ITALIA-EMERGENZA LAVORO
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
22 marzo 2014 – 11:20 | d al Blog di Civati
La svolta cattiva
In attesa di conoscere l'entità delle coperture dei tagli promessi per abbassare le tasse e la quota di debito pubblico che aumenteremo per lo stesso motivo, siamo finalmente nelle condizioni di commentare il testo sul lavoro, che fa segno al mitico Jobs Act (acronimo ripreso in modo un po' impreciso dalle politiche di Obama).
E purtroppo, come già per la riforma elettorale, unico parziale risultato di questa nuova stagione, ci sono molte ragioni per dichiararsi perplessi e per cercare di cambiare profondamente in Parlamento la linea che il governo ha deciso di seguire.
Lo spiega molto bene Gianni Principe, come già Andrea Ranieri e lo stesso Tito Boeri, considerato (anche da me, per altro) un modello da seguire (fino a qualche settimana fa, perché poi le «tutele crescenti» sono andate a farsi benedire):
La semplificazione che ha preso corpo non riduce il numero dei contratti in essere, non li sfronda per dare nuovamente un ruolo centrale al contratto a tempo indeterminato.
Quello che viene reso più semplice è il modo di eludere il ricorso a quel tipo di contratto, definito “normale” dalle direttive europee (tradotte, quelle sì, in tutte le lingue dell'Unione).
1) Viene reso più semplice il modo di godere di sgravi contributivi sui neo-assunti pagandoli il 35% della paga contrattuale.
Finora tutto ciò era complicato da un'incombenza molto pesante, una regola incomprensibile all'estero: si doveva erogare formazione al giovane neo-assunto, perfino di tipo teorico, perfino fuori del luogo di lavoro, perfino in base a un piano formale, messo per iscritto.
Questo gravame, definito come apprendistato, è stato finalmente abrogato, se non altro per dimostrare alla Germania, dove ancora vige questo sistema come modo generalizzato di ingresso al lavoro, che sappiamo fare riforme molto più moderne di quelle di cui loro sono capaci.
2) Il contratto a termine viene ulteriormente liberalizzato, per tre anni niente causali e proroghe a piacimento.
Su questo, basti dire che l'Italia è già ora il Paese in cui il mercato del lavoro è più mobile e meno regolamentato, come dimostra lo studio comparato illustrato da Michele Raitano.
Gli effetti negativi non sono solo quelli, del tutto evidenti, di ordine sociale, che tutto il Pd, almeno sulla carta, combatte portando avanti la bandiera della lotta alla precarietà.
C'è anche un effetto nefasto sulla competitività delle imprese, tenute sul mercato anche quando non raggiungono i livelli marginali di efficienza, grazie al sotto-salario (e all'illegalità). Consentendo loro di non investire, e di non ammodernare processi e prodotti si perpetua il ritardo di una fetta sempre più ampia del nostro sistema produttivo.
C'era chi aspettava questa riforma da anni. Ci aveva provato una dozzina d'anni fa il duo Maroni-Sacconi ma non avevano convinto i sindacati (e il prof. Marco Biagi non era d'accordo).
Ci ha riprovato Sacconi da Ministro ma non ha fatto in tempo e alla Fornero è sembrata una mossa troppo azzardata.
Era questa la svolta buona che dovevamo aspettarci?
La svolta cattiva
In attesa di conoscere l'entità delle coperture dei tagli promessi per abbassare le tasse e la quota di debito pubblico che aumenteremo per lo stesso motivo, siamo finalmente nelle condizioni di commentare il testo sul lavoro, che fa segno al mitico Jobs Act (acronimo ripreso in modo un po' impreciso dalle politiche di Obama).
E purtroppo, come già per la riforma elettorale, unico parziale risultato di questa nuova stagione, ci sono molte ragioni per dichiararsi perplessi e per cercare di cambiare profondamente in Parlamento la linea che il governo ha deciso di seguire.
Lo spiega molto bene Gianni Principe, come già Andrea Ranieri e lo stesso Tito Boeri, considerato (anche da me, per altro) un modello da seguire (fino a qualche settimana fa, perché poi le «tutele crescenti» sono andate a farsi benedire):
La semplificazione che ha preso corpo non riduce il numero dei contratti in essere, non li sfronda per dare nuovamente un ruolo centrale al contratto a tempo indeterminato.
Quello che viene reso più semplice è il modo di eludere il ricorso a quel tipo di contratto, definito “normale” dalle direttive europee (tradotte, quelle sì, in tutte le lingue dell'Unione).
1) Viene reso più semplice il modo di godere di sgravi contributivi sui neo-assunti pagandoli il 35% della paga contrattuale.
Finora tutto ciò era complicato da un'incombenza molto pesante, una regola incomprensibile all'estero: si doveva erogare formazione al giovane neo-assunto, perfino di tipo teorico, perfino fuori del luogo di lavoro, perfino in base a un piano formale, messo per iscritto.
Questo gravame, definito come apprendistato, è stato finalmente abrogato, se non altro per dimostrare alla Germania, dove ancora vige questo sistema come modo generalizzato di ingresso al lavoro, che sappiamo fare riforme molto più moderne di quelle di cui loro sono capaci.
2) Il contratto a termine viene ulteriormente liberalizzato, per tre anni niente causali e proroghe a piacimento.
Su questo, basti dire che l'Italia è già ora il Paese in cui il mercato del lavoro è più mobile e meno regolamentato, come dimostra lo studio comparato illustrato da Michele Raitano.
Gli effetti negativi non sono solo quelli, del tutto evidenti, di ordine sociale, che tutto il Pd, almeno sulla carta, combatte portando avanti la bandiera della lotta alla precarietà.
C'è anche un effetto nefasto sulla competitività delle imprese, tenute sul mercato anche quando non raggiungono i livelli marginali di efficienza, grazie al sotto-salario (e all'illegalità). Consentendo loro di non investire, e di non ammodernare processi e prodotti si perpetua il ritardo di una fetta sempre più ampia del nostro sistema produttivo.
C'era chi aspettava questa riforma da anni. Ci aveva provato una dozzina d'anni fa il duo Maroni-Sacconi ma non avevano convinto i sindacati (e il prof. Marco Biagi non era d'accordo).
Ci ha riprovato Sacconi da Ministro ma non ha fatto in tempo e alla Fornero è sembrata una mossa troppo azzardata.
Era questa la svolta buona che dovevamo aspettarci?
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
15 APR 2014 16:43
LA DONNA D'ACCIAIO CHE MANDA A CASA I LAVORATORI - ALL'INDOMANI DELLA NOMINA IN ENI, ESPLODE IL CASO DELLA SOCIETA' DEL GRUPPO MARCEGAGLIA BUILDTECH, CHE CHIUDE A MILANO E VUOLE TRASFERIRE 169 DIPENDENTI AD ALESSANDRIA
La direzione della BuildTech, stabilimento specializzato nella produzione di manufatti di acciaio di cui Emma Marcegaglia è vice Ceo, decide di chiudere il sito di viale Sarca 336, a ridosso dell’area industriale di Sesto San Giovanni, nel milanese. In bilico il futuro di 169 persone, a cui è stato proposto il trasferimento…
Da ‘La Stampa'
All'indomani della nomina dell'ex numero uno di Confindustria alla presidenza di Eni, la direzione della BuildTech, stabilimento specializzato nella produzione di manufatti di acciaio di cui Emma Marcegaglia è vice Ceo, decide di chiudere il sito di viale Sarca 336, a ridosso dell'area industriale di Sesto San Giovanni, nel milanese.
In bilico il futuro di 169 persone, a cui è stato proposto il trasferimento nella sede industriale della piemontese Pozzolo Formigaro, in provincia di Alessandria. Immediata la reazione dei lavoratori, che sono entrati in assemblea permanente.
Secondo il gruppo invece la proposta di trasferimento entro la fine dell'anno degli impianti e del personale punta a salvare produzione e occupazione. «Una decisione, quella di trasferirci e di non chiudere - sottolinea il presidente della società Fabrizio Prete - che l'azienda ha preso con grande senso di responsabilità sociale proprio per garantire l'occupazione in un momento di grande crisi per il settore della siderurgia e dell'edilizia industriale, in particolare». Il trasferimento della produzione e dei lavoratori a Pozzolo Formigaro (a quasi 100 km da Milano) sarà effettuato nei prossimi mesi. «Sempre che l'attività -incalza l'azienda - non venga bloccata causando perdita di ordini e clientela».
La situazione comunque resta tesa, con la Fiom che fa sapere che il lavoratori«non hanno alcuna intenzione di subire in silenzio la chiusura della fabbrica e i licenziamenti e alla notizia dell'annuncio aziendale hanno deciso di organizzarsi». È sempre la Fiom Cgil di Milano a sottolineare che lo stabilimento di viale Sarca (nell'ex area industriale a ridosso di Sesto San Giovanni) si trova in una zona «assai gettonata dal punto di vista edilizio». «Dopo aver licenziato i lavoratori di Taranto che operavano nel settore del fotovoltaico e pannelli - continua la nota - il già presidente di Confindustria oggi presidente di Eni -si legge- oggi decide di trasformare la fabbrica milanese in area dismessa».
LA DONNA D'ACCIAIO CHE MANDA A CASA I LAVORATORI - ALL'INDOMANI DELLA NOMINA IN ENI, ESPLODE IL CASO DELLA SOCIETA' DEL GRUPPO MARCEGAGLIA BUILDTECH, CHE CHIUDE A MILANO E VUOLE TRASFERIRE 169 DIPENDENTI AD ALESSANDRIA
La direzione della BuildTech, stabilimento specializzato nella produzione di manufatti di acciaio di cui Emma Marcegaglia è vice Ceo, decide di chiudere il sito di viale Sarca 336, a ridosso dell’area industriale di Sesto San Giovanni, nel milanese. In bilico il futuro di 169 persone, a cui è stato proposto il trasferimento…
Da ‘La Stampa'
All'indomani della nomina dell'ex numero uno di Confindustria alla presidenza di Eni, la direzione della BuildTech, stabilimento specializzato nella produzione di manufatti di acciaio di cui Emma Marcegaglia è vice Ceo, decide di chiudere il sito di viale Sarca 336, a ridosso dell'area industriale di Sesto San Giovanni, nel milanese.
In bilico il futuro di 169 persone, a cui è stato proposto il trasferimento nella sede industriale della piemontese Pozzolo Formigaro, in provincia di Alessandria. Immediata la reazione dei lavoratori, che sono entrati in assemblea permanente.
Secondo il gruppo invece la proposta di trasferimento entro la fine dell'anno degli impianti e del personale punta a salvare produzione e occupazione. «Una decisione, quella di trasferirci e di non chiudere - sottolinea il presidente della società Fabrizio Prete - che l'azienda ha preso con grande senso di responsabilità sociale proprio per garantire l'occupazione in un momento di grande crisi per il settore della siderurgia e dell'edilizia industriale, in particolare». Il trasferimento della produzione e dei lavoratori a Pozzolo Formigaro (a quasi 100 km da Milano) sarà effettuato nei prossimi mesi. «Sempre che l'attività -incalza l'azienda - non venga bloccata causando perdita di ordini e clientela».
La situazione comunque resta tesa, con la Fiom che fa sapere che il lavoratori«non hanno alcuna intenzione di subire in silenzio la chiusura della fabbrica e i licenziamenti e alla notizia dell'annuncio aziendale hanno deciso di organizzarsi». È sempre la Fiom Cgil di Milano a sottolineare che lo stabilimento di viale Sarca (nell'ex area industriale a ridosso di Sesto San Giovanni) si trova in una zona «assai gettonata dal punto di vista edilizio». «Dopo aver licenziato i lavoratori di Taranto che operavano nel settore del fotovoltaico e pannelli - continua la nota - il già presidente di Confindustria oggi presidente di Eni -si legge- oggi decide di trasformare la fabbrica milanese in area dismessa».
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Editoria, in cinque anni persi 1.660 posti. Nel 2013 crollo di lettori e pubblicità
I dati Fieg su 51 gruppi: lo scorso anno le vendite dei quotidiani sono scese del 10,3% e i ricavi da inserzioni hanno fatto segnare -19,4%. Peggio ancora i periodici: -9,8% in edicola, -24,5% i ricavi pubblicitari. E gli editori rispondono tagliando le redazioni. Azzurra Caltagirone: "Dinamiche contrattuali non sostenibili"
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 16 aprile 2014Commenti (39)
Oltre 1.660 giornalisti rimasti senza lavoro negli ultimi cinque anni. Vendite dei quotidiani giù del 10% nel solo 2013, mentre i ricavi pubblicitari crollavano addirittura del 19,4%. Ancora peggio i periodici, trascurati dai lettori (-9,8% il ricavato in edicola) e abbandonati dagli inserzionisti (-24,5%). Mentre nei consigli di amministrazione delle aziende editoriali volano gli stracci (vedi il caso Rcs) e gli editori stessi sono ai ferri corti con i dipendenti, che non ci stanno a vedere i manager mettersi in tasca premi e bonus mentre loro mandano giù cassa integrazione e contratti di solidarietà (è successo al Sole 24 Ore e, di nuovo, in Rcs), il settore è ben lontano dal vedere la famosa luce in fondo al tunnel. A fotografare la situazione è la Fieg (Federazione italiana editori di giornali), guidata da Giulio Anselmi, in uno studio presentato il 16 aprile con l’evidente obiettivo di convincere il nuovo governo che il fondo straordinario per gli interventi di sostegno all’editoria (120 milioni spalmati su tre anni, con cui finanziare tra l’altro ammortizzatori sociali e ristrutturazioni aziendali) va sottratto alle grinfie della spending review.
Il rapporto, basato sui dati di bilancio di 51 gruppi editoriali, contiene dati sul triennio horribilis 2011-2013, il più pesante per il comparto. Che ha visto il fatturato editoriale degli editori di quotidiani restringersi di mese in mese: -2,1% nel 2011, -9,9% nel 2012, -11,1% nel 2013. Colpa in gran parte del calo della pubblicità, compensato solo in parte dagli aumenti di prezzo varati da tutte le maggiori testate. Per arginare il crollo le aziende hanno tagliato i costi (-1,4% nel 2011, -4% nel 2012), ma non è bastato per salvare i margini. Nel 2012 solo 16 imprese risultavano in utile, contro 35 che hanno invece chiuso i bilanci in rosso subendo perdite complessive di 149,4 milioni (l’anno prima il buco si fermava a 66,6 milioni). Sui risultati dei periodici sarebbe opportuno stendere un velo pietoso, considerato che l’ultimo anno in cui hanno visto aumentare le pagine pubblicitarie è stato il 2007. Dopo l’inizio della crisi è stato un crescendo (in negativo) fino al -23,9% del 2012 e al -24,5% del 2013. Male anche i ricavi in edicola (-9,9% e -9,8% i dati dell’ultimo biennio, ma se si guarda agli ultimi sette anni si arriva a un calo aggregato del 36%), con ovvie ripercussioni sul fatturato complessivo.
Tirando le somme, l’anno scorso quotidiani e periodici hanno perso il 21,2% degli introiti da pubblicità e una bella fetta di lettori: quelli dei quotidiani sono ormai solo 20,6 milioni contro i quasi 25 del 2011, mentre a sfogliare settimanali e mensili sono rimasti 28,4 milioni di italiani, 4,4 milioni in meno risalendo solo alla metà del 2012. Tiene, invece, l’online: si può parlare quasi di boom, considerato che i lettori dei siti web delle testate quotidiane sono passati da 2,7 a 3,7 milioni in due anni. Su anche i ricavi: oggi sono il 6,4% del fatturato complessivo, contro il 3,9% del 2011. Peccato che sia decisamente troppo poco per arginare il crollo su tutti gli altri fronti. Così gli editori hanno affilato le forbici e le hanno utilizzate per decimare gli organici: tra 2009 e 2013 sono rimasti a spasso 887 giornalisti dei quotidiani e 638 dei periodici. E si è più che dimezzato (da 173 a 75) il numero dei praticanti, cioè i giovani che dovrebbero garantire il ricambio generazionale nelle redazioni. Solo l’anno scorso l’occupazione è diminuita del 7,7% nei periodici, del 5,6% nei quotidiani e del 3,9% nelle agenzie di stampa. Nel complesso, significa 600 posti di lavoro in meno rispetto al 2012. Ma evidentemente non basta ancora, viste le dichiarazioni della vicepresidente Fieg, Azzurra Caltagirone, durante la presentazione dello studio: “Nonostante la popolazione lavorativa sia diminuita”, ha detto, “il costo del lavoro nell’ultimo anno è aumentato. Questo significa che le nostre dinamiche contrattuali non sono più sostenibili e che il numero degli addetti non è più sostenibile“. Non solo: secondo la Caltagirone, che siede nel cda del gruppo di famiglia, editore de Il Messaggero, “ci sono 4.500 poligrafici nei giornali e nelle agenzie a fronte di 6.500 giornalisti. Anche questo rapporto è diventato insostenibile”. Sottolineando poi il livello di anzianità dei giornalisti, la vicepresidente Fieg ha aggiunto che “non è possibile proseguire nella trasformazione dell’offerta senza includere la popolazione tra i venti e i trent’anni che rappresenta il futuro”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04 ... ta/954201/
I dati Fieg su 51 gruppi: lo scorso anno le vendite dei quotidiani sono scese del 10,3% e i ricavi da inserzioni hanno fatto segnare -19,4%. Peggio ancora i periodici: -9,8% in edicola, -24,5% i ricavi pubblicitari. E gli editori rispondono tagliando le redazioni. Azzurra Caltagirone: "Dinamiche contrattuali non sostenibili"
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 16 aprile 2014Commenti (39)
Oltre 1.660 giornalisti rimasti senza lavoro negli ultimi cinque anni. Vendite dei quotidiani giù del 10% nel solo 2013, mentre i ricavi pubblicitari crollavano addirittura del 19,4%. Ancora peggio i periodici, trascurati dai lettori (-9,8% il ricavato in edicola) e abbandonati dagli inserzionisti (-24,5%). Mentre nei consigli di amministrazione delle aziende editoriali volano gli stracci (vedi il caso Rcs) e gli editori stessi sono ai ferri corti con i dipendenti, che non ci stanno a vedere i manager mettersi in tasca premi e bonus mentre loro mandano giù cassa integrazione e contratti di solidarietà (è successo al Sole 24 Ore e, di nuovo, in Rcs), il settore è ben lontano dal vedere la famosa luce in fondo al tunnel. A fotografare la situazione è la Fieg (Federazione italiana editori di giornali), guidata da Giulio Anselmi, in uno studio presentato il 16 aprile con l’evidente obiettivo di convincere il nuovo governo che il fondo straordinario per gli interventi di sostegno all’editoria (120 milioni spalmati su tre anni, con cui finanziare tra l’altro ammortizzatori sociali e ristrutturazioni aziendali) va sottratto alle grinfie della spending review.
Il rapporto, basato sui dati di bilancio di 51 gruppi editoriali, contiene dati sul triennio horribilis 2011-2013, il più pesante per il comparto. Che ha visto il fatturato editoriale degli editori di quotidiani restringersi di mese in mese: -2,1% nel 2011, -9,9% nel 2012, -11,1% nel 2013. Colpa in gran parte del calo della pubblicità, compensato solo in parte dagli aumenti di prezzo varati da tutte le maggiori testate. Per arginare il crollo le aziende hanno tagliato i costi (-1,4% nel 2011, -4% nel 2012), ma non è bastato per salvare i margini. Nel 2012 solo 16 imprese risultavano in utile, contro 35 che hanno invece chiuso i bilanci in rosso subendo perdite complessive di 149,4 milioni (l’anno prima il buco si fermava a 66,6 milioni). Sui risultati dei periodici sarebbe opportuno stendere un velo pietoso, considerato che l’ultimo anno in cui hanno visto aumentare le pagine pubblicitarie è stato il 2007. Dopo l’inizio della crisi è stato un crescendo (in negativo) fino al -23,9% del 2012 e al -24,5% del 2013. Male anche i ricavi in edicola (-9,9% e -9,8% i dati dell’ultimo biennio, ma se si guarda agli ultimi sette anni si arriva a un calo aggregato del 36%), con ovvie ripercussioni sul fatturato complessivo.
Tirando le somme, l’anno scorso quotidiani e periodici hanno perso il 21,2% degli introiti da pubblicità e una bella fetta di lettori: quelli dei quotidiani sono ormai solo 20,6 milioni contro i quasi 25 del 2011, mentre a sfogliare settimanali e mensili sono rimasti 28,4 milioni di italiani, 4,4 milioni in meno risalendo solo alla metà del 2012. Tiene, invece, l’online: si può parlare quasi di boom, considerato che i lettori dei siti web delle testate quotidiane sono passati da 2,7 a 3,7 milioni in due anni. Su anche i ricavi: oggi sono il 6,4% del fatturato complessivo, contro il 3,9% del 2011. Peccato che sia decisamente troppo poco per arginare il crollo su tutti gli altri fronti. Così gli editori hanno affilato le forbici e le hanno utilizzate per decimare gli organici: tra 2009 e 2013 sono rimasti a spasso 887 giornalisti dei quotidiani e 638 dei periodici. E si è più che dimezzato (da 173 a 75) il numero dei praticanti, cioè i giovani che dovrebbero garantire il ricambio generazionale nelle redazioni. Solo l’anno scorso l’occupazione è diminuita del 7,7% nei periodici, del 5,6% nei quotidiani e del 3,9% nelle agenzie di stampa. Nel complesso, significa 600 posti di lavoro in meno rispetto al 2012. Ma evidentemente non basta ancora, viste le dichiarazioni della vicepresidente Fieg, Azzurra Caltagirone, durante la presentazione dello studio: “Nonostante la popolazione lavorativa sia diminuita”, ha detto, “il costo del lavoro nell’ultimo anno è aumentato. Questo significa che le nostre dinamiche contrattuali non sono più sostenibili e che il numero degli addetti non è più sostenibile“. Non solo: secondo la Caltagirone, che siede nel cda del gruppo di famiglia, editore de Il Messaggero, “ci sono 4.500 poligrafici nei giornali e nelle agenzie a fronte di 6.500 giornalisti. Anche questo rapporto è diventato insostenibile”. Sottolineando poi il livello di anzianità dei giornalisti, la vicepresidente Fieg ha aggiunto che “non è possibile proseguire nella trasformazione dell’offerta senza includere la popolazione tra i venti e i trent’anni che rappresenta il futuro”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04 ... ta/954201/
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Immagino che chi non è nato in una città delle fabbriche come lo è stata a suo tempo SSG, la chiusura di una fabbrica o come nel caso di Piombino la chiusura di un altoforno non rappresenti molto. Qua, che negli anni ’60, SSG, era considerata la città più industrializzata del pianeta, per via del rapporto tra la sua superficie ed il numero delle fabbriche, soprattutto a rinomanza internazionale come Ernesto Breda (1903), Afl Falck (1906), Pirelli, Ercole Marelli, Magneti Marelli (1919), Campari (il campari è nato qua -1903), Turrinelli(carrelli elevatori e trasporti all’interno delle stazioni ferroviarie), Spadaccini, Maggi (che ha anticipato la Star nei cubetti di brodo vegetale di almeno 20 anni - 1910), Garelli (moto -1919), Gabbioneta (pompe di tutti i tipi ancora oggi sul mercato internazionale -1905), Balconi (Fonderia di ghisa - 1905), Orestein % Koppel, decauvilles, macchine per l'edilizia e la pavimentazione stradale - 1913), Scaini (accumulatori - 1917), Emilio Muller (costruzione ascensori, montacarichi e gru) (1909), Laminatoio nazionale (1907), la chiusura di una fabbrica è come la morte di una parte di sé stessi.
Ci si chiede sempre: “Adesso quelle famiglie come campano?”
il Fatto 16.4.14
Piombino affonda, così Renzi lascia spegnere l’acciaieria
In crisi. Dopo Pasqua lo storico altoforno verrà spento Il governo, tavolo dopo tavolo, rinvia. Il sospetto in città è che voglia dare l’azienda ai gruppi italiani della siderurgia
di Salvatore Cannavò
Il giorno dello spegnimento dell'altoforno mi sembrerà di tradire mio padre”. Lorenzo Fusco lavora alla Lucchini di Piombino, la storica acciaieria toscana, da quando era ragazzo. Prima di lui ci lavorava suo padre, arrivato da Napoli e contento di crescere la famiglia in quell'avamposto di classe operaia. Il 23 aprile, però, l'altoforno che rifornisce di linfa il gigantesco stabilimento, lungo più di 7 chilometri, una città accanto alla città, sarà spento.
Non c'è più abbastanza produzione, la crisi, che dura dal 2008, non è stata superata e il commissario straordinario, Piero Nardi, ha dietro di sé le banche che reclamano i crediti.
Per ora la rete di protezione stesa attorno allo stabilimento si riassume in un “Accordo di programma” impostato due giorni fa al ministero dello Sviluppo economico, alla presenza del viceministro Claudio De Vincenti, e che presuppone una serie di ipotesi. Ma la prospettiva vera, la ripresa della produzione e il lavoro garantito per i 2.000 dipendenti della Lucchini, che diventano circa 4.000 se si considera la Val Cornia tutt'attorno, il cui Pil dipende in larga parte dall'acciaio, ancora non c'è. Lo spegnimento di quell'altoforno rappresenta uno spartiacque.
Tra quello che c'era prima e quello che ci sarà dopo.
A Sergio Cardellini, delegato della Fim-Cisl, quando gli chiedi che impressione gli fa quell'evento gli si incrina la voce e i 34 anni passati dentro “La Fabbrica”, come è sempre stata chiamata da queste parti, si sentono tutti.
Gli interessi della lobby dell'acciaio
Per il momento, la storia operaia che viene fuori da Piombino non è una storia di recriminazioni. Il sindacato è unito, cosa rara di questi tempi, ed è convinto di aver fatto finora il proprio dovere. Ha mantenuto tutti i posti di lavoro e anche il salario, nonostante ora ci siano i contratti di solidarietà.
E l'obiettivo che si è dato è ambizioso: “Vogliamo realizzare l'Accordo Piombino, la solidarietà per tutti, interni e indotto, senza differenza alcuna”. Non sarà facile perché, come notano diversi operai, riuniti qui nella storica sala del Consiglio di fabbrica, a mettere in discussione il futuro di Piombino c'è soprattutto “la lobby dell'acciaio”.
Il riferimento è alle imprese italiane, come Duferco, Feralpi o la stessa Marcegaglia, che “sperano nella chiusura per potersi poi prendere i bocconi migliori”.
Un progetto, ipotizzato dai sindacati locali, che avrebbe trovato nel governo una sponda di fatto. “Come mai, nota Rinaldi della Fiom, sono cambiati tre governi ma allo Sviluppo economico c'è sempre, come sottosegretario e ora come viceministro Claudio De Vincenti?”. E Piero Nardi, il commissario, era lo stesso che lavorava alla Lucchini prima della privatizzazione da parte di Italsider e che ha come responsabile commerciale Giovanni Bajetta che ricopre un ruolo analogo alla Duferco.
Insomma, la tesi prevalente è che ci sia un piano per ridurre la capacità produttiva dell'acciaio italiano e permettere ai produttori più in forma, tutti del Nord, di recuperare quote di mercato.
La crisi della Lucchini ha radici antiche. La storica famiglia dell'acciaio fece un buon affare acquistando gli stabilimenti ex Italsider – oltre a Piombino, Trieste e Lecco – ma agli inizi del Duemila macinava perdite milionarie. La vendita alla russa Severstal, del magnate Alexei Mordashov, completata nel 2005, sembrava la soluzione. Ma la Severstal, nonostante le dimensioni, nel 2008 avviò la dismissione che ha portato all'impasse dello stabilimento toscano. Nel 2010, l'inserto immobiliare del Sole 24 Ore dava la notizia di un clamoroso shopping da parte di Mordashov in Costa Smeralda alla caccia di ville milionarie. “Nessuno, in tutti questi anni – fa notare Cardellini – ha mai controllato Mordashov e la Severstal, nessuno ha fatto una verifica. È normale?”. Non lo è.
Anche perché, e veniamo a oggi, controlli e rilievi meticolosi sono stati invece effettuati dal commissario Nardi e dal governo, nei confronti dell'unico acquirente che si è fatto avanti. La Smc del giordano-tunisino Kkaled al Habahbeh che continua a dichiarare di volersi prendere tutto, altoforno compreso, ma a cui vengono contestati scarsi mezzi.
Anche per questo il polmone di Piombino sarà spento il 23 ma caricato “in bianco”, cioè con la possibilità di poter essere riavviato in 20 giorni se nel frattempo si materializzerà un nuovo acquirente.
Gli operai sperano apertamente “nell'arabo”, come lo chiamano, ma denunciano gli intralci e gli intoppi frapposti finora da governo e commissario. E c'è chi pensa a un esposto alla magistratura proprio contro il commissario Nardi.
Un futuro tra i rottami
Al ministero, lunedì scorso, è stato impostato l'accordo di programma che è basato sull'ipotesi di impiantare un nuovo forno elettrico unitamente alla tecnologia Corex per riprendere la produzione sia pure a livelli ridotti. L'altra ipotesi, sponsorizzata dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, è quella dell'ampliamento del porto – già avviato – per permettere l'attività di refitting, lo smantellamento e il recupero dei rottami di vecchie navi. La seconda speranza, così, è che il rottame della Concordia venga a morire a Piombino.
Tutto questo, però, ha bisogno di una “mano pubblica” che finora non si è vista.
“Sembrano voler stare tutti alla larga da Piombino”, dice Gabrielli, segretario provinciale della Fiom, “a volte anche gli stessi sindacati nazionali”.
E soprattutto Renzi. “Io l'ho votato– dice il delegato della Fiom, Rinaldi – Mi piacerebbe vedere se ha le palle di venire qui e parlare con noi”. Magari prima del 23 aprile.
Ci si chiede sempre: “Adesso quelle famiglie come campano?”
il Fatto 16.4.14
Piombino affonda, così Renzi lascia spegnere l’acciaieria
In crisi. Dopo Pasqua lo storico altoforno verrà spento Il governo, tavolo dopo tavolo, rinvia. Il sospetto in città è che voglia dare l’azienda ai gruppi italiani della siderurgia
di Salvatore Cannavò
Il giorno dello spegnimento dell'altoforno mi sembrerà di tradire mio padre”. Lorenzo Fusco lavora alla Lucchini di Piombino, la storica acciaieria toscana, da quando era ragazzo. Prima di lui ci lavorava suo padre, arrivato da Napoli e contento di crescere la famiglia in quell'avamposto di classe operaia. Il 23 aprile, però, l'altoforno che rifornisce di linfa il gigantesco stabilimento, lungo più di 7 chilometri, una città accanto alla città, sarà spento.
Non c'è più abbastanza produzione, la crisi, che dura dal 2008, non è stata superata e il commissario straordinario, Piero Nardi, ha dietro di sé le banche che reclamano i crediti.
Per ora la rete di protezione stesa attorno allo stabilimento si riassume in un “Accordo di programma” impostato due giorni fa al ministero dello Sviluppo economico, alla presenza del viceministro Claudio De Vincenti, e che presuppone una serie di ipotesi. Ma la prospettiva vera, la ripresa della produzione e il lavoro garantito per i 2.000 dipendenti della Lucchini, che diventano circa 4.000 se si considera la Val Cornia tutt'attorno, il cui Pil dipende in larga parte dall'acciaio, ancora non c'è. Lo spegnimento di quell'altoforno rappresenta uno spartiacque.
Tra quello che c'era prima e quello che ci sarà dopo.
A Sergio Cardellini, delegato della Fim-Cisl, quando gli chiedi che impressione gli fa quell'evento gli si incrina la voce e i 34 anni passati dentro “La Fabbrica”, come è sempre stata chiamata da queste parti, si sentono tutti.
Gli interessi della lobby dell'acciaio
Per il momento, la storia operaia che viene fuori da Piombino non è una storia di recriminazioni. Il sindacato è unito, cosa rara di questi tempi, ed è convinto di aver fatto finora il proprio dovere. Ha mantenuto tutti i posti di lavoro e anche il salario, nonostante ora ci siano i contratti di solidarietà.
E l'obiettivo che si è dato è ambizioso: “Vogliamo realizzare l'Accordo Piombino, la solidarietà per tutti, interni e indotto, senza differenza alcuna”. Non sarà facile perché, come notano diversi operai, riuniti qui nella storica sala del Consiglio di fabbrica, a mettere in discussione il futuro di Piombino c'è soprattutto “la lobby dell'acciaio”.
Il riferimento è alle imprese italiane, come Duferco, Feralpi o la stessa Marcegaglia, che “sperano nella chiusura per potersi poi prendere i bocconi migliori”.
Un progetto, ipotizzato dai sindacati locali, che avrebbe trovato nel governo una sponda di fatto. “Come mai, nota Rinaldi della Fiom, sono cambiati tre governi ma allo Sviluppo economico c'è sempre, come sottosegretario e ora come viceministro Claudio De Vincenti?”. E Piero Nardi, il commissario, era lo stesso che lavorava alla Lucchini prima della privatizzazione da parte di Italsider e che ha come responsabile commerciale Giovanni Bajetta che ricopre un ruolo analogo alla Duferco.
Insomma, la tesi prevalente è che ci sia un piano per ridurre la capacità produttiva dell'acciaio italiano e permettere ai produttori più in forma, tutti del Nord, di recuperare quote di mercato.
La crisi della Lucchini ha radici antiche. La storica famiglia dell'acciaio fece un buon affare acquistando gli stabilimenti ex Italsider – oltre a Piombino, Trieste e Lecco – ma agli inizi del Duemila macinava perdite milionarie. La vendita alla russa Severstal, del magnate Alexei Mordashov, completata nel 2005, sembrava la soluzione. Ma la Severstal, nonostante le dimensioni, nel 2008 avviò la dismissione che ha portato all'impasse dello stabilimento toscano. Nel 2010, l'inserto immobiliare del Sole 24 Ore dava la notizia di un clamoroso shopping da parte di Mordashov in Costa Smeralda alla caccia di ville milionarie. “Nessuno, in tutti questi anni – fa notare Cardellini – ha mai controllato Mordashov e la Severstal, nessuno ha fatto una verifica. È normale?”. Non lo è.
Anche perché, e veniamo a oggi, controlli e rilievi meticolosi sono stati invece effettuati dal commissario Nardi e dal governo, nei confronti dell'unico acquirente che si è fatto avanti. La Smc del giordano-tunisino Kkaled al Habahbeh che continua a dichiarare di volersi prendere tutto, altoforno compreso, ma a cui vengono contestati scarsi mezzi.
Anche per questo il polmone di Piombino sarà spento il 23 ma caricato “in bianco”, cioè con la possibilità di poter essere riavviato in 20 giorni se nel frattempo si materializzerà un nuovo acquirente.
Gli operai sperano apertamente “nell'arabo”, come lo chiamano, ma denunciano gli intralci e gli intoppi frapposti finora da governo e commissario. E c'è chi pensa a un esposto alla magistratura proprio contro il commissario Nardi.
Un futuro tra i rottami
Al ministero, lunedì scorso, è stato impostato l'accordo di programma che è basato sull'ipotesi di impiantare un nuovo forno elettrico unitamente alla tecnologia Corex per riprendere la produzione sia pure a livelli ridotti. L'altra ipotesi, sponsorizzata dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, è quella dell'ampliamento del porto – già avviato – per permettere l'attività di refitting, lo smantellamento e il recupero dei rottami di vecchie navi. La seconda speranza, così, è che il rottame della Concordia venga a morire a Piombino.
Tutto questo, però, ha bisogno di una “mano pubblica” che finora non si è vista.
“Sembrano voler stare tutti alla larga da Piombino”, dice Gabrielli, segretario provinciale della Fiom, “a volte anche gli stessi sindacati nazionali”.
E soprattutto Renzi. “Io l'ho votato– dice il delegato della Fiom, Rinaldi – Mi piacerebbe vedere se ha le palle di venire qui e parlare con noi”. Magari prima del 23 aprile.
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Questo intervento tecnico del prof. Mariucci dimostra inequivocabilmente
che questo è un governo di dilettanti gestito dal capo dei dilettanti allo sbaraglio Fonzi.
#matteo staisereno
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La semplificazione che complica il lavoro
15.04.14
Luigi Mariucci
Davvero il decreto legge sui contratti a termine comporta una liberalizzazione semplificatrice? Dal punto di vista delle aziende aumentano solo le incertezze, almeno finché non sarà approvato dal Parlamento il testo definitivo. Conseguenze della semplificazione malfatta e moratoria legislativa.
UN DECRETO DALLE MOLTE INCERTEZZE
Il decreto legge n. 34/2014 è stato criticato da più parti, oltre che nel merito, soprattutto per una questione di metodo, data l’evidente contraddizione tra liberalizzazione dei contratti a termine e introduzione di un contratto di inserimento “a tutele crescenti” come strumento di razionalizzazione delle forme contrattuali annunciato dal Jobs Act e ora previsto dal disegno di legge delega. Alla critica il Governo ha replicato invocando la politica dei due tempi: il decreto servirebbe ora a dare una “scossa”, per favorire assunzioni semplificate, il disegno organico si farebbe dopo, attuando la legge delega. Ma è proprio così? Davvero siamo di fronte a una liberalizzazione semplificatrice?
Mettiamoci nei panni di una impresa che voglia assumere con un contratto a termine. Il decreto dice che il primo contratto può essere stipulato senza causale e prorogato ovvero rinnovato sempre senza causale per otto volte fino a tre anni. È quello che il decreto dice ora: non si sa, però, cosa dirà fra qualche settimana quando sicuramente in sede di conversione qualcosa verrà cambiato, come ha annunciato lo stesso Governo. Forse è meglio attendere. Già questo è un primo effetto negativo della legislazione stop and go all’italiana: non si sa mai quale sia la normativa attendibile.
Ma nel caso si decida ugualmente di assumere c’è da chiedersi quale termine di scadenza sia meglio indicare: allo stato attuale si potrebbe assumere con un termine abbastanza lungo, ad esempio per quattro o sei mesi, dato che otto proroghe in tre anni danno ampio margine. Ma se poi, in sede di conversione, come già si dice, le proroghe vengono ridotte e si passa a un arco di tempo inferiore, il termine lungo non conviene: meglio due mesi, massimo tre. Ecco che la legislazione variabile produce un altro effetto negativo, la ulteriore frammentazione dei termini, che non serve né alle imprese che vogliano investire sul lavoratore e non solo averlo come usa e getta, né, tanto meno, ai lavoratori, che in quel periodo piuttosto che cercare di legarsi all’impresa cercheranno altre forme di impiego solo che ne abbiano l’opportunità.
Il decreto dice anche che si può assumere o prorogare senza causa per il primo contratto e per le stessa attività lavorativa: ma se quel lavoratore è stato già assunto in passato, quand’è il “primo” contratto, e come si calcolano le diverse forme di assunzione temporanea (lavoro a termine, somministrazione, altre possibili forme atipiche), si sommano o no? E che succede se nel frattempo tra una precedente assunzione e nuove proroghe c’è un cambio di mansioni?
Comunque, si può obiettare che c’è da stare tranquilli perché ora è fissato un limite massimo di assunzioni a termine nel 20 per cento dell’organico, questa è una cosa sicura. Già, ma come si calcola la percentuale? Nel 20 per cento vanno incluse anche le assunzioni interinali e nell’organico vanno calcolati anche i contratti di collaborazione o le partite Iva? E che accade se il contratto di categoria stabilisce una limite inferiore? Siamo poi sicuri che la legge dia un colpo di spugna ai contratti vigenti? E se per caso l’impresa ha superato quel limite non essendo prima soggetta a vincoli quantitativi, deve licenziare i lavoratori temporanei in soprannumero? E se con le varie proroghe accade che una lavoratrice entri in maternità, siamo sicuri che non riassumendola non si incorra in un atto discriminatorio? Ed è proprio vero che tutta questa bella liberalizzazione mette al riparo dal contenzioso giudiziario? Non è che il lavoratore assunto senza causa e prorogato invoca la direttiva comunitaria che vieta le reiterazioni abusive dei contratti a termine, per la quale le assunzioni “sono di norma a tempo indeterminato” e si finisce alla Corte di giustizia europea? È bene tenere presente che quella direttiva è scritta in inglese, quindi non ha bisogno di essere “traducibile”, è comprensibile in tutte le lingue europee. L’elenco delle incertezze interpretative potrebbe continuare a lungo: basta vedere quanto hanno detto non i sindacati, ma gli esperti e gli operatori nelle audizioni alla Commissione lavoro della Camera per rendersene conto.
LA QUESTIONE DELL’APPRENDISTATO
Si dirà, ma c’è pur sempre il buon contratto di apprendistato, molto conveniente sul piano contributivo e retributivo, ora semplificato, senza più l’obbligo del piano formativo scritto, della formazione trasversale e del vincolo di assunzione di almeno il 30 per cento di apprendisti come condizione per assumerne di nuovi. Già, ma è molto probabile che qualcuno di questi obblighi sia reintrodotto in sede di conversione parlamentare perché ci si è resi conto che un apprendistato senza formazione assomiglia come una goccia d’acqua ai vecchi contratti di formazione lavoro, a suo tempo caduti sotto la scure delle autorità comunitarie.
Meglio aspettare, quindi, e alla faccia della “scossa” o non si assume o si assume con un termine il più breve possibile.
Queste sono le conseguenze della semplificazione malfatta, della semplificazione che complica, già largamente sperimentata negli scorsi dieci anni nella caotica legislazione sul mercato del lavoro, sempre annunciata in nome della flessibilizzazione e della liberalizzazione. Meglio tenerlo presente, anche per non ripetere l’errore a scala più grande, quando si tratterà di attuare la legge delega che annuncia il vasto programma del codice del lavoro naturalmente “semplificato”. Forse è il caso di stare a vedere se i provvedimenti economici del Governo producono qualche risultato in termini di crescita della domanda e, nel frattempo, dare corso a una sana moratoria legislativa ovvero a una più approfondita riflessione.
( da LAVOCE.IT)
che questo è un governo di dilettanti gestito dal capo dei dilettanti allo sbaraglio Fonzi.
#matteo staisereno
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La semplificazione che complica il lavoro
15.04.14
Luigi Mariucci
Davvero il decreto legge sui contratti a termine comporta una liberalizzazione semplificatrice? Dal punto di vista delle aziende aumentano solo le incertezze, almeno finché non sarà approvato dal Parlamento il testo definitivo. Conseguenze della semplificazione malfatta e moratoria legislativa.
UN DECRETO DALLE MOLTE INCERTEZZE
Il decreto legge n. 34/2014 è stato criticato da più parti, oltre che nel merito, soprattutto per una questione di metodo, data l’evidente contraddizione tra liberalizzazione dei contratti a termine e introduzione di un contratto di inserimento “a tutele crescenti” come strumento di razionalizzazione delle forme contrattuali annunciato dal Jobs Act e ora previsto dal disegno di legge delega. Alla critica il Governo ha replicato invocando la politica dei due tempi: il decreto servirebbe ora a dare una “scossa”, per favorire assunzioni semplificate, il disegno organico si farebbe dopo, attuando la legge delega. Ma è proprio così? Davvero siamo di fronte a una liberalizzazione semplificatrice?
Mettiamoci nei panni di una impresa che voglia assumere con un contratto a termine. Il decreto dice che il primo contratto può essere stipulato senza causale e prorogato ovvero rinnovato sempre senza causale per otto volte fino a tre anni. È quello che il decreto dice ora: non si sa, però, cosa dirà fra qualche settimana quando sicuramente in sede di conversione qualcosa verrà cambiato, come ha annunciato lo stesso Governo. Forse è meglio attendere. Già questo è un primo effetto negativo della legislazione stop and go all’italiana: non si sa mai quale sia la normativa attendibile.
Ma nel caso si decida ugualmente di assumere c’è da chiedersi quale termine di scadenza sia meglio indicare: allo stato attuale si potrebbe assumere con un termine abbastanza lungo, ad esempio per quattro o sei mesi, dato che otto proroghe in tre anni danno ampio margine. Ma se poi, in sede di conversione, come già si dice, le proroghe vengono ridotte e si passa a un arco di tempo inferiore, il termine lungo non conviene: meglio due mesi, massimo tre. Ecco che la legislazione variabile produce un altro effetto negativo, la ulteriore frammentazione dei termini, che non serve né alle imprese che vogliano investire sul lavoratore e non solo averlo come usa e getta, né, tanto meno, ai lavoratori, che in quel periodo piuttosto che cercare di legarsi all’impresa cercheranno altre forme di impiego solo che ne abbiano l’opportunità.
Il decreto dice anche che si può assumere o prorogare senza causa per il primo contratto e per le stessa attività lavorativa: ma se quel lavoratore è stato già assunto in passato, quand’è il “primo” contratto, e come si calcolano le diverse forme di assunzione temporanea (lavoro a termine, somministrazione, altre possibili forme atipiche), si sommano o no? E che succede se nel frattempo tra una precedente assunzione e nuove proroghe c’è un cambio di mansioni?
Comunque, si può obiettare che c’è da stare tranquilli perché ora è fissato un limite massimo di assunzioni a termine nel 20 per cento dell’organico, questa è una cosa sicura. Già, ma come si calcola la percentuale? Nel 20 per cento vanno incluse anche le assunzioni interinali e nell’organico vanno calcolati anche i contratti di collaborazione o le partite Iva? E che accade se il contratto di categoria stabilisce una limite inferiore? Siamo poi sicuri che la legge dia un colpo di spugna ai contratti vigenti? E se per caso l’impresa ha superato quel limite non essendo prima soggetta a vincoli quantitativi, deve licenziare i lavoratori temporanei in soprannumero? E se con le varie proroghe accade che una lavoratrice entri in maternità, siamo sicuri che non riassumendola non si incorra in un atto discriminatorio? Ed è proprio vero che tutta questa bella liberalizzazione mette al riparo dal contenzioso giudiziario? Non è che il lavoratore assunto senza causa e prorogato invoca la direttiva comunitaria che vieta le reiterazioni abusive dei contratti a termine, per la quale le assunzioni “sono di norma a tempo indeterminato” e si finisce alla Corte di giustizia europea? È bene tenere presente che quella direttiva è scritta in inglese, quindi non ha bisogno di essere “traducibile”, è comprensibile in tutte le lingue europee. L’elenco delle incertezze interpretative potrebbe continuare a lungo: basta vedere quanto hanno detto non i sindacati, ma gli esperti e gli operatori nelle audizioni alla Commissione lavoro della Camera per rendersene conto.
LA QUESTIONE DELL’APPRENDISTATO
Si dirà, ma c’è pur sempre il buon contratto di apprendistato, molto conveniente sul piano contributivo e retributivo, ora semplificato, senza più l’obbligo del piano formativo scritto, della formazione trasversale e del vincolo di assunzione di almeno il 30 per cento di apprendisti come condizione per assumerne di nuovi. Già, ma è molto probabile che qualcuno di questi obblighi sia reintrodotto in sede di conversione parlamentare perché ci si è resi conto che un apprendistato senza formazione assomiglia come una goccia d’acqua ai vecchi contratti di formazione lavoro, a suo tempo caduti sotto la scure delle autorità comunitarie.
Meglio aspettare, quindi, e alla faccia della “scossa” o non si assume o si assume con un termine il più breve possibile.
Queste sono le conseguenze della semplificazione malfatta, della semplificazione che complica, già largamente sperimentata negli scorsi dieci anni nella caotica legislazione sul mercato del lavoro, sempre annunciata in nome della flessibilizzazione e della liberalizzazione. Meglio tenerlo presente, anche per non ripetere l’errore a scala più grande, quando si tratterà di attuare la legge delega che annuncia il vasto programma del codice del lavoro naturalmente “semplificato”. Forse è il caso di stare a vedere se i provvedimenti economici del Governo producono qualche risultato in termini di crescita della domanda e, nel frattempo, dare corso a una sana moratoria legislativa ovvero a una più approfondita riflessione.
( da LAVOCE.IT)
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Alla critica il Governo ha replicato invocando la politica dei due tempi: il decreto servirebbe ora a dare una “scossa”, per favorire assunzioni semplificate,
Luigi Mariucci
Questo governo, come i precedenti, di economia produttiva ci capiscono poco. Non sono certo le assunzioni semplificate che possono dare una scossa.
Siamo di fronte ad una serie di economisti, anche insigniti del Nobel, che si sono dimenticati le regole universali dell’economia.
Per ripartire ci vuole ben altro.
Luigi Mariucci
Questo governo, come i precedenti, di economia produttiva ci capiscono poco. Non sono certo le assunzioni semplificate che possono dare una scossa.
Siamo di fronte ad una serie di economisti, anche insigniti del Nobel, che si sono dimenticati le regole universali dell’economia.
Per ripartire ci vuole ben altro.
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
urgente
PROPOSTA PER SEL, MOVIMENTO 5 STELLE E ALTRI :
EMENDAMENTO DL N 34 DEL 2014
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POLETTI E IL PENTITISMO
in una intervista all' unità mister poletti ha dichiarato che i contratti a termine devono costare di piu, ha dichiarato il 10 % in piu di contributi inps.
attualmente il contratto a termine ha una aliquota aggiuntiva del 1,40 %.
SE QUESTA AFFERMAZIONE FOSSE STATA INSERITA ALL' INTERNO DEL DL N 34 DEL 2014 probabilmente la situazione politica sarebbe stata molto diversa.
in questo modo sarebbe stata NITIDA e TRASPARENTE la differenza tra contratto somministrazione manodopera a termine ( ex lavoro interinale) e il contratto a termine .
veramente sono dilettanti allo sbaraglio !!!!!
per una analisi sulle differenze tra contatto a termine polettiano e contatto di somministrazione manodopera a termine rimandiamo a
IL JOB ACT ( Parte 8)
IL CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO E IL NUOVO CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO ACAUSALE PER 36 MESI.
http://forumisti.mondoforum.com/viewtopic.php?f=8&t=191
PROPOSTA PER SEL, MOVIMENTO 5 STELLE E ALTRI :
EMENDAMENTO DL N 34 DEL 2014
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POLETTI E IL PENTITISMO
in una intervista all' unità mister poletti ha dichiarato che i contratti a termine devono costare di piu, ha dichiarato il 10 % in piu di contributi inps.
attualmente il contratto a termine ha una aliquota aggiuntiva del 1,40 %.
SE QUESTA AFFERMAZIONE FOSSE STATA INSERITA ALL' INTERNO DEL DL N 34 DEL 2014 probabilmente la situazione politica sarebbe stata molto diversa.
in questo modo sarebbe stata NITIDA e TRASPARENTE la differenza tra contratto somministrazione manodopera a termine ( ex lavoro interinale) e il contratto a termine .
veramente sono dilettanti allo sbaraglio !!!!!
per una analisi sulle differenze tra contatto a termine polettiano e contatto di somministrazione manodopera a termine rimandiamo a
IL JOB ACT ( Parte 8)
IL CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO E IL NUOVO CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO ACAUSALE PER 36 MESI.
http://forumisti.mondoforum.com/viewtopic.php?f=8&t=191
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Italia,...un Paese berlusconizzato
3 novembre 2011
Berlusconi: "I ristoranti sono pieni" - "Mi sembra che in Italia non ci sia una forte crisi. La vita è la vita di un Paese benestante, i consumi non sono diminuiti, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto, i ristoranti sono pieni".
Nonostante gli avvertimenti delle borse e quelli degli altri leader europei, Silvio Berlusconi resta ottimista sulla situazione economica italiana. E sulla crisi finanziaria dice: "Noi pensiamo che sia una moda passeggera il fatto che i mercati si avventano sui titoli del debito" italiano.
Poi, incalzato dalle domande dei giornalisti, il premier precisa: "L'Italia non sente la crisi nel modo spasmodico che appare dalla ricostruzione che ne fanno i giornali". "Con l'adozione dell'euro - aggiunge il premier - si sono verificati degli impoverimenti di una fascia consistente della popolazione italiana". E precisa: "Non è colpa dell'euro ma è colpa del cambio euro-lira fatto da quel governo che è stato penalizzante per l'Italia".
Sulla stessa lunghezza d'onda marcia Renzie - Fonzie. Delle notizie negative che riguardano la socialità italiana, il "premier" tace. La sua comunicazione deve essere solo positiva. Il resto lo si nasconde sotto il tappeto.
L'aspetto drammatico di tutto questo è scoprire che coloro che consideravi di sinistra, perché si dichiaravano di sinistra, in realtà sono identici nel comportamento ai berluscones.
^^^^^^^^^^^
Lavoro, boom cassa integrazione: coinvolti circa 520mila lavoratori
(Xinhua) (Xinhua)
ultimo aggiornamento: 19 aprile, ore 13:29
Roma - (Adnkronos) - Con oltre 100 milioni di ore registrate lo scorso mese, ben oltre le 80 milioni di ore conteggiate da gennaio 2009 ad oggi, la cig aumenta in tutti i suoi segmenti . Maggior uso nelle regioni del nord e nel settore della meccanica. A rilevarlo è la Cgil nel rapporto di marzo, dalle elaborazioni delle rilevazioni Inps. Cgia: tra under 30 buste paga più pesanti per bancari. Confesercenti al governo: rivedere liberalizzazione orari
Roma, 19 apr. (Adnkronos) - Esplode la richiesta di ore di cassa integrazione. Con oltre 100 milioni di ore registrate lo scorso mese, ben oltre le 80 milioni di ore mediamente conteggiate a partire da gennaio 2009 ad oggi, la cig aumenta in tutti i suoi segmenti (ordinaria, straordinaria e deroga). Dietro questa mole di ore sono coinvolti da inizio anno circa 520mila lavoratori che hanno subito un taglio del reddito per 1 miliardo di euro, pari a 1.900 euro netti in meno per ogni singolo lavoratore in busta paga. A rilevarlo è cig della Cgil Nazionale nel rapporto di marzo, dalle elaborazioni delle rilevazioni Inps.
"Lo stato in cui versa il nostro sistema produttivo, insieme alla condizione dei lavoratori, continuano ad essere una seria e drammatica emergenza da affrontare", sostiene il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada. "Al netto degli interventi fiscali il paese ha bisogno di una prospettiva che non può non prescindere dalla difesa e dalla valorizzazione del lavoro e della produzione" aggiunge.
Per questo, secondo la Cgil "vanno contrastate operazioni di ulteriore frammentazione del mercato del lavoro, così come vanno immediatamente sbloccate le risorse per gli strumenti di sostegno in deroga. Ma deve essere al più presto - sostiene Lattuada - messo in campo un grande piano di investimenti, a partire da quelli pubblici fino a quelli privati, che si occupi di creare lavoro. La sola via, il solo modo per offrire al paese una prospettiva".
Dall'analisi di corso d'Italia si rileva come il totale di ore di cassa integrazione a marzo sia stato pari a 100.136.978 di ore richieste e autorizzate. Un dato in aumento sul mese precedente del +20,28% mentre è in calo l'insieme del primo trimestre, pari a 264.755.636 di ore, del -1,16% sui primi tre mesi dello scorso anno. Nel dettaglio emerge che la cassa integrazione ordinaria (cigo) aumenta a marzo su febbraio del +16,32%, per un totale pari a 27.379.903 di ore. Da inizio anno la cigo invece ha raggiunto quota 76.696.078 di ore per un -23,43% sul periodo gennaio-marzo del 2013.
La richiesta di ore per la cassa integrazione straordinaria (cigs), sempre per quanto riguarda lo scorso mese, è stata di 45.491.245 per un +17,07% su febbraio mentre il primo trimestre dell'anno totalizza 128.212.748 ore autorizzate per un +10,21% sullo stesso periodo dello scorso anno. Infine la cassa integrazione in deroga (cigd) ha registrato a marzo un deciso aumento sul mese precedente pari a +30,71% per 27.265.830 ore richieste. Nei primi tre mesi dell'anno, rispetto allo stesso periodo dello scorso, la crescita della cigd è stata del +14,56% per un totale di 61.846.810.
Cresce il numero di aziende che fanno ricorso ai decreti di cigs. Da gennaio sono state 1.901 per un +20,70% sullo stesso periodo del 2013 e riguardano 3.667 unità aziendali (+36,37% sull'anno passato). Nello specifico si registra un aumento dei ricorsi per crisi aziendale (953 decreti per un +3,36%) che rappresentano il 50,13% del totale dei decreti.
Diminuiscono invece le domande di ristrutturazione aziendale (52 in totale da inizio anno per un -5,45% sullo stesso periodo del 2013) mentre aumentano quelle di riorganizzazione aziendale (54 per un +10,20%). Sottolinea lo studio della Cgil che "gli interventi che prevedono percorsi di reinvestimento e rinnovamento strutturale delle aziende continuano ad essere irrilevanti, pari al 5,58% del totale dei decreti. Un segnale evidente, eppure sottovalutato, del processo di deindustrializzazione in atto nel Paese".
Nelle regioni del nord e nel settore della meccanica si verifica il maggior ricorso alla cassa integrazione.
Per quanto riguarda il dato regionale al primo posto per ore di cassa integrazione autorizzate nei primi tre mesi dell'anno c'è la Lombardia con 72.565.722 ore che corrispondono a 141.730 lavoratori (prendendo in considerazione le posizioni di lavoro a zero ore). Segue il Piemonte con 29.067.253 ore di cig autorizzate per 56.772 lavoratori e l'Emilia Romagna con 23.749.966 ore per 46.387 persone. Nelle regioni del centro primeggia il Lazio con 20.663.250 ore che coinvolgono 40.358 lavoratori. Mentre per il Mezzogiorno è la Campania la regione dove si segna il maggiore ricorso alla cig con 15.044.854 ore per 29.384 lavoratori.
La meccanica è ancora il settore dove si è totalizzato il ricorso più alto allo strumento della cassa integrazione. Secondo il rapporto della Cgil, infatti, sul totale delle ore registrate nel periodo gennaio-marzo, la meccanica pesa per 92.666.218, coinvolgendo 180.989 lavoratori (prendendo come riferimento le posizioni di lavoro a zero ore).
A seguire, dopo la meccanica, è il settore del commercio con 38.135.353 ore di cig autorizzate per 74.483 lavoratori coinvolti e l'edilizia con 34.821.994 ore e 68.012 persone.
http://www.adnkronos.com/IGN/News/Econo ... 60387.html
3 novembre 2011
Berlusconi: "I ristoranti sono pieni" - "Mi sembra che in Italia non ci sia una forte crisi. La vita è la vita di un Paese benestante, i consumi non sono diminuiti, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto, i ristoranti sono pieni".
Nonostante gli avvertimenti delle borse e quelli degli altri leader europei, Silvio Berlusconi resta ottimista sulla situazione economica italiana. E sulla crisi finanziaria dice: "Noi pensiamo che sia una moda passeggera il fatto che i mercati si avventano sui titoli del debito" italiano.
Poi, incalzato dalle domande dei giornalisti, il premier precisa: "L'Italia non sente la crisi nel modo spasmodico che appare dalla ricostruzione che ne fanno i giornali". "Con l'adozione dell'euro - aggiunge il premier - si sono verificati degli impoverimenti di una fascia consistente della popolazione italiana". E precisa: "Non è colpa dell'euro ma è colpa del cambio euro-lira fatto da quel governo che è stato penalizzante per l'Italia".
Sulla stessa lunghezza d'onda marcia Renzie - Fonzie. Delle notizie negative che riguardano la socialità italiana, il "premier" tace. La sua comunicazione deve essere solo positiva. Il resto lo si nasconde sotto il tappeto.
L'aspetto drammatico di tutto questo è scoprire che coloro che consideravi di sinistra, perché si dichiaravano di sinistra, in realtà sono identici nel comportamento ai berluscones.
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Lavoro, boom cassa integrazione: coinvolti circa 520mila lavoratori
(Xinhua) (Xinhua)
ultimo aggiornamento: 19 aprile, ore 13:29
Roma - (Adnkronos) - Con oltre 100 milioni di ore registrate lo scorso mese, ben oltre le 80 milioni di ore conteggiate da gennaio 2009 ad oggi, la cig aumenta in tutti i suoi segmenti . Maggior uso nelle regioni del nord e nel settore della meccanica. A rilevarlo è la Cgil nel rapporto di marzo, dalle elaborazioni delle rilevazioni Inps. Cgia: tra under 30 buste paga più pesanti per bancari. Confesercenti al governo: rivedere liberalizzazione orari
Roma, 19 apr. (Adnkronos) - Esplode la richiesta di ore di cassa integrazione. Con oltre 100 milioni di ore registrate lo scorso mese, ben oltre le 80 milioni di ore mediamente conteggiate a partire da gennaio 2009 ad oggi, la cig aumenta in tutti i suoi segmenti (ordinaria, straordinaria e deroga). Dietro questa mole di ore sono coinvolti da inizio anno circa 520mila lavoratori che hanno subito un taglio del reddito per 1 miliardo di euro, pari a 1.900 euro netti in meno per ogni singolo lavoratore in busta paga. A rilevarlo è cig della Cgil Nazionale nel rapporto di marzo, dalle elaborazioni delle rilevazioni Inps.
"Lo stato in cui versa il nostro sistema produttivo, insieme alla condizione dei lavoratori, continuano ad essere una seria e drammatica emergenza da affrontare", sostiene il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada. "Al netto degli interventi fiscali il paese ha bisogno di una prospettiva che non può non prescindere dalla difesa e dalla valorizzazione del lavoro e della produzione" aggiunge.
Per questo, secondo la Cgil "vanno contrastate operazioni di ulteriore frammentazione del mercato del lavoro, così come vanno immediatamente sbloccate le risorse per gli strumenti di sostegno in deroga. Ma deve essere al più presto - sostiene Lattuada - messo in campo un grande piano di investimenti, a partire da quelli pubblici fino a quelli privati, che si occupi di creare lavoro. La sola via, il solo modo per offrire al paese una prospettiva".
Dall'analisi di corso d'Italia si rileva come il totale di ore di cassa integrazione a marzo sia stato pari a 100.136.978 di ore richieste e autorizzate. Un dato in aumento sul mese precedente del +20,28% mentre è in calo l'insieme del primo trimestre, pari a 264.755.636 di ore, del -1,16% sui primi tre mesi dello scorso anno. Nel dettaglio emerge che la cassa integrazione ordinaria (cigo) aumenta a marzo su febbraio del +16,32%, per un totale pari a 27.379.903 di ore. Da inizio anno la cigo invece ha raggiunto quota 76.696.078 di ore per un -23,43% sul periodo gennaio-marzo del 2013.
La richiesta di ore per la cassa integrazione straordinaria (cigs), sempre per quanto riguarda lo scorso mese, è stata di 45.491.245 per un +17,07% su febbraio mentre il primo trimestre dell'anno totalizza 128.212.748 ore autorizzate per un +10,21% sullo stesso periodo dello scorso anno. Infine la cassa integrazione in deroga (cigd) ha registrato a marzo un deciso aumento sul mese precedente pari a +30,71% per 27.265.830 ore richieste. Nei primi tre mesi dell'anno, rispetto allo stesso periodo dello scorso, la crescita della cigd è stata del +14,56% per un totale di 61.846.810.
Cresce il numero di aziende che fanno ricorso ai decreti di cigs. Da gennaio sono state 1.901 per un +20,70% sullo stesso periodo del 2013 e riguardano 3.667 unità aziendali (+36,37% sull'anno passato). Nello specifico si registra un aumento dei ricorsi per crisi aziendale (953 decreti per un +3,36%) che rappresentano il 50,13% del totale dei decreti.
Diminuiscono invece le domande di ristrutturazione aziendale (52 in totale da inizio anno per un -5,45% sullo stesso periodo del 2013) mentre aumentano quelle di riorganizzazione aziendale (54 per un +10,20%). Sottolinea lo studio della Cgil che "gli interventi che prevedono percorsi di reinvestimento e rinnovamento strutturale delle aziende continuano ad essere irrilevanti, pari al 5,58% del totale dei decreti. Un segnale evidente, eppure sottovalutato, del processo di deindustrializzazione in atto nel Paese".
Nelle regioni del nord e nel settore della meccanica si verifica il maggior ricorso alla cassa integrazione.
Per quanto riguarda il dato regionale al primo posto per ore di cassa integrazione autorizzate nei primi tre mesi dell'anno c'è la Lombardia con 72.565.722 ore che corrispondono a 141.730 lavoratori (prendendo in considerazione le posizioni di lavoro a zero ore). Segue il Piemonte con 29.067.253 ore di cig autorizzate per 56.772 lavoratori e l'Emilia Romagna con 23.749.966 ore per 46.387 persone. Nelle regioni del centro primeggia il Lazio con 20.663.250 ore che coinvolgono 40.358 lavoratori. Mentre per il Mezzogiorno è la Campania la regione dove si segna il maggiore ricorso alla cig con 15.044.854 ore per 29.384 lavoratori.
La meccanica è ancora il settore dove si è totalizzato il ricorso più alto allo strumento della cassa integrazione. Secondo il rapporto della Cgil, infatti, sul totale delle ore registrate nel periodo gennaio-marzo, la meccanica pesa per 92.666.218, coinvolgendo 180.989 lavoratori (prendendo come riferimento le posizioni di lavoro a zero ore).
A seguire, dopo la meccanica, è il settore del commercio con 38.135.353 ore di cig autorizzate per 74.483 lavoratori coinvolti e l'edilizia con 34.821.994 ore e 68.012 persone.
http://www.adnkronos.com/IGN/News/Econo ... 60387.html
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
ISTAT
Istat: oltre un milione di famiglie senza reddito da lavoro
Si tratta di 1 milione 130 mila nuclei, tra i quali quasi mezzo milione (491 mila) corrisponde a coppie con figli, mentre 213 mila sono monogenitore
di Redazione Economia
Oltre un milione di famiglie è senza reddito da lavoro e tutti i componenti definiti dall’istituto di statistica “attivi”, che partecipano quindi al mercato del lavoro, sono disoccupati.
È quanto emerge dai dati Istat sul 2013. Nel dettaglio si tratta di 1 milione 130 mila nuclei, con un incremento del 18% rispetto ai dati dell’anno scorso. Tra questi quasi mezzo milione (491 mila) corrisponde a coppie con figli, mentre 213 mila sono monogenitore. Non è un caso quindi se, come ha reso noto Unimpresa, gli acquisti low cost nel primo trimestre del 2014 sono cresciuti del 60%. Le famiglie italiane inseguono sempre di più risparmi e promozioni: 5 su 7 hanno provato almeno una volta i discount nel primo trimestre di quest’anno confermando una tendenza cresciuta con la recessione e consolidatasi nel 2013.
I consumi
Tutto ciò, ovviamente, ha inevitabili conseguenze sui ricavi degli esercenti: secondo prime stime l’impatto sui conti potrebbe arrivare ad avere un’incidenza negativa del 65-70%. Elemento che aggraverebbe un quadro già profondamente depresso: del resto, nel 2013 i consumi sono scesi del 2,6%. Nel 2014 dovrebbe faticosamente ripartire la ripresa con una salita, seppur, minima delle vendite al dettaglio. I dati del sondaggio Unimpresa indicano che i piccoli negozi sono sempre meno frequentati (-6,5%) e il trend è negativo anche per i supermercati (-2,1%); solo i discount segnano una tendenza positiva (+4,8%).
21 aprile 2014 | 12:30
© RIPRODUZIONE RISERVATAISTAT
Istat: oltre un milione di famiglie senza reddito da lavoro
Si tratta di 1 milione 130 mila nuclei, tra i quali quasi mezzo milione (491 mila) corrisponde a coppie con figli, mentre 213 mila sono monogenitore
di Redazione Economia
shadow
Oltre un milione di famiglie è senza reddito da lavoro e tutti i componenti definiti dall’istituto di statistica “attivi”, che partecipano quindi al mercato del lavoro, sono disoccupati. È quanto emerge dai dati Istat sul 2013. Nel dettaglio si tratta di 1 milione 130 mila nuclei, con un incremento del 18% rispetto ai dati dell’anno scorso. Tra questi quasi mezzo milione (491 mila) corrisponde a coppie con figli, mentre 213 mila sono monogenitore. Non è un caso quindi se, come ha reso noto Unimpresa, gli acquisti low cost nel primo trimestre del 2014 sono cresciuti del 60%. Le famiglie italiane inseguono sempre di più risparmi e promozioni: 5 su 7 hanno provato almeno una volta i discount nel primo trimestre di quest’anno confermando una tendenza cresciuta con la recessione e consolidatasi nel 2013.
I consumi
Tutto ciò, ovviamente, ha inevitabili conseguenze sui ricavi degli esercenti: secondo prime stime l’impatto sui conti potrebbe arrivare ad avere un’incidenza negativa del 65-70%. Elemento che aggraverebbe un quadro già profondamente depresso: del resto, nel 2013 i consumi sono scesi del 2,6%. Nel 2014 dovrebbe faticosamente ripartire la ripresa con una salita, seppur, minima delle vendite al dettaglio. I dati del sondaggio Unimpresa indicano che i piccoli negozi sono sempre meno frequentati (-6,5%) e il trend è negativo anche per i supermercati (-2,1%); solo i discount segnano una tendenza positiva (+4,8%).
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http://www.corriere.it/economia/14_apri ... e75b.shtml
Istat: oltre un milione di famiglie senza reddito da lavoro
Si tratta di 1 milione 130 mila nuclei, tra i quali quasi mezzo milione (491 mila) corrisponde a coppie con figli, mentre 213 mila sono monogenitore
di Redazione Economia
Oltre un milione di famiglie è senza reddito da lavoro e tutti i componenti definiti dall’istituto di statistica “attivi”, che partecipano quindi al mercato del lavoro, sono disoccupati.
È quanto emerge dai dati Istat sul 2013. Nel dettaglio si tratta di 1 milione 130 mila nuclei, con un incremento del 18% rispetto ai dati dell’anno scorso. Tra questi quasi mezzo milione (491 mila) corrisponde a coppie con figli, mentre 213 mila sono monogenitore. Non è un caso quindi se, come ha reso noto Unimpresa, gli acquisti low cost nel primo trimestre del 2014 sono cresciuti del 60%. Le famiglie italiane inseguono sempre di più risparmi e promozioni: 5 su 7 hanno provato almeno una volta i discount nel primo trimestre di quest’anno confermando una tendenza cresciuta con la recessione e consolidatasi nel 2013.
I consumi
Tutto ciò, ovviamente, ha inevitabili conseguenze sui ricavi degli esercenti: secondo prime stime l’impatto sui conti potrebbe arrivare ad avere un’incidenza negativa del 65-70%. Elemento che aggraverebbe un quadro già profondamente depresso: del resto, nel 2013 i consumi sono scesi del 2,6%. Nel 2014 dovrebbe faticosamente ripartire la ripresa con una salita, seppur, minima delle vendite al dettaglio. I dati del sondaggio Unimpresa indicano che i piccoli negozi sono sempre meno frequentati (-6,5%) e il trend è negativo anche per i supermercati (-2,1%); solo i discount segnano una tendenza positiva (+4,8%).
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Si tratta di 1 milione 130 mila nuclei, tra i quali quasi mezzo milione (491 mila) corrisponde a coppie con figli, mentre 213 mila sono monogenitore
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Oltre un milione di famiglie è senza reddito da lavoro e tutti i componenti definiti dall’istituto di statistica “attivi”, che partecipano quindi al mercato del lavoro, sono disoccupati. È quanto emerge dai dati Istat sul 2013. Nel dettaglio si tratta di 1 milione 130 mila nuclei, con un incremento del 18% rispetto ai dati dell’anno scorso. Tra questi quasi mezzo milione (491 mila) corrisponde a coppie con figli, mentre 213 mila sono monogenitore. Non è un caso quindi se, come ha reso noto Unimpresa, gli acquisti low cost nel primo trimestre del 2014 sono cresciuti del 60%. Le famiglie italiane inseguono sempre di più risparmi e promozioni: 5 su 7 hanno provato almeno una volta i discount nel primo trimestre di quest’anno confermando una tendenza cresciuta con la recessione e consolidatasi nel 2013.
I consumi
Tutto ciò, ovviamente, ha inevitabili conseguenze sui ricavi degli esercenti: secondo prime stime l’impatto sui conti potrebbe arrivare ad avere un’incidenza negativa del 65-70%. Elemento che aggraverebbe un quadro già profondamente depresso: del resto, nel 2013 i consumi sono scesi del 2,6%. Nel 2014 dovrebbe faticosamente ripartire la ripresa con una salita, seppur, minima delle vendite al dettaglio. I dati del sondaggio Unimpresa indicano che i piccoli negozi sono sempre meno frequentati (-6,5%) e il trend è negativo anche per i supermercati (-2,1%); solo i discount segnano una tendenza positiva (+4,8%).
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
E' purtroppo una delle leggi base dell'Economia: diminuendo le retribuzioni medie diminuiscono i consumi, diminuisce la produzione e quindi i profitti delle imprese che imperterrite continuano a tagliare sul costo del lavoro per ricreare un momentaneo aumento dei profitti (invece di investire in innovazione creando nuovo lavoro e prodotti ad alto valore aggiunto) ma agiscono come un parassita che per mangiare di più uccide il corpo che lo ospita e quindi uccide anche se stesso.
La parola d'ordine per uscire dalla crisi è RIDISTRIBUIRE, ridistribuire la ricchezza dalle mani voraci di chi ha accumulato tantissimo nell'ultimo quarto di secolo (che rimarrebbe lo stesso ricco) a quelle di chi si è visto privare invece di quei diritti conquistati dai suoi padri, nonni e bisnonni. Ridistribuire la ricchezza creando lavoro ben retribuito e non cercando in giro per il mondo l'operaio più a buon mercato alimentando una corsa al ribasso e una lotta fra "poveracci" che ormai coinvolge anche i lavoratori dei paesi sviluppati. Si deve giungere a questa soluzione in ogni modo: con le "buone" possibilmente altrimenti con le "cattive". L'alternativa al raggiungimento di tale soluzione sarà se no una guerra, da sempre nella testa degli oligarchi unica panacea di tutti i mali per salvare loro e sviare l'attenzione dei popoli sempre più tartassati e affamati...
La parola d'ordine per uscire dalla crisi è RIDISTRIBUIRE, ridistribuire la ricchezza dalle mani voraci di chi ha accumulato tantissimo nell'ultimo quarto di secolo (che rimarrebbe lo stesso ricco) a quelle di chi si è visto privare invece di quei diritti conquistati dai suoi padri, nonni e bisnonni. Ridistribuire la ricchezza creando lavoro ben retribuito e non cercando in giro per il mondo l'operaio più a buon mercato alimentando una corsa al ribasso e una lotta fra "poveracci" che ormai coinvolge anche i lavoratori dei paesi sviluppati. Si deve giungere a questa soluzione in ogni modo: con le "buone" possibilmente altrimenti con le "cattive". L'alternativa al raggiungimento di tale soluzione sarà se no una guerra, da sempre nella testa degli oligarchi unica panacea di tutti i mali per salvare loro e sviare l'attenzione dei popoli sempre più tartassati e affamati...
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