduzione da parte del governo del 5% della quota di cofinanziamento da parte dei Comuni.
Sul sito sprar.it si mette in evidenza come il modello di accoglienza dello Sprar faccia scuola in Slovenia ma, in realtà, i profughi che vi accedono sono solo circa 20mila a fronte di 175mila migranti sbarcati nelle coste italiane nel 2014 e di 121.500 nei primi 9 mesi dello scorso anno. Di questi solo 65mila hanno fatto istanza di protezione internazionale nel 2014 e 25mila nei primi cinque mesi del 2015. Sono questi i numeri snocciolati nel Rapporto sulla protezione internazionale redatto nel 2015 dallo Spar del Ministero dell’Interno insieme all’Anci, alla Caritas italiana, alla Fondazione migrantes, a Cittalia in collaborazione con Unhcr.
Ma ancora più interessante risulta essere la distribuzione geografica dei 430 progetti di accoglienza Sprar suddivisi tra in 340 comuni, 31 province e 8 unioni di comuni per totale di 379 enti locali coinvolti nell’accoglienza di 20796 profughi nei primi cinque mesi del 2015. È curioso, quindi, scoprire come su un totale di quasi 8mila comuni, per la maggior parte guidati da giunte di sinistra, solo 340 abbiano aderito al programma di ‘accoglienza diffusa’. Nella ‘rossa’ Toscana oltre agli enti provinciali di Siena e Lucca, su 280 comuni solo 12 hanno dato disponibilità ad accogliere in 595 posti di cui 381 assegnati col bando e 214 aggiuntivi. Nella ‘sinistrissima’ Emilia Romagna gli enti locali coinvolti sono solo 14 per un totale di 831 posti disponibili, mentre nelle vicine Marche sono attivi una quindicina di progetti Sprar che interessano una decina di comuni su 230 e 3 province su 5.
Ma il problema vero consiste nel fatto che i migranti che arrivano nel nostro Paese non vogliono essere identificati. “L’audizione del settembre scorso della direttrice del servizio di Polizia Scientifica della Polizia di Stato, Daniela Stradiotto, ha messo nero su bianco come il 66% dei migranti, quasi 1 su 4, non veniva mai identificato nei Centri d’identificazione. È per questo motivo che la maggior parte dei profughi è ospitata nei Cas, i centri d'accoglienza straordinaria", spiega al giornale.it il deputato forzista Gregorio Fontana, membro della Commissione d’inchiesta sui centri per immigrati che è stata prorogata di un anno. “Siamo stati favorevoli - spiega il deputato parlando a nome di Forza Italia - al prolungamento dei lavori di questa commissione perché siamo riusciti, con i nostri emendamenti, a far cambiare gli obiettivi. D'ora in poi non si occuperà più soltanto di presunte violenze dei diritti umani commesse nei centri d’accoglienza, come inizialmente voleva la sinistra, ma andrà a fondo nella verifica del ‘sistema dell’accoglienza’ così come ha fatto Mario Giordano col suo libro “Profugopoli”.
Su 175mila migranti sbarcati nelle coste italiane nel 2014 e di 121.500 nei primi 9 mesi dello scorso anno solo 65mila hanno fatto richiesta d'asilo nel 2014 e 25mila nei primi cinque mesi del 2015. Gli Sprar accolgono solo 20mila profughi, gli altri sono tutti nei Centri d'identificazione e nei Centri d'accoglienza straordinaria
Francesco Curridori - Lun, 02/05/2016 - 10:09
L’Unione Europea ha riformato il Trattato di Dublino in materia di immigrazione. Secondo le nuove regole lo Stato di “primo approdo” è sempre responsabile dell’accoglienza ma d’ora in poi ogni Paese potrà accogliere al massimo il 150% della sua capacità che verrà stabilita in base al Pil, al numero di abitanti e ad altri fattori.
Gli altri profughi verranno redistribuiti nel resto degli Stati Ue ma chi non volesse accoglierli dovrà sborsare circa 250mila euro per ogni migrante rifiutato.
L’Italia, insieme alla Grecia, è logicamente il Paese più coinvolto e ha avuto un sistema che definire ‘inefficiente’ sarebbe eufemistico. Ma vediamo come funziona. Per l’accoglienza dei profughi nel 2002 è stata istituito lo Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che prevede la realizzazione di progetti di ‘accoglienza integrata’ da parte degli enti locali che danno la loro disponibilità su base volontaria. Oltre al classico vitto e alloggio si prevedono misure di assistenza per l’inserimento socio-economico nella comunità ospitante quali, per esempio, l'insegnamento della lingua italiana.
I vari enti locali che fanno parte della rete Sprar per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo e per il bando del triennio 2014-2016 sono stati stanziati 180 milioni di euro. Il 23 luglio 2014, poi, il Ministero dell’Intero ha inviato al Servizio Centrale, che insieme all’Anci si occupa della gestione degli Sprar, una comunicazione per avviare “un’indagine conoscitiva” volta a verificare la disponibilità degli enti locali ad accogliere anche i minori stranieri non accompagnati anche non richiedenti asilo “specificando che il contributo statale pro capite/pro die per questi posti sarebbe stato di 45 euro”.
Nel bando per il 2016-2017 si sottolinea, invece, che “non esiste un costo giornaliero (prodie/procapite) definito, essendo il piano finanziario preventivo la formalizzazione economica delle attività che si intendono svolgere, così come descritte nella domanda di contributo” e che “in fase di valutazione di tali domande, la Commissione terrà conto dell'economicità della singola proposta progettuale, con riferimento allo standard rilevato all'interno dello SPRAR e in termini di coerenza di budget con i servizi previsti”. L’Anci, dal canto suo, nel luglio 2015, aveva giudicato in maniera positiva l'ampliamento di almeno 10.000 posti per la rete SPRAR' e la riduzione da parte del governo del 5% della quota di cofinanziamento da parte dei Comuni.
Sul sito sprar.it si mette in evidenza come il modello di accoglienza dello Sprar faccia scuola in Slovenia ma, in realtà, i profughi che vi accedono sono solo circa 20mila a fronte di 175mila migranti sbarcati nelle coste italiane nel 2014 e di 121.500 nei primi 9 mesi dello scorso anno. Di questi solo 65mila hanno fatto istanza di protezione internazionale nel 2014 e 25mila nei primi cinque mesi del 2015. Sono questi i numeri snocciolati nel Rapporto sulla protezione internazionale redatto nel 2015 dallo Spar del Ministero dell’Interno insieme all’Anci, alla Caritas italiana, alla Fondazione migrantes, a Cittalia in collaborazione con Unhcr.
Ma ancora più interessante risulta essere la distribuzione geografica dei 430 progetti di accoglienza Sprar suddivisi tra in 340 comuni, 31 province e 8 unioni di comuni per totale di 379 enti locali coinvolti nell’accoglienza di 20796 profughi nei primi cinque mesi del 2015. È curioso, quindi, scoprire come su un totale di quasi 8mila comuni, per la maggior parte guidati da giunte di sinistra, solo 340 abbiano aderito al programma di ‘accoglienza diffusa’. Nella ‘rossa’ Toscana oltre agli enti provinciali di Siena e Lucca, su 280 comuni solo 12 hanno dato disponibilità ad accogliere in 595 posti di cui 381 assegnati col bando e 214 aggiuntivi. Nella ‘sinistrissima’ Emilia Romagna gli enti locali coinvolti sono solo 14 per un totale di 831 posti disponibili, mentre nelle vicine Marche sono attivi una quindicina di progetti Sprar che interessano una decina di comuni su 230 e 3 province su 5.
Ma il problema vero consiste nel fatto che i migranti che arrivano nel nostro Paese non vogliono essere identificati. “L’audizione del settembre scorso della direttrice del servizio di Polizia Scientifica della Polizia di Stato, Daniela Stradiotto, ha messo nero su bianco come il 66% dei migranti, quasi 1 su 4, non veniva mai identificato nei Centri d’identificazione. È per questo motivo che la maggior parte dei profughi è ospitata nei Cas, i centri d'accoglienza straordinaria", spiega al giornale.it il deputato forzista Gregorio Fontana, membro della Commissione d’inchiesta sui centri per immigrati che è stata prorogata di un anno. “Siamo stati favorevoli - spiega il deputato parlando a nome di Forza Italia - al prolungamento dei lavori di questa commissione perché siamo riusciti, con i nostri emendamenti, a far cambiare gli obiettivi. D'ora in poi non si occuperà più soltanto di presunte violenze dei diritti umani commesse nei centri d’accoglienza, come inizialmente voleva la sinistra, ma andrà a fondo nella verifica del ‘sistema dell’accoglienza’ così come ha fatto Mario Giordano col suo libro “Profugopoli”.
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Re: La crisi dell'Europa
2 MAG 2016 15:03
AIUTO! CI RIFILANO LA CARNE AGLI ORMONI - LA DENUNCIA DI GREENPEACE: "GLI USA VOGLIONO AGGIRARE LE TUTELE DELL’UNIONE EUROPEA SU AMBIENTE E SALUTE" - MEDIA TEDESCHI: “ENORMI PRESSIONI DA WASHINGTON” - -
Trapelati i documenti segreti alla base dei negoziati per il progetto di trattato di libero scambio fra Usa e Ue - I media tedeschi: "Gli americani attaccano i principi di fondo della tutela del consumatore europeo che oggi proteggono 500 milioni di persone dalla carne trattata con ormoni"...
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cron ... 123852.htm
Chiara Sarra per “www.ilmessaggero.it”
AIUTO! CI RIFILANO LA CARNE AGLI ORMONI - LA DENUNCIA DI GREENPEACE: "GLI USA VOGLIONO AGGIRARE LE TUTELE DELL’UNIONE EUROPEA SU AMBIENTE E SALUTE" - MEDIA TEDESCHI: “ENORMI PRESSIONI DA WASHINGTON” - -
Trapelati i documenti segreti alla base dei negoziati per il progetto di trattato di libero scambio fra Usa e Ue - I media tedeschi: "Gli americani attaccano i principi di fondo della tutela del consumatore europeo che oggi proteggono 500 milioni di persone dalla carne trattata con ormoni"...
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cron ... 123852.htm
Chiara Sarra per “www.ilmessaggero.it”
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Re: La crisi dell'Europa
UN PROBLEMA GRANDE COME UNA CASA
PRIMA LEGGETE QUESTO ARTICOLO, POI SPIEGO PERCHE'.
Democratizzare l’Ue? Idea morta col tradimento di Tsipras
Scritto il 05/5/16 • nella. Categoria: idee
In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di Presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.Da Farage in Inghilterra a Marine Le Pen in Francia, da Iglesias in Spagna a Kaczinski in Polonia, da Tsipras in Grecia alla coppia Salvini/Grillo in Italia, dovunque si voti la musica non cambia: o vincono i servi di Mario Draghi (orwellianamente “moderati” e “responsabili”), o i giornali di regime cominciano a lanciare in tutte le lingue del mondo strali contro “l’avanzare del populismo”. Si tratta di un disco che, oggettivamente, ha stancato alquanto. Come avevamo previsto con un certo anticipo, la piroetta con la quale Tsipras si è infine piegato agli ordini piovuti dall’alto ha ucciso nella culla la possibilità di salvare l’Europa “da sinistra”. Alla prova dei fatti le “sinistre alternative”, incapaci di mettere in discussione la moneta unica, finiscono con il legittimare la prosecuzione della status quo. Cosa è cambiato con “Syriza” al potere? Nulla. Rigore, austerità e privatizzazioni continuano a farla da padroni, mentre le condizioni di vita della povera gente diventano di giorno in giorno più drammatiche.Di fronte ad una evidenza tanto tragica, tutti quelli che non intendono rassegnarsi a vivere per sempre sotto il tallone di un manipolo di burocrati autoreferenziali al servizio del binomio Alta Loggia/Alta Finanza, non possono far altro che guardare a quelle forze che offrono il grimaldello della “difesa dell’identità” per smontare il mostro luciferino e mondialista ora dominante. L’avanzare di partiti di “estrema destra”, così bollati da un mainstream servile e senza fantasia, sono diretta conseguenza di due certezze oramai metabolizzate da una fetta rilevante di opinione pubblica continentale: 1) la Ue attuale è una dittatura feroce di stampo tecnonazista; 2) le forze di sinistra “alternativa” non sono in grado di liberare i popoli dalla schiavitù dell’euro. Cosa faranno “gli occulti manovratori” per contenere questa nuova marea montante? Proveranno a metterci il cappello sopra. Fino a quando sarà possibile gestire i diversi parlamenti nazionali architettando da nord a sud governi di “grande coalizione”, le forze cosiddette “antisistema” continueranno ad essere mediaticamente demonizzate e bastonate; quando i “padroni del vapore” si accorgeranno però di avere finito le cartucce di carta, ovvero quando capiranno che la propaganda, per quanto incessante, produce infine risultati perfino controproducenti, avrà allora inizio il piano B.E cosa prevede il piano B? Prevede la “normalizzazione” di quelle stesse realtà prima violentemente colpite, da dipingere ora come “finalmente incanalate sulla via della maturità politica e della responsabilità, qualità indispensabili per aspirare al governo del Paese”. Che tradotto significa: obbedite pure voi come obbedivano i burattini di prima, divenuti inservibili e perciò scaricati, e così vedrete che tutti ne trarremo gli opportuni vantaggi. Questo tipo di tattica, in Italia, è già partita. Avete notato come i media controllati dai “soliti noti” comincino a veicolare una immagine rassicurante di Luigi Di Maio, già incoronato a reti unificate come sicuro candidato premier del Movimento 5 Stelle? E avete notato come il “Corriere della Sera” di oggi, a pagina 4, definisca “pacato” Norbert Hofer, probabile presidente dell’Austria che verrà? “Pacato” somiglia molto a “moderato”, termiche che nella neolingua usata dai “maghi neri” nascosti nella cabina di comando rappresenta il non plus ultra dell’affidabilità. “Se non puoi batterli, fatteli amici”, recita un vecchio adagio. Questo schema, se applicato con successo, contempla un solo sconfitto: il popolo, da ingannare sempre e comunque senza soluzione di continuità.Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla.(Francesco Maria Toscano, “L’idea di democratizzare l’Europa è morta con il tradimento di Tsipras, passa per la riscoperta delle singole identità nazionali la sconfitta dei tecno-nazisti di Bruxelles?”, dal blog “Il Moralista” del 26 aprile 2016).
In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.
Da Farage in Inghilterra a Marine Le Pen in Francia, da Iglesias in Spagna a Kaczinski in Polonia, da Tsipras in Grecia alla coppia Salvini/Grillo in Italia, dovunque si voti la musica non cambia: o vincono i servi di Mario Draghi (orwellianamente Norbert Hofer“moderati” e “responsabili”), o i giornali di regime cominciano a lanciare in tutte le lingue del mondo strali contro “l’avanzare del populismo”. Si tratta di un disco che, oggettivamente, ha stancato alquanto. Come avevamo previsto con un certo anticipo, la piroetta con la quale Tsipras si è infine piegato agli ordini piovuti dall’alto ha ucciso nella culla la possibilità di salvare l’Europa “da sinistra”. Alla prova dei fatti le “sinistre alternative”, incapaci di mettere in discussione la moneta unica, finiscono con il legittimare la prosecuzione della status quo. Cosa è cambiato con “Syriza” al potere? Nulla. Rigore, austerità e privatizzazioni continuano a farla da padroni, mentre le condizioni di vita della povera gente diventano di giorno in giorno più drammatiche.
Di fronte ad una evidenza tanto tragica, tutti quelli che non intendono rassegnarsi a vivere per sempre sotto il tallone di un manipolo di burocrati autoreferenziali al servizio del binomio Alta Loggia/Alta Finanza, non possono far altro che guardare a quelle forze che offrono il grimaldello della “difesa dell’identità” per smontare il mostro luciferino e mondialista ora dominante. L’avanzare di partiti di “estrema destra”, così bollati da un mainstream servile e senza fantasia, sono diretta conseguenza di due certezze oramai metabolizzate da una fetta rilevante di opinione pubblica continentale: 1) la Ue attuale è una dittatura feroce di stampo tecnonazista; 2) le forze di sinistra “alternativa” non sono in grado di liberare i popoli dalla schiavitù dell’euro. Cosa faranno “gli occulti manovratori” per contenere questa nuova marea montante? Proveranno a metterci il cappello sopra. Fino a quando sarà possibile gestire i diversi parlamenti nazionali architettando da nord a sud governi di “grande coalizione”, le forze cosiddette “antisistema” continueranno ad essere mediaticamente demonizzate e bastonate; quando i “padroni del vapore” si accorgeranno però di avere finito le cartucce di carta, ovvero quando capiranno che la propaganda, per quanto incessante, produce infine risultati perfino controproducenti, avrà allora inizio il piano B.
E cosa prevede il piano B? Prevede la “normalizzazione” di quelle stesse realtà prima violentemente colpite, da dipingere ora come “finalmente incanalate sulla via della maturità politica e della responsabilità, qualità indispensabili per aspirare al governo del Paese”. Che tradotto significa: obbedite pure voi come obbedivano i burattini di prima, divenuti inservibili e perciò scaricati, e così vedrete che tutti ne trarremo gli opportuni vantaggi. Questo tipo di tattica, in Italia, è già partita. Avete notato come i media controllati dai “soliti noti” comincino a veicolare una immagine rassicurante di Luigi Di Maio, già incoronato a reti unificate come sicuro candidato premier del Movimento 5 Stelle? E avete notato come il “Corriere della Sera” di oggi, a pagina 4, definisca “pacato” Norbert Hofer, probabile presidente dell’Austria che verrà? “Pacato” somiglia molto a “moderato”, termiche che nella neolingua usata dai “maghi neri” nascosti nella cabina di comando rappresenta il non plus ultra dell’affidabilità. “Se Di Maionon puoi batterli, fatteli amici”, recita un vecchio adagio. Questo schema, se applicato con successo, contempla un solo sconfitto: il popolo, da ingannare sempre e comunque senza soluzione di continuità.
Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla.
(Francesco Maria Toscano, “L’idea di democratizzare l’Europa è morta con il tradimento di Tsipras, passa per la riscoperta delle singole identità nazionali la sconfitta dei tecno-nazisti di Bruxelles?”, dal blog “Il Moralista” del 26 aprile 2016).
PRIMA LEGGETE QUESTO ARTICOLO, POI SPIEGO PERCHE'.
Democratizzare l’Ue? Idea morta col tradimento di Tsipras
Scritto il 05/5/16 • nella. Categoria: idee
In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di Presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.Da Farage in Inghilterra a Marine Le Pen in Francia, da Iglesias in Spagna a Kaczinski in Polonia, da Tsipras in Grecia alla coppia Salvini/Grillo in Italia, dovunque si voti la musica non cambia: o vincono i servi di Mario Draghi (orwellianamente “moderati” e “responsabili”), o i giornali di regime cominciano a lanciare in tutte le lingue del mondo strali contro “l’avanzare del populismo”. Si tratta di un disco che, oggettivamente, ha stancato alquanto. Come avevamo previsto con un certo anticipo, la piroetta con la quale Tsipras si è infine piegato agli ordini piovuti dall’alto ha ucciso nella culla la possibilità di salvare l’Europa “da sinistra”. Alla prova dei fatti le “sinistre alternative”, incapaci di mettere in discussione la moneta unica, finiscono con il legittimare la prosecuzione della status quo. Cosa è cambiato con “Syriza” al potere? Nulla. Rigore, austerità e privatizzazioni continuano a farla da padroni, mentre le condizioni di vita della povera gente diventano di giorno in giorno più drammatiche.Di fronte ad una evidenza tanto tragica, tutti quelli che non intendono rassegnarsi a vivere per sempre sotto il tallone di un manipolo di burocrati autoreferenziali al servizio del binomio Alta Loggia/Alta Finanza, non possono far altro che guardare a quelle forze che offrono il grimaldello della “difesa dell’identità” per smontare il mostro luciferino e mondialista ora dominante. L’avanzare di partiti di “estrema destra”, così bollati da un mainstream servile e senza fantasia, sono diretta conseguenza di due certezze oramai metabolizzate da una fetta rilevante di opinione pubblica continentale: 1) la Ue attuale è una dittatura feroce di stampo tecnonazista; 2) le forze di sinistra “alternativa” non sono in grado di liberare i popoli dalla schiavitù dell’euro. Cosa faranno “gli occulti manovratori” per contenere questa nuova marea montante? Proveranno a metterci il cappello sopra. Fino a quando sarà possibile gestire i diversi parlamenti nazionali architettando da nord a sud governi di “grande coalizione”, le forze cosiddette “antisistema” continueranno ad essere mediaticamente demonizzate e bastonate; quando i “padroni del vapore” si accorgeranno però di avere finito le cartucce di carta, ovvero quando capiranno che la propaganda, per quanto incessante, produce infine risultati perfino controproducenti, avrà allora inizio il piano B.E cosa prevede il piano B? Prevede la “normalizzazione” di quelle stesse realtà prima violentemente colpite, da dipingere ora come “finalmente incanalate sulla via della maturità politica e della responsabilità, qualità indispensabili per aspirare al governo del Paese”. Che tradotto significa: obbedite pure voi come obbedivano i burattini di prima, divenuti inservibili e perciò scaricati, e così vedrete che tutti ne trarremo gli opportuni vantaggi. Questo tipo di tattica, in Italia, è già partita. Avete notato come i media controllati dai “soliti noti” comincino a veicolare una immagine rassicurante di Luigi Di Maio, già incoronato a reti unificate come sicuro candidato premier del Movimento 5 Stelle? E avete notato come il “Corriere della Sera” di oggi, a pagina 4, definisca “pacato” Norbert Hofer, probabile presidente dell’Austria che verrà? “Pacato” somiglia molto a “moderato”, termiche che nella neolingua usata dai “maghi neri” nascosti nella cabina di comando rappresenta il non plus ultra dell’affidabilità. “Se non puoi batterli, fatteli amici”, recita un vecchio adagio. Questo schema, se applicato con successo, contempla un solo sconfitto: il popolo, da ingannare sempre e comunque senza soluzione di continuità.Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla.(Francesco Maria Toscano, “L’idea di democratizzare l’Europa è morta con il tradimento di Tsipras, passa per la riscoperta delle singole identità nazionali la sconfitta dei tecno-nazisti di Bruxelles?”, dal blog “Il Moralista” del 26 aprile 2016).
In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.
Da Farage in Inghilterra a Marine Le Pen in Francia, da Iglesias in Spagna a Kaczinski in Polonia, da Tsipras in Grecia alla coppia Salvini/Grillo in Italia, dovunque si voti la musica non cambia: o vincono i servi di Mario Draghi (orwellianamente Norbert Hofer“moderati” e “responsabili”), o i giornali di regime cominciano a lanciare in tutte le lingue del mondo strali contro “l’avanzare del populismo”. Si tratta di un disco che, oggettivamente, ha stancato alquanto. Come avevamo previsto con un certo anticipo, la piroetta con la quale Tsipras si è infine piegato agli ordini piovuti dall’alto ha ucciso nella culla la possibilità di salvare l’Europa “da sinistra”. Alla prova dei fatti le “sinistre alternative”, incapaci di mettere in discussione la moneta unica, finiscono con il legittimare la prosecuzione della status quo. Cosa è cambiato con “Syriza” al potere? Nulla. Rigore, austerità e privatizzazioni continuano a farla da padroni, mentre le condizioni di vita della povera gente diventano di giorno in giorno più drammatiche.
Di fronte ad una evidenza tanto tragica, tutti quelli che non intendono rassegnarsi a vivere per sempre sotto il tallone di un manipolo di burocrati autoreferenziali al servizio del binomio Alta Loggia/Alta Finanza, non possono far altro che guardare a quelle forze che offrono il grimaldello della “difesa dell’identità” per smontare il mostro luciferino e mondialista ora dominante. L’avanzare di partiti di “estrema destra”, così bollati da un mainstream servile e senza fantasia, sono diretta conseguenza di due certezze oramai metabolizzate da una fetta rilevante di opinione pubblica continentale: 1) la Ue attuale è una dittatura feroce di stampo tecnonazista; 2) le forze di sinistra “alternativa” non sono in grado di liberare i popoli dalla schiavitù dell’euro. Cosa faranno “gli occulti manovratori” per contenere questa nuova marea montante? Proveranno a metterci il cappello sopra. Fino a quando sarà possibile gestire i diversi parlamenti nazionali architettando da nord a sud governi di “grande coalizione”, le forze cosiddette “antisistema” continueranno ad essere mediaticamente demonizzate e bastonate; quando i “padroni del vapore” si accorgeranno però di avere finito le cartucce di carta, ovvero quando capiranno che la propaganda, per quanto incessante, produce infine risultati perfino controproducenti, avrà allora inizio il piano B.
E cosa prevede il piano B? Prevede la “normalizzazione” di quelle stesse realtà prima violentemente colpite, da dipingere ora come “finalmente incanalate sulla via della maturità politica e della responsabilità, qualità indispensabili per aspirare al governo del Paese”. Che tradotto significa: obbedite pure voi come obbedivano i burattini di prima, divenuti inservibili e perciò scaricati, e così vedrete che tutti ne trarremo gli opportuni vantaggi. Questo tipo di tattica, in Italia, è già partita. Avete notato come i media controllati dai “soliti noti” comincino a veicolare una immagine rassicurante di Luigi Di Maio, già incoronato a reti unificate come sicuro candidato premier del Movimento 5 Stelle? E avete notato come il “Corriere della Sera” di oggi, a pagina 4, definisca “pacato” Norbert Hofer, probabile presidente dell’Austria che verrà? “Pacato” somiglia molto a “moderato”, termiche che nella neolingua usata dai “maghi neri” nascosti nella cabina di comando rappresenta il non plus ultra dell’affidabilità. “Se Di Maionon puoi batterli, fatteli amici”, recita un vecchio adagio. Questo schema, se applicato con successo, contempla un solo sconfitto: il popolo, da ingannare sempre e comunque senza soluzione di continuità.
Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla.
(Francesco Maria Toscano, “L’idea di democratizzare l’Europa è morta con il tradimento di Tsipras, passa per la riscoperta delle singole identità nazionali la sconfitta dei tecno-nazisti di Bruxelles?”, dal blog “Il Moralista” del 26 aprile 2016).
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Re: La crisi dell'Europa
UN PROBLEMA GRANDE COME UNA CASA
Credo che sostanzialmente, Francesco Maria Toscano abbia ragione:
1) Per quanto riguarda :
Democratizzare l’Ue? Idea morta col tradimento di Tsipras
Credo che sia vero, ma non sono d’accordo che l’idea sia morta con il tradimento di Tsipras. Le cause vanno ricercate nei partecipanti di almeno trent’anni prima, non all’altezza di un’edificazione europea di questa portata.
Oltre al fatto che quel sistema di potere Nord Americano facente capo a quello che oggi Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta, intervistato stamani sul Fatto Quotidiano da Silvia Truzzi lo identifica ancora oggi in: MASSONERIA AFFARISTICA, LOBBY E FINANZA, E MALAFFARE, aveva precisi interessi che questa specie di Ue, imboccasse la strada che ha preso negli ultimi trent’anni.
Che sono poi coloro che Francesco Maria Toscano indica nella parte finale del suo articolo.
Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla
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Credo che sostanzialmente, Francesco Maria Toscano abbia ragione:
1) Per quanto riguarda :
Democratizzare l’Ue? Idea morta col tradimento di Tsipras
Credo che sia vero, ma non sono d’accordo che l’idea sia morta con il tradimento di Tsipras. Le cause vanno ricercate nei partecipanti di almeno trent’anni prima, non all’altezza di un’edificazione europea di questa portata.
Oltre al fatto che quel sistema di potere Nord Americano facente capo a quello che oggi Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta, intervistato stamani sul Fatto Quotidiano da Silvia Truzzi lo identifica ancora oggi in: MASSONERIA AFFARISTICA, LOBBY E FINANZA, E MALAFFARE, aveva precisi interessi che questa specie di Ue, imboccasse la strada che ha preso negli ultimi trent’anni.
Che sono poi coloro che Francesco Maria Toscano indica nella parte finale del suo articolo.
Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla
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Re: La crisi dell'Europa
Italia sempre più euroscettica: il 44% voterebbe sull'addio all'Ue
Tra poche settimane il Regno Unito si esprime sull'uscita di Londra dall'Unione europea. Anche da noi cresce la distanza da Bruxelles: la fiducia è crollata fino al 27% di oggi
Renato Mannheimer - Sab, 14/05/2016 - 08:05
Il referendum sulla cosiddetta Brexit costituisce una delle scadenze più importanti che ci attendono nelle prossime settimane. La possibile uscita del Regno Unito dall'Unione europea potrebbe costituire infatti una circostanza dirompente e gravissima nel già tormentato e precario equilibrio dei rapporti attuali tra gli Stati membri della Ue.
Secondo il premier inglese David Cameron, gli sconvolgimenti sarebbero tali da poter portare addirittura a focolai di guerre.
E l'Italia? Ci si può domandare se i nostri concittadini potrebbero desiderare che una consultazione del genere fosse indetta anche nel nostro Paese. L'ipotesi non è campata in aria, ma sorge dalla constatazione di un trend in atto da tempo: gli italiani hanno mostrato in questi anni una diffidenza sempre crescente verso l'Unione europea. Specie in concomitanza con l'inizio della crisi economica, il nostro rapporto con la Ue si è progressivamente deteriorato e sempre meno cittadini hanno espresso fiducia in questa istituzione. Si è scesi da un consenso registrato per l'Unione europea pari addirittura al 70% nel 1994, al 64% rilevato nel 2005, e poi in continua discesa al 60% nel 2008, 57% nel 2010 e 51% nel 2011. Il dato è poi calato ancora, sino a giungere attorno al 39-40% nel 2012-13 e a crollare poi al 27% registrato oggi. Insomma, in relativamente poco tempo, si è verificato un abbassamento drastico dei giudizi positivi espressi nei confronti dell'istituzione comunitaria del nostro continente.
Nelle dichiarazioni degli intervistati, l'idea di Europa unita è sempre più associata a burocrazia e, spesso, ad un rigore eccessivo e non a coesione e sviluppo. Insomma, l'entusiasmo iniziale che gli italiani avevano dimostrato nei confronti dell'unità europea nel momento in cui questa faceva i primi passi (a quel tempo gli italiani erano i più «europeisti» tra tutti i cittadini del continente) si è progressivamente affievolito, sino a tramutarsi oggi in diffuso sospetto e, spesso, in diffidenza. Alla luce di questa situazione, non sorprende dunque che una quota notevole (anche se non maggioritaria) dei cittadini del nostro Paese manifesti esplicitamente il desiderio che una consultazione del tipo di quella imminente nel Regno Unito (e che potrebbe condurre alla Brexit) possa avere luogo anche da noi.
Lo rivela un recente sondaggio condotto dall'Istituto Eumetra Monterosa su di un ampio campione rappresentativo della popolazione italiana al di sopra dei 17 anni di età. Alla domanda: «Vorrebbe che un referendum sullo stare o meno nell'Unione europea venisse indetto anche in Italia?», infatti, ben il 44% degli intervistati risponde affermativamente. È vero che la maggioranza, il 57%, esclude nettamente un'eventualità del genere, ma è vero anche che la numerosità delle espressioni a favore di un possibile referendum che raggiungono quasi metà del campione è tale da sorprendere più di un osservatore. E ci dà una misura (per molti versi preoccupante) della diffusione del sentimento di disagio verso l'Unione europea anche nel nostro Paese. Da questo punto di vista, l'aspetto forse più significativo, che emerge da un'analisi dettagliata dei risultati della ricerca, sta nel fatto che a desiderare in misura relativamente maggiore (49%) l'indizione di un referendum sulla nostra permanenza o meno nell'Unione europea sono gli appartenenti alla generazione dei più giovani, sotto i 25 anni di età. Insomma, proprio le nuove leve di cittadini, quelle che di Europa hanno avuto spesso esperienza personale e diretta (data la facilità con cui oggi i giovani si muovono) si mostrano le più desiderose di pronunciarsi in merito all'opportunità o meno di restare nella Ue. Sul piano dell'orientamento politico, com'era ovvio attendersi, le richieste più accentuate per la realizzazione di un referendum anche nel nostro Paese provengono da quanti esprimono l'intenzione di voto per i partiti la cui leadership insiste più spesso per posizioni anti-europeiste, quali la Lega Nord o il Movimento Cinque Stelle (in entrambi i casi, 68% di «Sì» all'idea di indire in Italia un referendum sull'Europa).
Ma se questo referendum si svolgesse per davvero, come voterebbero gli elettori? Per restare in Europa o per andarsene dalla Ue? Il risultato dipenderebbe naturalmente dalla campagna elettorale, dai toni e dagli argomenti che la caratterizzerebbero. Ma oggi, «a freddo», l'esito, rilevato dal medesimo sondaggio, appare tendenzialmente a favore della permanenza nell'Ue, senza far emergere tuttavia un pronunciamento dirompente in questo senso. Dichiara infatti quest'ultima opzione il 62% degli intervistati. Una maggioranza netta, ma forse di dimensioni minori di quanto si sarebbe rilevato solo qualche anno fa. Colpisce dunque l'esistenza di una porzione ampia, pari a più di un italiano su quattro (27%), che vorrebbe abbandonare da subito l'Unione europea. Se a questa si aggiunge la non indifferente quota di indecisi (12%), si ha, ancora una volta, la misura dell'estensioni dell'euroscetticismo nel nostro Paese. Analizzando i dati separatamente tra chi in precedenza ha dichiarato di volere o meno la effettuazione del referendum, si osserva una significativa differenziazione nelle intenzioni di voto. Nel senso che quanti auspicano la consultazione si schierano prevalentemente (48%, la maggioranza relativa) per il «No» alla nostra permanenza nella Ue. Mentre l'opposto (vale a dire una netta maggioranza, 77%, di «Sì» all'Europa) accade tra chi nega l'opportunità di una consultazione su questo tema. In altre parole, come era facile intuire, chi vuole il referendum vuole anche, per buona parte, uscire dalla Ue. Uno scetticismo presente anche questi ultimi dati lo confermano specialmente tra i più giovani, tra i quali il 36%, dunque assai più di un terzo, in un ipotetico referendum, voterebbe «No» alla permanenza del nostro Paese nella Ue, con una ulteriore accentuazione tra chi possiede un titolo di studio meno elevato (i laureati sono infatti in netta maggioranza per il «Sì»).
Al riguardo, è interessante anche rilevare come, dal punto di vista della connotazione socioeconomica, si schierino in maggior misura per l'uscita dall'Europa le classi meno elevate, specie gli operai e, in generale, coloro che esercitano professioni meno remunerative. Si tratta di ceti particolarmente colpiti dalla crisi economica degli ultimi anni. I cui effetti vengono ricondotti, a torto o a ragione, in misura significativa all'appartenenza alla Ue. L'insieme di questi dati mostra come l'euroscetticismo si diffonda rapidamente anche nel nostro Paese. Le nuove generazioni e al loro interno specialmente chi vive in una condizione più disagiata esprimono sempre più dubbi e perplessità nei confronti della Ue. A buona parte di costoro, l'idea della Brexit non dispiace. Tanto che molti vorrebbero attuarla anche in Italia.
Tra poche settimane il Regno Unito si esprime sull'uscita di Londra dall'Unione europea. Anche da noi cresce la distanza da Bruxelles: la fiducia è crollata fino al 27% di oggi
Renato Mannheimer - Sab, 14/05/2016 - 08:05
Il referendum sulla cosiddetta Brexit costituisce una delle scadenze più importanti che ci attendono nelle prossime settimane. La possibile uscita del Regno Unito dall'Unione europea potrebbe costituire infatti una circostanza dirompente e gravissima nel già tormentato e precario equilibrio dei rapporti attuali tra gli Stati membri della Ue.
Secondo il premier inglese David Cameron, gli sconvolgimenti sarebbero tali da poter portare addirittura a focolai di guerre.
E l'Italia? Ci si può domandare se i nostri concittadini potrebbero desiderare che una consultazione del genere fosse indetta anche nel nostro Paese. L'ipotesi non è campata in aria, ma sorge dalla constatazione di un trend in atto da tempo: gli italiani hanno mostrato in questi anni una diffidenza sempre crescente verso l'Unione europea. Specie in concomitanza con l'inizio della crisi economica, il nostro rapporto con la Ue si è progressivamente deteriorato e sempre meno cittadini hanno espresso fiducia in questa istituzione. Si è scesi da un consenso registrato per l'Unione europea pari addirittura al 70% nel 1994, al 64% rilevato nel 2005, e poi in continua discesa al 60% nel 2008, 57% nel 2010 e 51% nel 2011. Il dato è poi calato ancora, sino a giungere attorno al 39-40% nel 2012-13 e a crollare poi al 27% registrato oggi. Insomma, in relativamente poco tempo, si è verificato un abbassamento drastico dei giudizi positivi espressi nei confronti dell'istituzione comunitaria del nostro continente.
Nelle dichiarazioni degli intervistati, l'idea di Europa unita è sempre più associata a burocrazia e, spesso, ad un rigore eccessivo e non a coesione e sviluppo. Insomma, l'entusiasmo iniziale che gli italiani avevano dimostrato nei confronti dell'unità europea nel momento in cui questa faceva i primi passi (a quel tempo gli italiani erano i più «europeisti» tra tutti i cittadini del continente) si è progressivamente affievolito, sino a tramutarsi oggi in diffuso sospetto e, spesso, in diffidenza. Alla luce di questa situazione, non sorprende dunque che una quota notevole (anche se non maggioritaria) dei cittadini del nostro Paese manifesti esplicitamente il desiderio che una consultazione del tipo di quella imminente nel Regno Unito (e che potrebbe condurre alla Brexit) possa avere luogo anche da noi.
Lo rivela un recente sondaggio condotto dall'Istituto Eumetra Monterosa su di un ampio campione rappresentativo della popolazione italiana al di sopra dei 17 anni di età. Alla domanda: «Vorrebbe che un referendum sullo stare o meno nell'Unione europea venisse indetto anche in Italia?», infatti, ben il 44% degli intervistati risponde affermativamente. È vero che la maggioranza, il 57%, esclude nettamente un'eventualità del genere, ma è vero anche che la numerosità delle espressioni a favore di un possibile referendum che raggiungono quasi metà del campione è tale da sorprendere più di un osservatore. E ci dà una misura (per molti versi preoccupante) della diffusione del sentimento di disagio verso l'Unione europea anche nel nostro Paese. Da questo punto di vista, l'aspetto forse più significativo, che emerge da un'analisi dettagliata dei risultati della ricerca, sta nel fatto che a desiderare in misura relativamente maggiore (49%) l'indizione di un referendum sulla nostra permanenza o meno nell'Unione europea sono gli appartenenti alla generazione dei più giovani, sotto i 25 anni di età. Insomma, proprio le nuove leve di cittadini, quelle che di Europa hanno avuto spesso esperienza personale e diretta (data la facilità con cui oggi i giovani si muovono) si mostrano le più desiderose di pronunciarsi in merito all'opportunità o meno di restare nella Ue. Sul piano dell'orientamento politico, com'era ovvio attendersi, le richieste più accentuate per la realizzazione di un referendum anche nel nostro Paese provengono da quanti esprimono l'intenzione di voto per i partiti la cui leadership insiste più spesso per posizioni anti-europeiste, quali la Lega Nord o il Movimento Cinque Stelle (in entrambi i casi, 68% di «Sì» all'idea di indire in Italia un referendum sull'Europa).
Ma se questo referendum si svolgesse per davvero, come voterebbero gli elettori? Per restare in Europa o per andarsene dalla Ue? Il risultato dipenderebbe naturalmente dalla campagna elettorale, dai toni e dagli argomenti che la caratterizzerebbero. Ma oggi, «a freddo», l'esito, rilevato dal medesimo sondaggio, appare tendenzialmente a favore della permanenza nell'Ue, senza far emergere tuttavia un pronunciamento dirompente in questo senso. Dichiara infatti quest'ultima opzione il 62% degli intervistati. Una maggioranza netta, ma forse di dimensioni minori di quanto si sarebbe rilevato solo qualche anno fa. Colpisce dunque l'esistenza di una porzione ampia, pari a più di un italiano su quattro (27%), che vorrebbe abbandonare da subito l'Unione europea. Se a questa si aggiunge la non indifferente quota di indecisi (12%), si ha, ancora una volta, la misura dell'estensioni dell'euroscetticismo nel nostro Paese. Analizzando i dati separatamente tra chi in precedenza ha dichiarato di volere o meno la effettuazione del referendum, si osserva una significativa differenziazione nelle intenzioni di voto. Nel senso che quanti auspicano la consultazione si schierano prevalentemente (48%, la maggioranza relativa) per il «No» alla nostra permanenza nella Ue. Mentre l'opposto (vale a dire una netta maggioranza, 77%, di «Sì» all'Europa) accade tra chi nega l'opportunità di una consultazione su questo tema. In altre parole, come era facile intuire, chi vuole il referendum vuole anche, per buona parte, uscire dalla Ue. Uno scetticismo presente anche questi ultimi dati lo confermano specialmente tra i più giovani, tra i quali il 36%, dunque assai più di un terzo, in un ipotetico referendum, voterebbe «No» alla permanenza del nostro Paese nella Ue, con una ulteriore accentuazione tra chi possiede un titolo di studio meno elevato (i laureati sono infatti in netta maggioranza per il «Sì»).
Al riguardo, è interessante anche rilevare come, dal punto di vista della connotazione socioeconomica, si schierino in maggior misura per l'uscita dall'Europa le classi meno elevate, specie gli operai e, in generale, coloro che esercitano professioni meno remunerative. Si tratta di ceti particolarmente colpiti dalla crisi economica degli ultimi anni. I cui effetti vengono ricondotti, a torto o a ragione, in misura significativa all'appartenenza alla Ue. L'insieme di questi dati mostra come l'euroscetticismo si diffonda rapidamente anche nel nostro Paese. Le nuove generazioni e al loro interno specialmente chi vive in una condizione più disagiata esprimono sempre più dubbi e perplessità nei confronti della Ue. A buona parte di costoro, l'idea della Brexit non dispiace. Tanto che molti vorrebbero attuarla anche in Italia.
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Re: La crisi dell'Europa
LIBRE news
Boia della Troika, Tsipras finirà nella spazzatura della storia
Scritto il 17/5/16 • nella Categoria: idee
Approvate le nuove misure di massacro sociale in Grecia. Tsipras si conferma un fantoccio della Troika o, se preferite, un collaborazionista con chi occupa il suo paese. È bene conoscere in concreto le misure adottate dal governo Tsipras per conto degli usurai della Troika, perché il palazzo europeista e il giustificazionismo a prescindere di alcuni – sempre più ridotti per fortuna – settori della sinistra ex radicale, tendono assieme a nascondere la realtà. Il governo ha tagliato tutte le pensioni sopra il livello minimo di 384 euro mensili. Il governo ha aumentato le tasse sulle – cioè ridotto le – retribuzioni che superano i 795 lordi mensili. Il governo ha aumentato l’Iva su tutti i principali beni al 24%. Il governo ha aumentato gli affitti calmierati delle abitazioni. Queste sono le misure che colpiscono in Grecia chi ancora un lavoro, una pensione, una casa ce l’ha. Poi bisogna aggiungere il sequestro dei fondi degli ospedali, che non hanno più i soldi nemmeno per le emergenze, le privatizzazioni a saldo, perché ovviamente sono le multinazionali a scegliere e a fare il prezzo.E naturalmente bisogna ricordare il 25% di disoccupazione ed il 40% di povertà ufficiali. In cambio di questo sangue la Grecia riceve periodicamente prestiti che alla fine di una partita di giro tornano tutti a chi li ha erogati, sotto forma di interessi sul debito. Per questo è giusto parlare di usura internazionale e lo denunciò nel passato anche Tsipras, che prima di firmare la resa aveva affermato che non un centesimo dei prestiti della Troika era andato al popolo greco. Insomma la Grecia è un paese saccheggiato ed affamato da una occupazione estera di rapina, che usa le banche al posto delle cannoniere, ma che non è meno feroce delle conquiste militari del passato. Ha suscitato qualche scandalo il fatto che io abbia definito, in questo contesto terribile, il governo Tsipras come fantoccio della Troika. Se questo termine sembra troppo brutale possiamo usare quello tecnicamente inappuntabile di governo collaborazionista.Collaborazionista era nel 1940 il governo Pétain in Francia con gli occupanti tedeschi. Collaborazionista il governo socialdemocratico in Danimarca, sempre nel 1940, con l’occupazione militare da parte della Germania. All’inizio questi governi riscossero un grande consenso popolare perché il loro slogan “Noi siamo il meno peggio” sembrava l’unico possibile. Il governo Tsipras attua le misure dei banchieri occupanti e collabora con loro con la stessa argomentazione di fondo: il meno peggio. Noi stiamo invece con chi lotta, con chi ha scioperato sfidando fame e polizia, con i 30 sindacalisti del Pame arrestati in un solo giorno, con chi scende in piazza e non si arrende. È dura, ma alla fine la Resistenza vince e il collaborazionismo finisce nelle pattumiere della storia.(Giorgio Cremaschi, “Il collaborazionista Tsipras”, da “Megachip” del 9 maggio 2016).
Boia della Troika, Tsipras finirà nella spazzatura della storia
Scritto il 17/5/16 • nella Categoria: idee
Approvate le nuove misure di massacro sociale in Grecia. Tsipras si conferma un fantoccio della Troika o, se preferite, un collaborazionista con chi occupa il suo paese. È bene conoscere in concreto le misure adottate dal governo Tsipras per conto degli usurai della Troika, perché il palazzo europeista e il giustificazionismo a prescindere di alcuni – sempre più ridotti per fortuna – settori della sinistra ex radicale, tendono assieme a nascondere la realtà. Il governo ha tagliato tutte le pensioni sopra il livello minimo di 384 euro mensili. Il governo ha aumentato le tasse sulle – cioè ridotto le – retribuzioni che superano i 795 lordi mensili. Il governo ha aumentato l’Iva su tutti i principali beni al 24%. Il governo ha aumentato gli affitti calmierati delle abitazioni. Queste sono le misure che colpiscono in Grecia chi ancora un lavoro, una pensione, una casa ce l’ha. Poi bisogna aggiungere il sequestro dei fondi degli ospedali, che non hanno più i soldi nemmeno per le emergenze, le privatizzazioni a saldo, perché ovviamente sono le multinazionali a scegliere e a fare il prezzo.E naturalmente bisogna ricordare il 25% di disoccupazione ed il 40% di povertà ufficiali. In cambio di questo sangue la Grecia riceve periodicamente prestiti che alla fine di una partita di giro tornano tutti a chi li ha erogati, sotto forma di interessi sul debito. Per questo è giusto parlare di usura internazionale e lo denunciò nel passato anche Tsipras, che prima di firmare la resa aveva affermato che non un centesimo dei prestiti della Troika era andato al popolo greco. Insomma la Grecia è un paese saccheggiato ed affamato da una occupazione estera di rapina, che usa le banche al posto delle cannoniere, ma che non è meno feroce delle conquiste militari del passato. Ha suscitato qualche scandalo il fatto che io abbia definito, in questo contesto terribile, il governo Tsipras come fantoccio della Troika. Se questo termine sembra troppo brutale possiamo usare quello tecnicamente inappuntabile di governo collaborazionista.Collaborazionista era nel 1940 il governo Pétain in Francia con gli occupanti tedeschi. Collaborazionista il governo socialdemocratico in Danimarca, sempre nel 1940, con l’occupazione militare da parte della Germania. All’inizio questi governi riscossero un grande consenso popolare perché il loro slogan “Noi siamo il meno peggio” sembrava l’unico possibile. Il governo Tsipras attua le misure dei banchieri occupanti e collabora con loro con la stessa argomentazione di fondo: il meno peggio. Noi stiamo invece con chi lotta, con chi ha scioperato sfidando fame e polizia, con i 30 sindacalisti del Pame arrestati in un solo giorno, con chi scende in piazza e non si arrende. È dura, ma alla fine la Resistenza vince e il collaborazionismo finisce nelle pattumiere della storia.(Giorgio Cremaschi, “Il collaborazionista Tsipras”, da “Megachip” del 9 maggio 2016).
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