Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

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peanuts
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

Messaggio da peanuts »

iospero ha scritto:Certo con le banche non si può continuare così, stipendi di dipendenti, funzionari e menager devono essere ridimensionati.
Leverei gli ultimi, a parte magari alcune categorie strapagate. Semmai si potrebbe ridurre o togliere alcuni benefit
Per gli altri ok e bisognerebbe ridurre anche le pensioni d'oro, magari si potrebbe mettere un tetto massimo
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
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paolo11
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

Messaggio da paolo11 »

mariok

Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

Messaggio da mariok »

Certamente è uno scenario da brividi. Se la fine dell'euro è inevitabile, è evidente, come direbbe Catalano, che è preferibile un'uscita "da sinistra" piuttosto che un'uscita "da destra". Ma il punto è proprio questo: è veramente inevitabile la fine dell'euro? A sentire le cassandre (vedi per esempio Loretta Napoleoni che da alcuni anni prevede il crollo a tre mesi) ciò sarebbe dovuto accadere ormai da anni. Ed invece non è accaduto. Inoltre, è incomprensibile il perché venga escluso a priori un terzo scenario: quello della ripresa della costruzione politica dell'Europa e soprattutto perché venga esclusa come la vera, unica soluzione "a sinistra". La solita risposta è che è una strada difficile. Come se le altre fossero passeggiate!

L’euro è un morto che cammina, exit strategy da sinistra

Il signor euro aveva più volte rischiato l’infarto. Il dottor Draghi decise allora di metterlo in coma farmacologico. Sulla cura però indugiava, e a intervalli periodici il dilemma amletico gli si ripresentava: lasciarlo dormire o farlo morire? Draghi insisteva per la prima soluzione. Ma ad un tratto il popolo italiano ha improvvisamente optato per la seconda: ormai l’euro è solo uno zombie, un morto che cammina. Volenti o nolenti, prendiamone atto.

Vedrete che nel Direttorio della Bce l’avranno già capito. A Francoforte si accingeranno a modificare la “regola di solvibilità” della politica monetaria: il famigerato ombrello europeo contro la speculazione verrà pian piano chiuso, per poi finire in cantina [1]. La dottrina del falco Jurgen Stark, uscita dalla porta, si appresta dunque a rientrare dalla finestra. Si può star certi che il dottor Draghi dovrà accoglierla con tutti gli onori. Le più fosche previsioni di un appello di 300 economisti, pubblicato nel giugno 2010, si stanno dunque avverando [2]. La pretesa della Bce di proteggere dagli attacchi speculativi solo i paesi devoti alla disciplina dell’austerity, si è rivelata un clamoroso errore, logico e politico. L’Italia, che ha dato i lumi al Rinascimento ma anche al Fascismo, ieri ha sancito che per l’euro non resta che recitare il De Profundis. Nessuno osi affermare che ha fatto da sola: i tecnocrati europei, condizionati dagli interessi prevalenti in Germania, stavano già da tempo preparando il fosso in cui seppellire la moneta unica.

E ora? Gli eredi più o meno degni del movimento operaio novecentesco che faranno? Sapranno anticipare il corso degli eventi o preferiranno anche stavolta fungere da ultima ruota del carro della Storia? Anziché lasciarsi travolgere dall’idea ottusa della “grande coalizione”, o riesumare il giovane dinosauro liberista Renzi per suicidarsi entro un anno, sarebbe forse opportuno che il Partito democratico e la CGIL prendessero atto che non è più tempo di parlare di politiche di convergenza o magari di standard retributivo europeo [3]. I proprietari tedeschi non sono più interessati alla moneta unica, le speranze di riforma dell’Unione monetaria sono ormai vane. Il punto dirimente è dunque uno soltanto: in che modo uscire dalla zona euro.

Il più probabile, allo stato dei fatti, è il modo di “destra”, che consiste nel favorire le fughe di capitale, aprire alle acquisizioni estere del capitale bancario e degli ultimi spezzoni rilevanti di capitale industriale nazionale, e lasciare i salari completamente sguarniti di fronte a un possibile sussulto dei prezzi e soprattutto delle quote distributive. C’è motivo di prevedere che non soltanto il redivivo Berlusconi ma anche molti altri inizieranno ad ammiccare a questa soluzione. Sedicenti “borghesi illuminati”, orde di opinionisti del mainstream si affretteranno a rifarsi una verginità giudicando l’euro un ideale kantiano fin dalle origini destinato al fallimento, riesumando Milton Friedman e i cambi flessibili e dichiarandosi favorevoli alla svalutazione allo scopo di rendere il paese appetibile per i capitali esteri a caccia di acquisizioni a buon mercato. Che dunque la moneta unica se ne vada al diavolo, grideranno: l’importante è salvare il mercato unico e la libera circolazione dei capitali dalle pulsioni protezioniste dei cosiddetti populisti! Ebbene, se le cose andranno in questi termini, c’è motivo di temere che la deflagrazione della zona euro potrebbe rivelarsi una macelleria messicana. Del resto, chi un po’ ha studiato la storia economica dell’ultimo secolo sa bene che la sovranità monetaria, presa isolatamente, non è la panacea, e che non sono stati per nulla infrequenti i casi di sganciamento da un regime di cambi fissi che hanno prodotto veri e propri disastri in termini di liquidazione del capitale nazionale e distruzione degli ultimi scampoli di diritti sociali. Beninteso, non sempre è andata male, ma in alcuni casi e per alcuni soggetti è andata malissimo. Per citare solo qualche esempio: nel 1992, dopo l’uscita dallo SME, in Italia la quota salari crollò dal 62 al 54%. Nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Per non parlare dei “fire sales” dei capitali nazionali favoriti dalla svalutazione. Il ripristino della sovranità monetaria è ormai imprescindibile, ma l’uscita “da destra” potrebbe trasformarlo in un incubo.

Questa prospettiva non costituisce però un destino inesorabile. Come abbiamo cercato di argomentare in questi mesi, c’è anche un modo alternativo di gestire l’implosione dell’eurozona, che consiste nel tentativo di costruire un blocco sociale intorno a una ipotesi di uscita dall’euro declinata a “sinistra”. Vale a dire, in primo luogo: un arresto delle fughe di capitale; accorte nazionalizzazioni al posto delle acquisizioni estere dei capitali bancari; un meccanismo di indicizzazione dei salari e di amministrazione di alcuni prezzi base per governare gli sbalzi nella distribuzione dei redditi; la proposta di un’area di libero scambio tra i paesi del Sud Europa. Insomma: la soluzione “di sinistra” dovrebbe vertere sull’idea che se salta la moneta unica bisognerà mettere in questione anche alcuni aspetti del mercato unico europeo.

Verificare se esistono le condizioni per formare una coalizione sociale intorno a una ipotesi di uscita “da sinistra” dall’euro significherebbe anche mettere alla prova il Movimento 5 Stelle. Che sebbene abbia il vento in poppa difficilmente arriverà a governare da solo, e che in ogni caso si troverà presto di fronte al bivio ineludibile di qualsiasi politica economica: dare priorità agli imprenditori e ai piccoli proprietari, oppure cercare una sintesi con gli interessi dei lavoratori subordinati.

Il 12 luglio 2012 un importante dirigente dei Democratici mi scriveva: «sono d’accordo con te e depresso per il conformismo culturale di tanti a noi vicini. Dobbiamo vederci per il piano B», dove “piano B” stava appunto per “uscita da sinistra dall’euro”. Pochi giorni dopo Draghi rimise la plurinfartuata moneta unica in coma farmacologico e il “piano B” finì nuovamente nel limbo dell’indicibile. Oggi se ne può riparlare? In tutta franchezza, anche adesso che l’euro è di nuovo in prossimità dello sfascio ho il sospetto che il PD e la CGIL non saranno in grado di compiere una tale virata. L’iceberg ormai lo vedono anche loro, e forse hanno persino capito che in gioco è la loro stessa sopravvivenza, come il destino del Pasok insegna. Ma hanno mangiato per decenni pane e “liberoscambismo”, e sono stati educati dai bignami di economia e di storia di Eugenio Scalfari, che fatica ormai persino a rammentare che alla vigilia della prima guerra mondiale imperversava non certo l’autarchia ma il gold standard e la piena libertà di circolazione internazionale dei capitali. Bisognerebbe oggi rileggere Keynes e studiare Dani Rodrik, di Harvard. Temo però che a sinistra non vi sarà nemmeno il tempo di un’autocritica, figurarsi di un cambio di paradigma [4].

Gli scomodi panni delle Cassandre iniziano a far male davvero: speriamo, almeno stavolta, di sbagliarci.

Emiliano Brancaccio da emilianobrancaccio.it

______________

[1] Brancaccio, E., Fontana G. (2012). “Solvency rule” versus “Taylor rule” . An alternative interpretation of the relation between monetary policy and the economic crisis . Cambridge Journal of Economics. doi: 10.1093/cje/bes028.

Fonte: Keynes blog | Autore: Emiliano Brancaccio

[2] Lettera degli economisti contro le politiche di austerity in Europa (cfr. anche la versione in inglese ). Rinvio inoltre a Brancaccio, E. (2011). Il punto di vista del creditore fa danni. Il Sole 24 Ore, 10 ottobre.

[3] Brancaccio, E. (2012). Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a “European wage standard” . International Journal of Political Economy, vol. 41, Number 1.

[4] Brancaccio, E., Passarella, M. (2012). L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa. Milano, Il Saggiatore.

Questo articolo è apparso su http://www.emilianobrancaccio.it/ . La riproduzione è consentita citando la fonte e includendo le note.

http://www.controlacrisi.org/notizia/Ec ... -sinistra/
mariok

Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

Messaggio da mariok »

Mi sbaglio o qualche professore portava ad esempio l'Argentina come modello per uscire dalla crisi? Di fronte a questi dati disastrosi, c'è chi ancora insiste che la soluzione sta nella svalutazione all'infinito, illudendosi (o illudendo) che tutto ciò non comporti un prezzo pesantissimo per le condizioni di vita dei più deboli.

Argentina di nuovo sull’orlo del precipizio, dodici anni dopo il default finanziario

Buenos Aires è vicina al fallimento a causa delle politiche valutarie sbagliate del governo. E può rappresentare una lezione per l'euro: lo sganciamento da un cambio insostenibile deve essere gestito con intelligenza, evitando di ricadere negli errori del passato

di Alberto Bagnai | 8 luglio 2013

La crisi finanziaria argentina del 2001 ha colpito l’immaginazione e, purtroppo, anche i portafogli degli italiani. Le dimensioni della crisi e i legami culturali fra i due Paesi hanno assicurato a questo episodio un’ampia copertura sui nostri mezzi di informazione. Così, oggi, nel dibattito italiano si moltiplicano i riferimenti all’esperienza argentina. Un’insistenza spiegata anche da un’ovvia analogia: l’aggancio del peso al dollaro, sperimentato dall’Argentina negli anni 90, ricorda molto quello della lira al marco, realizzato entrando nell’euro. Analogia utilizzata per dimostrare tutto e il contrario di tutto. Da una parte abbiamo quelli che, come l’attuale presidente del Consiglio, ripetono che l’euro ci ha difeso da una crisi “di tipo argentino”. Dall’altra quelli che, come Nouriel Roubini, fin dal 2006 avevano chiarito che l’entrata nell’euro esponeva l’Italia agli stessi rischi corsi dall’Argentina agganciandosi al dollaro: perdita di competitività, accumulo di debito estero, rischio di default.

Quelli che: “Ci ha salvato l’euro”
Quest’ultimo punto di vista è confortato dai dati. Dopo lo sganciamento dal dollaro, superato un anno di crisi, l’Argentina è ripartita crescendo a una media di oltre l’8 per cento dal 2003 al 2007 e riducendo di oltre 10 punti il tasso di disoccupazione. D’altra parte, la notizia che oggi l’Argentina sarebbe sull’orlo di una nuova crisi finanziaria è accolta con cinica soddisfazione da quelli che “l’euro ci ha salvato”, i quali concludono, in modo sbrigativo, che sganciarsi da una moneta troppo forte non risolve i problemi, e quindi l’Italia deve restare nell’euro. Il fatto che l’Argentina oggi sia in crisi non dimostra che dodici anni or sono dovesse restare legata al dollaro. Ma c’è di più: i dati mostrano che i problemi odierni dell’Argentina sono ancora una volta causati dall’adozione di un tasso di cambio eccessivamente forte.

Lo sostengono Roberto Frenkel e Martin Rapetti dell’Università di Buenos Aires, notando come la politica economica del paese abbia seguito due fasi ben distinte. Dopo la crisi il costo del dollaro in termini di pesos era aumentato del 200 per cento (da uno a tre pesos per dollaro). Questo aumento non si era riflesso sui prezzi interni se non in minima parte (l’inflazione annua arrivò al 25% nel 2002 per poi tornare a una cifra nel 2004). Una dinamica gestita dal governo argentino con una politica valutaria accomodante, che compensava l’aumento relativamente moderato dei prezzi interni con un deprezzamento del peso, mantenendo costante il rapporto fra i prezzi argentini e quelli dei principali concorrenti (cioè il tasso di cambio reale). Il governo quindi promuoveva la crescita favorendo la domanda estera con l’adozione un tasso di cambio reale stabile e competitivo. Nel 2007 la situazione è cambiata drasticamente. Dopo cinque anni di crescita all’8%, cominciavano a emergere fisiologiche tensioni sui prezzi interni, ma alle prime avvisaglie di crisi internazionale, il governo ha risposto premendo sull’acceleratore della spesa pubblica, cercando di mantenere il tasso di crescita ai livelli precedenti.

Un tentativo che rispondeva a una logica di tipo populistico. Il risultato è stato un’esplosione dell’inflazione, salita al 20%-25%: dato occultato dalle statistiche ufficiali, che il governo ha tenuto sotto controllo rimuovendo, con una decisione molto criticata, i vertici dell’istituto di statistica. Per contenere l’inflazione il governo ha fatto leva sul tasso di cambio, che ha cessato di essere accomodante. Così, nel biennio 2010-2011 si stima che i prezzi siano cresciuti del 54%, mentre il cambio ha ceduto solo del 12%. La competitività dei prodotti argentini è andata a picco, e il saldo delle partite correnti è tornato negativo per la prima volta dal 2001, e per lo stesso motivo: un tasso di cambio troppo forte rispetto ai fondamentali del paese. Ciò suggerisce che il cambio del peso prima o poi dovrà cedere.

La corsa verso il dollaro
Come sempre accade in questi casi, il governo si arrampica sugli specchi per rinviare una misura potenzialmente costosa in termini elettorali. Gli operatori però sono consapevoli della sua necessità e quindi le tensioni sul mercato dei cambi aumentano. Il governo cerca di contrastare con misure restrittive la corsa degli argentini verso il dollaro, visto come bene rifugio, con l’unico risultato di favorire lo sviluppo del mercato nero, dove il dollaro costa circa il 70% in più rispetto alla quotazione ufficiale. Le riserve ufficiali continuano a prosciugarsi, e ad oggi coprono meno di sette mesi di importazioni. L’inevitabile crisi valutaria che si profila all’orizzonte sarà stata causata da due errori di gestione macroeconomica: l’uso improprio della spesa pubblica, e l’uso del tasso di cambio forte come ancora dei prezzi interni. Errori simili a quelli che circa vent’anni or sono causarono nel nostro paese la crisi del 1992. L’esperienza argentina ci dimostra così ancora una volta come il “cambio forte” schiacci, invece di proteggerlo, il Paese che lo adotta. La lezione da trarre è che lo sganciamento da un cambio insostenibile deve essere gestito con intelligenza, evitando di ricadere negli errori del passato.

da Il Fatto Quotidiano del 3 luglio 2013
aaaa42
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

Messaggio da aaaa42 »

il nipotino e andato a Londra a chiedere di investire in Italia.
ai tempi di enrico mattei c è stata una battaglia contro le multinazionali estere che volevano investire in italia comprando l' Eni.
questo è un fulgido esempio di investimento in Italia.
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IBM in Italia 355 ESUBERI, 149 LICENZIAMENTI La multinazionale IBM per garantire la crescita pianificata del valore azionario alla Borsa di New York il cui obiettivo è quello di distribuire un utile di 20$ per azione nel 2015 ha ordinato un'ulteriore riduzione di personale in tutta Europa.Nel corso degli incontri sindacali finora effettuati, il Coordinamento Nazionale e le OOSS hanno formulato un pacchetto di proposte tese ad evitare i licenziamenti traumatici , ma, fino all'ultimo incontro del 11 giugno, l'IBM ha riaffermato la volontà di ottenere il taglio occupazionale nel solo settore "staff", individuato come il primo da eliminare, per di piu' in maniera forzosa. La procedura di licenziamento finirà il suo corso entro il 30 luglio dopodichè partiranno le lettere di licenziamento . Fermiamo questa pratica immorale di gestione del profitto aiutaci a elevare la nostra voce Lavoratori Italiani di IBM
mariok

Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

Messaggio da mariok »

Risorse sottratte a politica industriale, investimenti, politiche sociali.
Ma di questo, chi ne parla?



Spesa pubblica senza freni nonostante i tagli
Pubblicato: Lun, 05/08/2013 - 17:00 • da:
dal Sole 24 ore

La spesa per far funzionare la macchina dell'amministrazione pubblica è stato l'obiettivo dichiarato di tutte le manovre, estive e autunnali, che hanno scandito l'agenda degli ultimi governi; politici e tecnici si sono scaldati nel dibattito eterno sui tagli «lineari» o «selettivi», la manovra estiva del Governo Monti ha promesso un cambio di passo nel nome della spending review, così intitolata proprio per ribadire il passaggio dalla vecchia era delle sforbiciate "grezze" al nuovo metodo "scientifico". Di tanto lavorio, però, al momento nei bilanci non c'è traccia. Partendo dal centro, i numeri dell'amministrazione statale si leggono nel bilancio riclassificato e diffuso con tabelle elaborabili nei giorni scorsi dalla Ragioneria generale dello Stato. Chi si avventura incontra qui la prima sorpresa: i «consumi intermedi», cioè proprio le spese di funzionamento come affitti, utenze, computer, carta e così via crescono del 35,1% fra 2012 e 2013, passando da 7,8 a 10,5 miliardi di euro. Un bel salto. Come mai? Lo sblocca-debiti, che ha liberato risorse per smaltire una fetta dei pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione, non c'entra nulla, perché per lo Stato il documento di riferimento è il previsionale 2013 ed è stato scritto prima della manovra straordinaria per i fornitori.

Una parte importante di questo aumento, spiegano i documenti ufficiali, deriva da «operazioni di incorporazione e razionalizzazione di alcuni enti», come i Monopoli che sono stati incorporati nelle Dogane gonfiando quindi le spese di funzionamento dell'Agenzia. Quel che non si spiega per questa via, si illumina quando si pensa all'andamento a singhiozzo che caratterizza la vita dell'amministrazione: i tagli, lineari o meno, hanno spesso ridotto le capacità di spesa per un periodo, fermando i pagamenti che poi andavano recuperati risbloccando le risorse (si veda anche l'articolo in basso). Le fonti della spesa e la sua struttura, però, paiono aver resistito a ogni attacco. Negli enti territoriali, i numeri più aggiornati sono quelli dei pagamenti, che permettono di misurare in tempo reale le uscite effettive registrate in ogni amministrazione. Il dato può soffrire di qualche variabile passeggera, perché un ente può aver accelerato i pagamenti rispetto all'anno scorso per una serie di ragioni, ma anche in questo caso lo sblocca-debiti non c'entra: i pagamenti liberati dal decreto stanno muovendo in queste settimane i primi passi, mentre nelle tabelle in pagina si fa il confronto fra le spese effettuate nel primo semestre 2013 con quelle dello stesso periodo 2012, concentrandosi ancora una volta sulle sole spese correnti di funzionamento, depurate da quelle per i servizi veri e propri rivolti ai cittadini. Per farla semplice, il dato conta la spesa del Comune o della Regione per gli affitti, la manutenzione degli immobili e le bollette, non quelle per muovere i pullman o raccogliere i rifiuti. Bene, anzi male.

Queste voci nelle Regioni sono cresciute nei primi sei mesi del 2013 del 18,6%, nei Comuni (dove il valore assoluto è ovviamente maggiore perché i municipi sono 8.092 e hanno un ventaglio di attività assai più articolato) sono cresciute del 3,9% e l'unico segno meno si registra nelle Province con un calo del 7,5 per cento. Se ne deve dedurre, allora, che l'unica arma per frenare i costi gestionali di un'amministrazione è il bombardamento normativo, che cambia i confini dell'ente, ne minaccia l'abolizione, lo svuota di competenze e in pratica ne paralizza l'attività in attesa di un quadro più chiaro? Più che arrivare a conclusioni provocatorie, può essere utile notare l'estrema varietà dei colori nel quadro. Certo, i dati sono influenzati dalle variabili territoriali, e i confronti vanno condotti fra enti simili anche nelle dimensioni. Le voci di spesa considerate, però, sono sempre le stesse, e comprendono in sintesi affitti, manutenzione, noleggi, utenze e materiali di consumo. Con queste premesse, diventa "curioso" il fatto che il funzionamento di Puglia e Veneto sia costato nei primi sei mesi dell'anno meno di 6 euro a ogni residente, Lombardia, Liguria e Toscana si accontentano di 7-8 euro ad abitante, mentre il Lazio "costa" più di 40 euro pro capite e la Sicilia supera i 45, fino ai dati record di Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta che però scontano le piccole dimensioni e la ricchezza di funzioni (e risorse) assicurata dai loro statuti. Più variabile il dato dei Comuni, dove il risultato dipende anche dalla quantità e dal livello dei servizi erogati direttamente, perché per svolgere più attività servono anche più immobili, più telefoni, più computer e così via.

gianni.trovati@ilsole24ore.com

Gli articoli pubblicati sul sito, a meno che non sia diversamente specificato (ad es interventi del coordinatore nazionale o della direzione nazionale) , esprimono le opinioni personali degli autori e in nessun caso vanno intesi come espressione della linea politica ufficiale del movimento.
mariok

Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

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Top NewsPercorso:ANSA.it > Top News > News
P.a: in 2 anni -120mila dipendenti
Spesa totale retribuzioni -2,3% in 2012 e -1,6% in 2011

08 agosto, 17:26

P.a: in 2 anni -120mila dipendenti (ANSA) - ROMA, 8 AGO - Nei 2 anni, tra il 2011 e il 2012, i dipendenti pubblici sono diminuiti di 120 mila unità (-3,5%) con un risparmio per le casse dello Stato di 6,6 miliardi al lordo dei contributi. La spesa totale per le retribuzioni è diminuita del 2,3% nel 2012 e dell'1,6% nel 2011. Sono i dati comunicati dall'Aran in una conferenza stampa.

Però la spesa corrente è aumentata. Vacci a capire!
mariok

Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

Messaggio da mariok »

La Germania pallida madre
di BARBARA SPINELLI

Una potenza egemone, ma timorosa di dominare perché memore della propria storia. Volitiva, ma temporeggiatrice fino all'abulia. Difficile afferrare la Germania, alla vigilia delle elezioni, e per questo abbondano i luoghi comuni, le definizioni elusive.

Sono i tentativi di psicologizzare un potere evidente, invadente, che Berlino dissimula con cura e che nelle capitali dell'Unione non si sa come contrastare. L'Europa intera si nutre di questi stereotipi, da quando la crisi l'ha assalita, e aspetta ammaliata, inerte, l'esito del voto. Spera che tutto cambierà dopo il 22 settembre, ma il tutto che promette lo affida a Berlino. Il rinnovo del Parlamento tedesco precede di pochi mesi le elezioni europee. Nell'Unione è vissuto come il primo atto di un dramma che concerne il continente, e che ha per protagonista la malata democrazia d'Europa.

Grazie ai luoghi comuni il dramma si tramuta in fiaba, che i tedeschi stessi coltivano in parte per capire dove vanno, in parte per giustificarsi. La fiaba narra una Germania - pallida madre ancora e sempre, come nella poesia di Brecht - ansiosa di non esser più, "in mezzo ai popoli, derisione o spavento". Devota all'Europa con lucido raziocinio, ma ostacolata dal nazionalismo dei paesi vicini, Francia in testa. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble fa parte della generazione europeista del dopoguerra, e in un lungo articolo del 19 luglio sul Guardian ha avvalorato l'immaginario racconto: "L'idea che i tedeschi ambiscano a un ruolo speciale in Europa è un malinteso. Noi non vogliamo un'Europa tedesca. Noi non chiediamo agli altri di essere come noi". Invece i tedeschi hanno volontà forti, molto più di quanto dicano. E chiedono, con l'impeto di chi difende non solo dottrine economiche, ma solenni visioni morali (il debito come colpa). Schäuble invita i partner a non usare stereotipi nazionali, ma anche il suo ragionare, minimizzare, sta divenendo uno stereotipo, un sintagma cristallizzato che la realtà smentisce ogni giorno. L'attesa inerte del voto tedesco - attesa addirittura miracolista in Italia - suggella un potere egemonico dato per immutabile, senza alternative: come immutabili, indiscutibili, sono le politiche di austerità che Berlino impone parlando, da sola, in nome di tutti i popoli dell'Unione.

I più lucidi sono gli intellettuali di lingua tedesca - i filosofi Jürgen Habermas e Ulrich Beck, lo scrittore Robert Menasse, l'ex ministro degli Esteri Joschka Fischer. Dagli esordi della crisi, denunciano con severa insofferenza l'involuzione nazionalista del proprio paese. Fra i partiti, solo i Verdi fanno proprie le loro diagnosi. Fischer, che è un loro dirigente, accusa il governo di aver riacceso dopo più di sessant'anni l'antico assillo della questione tedesca. Stessi toni in Jürgen Trittin, ex ministro dell'ecologia: "C'è una divisione netta fra quel che i Verdi vogliono e quel che Berlino sta facendo. Il Cancelliere ha sempre desiderato un'Europa intergovernativa, mentre noi vogliamo rafforzare le istituzioni europee, dunque i poteri della Commissione e del Parlamento europeo". La Merkel è sospettata di voler tornare a un'Europa degli Stati sovrani: quella stessa Europa fondata sull'equilibrio-competizione fra potenze (la balance of power), che si squassò nelle guerre dei secoli scorsi e contro cui fu alzato, negli anni '50, il baluardo della Comunità europea.

Non sono sospetti infondati. Piano piano, il capo del governo ha abbandonato l'europeismo che aveva professato nel febbraio 2012, e le porte che aveva socchiuso le ha per ora chiuse. Ha sentito crescere attorno a sé i neo-nazionalisti (l'appena nato partito Alternativa per la Germania recluta a destra e sinistra) e rapida s'è adeguata. Nei suoi discorsi come nei suoi atti "manca qualsiasi nocciolo normativo", dice Habermas. Per questo s'è alleata all'Inghilterra, quando Cameron ha messo un veto a qualsiasi aumento del bilancio comunitario: assieme, hanno detto no a politiche europee che controbilancino le austerità nazionali. E ha benignamente taciuto, quando il Premier olandese Mark Rutte ha decretato, lo scorso febbraio: "L'era dell'Unione sempre più stretta è finita". Il 13 agosto, alla Tv tedesca, s'è come liberata d'un fardello: "L'Europa deve coordinarsi meglio, ma credo che non tutto debba esser fatto a Bruxelles. Va considerata l'ipotesi di restituire qualcosa agli Stati. Dopo il voto ne discuteremo".

Secondo lo scrittore austriaco Menasse, la malattia dell'euro ha proprio qui le sue radici, politiche e democratiche assai più che economiche: nel potere che gli Stati vanno riprendendosi, non da oggi ma da quando nacque, al posto di una Costituzione federale, il Trattato di Lisbona del 2007 (Der europäische Landbote-Il messaggero europeo, Zsolnay 2012). È da allora che gli Stati - Consigli dei ministri, vertici dei leader nazionali - hanno ricominciato a prevalere, accampando sovranità illusorie ma non meno tronfie, erodendo sempre più le istituzioni sovranazionali. I difetti di costruzione dell'euro sono noti: mancanza di unione politica e economica. Ai difetti si sta rispondendo dilatandoli anziché riducendoli.

In un'Europa dove regnano di nuovo gli Stati - è fiaba anche questa, ma ci son fiabe più reali del reale - è ineluttabile che comandi il più potente economicamente. E comanda non senza astuzie, al punto che Beck parla di modello Merchiavelli, quando descrive l'impero accidentale messo su da Berlino: "Proprio come Machiavelli, Angela Merkel ha sfruttato l'occasione che le si è presentata (la crisi) e ha trasformato i rapporti di potere in Europa". Lo avrà fatto controvoglia ma lo ha pur sempre fatto, e con effetti visibili: l'Unione non è più comunità, quando i paesi debitori-peccatori vengono umiliati col soprannome di Periferia-Sud. Non si spiegano altrimenti l'evaporare d'ogni "nocciolo normativo", la volatilità delle posizioni tedesche: sui poteri da rimpatriare nelle capitali, sull'Europa-federazione, o sull'unione bancaria prima voluta, poi respinta per meglio tutelare gli interessi delle banche tedesche. Ascoltiamo ancora Beck: "Il principe, dice Machiavelli, deve attenersi alla parola politica data ieri solo se oggi gli porta vantaggio" (Europa tedesca, Laterza 2012).

Fischer sostiene che per la terza volta, la Germania rischia di distruggere l'Europa. Il pericolo è reale, ma stavolta è nel perfezionismo della sua democrazia che perversamente s'annida la minaccia. È nelle sue istituzioni indipendenti: Corte costituzionale, Parlamento nazionale, Banca centrale. Il nuovo nazionalismo in Europa è iperdemocratico. O meglio: siamo alle prese con prassi istituzionali che Menasse giudica antiquate perché "non ancora sorrette da una democrazia postnazionale". La voglia isolazionista di Alternativa per la Germania accelera la regressione. Se Alternativa entra in Parlamento il paese muterà volto, ma non mettendosi ai margini come l'Inghilterra: la sua Costituzione le prescrive l'Europa (art. 23, riscritto nel '92), ma l'Europa voluta non è federale.

L'ultimo luogo comune riguarda la memoria. L'Italia ha poco da criticare, essendo abituata all'oblio di sé. Ma la politica della memoria ha in Germania singolari lacune. Si ricorda l'inflazione di Weimar, ma non la deflazione e l'austerità adottata nel '30-32 dal Cancelliere Brüning, che assicurò trionfi elettorali a Hitler. Si ricorda il nazionalsocialismo, ma non quel che accadde dopo: il taglio del debito tedesco generosamente accordato nel '53 da 65 Stati (tra cui la Grecia). Anche il mito della Germania che impara dalla storia va in parte sfatato, se non si vuol dividere l'Europa tra centro e favelas: tra santi e peccatori che al massimo "si coordinano", dimenticando strada facendo il nome solidale - Comunità - che un tempo si erano dati e che troppo spensieratamente hanno abbandonato.

(04 settembre 2013)
http://www.repubblica.it/esteri/2013/09 ... f=HREC1-12
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

Messaggio da aaaa42 »

5 gennaio 2014 un giorno bruttissimo per la sinistra italiana
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Graziani: il rigore della critica al pensiero dominante
Il manifesto, 7 gennaio 2014

di Emiliano Brancaccio

Augusto Graziani è morto l’altro ieri, a Napoli, pochi mesi dopo le celebrazioni per i suoi ottant’anni. Scompare così il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante. Nell’opera di ricerca, così come nella didattica e nella divulgazione, Graziani ha incarnato una miscela per certi versi unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche. Quello stesso spirito tuttavia sembrò pure obbligarlo a un voto di perenne sobrietà: un velo di rigoroso understatement, sempre lì a celare la sua grandezza. Nell’epoca della mediocrità alla ribalta lo si potrebbe definire un uomo d’altri tempi. Appellativo condivisibile, purché ci si riferisca non solo al passato ma anche e soprattutto al futuro. In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici. Attualissimi, in questo senso, sono i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea.


Nel 2002, a Napoli, nell’aula Vanvitelliana della facoltà di Scienze politiche, Graziani tenne una lezione sull’euro appena entrato in circolazione. I colleghi ad ascoltarlo vennero numerosi. La sensazione era che i più lo onorassero senza esser minimamente persuasi dal suo scetticismo sulla sostenibilità futura dell’eurozona. Sarebbe ingeneroso criticarli, col senno di poi. Dopotutto la grancassa dell’ideologia in quei giorni operava a pieno ritmo, seducendo persino le menti più brillanti e avvezze alla critica. Graziani peraltro è sempre parso alquanto refrattario alle opere di seduzione ideologica. I suoi dubbi sulla moneta unica, ben saldati sul terreno dei fatti, non si limitavano a trarre spunto dalla nota lezione keynesiana sulla insostenibilità di quelle unioni valutarie che pretendono di scaricare l’intero peso dei riequilibri commerciali sui soli paesi debitori. Vi era pure, nella sua analisi, una lettura implicita del concetto marxiano di centralizzazione dei capitali, e dei tremendi conflitti politici che possono derivare da essa. Il pessimismo di Graziani era dunque fondato su una consapevolezza profonda dell’equilibrio precario su cui verteva il processo di unificazione europea, e del rischio che prima o poi la situazione potesse precipitare sotto il giogo di meccanismi favorevoli all’economia più forte del continente. Veniva così a crearsi uno scenario propizio per la riscoperta del sinistro monito di Thomas Mann sull’essenza dello spirito prevalente in Germania: “Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonio”.

Nel clima di entusiasmo suscitato dalla nascita dell’euro, tuttavia, le preoccupazioni di Graziani non attecchirono. Nel nostro paese, piuttosto, trovò largo seguito l’improbabile ideologia del “vincolo esterno”. I suoi propugnatori sostenevano che i vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici, non costituivano la dimostrazione che l’Unione andava costituendosi a immagine e somiglianza degli interessi del più forte, ossia del capitalismo tedesco. Piuttosto, si diceva, quei vincoli avrebbero miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi dello stagnante e frammentato capitalismo italiano in algidi principi della modernità globale, in vere e proprie avanguardie della produzione planetaria. Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria hanno incredibilmente sostenuto che il vincolo esterno imposto dall’Europa potesse spontaneamente fare tutto questo, sia pure in un deserto di progettualità e di investimenti. In tanti furono abbagliati da simili illusioni. Di contro, in un articolo pubblicato sempre nel 2002 sulla International Review of Applied Economics, Graziani fu tra i pochi a segnalare che il vincolo esterno avrebbe potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello annunciato. Egli cioè previde che i capitalisti italiani avrebbero tentato di rimediare alla perdita delle ultime leve della politica economica tramite una ulteriore frammentazione dei processi produttivi, finalizzata a reiterare il lassismo in campo fiscale e contributivo e ad accelerare la precarizzazione del lavoro. Fino a scoprire, nella crisi, che questi rozzi tentativi di contrazione dei costi non potevano reggere a lungo.

Oggi sappiamo che le cose sono andate come Graziani aveva previsto. Sappiamo pure che, proseguendo di questo passo, l’inasprirsi dei conflitti tra capitalismi europei potrà condurre a un tracollo dell’Unione che porrà i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro, ognuna delle quali avrà diverse implicazioni sui diversi gruppi sociali coinvolti. I contributi di Graziani, fondati su una visione moderna delle contrapposizioni tra e dentro le classi sociali, potranno aiutarci anche ad afferrare i termini di quello snodo decisivo che pian piano affiora all’orizzonte. Purtroppo, specialmente tra gli eredi più o meno diretti del movimento dei lavoratori, vi è oggi ancora chi preferisce distogliere lo sguardo da questa realistica prospettiva, e continua ad affidarsi alle sempre più flebili speranze di rilancio dei nobili ideali europeisti. Eppure in tempi più illuminati del nostro è stato detto acutamente che l’invito a sperare è in fondo un invito a ignorare. Chi conosce non spera ma prevede, e se le condizioni oggettive e la metodica organizzazione delle forze lo permettono, si dispone ad agire per il cambiamento. Credo che la vita intellettuale di Augusto Graziani abbia ben rappresentato questo saggio modus operandi.

Emiliano Brancaccio
Maucat
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Iscritto il: 19/04/2012, 12:04

Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?

Messaggio da Maucat »

peanuts ha scritto:
iospero ha scritto:Certo con le banche non si può continuare così, stipendi di dipendenti, funzionari e menager devono essere ridimensionati.
Leverei gli ultimi, a parte magari alcune categorie strapagate. Semmai si potrebbe ridurre o togliere alcuni benefit
Per gli altri ok e bisognerebbe ridurre anche le pensioni d'oro, magari si potrebbe mettere un tetto massimo
Gli strapagati sono i Manager, i dirigenti e i quadri di 3° e 4° livello; per gli altri quadri di 1° e 2° livello e impiegati gli stipendi sono normali tendenti al basso per coloro che sono stati assunti negli ultimi 10 anni...
Sfatiamo un pochino le leggende metropolitane... 8-)
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