La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
Brexit, si moltiplicano le petizioni per ripetere il referendum
I sostenitori del remain non si arrendono e con due petizioni chiedono di ripetere il referendum che ha sancito l'uscita di Londra dall'Ue. E il boom di firme manda in tilt il sito web del Parlamento
Alessandra Benignetti - Sab, 25/06/2016 - 14:03
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Il sito web del parlamento britannico è andato in tilt per il sovraccarico di accessi da parte di oltre due milioni di utenti, entrati nel sito per firmare una petizione con cui si chiede di indire un secondo referendum sulla Brexit.
Petizione che nella serata di sabato ha raccolto, oltre due milioni di firme: venti volte il numero minimo di sottoscrizioni necessarie per chiedere che una petizione sia discussa in Parlamento.
Nella petizione parlamentare, presentata da un cittadino che si è identificato con il nome di William Oliver Healey, si chiede di ripetere il referendum sulla Brexit, perché l’esito, favorevole a lasciare l’Unione Europea, non sarebbe sufficientemente rappresentativo per via della bassa affluenza alle urne e di uno scarto inferiore ai 4 punti percentuali tra le due opzioni. I sostenitori del remain chiedono quindi ai deputati britannici "l'applicazione di una norma per cui, se il voto a favore di uscire o restare è al di sotto del 60%, con partecipazione minore del 75%, dovrebbe convocarsi un altro referendum". Firmata da più di due milioni di persone, sicuramente la petizione verrà presa in considerazione in un dibattito alla House of Commons. Ma sono “scarsissime”, secondo il Guardian, le possibilità che le richieste contenute nel testo possano essere soddisfatte. Sempre il quotidiano vicino ai laburisti riferisce che la maggior parte delle sottoscrizioni sono arrivate dalle maggiori città dell’Inghilterra e, per la stragrande maggioranza, da Londra. Sono stati soprattutto i londinesi infatti, in controtendenza rispetto al resto del Paese, a votare a favore del remain.
E sono più di 130.000 i londinesi che hanno sottoscritto un’altra petizione, spuntata sul sito web Change.org, indirizzata, stavolta, al sindaco della capitale, Sadiq Khan, in cui si chiede niente di meno che “l’indipendenza” di Londra dal Regno Unito, per mantenere la capitale britannica all’interno dell’Ue. “Londra”, c’è scritto nel testo di questa seconda petizione, “è una città internazionale e noi vogliamo restare nel cuore d'Europa”. “Ma dobbiamo affrontare il fatto che il resto del Paese non è d'accordo, così, invece di votare passivamente e aggressivamente gli uni contro gli altri ad ogni elezione, rendiamo il divorzio ufficiale" continua il testo, che in conclusione, vorrebbe acclamare Sadiq Khan come “presidente” della nuova Londra “indipendente” ed “europea”.
Intanto, mentre si moltiplicano le petizioni per chiedere un passo indietro sul voto di mercoledì, la stampa d’oltremanica, ha evidenziato come anche il discorso di uno dei leader della campagna a favore del leave, l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, sia stato piuttosto sottotono, come ad evidenziare un ripensamento rispetto al risultato. Un discorso dai toni “pacati e propositivi” secondo il quotidiano conservatore Telegraph, è stato interpretato invece, come “dismesso e rinunciatario” dal quotidiano progressista Guardian, che ha visto come una marcia indietro la frase "non c'è ragione di precipitarsi ad invocare l'articolo 50" del trattato costitutivo dell'Unione europea, pronunciata proprio dal leader dei conservatori anti-Ue.
La campagna di Johnson a favore della Brexit, secondo il Guardian, potrebbe essere stata dunque solo tattica, e secondo i commentatori del quotidiano, il politico conservatore si troverebbe dinanzi ad una “vittoria di Pirro”. Secondo il Telegraph invece, proprio Johnson, assieme al ministro della Giustizia, Michael Gove, sta tentando di assumere il controllo della leadership del partito conservatore, per formare il nuovo governo che sarà incaricato di negoziare le condizioni dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Negoziati che l'Europa vuole avviare al più presto.
I sostenitori del remain non si arrendono e con due petizioni chiedono di ripetere il referendum che ha sancito l'uscita di Londra dall'Ue. E il boom di firme manda in tilt il sito web del Parlamento
Alessandra Benignetti - Sab, 25/06/2016 - 14:03
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Il sito web del parlamento britannico è andato in tilt per il sovraccarico di accessi da parte di oltre due milioni di utenti, entrati nel sito per firmare una petizione con cui si chiede di indire un secondo referendum sulla Brexit.
Petizione che nella serata di sabato ha raccolto, oltre due milioni di firme: venti volte il numero minimo di sottoscrizioni necessarie per chiedere che una petizione sia discussa in Parlamento.
Nella petizione parlamentare, presentata da un cittadino che si è identificato con il nome di William Oliver Healey, si chiede di ripetere il referendum sulla Brexit, perché l’esito, favorevole a lasciare l’Unione Europea, non sarebbe sufficientemente rappresentativo per via della bassa affluenza alle urne e di uno scarto inferiore ai 4 punti percentuali tra le due opzioni. I sostenitori del remain chiedono quindi ai deputati britannici "l'applicazione di una norma per cui, se il voto a favore di uscire o restare è al di sotto del 60%, con partecipazione minore del 75%, dovrebbe convocarsi un altro referendum". Firmata da più di due milioni di persone, sicuramente la petizione verrà presa in considerazione in un dibattito alla House of Commons. Ma sono “scarsissime”, secondo il Guardian, le possibilità che le richieste contenute nel testo possano essere soddisfatte. Sempre il quotidiano vicino ai laburisti riferisce che la maggior parte delle sottoscrizioni sono arrivate dalle maggiori città dell’Inghilterra e, per la stragrande maggioranza, da Londra. Sono stati soprattutto i londinesi infatti, in controtendenza rispetto al resto del Paese, a votare a favore del remain.
E sono più di 130.000 i londinesi che hanno sottoscritto un’altra petizione, spuntata sul sito web Change.org, indirizzata, stavolta, al sindaco della capitale, Sadiq Khan, in cui si chiede niente di meno che “l’indipendenza” di Londra dal Regno Unito, per mantenere la capitale britannica all’interno dell’Ue. “Londra”, c’è scritto nel testo di questa seconda petizione, “è una città internazionale e noi vogliamo restare nel cuore d'Europa”. “Ma dobbiamo affrontare il fatto che il resto del Paese non è d'accordo, così, invece di votare passivamente e aggressivamente gli uni contro gli altri ad ogni elezione, rendiamo il divorzio ufficiale" continua il testo, che in conclusione, vorrebbe acclamare Sadiq Khan come “presidente” della nuova Londra “indipendente” ed “europea”.
Intanto, mentre si moltiplicano le petizioni per chiedere un passo indietro sul voto di mercoledì, la stampa d’oltremanica, ha evidenziato come anche il discorso di uno dei leader della campagna a favore del leave, l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, sia stato piuttosto sottotono, come ad evidenziare un ripensamento rispetto al risultato. Un discorso dai toni “pacati e propositivi” secondo il quotidiano conservatore Telegraph, è stato interpretato invece, come “dismesso e rinunciatario” dal quotidiano progressista Guardian, che ha visto come una marcia indietro la frase "non c'è ragione di precipitarsi ad invocare l'articolo 50" del trattato costitutivo dell'Unione europea, pronunciata proprio dal leader dei conservatori anti-Ue.
La campagna di Johnson a favore della Brexit, secondo il Guardian, potrebbe essere stata dunque solo tattica, e secondo i commentatori del quotidiano, il politico conservatore si troverebbe dinanzi ad una “vittoria di Pirro”. Secondo il Telegraph invece, proprio Johnson, assieme al ministro della Giustizia, Michael Gove, sta tentando di assumere il controllo della leadership del partito conservatore, per formare il nuovo governo che sarà incaricato di negoziare le condizioni dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Negoziati che l'Europa vuole avviare al più presto.
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Re: La crisi dell'Europa
ANALISI
Brexit, per la Gran Bretagna un divorzio dall'Europa e dalla globalizzazione
La classe media impoverita disconosce le élite di governo, di destra e di sinistra, percepite come lontane dai bisogni del Paese. La vecchia Ue è finita. Ecco i possibili nuovi scenari
DI FEDERICA BIANCHI
24 giugno 2016
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Brexit, per la Gran Bretagna un divorzio dall'Europa e dalla globalizzazione
Con il voto inglese l'Europa come ce la ricordiamo è bruciata. E con lei in fumo è andata anche quella vague di globalizzazione a rotta di collo che l'Occidente aveva inaugurato alla fine degli anni Ottanta. E in cui la maggior parte dei cittadini occidentali non vede più un moltiplicatore di benessere ma, al contrario, una portatrice di miseria.
Il 23 giugno 2016 è una data che rimarrà nei libri di storia: il 72 per cento dei britannici ha votato al referendum sulla Brexit e il 52 per cento di loro ha espresso il desiderio che la Gran Bretagna esca dall'Unione europea.
Tre le motivazioni di base: il fastidio verso un'Europa percepita come un ostacolo alla realizzazione piena dello splendore della vecchia Inghilterra regina del commercio mondiale; l'intolleranza non tanto verso i migranti europei in sé ma contro la parificazione del loro accesso al generoso sistema assistenziale britannico imposto dall'Unione (in nome dell'uguaglianza di diritti tra tutti i cittadini europei). Infine, il disconoscimento delle élite di governo, di destra e di sinistra, percepite come lontane dai bisogni del Paese e intente solo alla soddisfazione degli interessi loro e dei loro accoliti.
La Brexit «non rappresenta forse un shock sistemico al sistema finanziario come il crollo di Lehman nel 2008 o un'eventuale dipartita della Grecia dall'euro», scrive Ric Deverell in un report del Credit Suisse, «ma è sicuramente un potente momento di svolta. La Gran Bretagna ha fatto un passo indietro dalla globalizzazione in linea con la tendenza mondiale. E le conseguenze di medio periodo sia in termini di crescita economica che di utili d'impresa e di valore dei capitali saranno rilevanti».
Con la volontà di divorzio dall'Europa a essere messo in discussione è il funzionamento stesso dell'Europa in questi ultimi, difficili otto anni. Quando la crisi economica ha morso l'Europa, questa ha morso a sua volta i suoi cittadini, anziché aiutarli. Quando l'invasione degli immigrati ha travolto un Continente evidentemente impreparato, l'Europa non ha saputo trovare strutture e rimedi comuni ma ha lasciato ognuno a difendersi da solo in nome di un trattato (quello di Dublino) antiquato che anziché agevolare l'Unione ha amplificato la distanza tra paesi membri in barba al principio di solidarietà. E se a Bruxelles si sostiene che la colpa non sia delle Istituzioni, mere esecutrici, ma del Consiglio europeo, ovvero dei rappresentanti dei governi nazionali, incapaci di individuare moderne soluzioni comuni a crisi di dimensioni mai incontrate prima, i cittadini non fanno distinzioni. Prima soffrono, poi si ribellano.
La crisi economica ha unito in un abbraccio mortale l'Unione europea e la globalizzazione. Essendo la Ue innanzitutto uno strumento di liberalizzazione dei commerci e di massimizzazione dei ricavi è stata per mezzo secolo anche uno dei binari principali su cui è corsa la globalizzazione.
Ora che la classe media occidentale, a differenza delle élite politiche ed economiche che hanno beneficiato tremendamente da questi processi, ha visto diminuire i suoi redditi a favore dell'incremento di quelli di altri popoli, chiede uno stop. A tutto. Alla libera circolazione delle persone. A quella delle merci. Perfino a quella dei capitali perché tanto non ritiene che la cosa li tocchi minimamente. Dunque che crollino le borse, magari porteranno con se nella discesa anche i prezzi delle abitazioni.
A mezzo secolo dall'ultima guerra, in un mondo governato sempre più dagli interessi economici di pochi e sempre meno da una politica di vasto respiro, l'Europa, così come l'abbiamo costruita, non serve più.
Questo è il sentimento comune con cui dovranno fare i conti il parlamento e il nuovo governo inglese che succederà a quello di David Cameron subito dopo l'estate (molto probabilmente sotto la guida dell'ex sindaco di Londra Boris Johnson) ma anche l'Europa con cui si troveranno a trattare.
Vediamo i prossimi passi e gli scenari possibili.
Innanzitutto il parlamento dovrà votare l'uscita dall'Unione europea come stabilito dall'articolo 50 dell'antiquato (pure quello) trattato di Lisbona. E lo dovrà fare nonostante un parlamento che in maggioranza sarebbe a favore del rimanere in Europa, dettaglio che aprirà inevitabilmente complessi e instabili scenari politici.
Successivamente il nuovo governo anti Ue dovrà iniziare a negoziare con Bruxelles i termini degli accordi economici mentre, al contempo, cercare di non far sprofondare il Paese nell'incertezza. Dalla data della richiesta di uscire l'Inghilterra avrà due anni di tempo per negoziare i termini. Allo scadere sarà automaticamente fuori, salvo possibili proroghe
Al momento due sono gli scenari di accordo più probabili. Il tanto chiacchierato scenario “norvegese” - ovvero una situazione in cui la Gran Bretagna per poter commerciare con l'Unione europea dovrà accettare tutte le regolamentazioni Ue (eccetto quelle che riguardano pesca e agricoltura), permettere la mobilità delle persone e infine versare il suo contributo al fondo di solidarietà europea - è a questo punto il meno probabile. Gli inglesi vincitori hanno più volte dichiarato la propria contrarietà alla circolazione libera delle persone e il pagamento di qualsiasi tipo di dazio all'Europa.
Il secondo invece potrebbe essere offerto su un piatto d'argento proprio dall'Unione. Si tratta dell'accordo commerciale appena finalizzato tra Europa e Canada, poco controverso, accomodante verso le esigenze di entrambe le sponde dell'oceano e giuridicamente il più evoluto di tutti gli accordi commerciali in essere al momento.
In ogni caso il sogno di una Europa unita commercialmente e politicamente, un blocco egemone nella geopolitica mondiale è finito. Tra gli applausi di Russia, Cina e Turchia, adesso più forti sia contro l'Unione che contro la Gran Bretagna. Come se la lezione romana del “dividi et impera” non fosse mai arrivata oltre Manica.
Ad essere più debole non sarà solo l'Europa. La presidente scozzese Scotland Sturgeon ha dichiarato che un secondo referendum sull'uscita dal Regno Unito per entrare nella Ue è “altamente probabile” perché il posto della Scozia è all'interno dell'Unione e, viste le circostanze, non avrebbe senso che Londra ostacolasse la fuoriuscita.
Contestualmente l'ipotesi di un referendum per unire l'Irlanda del Nord all'Irlanda con l'intento di rimanere in Europa è crollata da 8 a 4 sulle tavole dei bookmaker in una notte. Della Gran Bretagna rischia di rimanere poco. La Little England guidata da una capitale cosmopolita che dall'Europa non aveva intenzione alcuna di andarsene.
E, come ha sottolineato il candidato presidenziale repubblicano Donald Trump, potrebbe essere solo l'inizio. L'Europa rischia, se non soccorsa in tempo, di perdere presto altri pezzi.
http://espresso.repubblica.it/internazi ... =HEF_RULLO
Brexit, per la Gran Bretagna un divorzio dall'Europa e dalla globalizzazione
La classe media impoverita disconosce le élite di governo, di destra e di sinistra, percepite come lontane dai bisogni del Paese. La vecchia Ue è finita. Ecco i possibili nuovi scenari
DI FEDERICA BIANCHI
24 giugno 2016
Brexit, per la Gran Bretagna un divorzio dall'Europa e dalla globalizzazione
Con il voto inglese l'Europa come ce la ricordiamo è bruciata. E con lei in fumo è andata anche quella vague di globalizzazione a rotta di collo che l'Occidente aveva inaugurato alla fine degli anni Ottanta. E in cui la maggior parte dei cittadini occidentali non vede più un moltiplicatore di benessere ma, al contrario, una portatrice di miseria.
Il 23 giugno 2016 è una data che rimarrà nei libri di storia: il 72 per cento dei britannici ha votato al referendum sulla Brexit e il 52 per cento di loro ha espresso il desiderio che la Gran Bretagna esca dall'Unione europea.
Tre le motivazioni di base: il fastidio verso un'Europa percepita come un ostacolo alla realizzazione piena dello splendore della vecchia Inghilterra regina del commercio mondiale; l'intolleranza non tanto verso i migranti europei in sé ma contro la parificazione del loro accesso al generoso sistema assistenziale britannico imposto dall'Unione (in nome dell'uguaglianza di diritti tra tutti i cittadini europei). Infine, il disconoscimento delle élite di governo, di destra e di sinistra, percepite come lontane dai bisogni del Paese e intente solo alla soddisfazione degli interessi loro e dei loro accoliti.
La Brexit «non rappresenta forse un shock sistemico al sistema finanziario come il crollo di Lehman nel 2008 o un'eventuale dipartita della Grecia dall'euro», scrive Ric Deverell in un report del Credit Suisse, «ma è sicuramente un potente momento di svolta. La Gran Bretagna ha fatto un passo indietro dalla globalizzazione in linea con la tendenza mondiale. E le conseguenze di medio periodo sia in termini di crescita economica che di utili d'impresa e di valore dei capitali saranno rilevanti».
Con la volontà di divorzio dall'Europa a essere messo in discussione è il funzionamento stesso dell'Europa in questi ultimi, difficili otto anni. Quando la crisi economica ha morso l'Europa, questa ha morso a sua volta i suoi cittadini, anziché aiutarli. Quando l'invasione degli immigrati ha travolto un Continente evidentemente impreparato, l'Europa non ha saputo trovare strutture e rimedi comuni ma ha lasciato ognuno a difendersi da solo in nome di un trattato (quello di Dublino) antiquato che anziché agevolare l'Unione ha amplificato la distanza tra paesi membri in barba al principio di solidarietà. E se a Bruxelles si sostiene che la colpa non sia delle Istituzioni, mere esecutrici, ma del Consiglio europeo, ovvero dei rappresentanti dei governi nazionali, incapaci di individuare moderne soluzioni comuni a crisi di dimensioni mai incontrate prima, i cittadini non fanno distinzioni. Prima soffrono, poi si ribellano.
La crisi economica ha unito in un abbraccio mortale l'Unione europea e la globalizzazione. Essendo la Ue innanzitutto uno strumento di liberalizzazione dei commerci e di massimizzazione dei ricavi è stata per mezzo secolo anche uno dei binari principali su cui è corsa la globalizzazione.
Ora che la classe media occidentale, a differenza delle élite politiche ed economiche che hanno beneficiato tremendamente da questi processi, ha visto diminuire i suoi redditi a favore dell'incremento di quelli di altri popoli, chiede uno stop. A tutto. Alla libera circolazione delle persone. A quella delle merci. Perfino a quella dei capitali perché tanto non ritiene che la cosa li tocchi minimamente. Dunque che crollino le borse, magari porteranno con se nella discesa anche i prezzi delle abitazioni.
A mezzo secolo dall'ultima guerra, in un mondo governato sempre più dagli interessi economici di pochi e sempre meno da una politica di vasto respiro, l'Europa, così come l'abbiamo costruita, non serve più.
Questo è il sentimento comune con cui dovranno fare i conti il parlamento e il nuovo governo inglese che succederà a quello di David Cameron subito dopo l'estate (molto probabilmente sotto la guida dell'ex sindaco di Londra Boris Johnson) ma anche l'Europa con cui si troveranno a trattare.
Vediamo i prossimi passi e gli scenari possibili.
Innanzitutto il parlamento dovrà votare l'uscita dall'Unione europea come stabilito dall'articolo 50 dell'antiquato (pure quello) trattato di Lisbona. E lo dovrà fare nonostante un parlamento che in maggioranza sarebbe a favore del rimanere in Europa, dettaglio che aprirà inevitabilmente complessi e instabili scenari politici.
Successivamente il nuovo governo anti Ue dovrà iniziare a negoziare con Bruxelles i termini degli accordi economici mentre, al contempo, cercare di non far sprofondare il Paese nell'incertezza. Dalla data della richiesta di uscire l'Inghilterra avrà due anni di tempo per negoziare i termini. Allo scadere sarà automaticamente fuori, salvo possibili proroghe
Al momento due sono gli scenari di accordo più probabili. Il tanto chiacchierato scenario “norvegese” - ovvero una situazione in cui la Gran Bretagna per poter commerciare con l'Unione europea dovrà accettare tutte le regolamentazioni Ue (eccetto quelle che riguardano pesca e agricoltura), permettere la mobilità delle persone e infine versare il suo contributo al fondo di solidarietà europea - è a questo punto il meno probabile. Gli inglesi vincitori hanno più volte dichiarato la propria contrarietà alla circolazione libera delle persone e il pagamento di qualsiasi tipo di dazio all'Europa.
Il secondo invece potrebbe essere offerto su un piatto d'argento proprio dall'Unione. Si tratta dell'accordo commerciale appena finalizzato tra Europa e Canada, poco controverso, accomodante verso le esigenze di entrambe le sponde dell'oceano e giuridicamente il più evoluto di tutti gli accordi commerciali in essere al momento.
In ogni caso il sogno di una Europa unita commercialmente e politicamente, un blocco egemone nella geopolitica mondiale è finito. Tra gli applausi di Russia, Cina e Turchia, adesso più forti sia contro l'Unione che contro la Gran Bretagna. Come se la lezione romana del “dividi et impera” non fosse mai arrivata oltre Manica.
Ad essere più debole non sarà solo l'Europa. La presidente scozzese Scotland Sturgeon ha dichiarato che un secondo referendum sull'uscita dal Regno Unito per entrare nella Ue è “altamente probabile” perché il posto della Scozia è all'interno dell'Unione e, viste le circostanze, non avrebbe senso che Londra ostacolasse la fuoriuscita.
Contestualmente l'ipotesi di un referendum per unire l'Irlanda del Nord all'Irlanda con l'intento di rimanere in Europa è crollata da 8 a 4 sulle tavole dei bookmaker in una notte. Della Gran Bretagna rischia di rimanere poco. La Little England guidata da una capitale cosmopolita che dall'Europa non aveva intenzione alcuna di andarsene.
E, come ha sottolineato il candidato presidenziale repubblicano Donald Trump, potrebbe essere solo l'inizio. L'Europa rischia, se non soccorsa in tempo, di perdere presto altri pezzi.
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Re: La crisi dell'Europa
LIBRE news
E’ l’inizio della fine per l’Ue delle banche, dell’euro e del Ttip
Scritto il 26/6/16 • nella Categoria: idee Condividi
Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla Ue. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika. Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia. Con questo voto muore subito il Ttip, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della Ue dell’Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della Ue perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader.Anche in questi giorni c’è stato chi ha detto che si sta nella Ue per cambiarla, peccato che la Ue sia indisponibile a qualsiasi cambiamento vero e come tutte le tirannie può solo crollare, non cambiare. Nel no alla Ue è stato decisivo il popolo laburista, che non ha seguito le indicazioni del suo establishment politico e sindacale, ma ha premiato l’impegno di minoranze coraggiose, come il glorioso sindacato dei ferrovieri che abbiamo conosciuto come Eurostop. Minoranze oscurate dai mass media, ma che sono state determinanti. Il popolo della sinistra britannica ha chiarito che sinistra ed europeismo oggi sono incompatibili e che la battaglia contro la Ue delle banche è stata egemonizzata finora da forze di destra perché la sinistra ufficiale ha abbandonato il suo popolo. Ora questo popolo ha bisogno di altri rappresentanti, che in nome della eguaglianza sociale e della democrazia e non dei mercati, ricaccino le destre dal terreno abusivamente occupato.Ora si apre l’epoca del coraggio e tutto si rimette in moto, sarà dura ma questo voto mostra che l’epoca della globalizzazione senza diritti sociali è finita, sono gli stessi mercati a crollare sul potere di argilla che hanno costruito. Tornano i popoli, gli stati, le politiche economiche, i diritti sociali e del lavoro. Sarà dura e non sarà breve, ma c’è tutta una classe dirigente europea da rottamare. Cominciamo qui votando No al referendum di ottobre e mandiamo a casa Renzi e la sua controriforma costituzionale, voluta dalla Ue delle banche. E dopo la Renxit avanti con la Italexit. Grazie al popolo britannico che come nel 1940 dà il via al percorso di liberazione dell’Europa, gli Spitfire sono spuntati dalle urne.
(Giorgio Cremaschi, “Brexit, l’inizio della fine per l’Europa delle banche”, da “Micromega” del 24 giugno 2016).
E’ l’inizio della fine per l’Ue delle banche, dell’euro e del Ttip
Scritto il 26/6/16 • nella Categoria: idee Condividi
Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla Ue. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika. Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia. Con questo voto muore subito il Ttip, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della Ue dell’Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della Ue perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader.Anche in questi giorni c’è stato chi ha detto che si sta nella Ue per cambiarla, peccato che la Ue sia indisponibile a qualsiasi cambiamento vero e come tutte le tirannie può solo crollare, non cambiare. Nel no alla Ue è stato decisivo il popolo laburista, che non ha seguito le indicazioni del suo establishment politico e sindacale, ma ha premiato l’impegno di minoranze coraggiose, come il glorioso sindacato dei ferrovieri che abbiamo conosciuto come Eurostop. Minoranze oscurate dai mass media, ma che sono state determinanti. Il popolo della sinistra britannica ha chiarito che sinistra ed europeismo oggi sono incompatibili e che la battaglia contro la Ue delle banche è stata egemonizzata finora da forze di destra perché la sinistra ufficiale ha abbandonato il suo popolo. Ora questo popolo ha bisogno di altri rappresentanti, che in nome della eguaglianza sociale e della democrazia e non dei mercati, ricaccino le destre dal terreno abusivamente occupato.Ora si apre l’epoca del coraggio e tutto si rimette in moto, sarà dura ma questo voto mostra che l’epoca della globalizzazione senza diritti sociali è finita, sono gli stessi mercati a crollare sul potere di argilla che hanno costruito. Tornano i popoli, gli stati, le politiche economiche, i diritti sociali e del lavoro. Sarà dura e non sarà breve, ma c’è tutta una classe dirigente europea da rottamare. Cominciamo qui votando No al referendum di ottobre e mandiamo a casa Renzi e la sua controriforma costituzionale, voluta dalla Ue delle banche. E dopo la Renxit avanti con la Italexit. Grazie al popolo britannico che come nel 1940 dà il via al percorso di liberazione dell’Europa, gli Spitfire sono spuntati dalle urne.
(Giorgio Cremaschi, “Brexit, l’inizio della fine per l’Europa delle banche”, da “Micromega” del 24 giugno 2016).
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Re: La crisi dell'Europa
A me pare che la Gran Bretagna non era uno stato più illuminato della Germania. Ha sempre posto dei veti quando si doveva fare una politica economica europea e armonizzare il fisco. Quindi hanno sempre fatto gli affari loro. In sostanza non sono voluti entrare mai a tutti gli effetti nell'unione europea. Quindi non lo vedo come una cosa negativa che sono usciti, essendo stati dentro solo per le cose che andavano bene a loro.camillobenso ha scritto:PERCHE' FINO ADESSO COSA ABBIAMO SUBITO????
Brexit, l’economista Giulio Sapelli: “Adesso subiremo il dominio senza cuore della Germania”
Zonaeuro
"La Germania prenderà sicuramente il comando sia internamente, cosa che ha già fatto, sia in politica estera, visto che la Francia è uno Stato in decadenza" dice il docente di Storia economica all’Università degli Studi di Milano al fattoquotidiano.it. "Il popolo non può votare su tematiche del genere, non ne ha le competenze. Stento a credere alla democrazia parlamentare, figuriamoci su quella diretta. Non si può fare un referendum sulla Brexit"
di Gianni Rosini | 25 giugno 2016
COMMENTI (374)
“La Brexit ha ristabilito l’ordine naturale delle cose. La Gran Bretagna è un Paese transatlantico, non ha niente a che vedere con l’Europa”. Secondo il professor Giulio Sapelli, docente di Storia economica all’Università degli Studi di Milano, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea apre scenari preoccupanti non tanto per la perdita di un membro tra i più importanti dell’Ue, ma per come, adesso, sarà gestito il ribilanciamento dei rapporti interni tra i Paesi membri. “Adesso – dice a Ilfattoquotidiano.it – subiremo il dominio senza cuore della Germania”.
Professore, quello di domenica può essere letto come un voto anti-austerity?
È esattamente il punto centrale della campagna elettorale in favore della Brexit. Abbiamo visto le conseguenze di questa politica: l’austerity ha strangolato la classe operaia e il ceto medio, risvegliando in loro sentimenti nazionalisti. Basta guardare i dati sul voto: la maggioranza dei favorevoli a un’uscita dall’Unione Europea vengono dalle città industriali e appartengono a ceti medio-bassi, quelli maggiormente colpiti dall’austerity che, in Europa, prende le sembianze della Germania e del governo di Angela Merkel.
La Gran Bretagna è comunque uno degli Stati meno colpiti dalle politiche imposte dalla Troika…
Perché secondo lei non hanno mai voluto l’Euro come moneta?
Sapevano che una moneta senza Stato, e l’Unione Europea al momento non sembra proprio averne le sembianze, è amministrata da tecnocrati, quelli che noi chiamiamo Troika. E comunque, questo voto non ha fatto altro che ristabilire il naturale ordine delle cose. Il Regno Unito è da sempre una nazione transatlantica, non ha niente a che vedere con l’Europa. L’abbiamo sempre voluto coinvolgere per la sua importanza storica e, soprattutto, economica: è la porta d’accesso alla finanza asiatica.
L’uscita di un membro così importante causerà però un ribilanciamento dei rapporti interni all’Ue?
Questa sarà la vera difficoltà da affrontare. La Germania prenderà sicuramente il comando sia internamente, cosa che ha già fatto, sia in politica estera, visto che la Francia è uno Stato in decadenza.
E allenterà la morsa dell’austerity?
Non assumeranno una leadership vera e propria, bensì prenderanno il comando, che è diverso. L’interesse nazionale continuerà a venire prima di quello dell’Unione. Continueranno con la loro politica dell’austerità che colpisce i lavoratori. Vi ricordate cosa hanno fatto alla Grecia? Vi ricordate le parole del Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker? Disse che il voto greco non aveva importanza. Quello tedesco è un dominio senza cuore.
Questo voto ha gettato benzina sul fuoco del nazionalismo e dell’euroscetticismo interno all’Ue. Come si frena questa deriva che potrebbe portare a uno sgretolamento dell’Unione?
Per frenare i nazionalismi si devono riformare le istituzioni europee. In una situazione come quella attuale e con un risultato referendario del genere è normale che i nazionalismi risorgano. Per arginarli serve una ripresa delle forze socialiste che però devono prendere le distanze dal gruppo attuale, rappresentante della finanza internazionale. Stare in Europa così, effettivamente, non ha senso. Servono gli Stati socialisti d’Europa e la fine della politica di austerità. In un momento di difficoltà come questo dobbiamo giocare il carico se vogliamo salvare l’Unione Europea.
Come giudica la gestione del referendum da parte del premier britannico, David Cameron?
Ha gestito la situazione nel peggior modo possibile. Ha indetto un referendum così importante per fini elettorali, durante la campagna non si è mantenuto neutro ma si è apertamente schierato dalla parte del Remain ed è stato ripagato con la stessa moneta. È stato sconfitto da sé stesso.
Ma secondo lei è giusto indire un referendum su un tema così importante e complicato?
Assolutamente no. Il popolo non può votare su tematiche del genere, non ne ha le competenze. Stento a credere alla democrazia parlamentare, figuriamoci su quella diretta. Non si può fare un referendum sulla Brexit.
Twitter: @GianniRosini
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Re: La crisi dell'Europa
Brexit, Varoufakis: “È la rivolta dei deboli contro l’establishment. Anche l’Italia vicina al collasso”
Per l’ex ministro delle Finanze della Grecia, che ha fatto campagna per Remain, "non bisogna distruggere ma cambiare l'Europa perché uniti si è più forti e si pesa di più. La sua ricetta? Per contrastare "Eurocrazia", populismi e razzismo la Ue "deve diventare una federazione"
Brexit, Varoufakis: “È la rivolta dei deboli contro l’establishment. Anche l’Italia vicina al collasso”
di Roberta Zunini | 25 giugno 2016
| Commenti (234)
“Sono preoccupato. La situazione mi pare ormai fuori controllo. I populismi e il razzismo stanno aumentando esponenzialmente mentre le maggiori economie dell’Unione, Italia per prima, stanno collassando, nonostante ciò che dice il vostro primo ministro Renzi”. L’economista Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze greco oggi leader del movimento paneuropeo DiEm da lui fondato, nonché consulente dei laburisti inglesi da quando è segretario Jeremy Corbyn, è a Roma in questa giornata che passerà alla storia e ha scelto di commentare la Brexit con Il Fatto.
Lei conosce bene il Regno Unito, ha insegnato all’Università dell’Essex: come legge questo risultato?
È una reazione contro l’establishment britannico più che europeo. Il ceto medio e la classe lavoratrice sono andati a votare contro l’ormai ex premier Cameron perché sono i più danneggiati dal progressivo taglio dello stato sociale e dall’aumento delle tasse, in linea con i diktat di Bruxelles. Non hanno rigettato l’Europa ma le modalità dell’eurocrazia. Se le cose non cambiano, vedremo il trionfo dei nazionalismi. Per questo un populista come Donald Trump festeggia.
La sinistra non ha colpe?
Non ho detto questo. La sinistra inglese ha commesso errori madornali, ma Corbyn ha cercato di far capire ai più disagiati che i loro problemi non sono causati dall’appartenere all’Unione bensì dalla politica non democratica di Bruxelles. Non è un caso che i banchieri e la City tifassero per il Remain.
E allora perché Corbyn, lei e tutti gli intellettuali come Noam Chomsky, persino il regista portavoce della classe operaia Ken Loach, peraltro tutti firmatari del manifesto del suo movimento, eravate a favore del Remain? Non è una contraddizione?
Non lo è. Se nella sua famiglia ci fossero dei problemi, sarebbe un buon motivo perché ognuno dei suoi membri se ne andasse per i fatti propri? In questi mesi sono stato spesso nel Regno Unito a fare campagna a favore del Remain nelle zone più disagiate e ho faticato molto a convincere gli abitanti che non bisogna distruggere ma cambiare l’Europa perché uniti si è più forti e si pesa di più.
E perché dunque non è riuscito a convincerli?
Perché i conservatori come Cameron e tutti i responsabili della politica sciagurata che sta rovinando l’Unione – cioè la troika, la Bce, il Fmi – erano dalla nostra parte, cioè erano contrari all’uscita del Paese dall’Unione. Se Cameron fosse andato in vacanza per un anno, oggi il risultato sarebbe probabilmente l’opposto.
Il 5 luglio di un anno fa, quando lei era ancora il ministro delle Finanze, il referendum greco sull’Ue l’ha costretta alle dimissioni. Non sarebbe meglio evitare referendum su questioni così delicate?
No. Io sono a favore dei referendum. Le ragioni di chi lo ha voluto in Gran Bretagna erano sbagliate, noi invece l’avevamo indetto non per uscire dall’Europa, bensì per renderla più giusta e coesa. Chi voleva la nostra uscita dall’Eurozona era il ministro delle Finanze tedesco Schäuble. L’unico che ha un’agenda per l’Europa. Schäuble ha fatto di tutto per fomentare i britannici a lasciare l’Unione. Vuole creare una piccola Europa basata su una permanente austerity.
La Brexit aiuterà Podemos a vincere in Spagna?
Non necessariamente. Anche se Podemos propone un modello contro l’austerity non ha un’agenda europea. Così come non ce l’hanno i suoi avversari. Questo è il cuore del problema europeo.
Non gli immigrati?
Sono diventati il capro espiatorio della crisi europea, economica e politica.
Il Leave ha prevalso, ma dalle urne emerge una Gran Bretagna divisa in due.
Tutta l’Europa è polarizzata: tutti hanno capito che, pur vivendo in paesi democratici, i loro governi non decidono più nulla.
DiEM cosa propone?
Di fortificare l’Europa, facendola diventare una federazione e indebolendo l’establishment.
di Roberta Zunini | 25 giugno 2016
Per l’ex ministro delle Finanze della Grecia, che ha fatto campagna per Remain, "non bisogna distruggere ma cambiare l'Europa perché uniti si è più forti e si pesa di più. La sua ricetta? Per contrastare "Eurocrazia", populismi e razzismo la Ue "deve diventare una federazione"
Brexit, Varoufakis: “È la rivolta dei deboli contro l’establishment. Anche l’Italia vicina al collasso”
di Roberta Zunini | 25 giugno 2016
| Commenti (234)
“Sono preoccupato. La situazione mi pare ormai fuori controllo. I populismi e il razzismo stanno aumentando esponenzialmente mentre le maggiori economie dell’Unione, Italia per prima, stanno collassando, nonostante ciò che dice il vostro primo ministro Renzi”. L’economista Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze greco oggi leader del movimento paneuropeo DiEm da lui fondato, nonché consulente dei laburisti inglesi da quando è segretario Jeremy Corbyn, è a Roma in questa giornata che passerà alla storia e ha scelto di commentare la Brexit con Il Fatto.
Lei conosce bene il Regno Unito, ha insegnato all’Università dell’Essex: come legge questo risultato?
È una reazione contro l’establishment britannico più che europeo. Il ceto medio e la classe lavoratrice sono andati a votare contro l’ormai ex premier Cameron perché sono i più danneggiati dal progressivo taglio dello stato sociale e dall’aumento delle tasse, in linea con i diktat di Bruxelles. Non hanno rigettato l’Europa ma le modalità dell’eurocrazia. Se le cose non cambiano, vedremo il trionfo dei nazionalismi. Per questo un populista come Donald Trump festeggia.
La sinistra non ha colpe?
Non ho detto questo. La sinistra inglese ha commesso errori madornali, ma Corbyn ha cercato di far capire ai più disagiati che i loro problemi non sono causati dall’appartenere all’Unione bensì dalla politica non democratica di Bruxelles. Non è un caso che i banchieri e la City tifassero per il Remain.
E allora perché Corbyn, lei e tutti gli intellettuali come Noam Chomsky, persino il regista portavoce della classe operaia Ken Loach, peraltro tutti firmatari del manifesto del suo movimento, eravate a favore del Remain? Non è una contraddizione?
Non lo è. Se nella sua famiglia ci fossero dei problemi, sarebbe un buon motivo perché ognuno dei suoi membri se ne andasse per i fatti propri? In questi mesi sono stato spesso nel Regno Unito a fare campagna a favore del Remain nelle zone più disagiate e ho faticato molto a convincere gli abitanti che non bisogna distruggere ma cambiare l’Europa perché uniti si è più forti e si pesa di più.
E perché dunque non è riuscito a convincerli?
Perché i conservatori come Cameron e tutti i responsabili della politica sciagurata che sta rovinando l’Unione – cioè la troika, la Bce, il Fmi – erano dalla nostra parte, cioè erano contrari all’uscita del Paese dall’Unione. Se Cameron fosse andato in vacanza per un anno, oggi il risultato sarebbe probabilmente l’opposto.
Il 5 luglio di un anno fa, quando lei era ancora il ministro delle Finanze, il referendum greco sull’Ue l’ha costretta alle dimissioni. Non sarebbe meglio evitare referendum su questioni così delicate?
No. Io sono a favore dei referendum. Le ragioni di chi lo ha voluto in Gran Bretagna erano sbagliate, noi invece l’avevamo indetto non per uscire dall’Europa, bensì per renderla più giusta e coesa. Chi voleva la nostra uscita dall’Eurozona era il ministro delle Finanze tedesco Schäuble. L’unico che ha un’agenda per l’Europa. Schäuble ha fatto di tutto per fomentare i britannici a lasciare l’Unione. Vuole creare una piccola Europa basata su una permanente austerity.
La Brexit aiuterà Podemos a vincere in Spagna?
Non necessariamente. Anche se Podemos propone un modello contro l’austerity non ha un’agenda europea. Così come non ce l’hanno i suoi avversari. Questo è il cuore del problema europeo.
Non gli immigrati?
Sono diventati il capro espiatorio della crisi europea, economica e politica.
Il Leave ha prevalso, ma dalle urne emerge una Gran Bretagna divisa in due.
Tutta l’Europa è polarizzata: tutti hanno capito che, pur vivendo in paesi democratici, i loro governi non decidono più nulla.
DiEM cosa propone?
Di fortificare l’Europa, facendola diventare una federazione e indebolendo l’establishment.
di Roberta Zunini | 25 giugno 2016
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Re: La crisi dell'Europa
Brexit, tra il referendum e l’uscita c’è l’articolo 50
Tappe, scenari e incognite del divorzio dall’Ue
È il Regno Unito a scegliere quando attivare il trattato di Lisbona. Merkel non ha fretta: ‘Membro a tutti
gli effetti fino a quando non deciderà’. Il docente: ‘L’accordo potrebbe essere sottoposto a voto e bocciato’
Zonaeuro
Il percorso inizierà solo con la notifica dell’articolo 50 del trattato di Lisbona, quello che regola la possibilità di recesso. Cameron ha già annunciato che a farlo dovrà essere il prossimo premier, che sarà scelto dai Tories in autunno. A quel punto partirà il conto alla rovescia: due anni di tempo (a meno di proroghe) per rinegoziare i rapporti. Ma non mancano le vie di uscita. Justin Frosini (docente Bocconi): “L’accordo finale potrebbe essere sottoposto agli elettori dando la possibilità di un ripensamento” di Chiara Brusini
^^^^^^^^
Brexit, il referendum è il primo passo. Il divorzio tra Regno Unito e Ue non è automatico: ecco gli scenari
Zonaeuro
Il percorso inizierà solo con la notifica dell'articolo 50 del trattato di Lisbona, quello che regola la possibilità di recesso. Cameron ha già annunciato che a farlo dovrà essere il prossimo premier, che sarà scelto dai Tories in autunno. A quel punto partirà il conto alla rovescia. Ma non mancano le vie di uscita. Il docente: "L'accordo finale potrebbe essere sottoposto agli elettori dando la possibilità di un ripensamento". Merkel: "Fino a quando non avrà deciso, il Regno unito resta membro a tutti gli effetti"
di Chiara Brusini | 26 giugno 2016
COMMENTI (95)
“L’importante è che, fino a che l’accordo di uscita non viene definito, la Gran Bretagna resta membro a pieno titolo dell’Ue con tutti i diritti e i doveri”. Due giorni dopo lo shock della vittoria del Leave al referendum di giovedì, è Angela Merkel a mettere in chiaro quale sia davvero l’effetto del voto dei britannici: solo un’indicazione al loro governo. Che, ha continuato la Cancelliera, “immagino voglia mettere in pratica le decisioni del referendum”. Infatti a oggi il Regno Unito fa ancora parte, a tutti gli effetti, dei 28 Stati membri. E non sarà fuori fino a quando il primo ministro inglese non attiverà il detonatore chiamato articolo 50. Cioè quel paragrafo del trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione europea che disciplina la possibilità di recesso da parte di un Paese membro. La procedura è lunga, complicata e senza precedenti. Così, mentre mercati, cancellerie e cittadini smaltiscono lo shock post voto, è proprio questo l’oggetto del braccio di ferro tra i leader europei e il premier dimissionario David Cameron.
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L’esito è difficile da prevedere: secondo la stampa inglese, più l’attivazione dell’articolo 50 viene rimandata meno si può escludere che in autunno gli inglesi tornino alle urne per eleggere un nuovo governo che potrebbe addirittura tentare di ribaltare l’esito della consultazione del 23 giugno. “Possibile, visto che si è trattato di un referendum solo consultivo, ma altamente improbabile“, dice a ilfattoquotidiano.it Justin Frosini, docente del dipartimento Studi giuridici dell’università Bocconi e direttore del Center for constitutional studies and democratic development fondato da università di Bologna e Johns Hopkins University. “Potrebbe invece succedere che ad essere sottoposto agli elettori sia l’accordo di uscita che verrà raggiunto con la Ue. E a quel punto, in caso di vittoria dei contrari, il processo di exit potrebbe davvero bloccarsi”.
Il “divorzio” inizia con la notifica dell’articolo 50 - “Ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali”, recita l’articolo 50. Per farlo deve notificare al Consiglio europeo l’intenzione di separarsi e negoziare un accordo di ritiro. Solo in quel momento partirà il conto alla rovescia al termine del quale i trattati europei cesseranno di essere applicati nei confini del Paese. Il Regno Unito smetterà di partecipare alle decisioni del Consiglio e dovrà rinegoziare 80mila pagine di accordi europei, stabilendo quali mantenere nell’ordinamento inglese. L’accordo dovrà poi essere approvato dal Consiglio stesso a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento. In mancanza di intesa, l’uscita diventerà comunque effettiva a due anni dalla notifica. A meno che lo Stato e il Consiglio europeo non concordino nel prorogare quel termine. In assenza sia di nuovi accordi commerciali sia di una proroga, per la Gran Bretagna torneranno in vigore le regole del World Trade Organisation: vale a dire che, per esempio, le merci esportate nella Ue saranno soggette a dazi.
Juncker incalza, i Tories prendono tempo – In questa cornice, venerdì il presidente della Commissione Jean Claude Juncker ha incalzato: “Ci aspettiamo che il governo inglese dia effetto alla decisione il più velocemente possibile”. Ma Cameron, dopo aver perso la scommessa più rischiosa della sua carriera politica, ha preso tempo annunciando che a tirare il grilletto facendo partire il processo formale e legale che porterà alla “exit” vera e propria sarà il prossimo premier. La cui scelta, in base al sistema costituzionale inglese, spetta al partito conservatore uscito vincitore dalle elezioni del 2015: a guidare il governo sarà il leader che uscirà dal congresso dei Tories in calendario la prima settimana di ottobre. “Ma il partito è spaccato”, fa notare Frosini. “Una parte si oppone a quello che sembrava il successore designato di Cameron, Boris Johnson, che ha cavalcato il Leave per motivi meramente politici ma secondo me è rimasto spiazzato dalla vittoria”. Intanto lo stesso direttore della campagna “Vote Leave”, Matthew Elliott, sembra tutt’altro che desideroso di accelerare i tempi: “Non riteniamo ci sia bisogno di invocare subito l’articolo 50, è meglio che le acque si calmino durante l’estate e in quel periodo ci siano negoziati informali con gli altri Stati”, ha detto in un’intervista a Reuters.
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L’ipotesi di uno stop prima ancora di far partire la trattativa… – Secondo il Guardian, più i “Brexiter” se la prendono comoda più l’elettorato (alle prese con l’inevitabile indebolimento della sterlina) diventerà impaziente, i parlamentari pro Ue – che sono la maggioranza – si mobiliteranno contro l’uscita e si concretizzerà l’ipotesi di nuove elezioni generali, con nuovi leader sulla scena. A quel punto la richiesta di rivedere la decisione del referendum “non sarebbe inconcepibile“, scrive il quotidiano liberal. E torna in mente la frase della Merkel, quell'”immagino che anche la Gran Bretagna voglia mettere in pratica le decisioni del referendum” che sembra lasciare aperto uno spiraglio alla possibilità del ripensamento. Questo proprio mentre la petizione al Parlamento europeo per ripetere la consultazione vola verso i 2 milioni di firme. Tanto più che la Cancelliera tedesca ha aggiunto: “Non mi bloccherei sulla questione dei tempi brevi” per l’attivazione dell’articolo 50. Il contrario di quanto aveva affermato poche ore prima Juncker. Sul tema, sempre invocando la calma, è intervenuto anche il ministro britannico alle Attività produttive Sajid Javid: “Non è necessario decidere subito quando invocare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che contiene la clausola di recesso dall’Unione europea”.
…e quella del ripensamento ex post – “La petizione per un nuovo referendum dovrà essere discussa dal Parlamento di Westminster ma difficilmente avrà successo, perché modifica ex post il quorum funzionale e quello relativo all’affluenza”, spiega Frosini. “E’ più che altro il segnale politico che arriva da un Paese spaccato tra giovani e vecchi e da quei 2 milioni di elettori (più dello scarto tra Leave e Remain, ndr) a cui non è stato consentito di votare perché residenti all’estero da oltre 15 anni“. Poco probabile anche, secondo il docente, che il governo non attivi la procedura per l’uscita. “Potrebbe invece accadere che una volta inviato l’atto di notifica dell’articolo 50 e rinegoziati tutti i rapporti con la Ue, l’accordo finale sia sottoposto a un nuovo referendum. Dando la possibilità di un ripensamento ex post sul Brexit”. E a quel punto, inevitabilmente, per il Regno Unito o quel che ne resterà sarebbe necessario ripercorrere tutta la procedura di adesione all’Unione.
Tappe, scenari e incognite del divorzio dall’Ue
È il Regno Unito a scegliere quando attivare il trattato di Lisbona. Merkel non ha fretta: ‘Membro a tutti
gli effetti fino a quando non deciderà’. Il docente: ‘L’accordo potrebbe essere sottoposto a voto e bocciato’
Zonaeuro
Il percorso inizierà solo con la notifica dell’articolo 50 del trattato di Lisbona, quello che regola la possibilità di recesso. Cameron ha già annunciato che a farlo dovrà essere il prossimo premier, che sarà scelto dai Tories in autunno. A quel punto partirà il conto alla rovescia: due anni di tempo (a meno di proroghe) per rinegoziare i rapporti. Ma non mancano le vie di uscita. Justin Frosini (docente Bocconi): “L’accordo finale potrebbe essere sottoposto agli elettori dando la possibilità di un ripensamento” di Chiara Brusini
^^^^^^^^
Brexit, il referendum è il primo passo. Il divorzio tra Regno Unito e Ue non è automatico: ecco gli scenari
Zonaeuro
Il percorso inizierà solo con la notifica dell'articolo 50 del trattato di Lisbona, quello che regola la possibilità di recesso. Cameron ha già annunciato che a farlo dovrà essere il prossimo premier, che sarà scelto dai Tories in autunno. A quel punto partirà il conto alla rovescia. Ma non mancano le vie di uscita. Il docente: "L'accordo finale potrebbe essere sottoposto agli elettori dando la possibilità di un ripensamento". Merkel: "Fino a quando non avrà deciso, il Regno unito resta membro a tutti gli effetti"
di Chiara Brusini | 26 giugno 2016
COMMENTI (95)
“L’importante è che, fino a che l’accordo di uscita non viene definito, la Gran Bretagna resta membro a pieno titolo dell’Ue con tutti i diritti e i doveri”. Due giorni dopo lo shock della vittoria del Leave al referendum di giovedì, è Angela Merkel a mettere in chiaro quale sia davvero l’effetto del voto dei britannici: solo un’indicazione al loro governo. Che, ha continuato la Cancelliera, “immagino voglia mettere in pratica le decisioni del referendum”. Infatti a oggi il Regno Unito fa ancora parte, a tutti gli effetti, dei 28 Stati membri. E non sarà fuori fino a quando il primo ministro inglese non attiverà il detonatore chiamato articolo 50. Cioè quel paragrafo del trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione europea che disciplina la possibilità di recesso da parte di un Paese membro. La procedura è lunga, complicata e senza precedenti. Così, mentre mercati, cancellerie e cittadini smaltiscono lo shock post voto, è proprio questo l’oggetto del braccio di ferro tra i leader europei e il premier dimissionario David Cameron.
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L’esito è difficile da prevedere: secondo la stampa inglese, più l’attivazione dell’articolo 50 viene rimandata meno si può escludere che in autunno gli inglesi tornino alle urne per eleggere un nuovo governo che potrebbe addirittura tentare di ribaltare l’esito della consultazione del 23 giugno. “Possibile, visto che si è trattato di un referendum solo consultivo, ma altamente improbabile“, dice a ilfattoquotidiano.it Justin Frosini, docente del dipartimento Studi giuridici dell’università Bocconi e direttore del Center for constitutional studies and democratic development fondato da università di Bologna e Johns Hopkins University. “Potrebbe invece succedere che ad essere sottoposto agli elettori sia l’accordo di uscita che verrà raggiunto con la Ue. E a quel punto, in caso di vittoria dei contrari, il processo di exit potrebbe davvero bloccarsi”.
Il “divorzio” inizia con la notifica dell’articolo 50 - “Ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali”, recita l’articolo 50. Per farlo deve notificare al Consiglio europeo l’intenzione di separarsi e negoziare un accordo di ritiro. Solo in quel momento partirà il conto alla rovescia al termine del quale i trattati europei cesseranno di essere applicati nei confini del Paese. Il Regno Unito smetterà di partecipare alle decisioni del Consiglio e dovrà rinegoziare 80mila pagine di accordi europei, stabilendo quali mantenere nell’ordinamento inglese. L’accordo dovrà poi essere approvato dal Consiglio stesso a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento. In mancanza di intesa, l’uscita diventerà comunque effettiva a due anni dalla notifica. A meno che lo Stato e il Consiglio europeo non concordino nel prorogare quel termine. In assenza sia di nuovi accordi commerciali sia di una proroga, per la Gran Bretagna torneranno in vigore le regole del World Trade Organisation: vale a dire che, per esempio, le merci esportate nella Ue saranno soggette a dazi.
Juncker incalza, i Tories prendono tempo – In questa cornice, venerdì il presidente della Commissione Jean Claude Juncker ha incalzato: “Ci aspettiamo che il governo inglese dia effetto alla decisione il più velocemente possibile”. Ma Cameron, dopo aver perso la scommessa più rischiosa della sua carriera politica, ha preso tempo annunciando che a tirare il grilletto facendo partire il processo formale e legale che porterà alla “exit” vera e propria sarà il prossimo premier. La cui scelta, in base al sistema costituzionale inglese, spetta al partito conservatore uscito vincitore dalle elezioni del 2015: a guidare il governo sarà il leader che uscirà dal congresso dei Tories in calendario la prima settimana di ottobre. “Ma il partito è spaccato”, fa notare Frosini. “Una parte si oppone a quello che sembrava il successore designato di Cameron, Boris Johnson, che ha cavalcato il Leave per motivi meramente politici ma secondo me è rimasto spiazzato dalla vittoria”. Intanto lo stesso direttore della campagna “Vote Leave”, Matthew Elliott, sembra tutt’altro che desideroso di accelerare i tempi: “Non riteniamo ci sia bisogno di invocare subito l’articolo 50, è meglio che le acque si calmino durante l’estate e in quel periodo ci siano negoziati informali con gli altri Stati”, ha detto in un’intervista a Reuters.
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L’ipotesi di uno stop prima ancora di far partire la trattativa… – Secondo il Guardian, più i “Brexiter” se la prendono comoda più l’elettorato (alle prese con l’inevitabile indebolimento della sterlina) diventerà impaziente, i parlamentari pro Ue – che sono la maggioranza – si mobiliteranno contro l’uscita e si concretizzerà l’ipotesi di nuove elezioni generali, con nuovi leader sulla scena. A quel punto la richiesta di rivedere la decisione del referendum “non sarebbe inconcepibile“, scrive il quotidiano liberal. E torna in mente la frase della Merkel, quell'”immagino che anche la Gran Bretagna voglia mettere in pratica le decisioni del referendum” che sembra lasciare aperto uno spiraglio alla possibilità del ripensamento. Questo proprio mentre la petizione al Parlamento europeo per ripetere la consultazione vola verso i 2 milioni di firme. Tanto più che la Cancelliera tedesca ha aggiunto: “Non mi bloccherei sulla questione dei tempi brevi” per l’attivazione dell’articolo 50. Il contrario di quanto aveva affermato poche ore prima Juncker. Sul tema, sempre invocando la calma, è intervenuto anche il ministro britannico alle Attività produttive Sajid Javid: “Non è necessario decidere subito quando invocare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che contiene la clausola di recesso dall’Unione europea”.
…e quella del ripensamento ex post – “La petizione per un nuovo referendum dovrà essere discussa dal Parlamento di Westminster ma difficilmente avrà successo, perché modifica ex post il quorum funzionale e quello relativo all’affluenza”, spiega Frosini. “E’ più che altro il segnale politico che arriva da un Paese spaccato tra giovani e vecchi e da quei 2 milioni di elettori (più dello scarto tra Leave e Remain, ndr) a cui non è stato consentito di votare perché residenti all’estero da oltre 15 anni“. Poco probabile anche, secondo il docente, che il governo non attivi la procedura per l’uscita. “Potrebbe invece accadere che una volta inviato l’atto di notifica dell’articolo 50 e rinegoziati tutti i rapporti con la Ue, l’accordo finale sia sottoposto a un nuovo referendum. Dando la possibilità di un ripensamento ex post sul Brexit”. E a quel punto, inevitabilmente, per il Regno Unito o quel che ne resterà sarebbe necessario ripercorrere tutta la procedura di adesione all’Unione.
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Re: La crisi dell'Europa
L’ETERNO CONVITATO DI PIETRA
In queste ore convulse che mostrano un'Europa in preda a schock nervoso, ma anche prima, in tutte le riflessioni degli analisti, dei commentatori, degli editorialisti, degli economisti, che si occupano della politica planetaria, o di quella a livello nazionale, si evita sempre di fare riferimento a chi detiene veramente il potere a livello internazionale e che condiziona da sempre molti avvenimenti che noi tranquillamente trascuriamo.
Ignoranza???
Paura???
Sottomissione???
Convenienza???
Decidete voi. Ma non trascurate mai di non tenerli in considerazione.
Perché loro ci sono anche se operano evidentemente nell’ombra o per interposta persona.
Da MICROMEGA 4/2016
Poteri occulti. L'intero pianeta è sotto scacco
di Susan George *, da controlacrisi.org
Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la sicurezza finanziaria vostra e quella della vostra famiglia, le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, vi è un importante cambiamento politico di cui dovete essere consapevoli.
Io chiamo questo cambiamento la «ascesa di autorità illegittima».
Il governo di rappresentanti chiaramente identificabili e democraticamente eletti viene gradualmente soppiantato da un nuovo governo ombra in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo di più in più decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana.
Essi possono agire attraverso le lobby o oscuri «comitati di esperti»; attraverso organismi ad hoc che ottengono un riconoscimento ufficiale; talvolta, attraverso accordi negoziati in segreto e preparati con cura da executive delle imprese al più alto livello.
Lavorano a livello nazionale, europeo e sovranazionale, ma anche all'interno delle stesse Nazioni Unite, da una dozzina di anni nuovo campo di azione per le attività delle corporate.
Non si tratta di una sorta di teoria paranoica della cospirazione: i segni sono tutti intorno a noi, ma per il cittadino medio sono difficili da riconoscere.
Noi continuiamo a credere, almeno in Europa, di vivere in un sistema democratico.
Tecniche da mercenario
Cominciamo con le lobby ordinarie, attori famigliari ai margini dei governi per un paio di secoli.
Hanno migliorato le loro tecniche, sono pagate più che mai e ottengono risultati.
Negli Stati Uniti, devono almeno dichiararsi al Congresso e dire quanto sono pagate e da chi.
A Bruxelles, c'è solo un registro «volontario», che è una presa in giro, mentre dieci-quindicimila lobbisti si interfacciano ogni giorno con la Commissione europea e con gli euro-parlamentari.
Difendono il cibo spazzatura, le coltivazioni geneticamente modificate, prodotti nocivi come il tabacco, sostanze chimiche pericolose o farmaceutici rischiosi, difendono i maggiori responsabili delle emissioni di gas a effetto serra e le grandi banche.
Meno conosciute delle lobby favorevoli a singole imprese transnazionali, ma in crescita a livelli di comparto industriale sono «istituti», «fondazioni» o «consigli», spesso con sede a Washington DC, che difendono anche l'alcool, tabacco, cibo spazzatura, prodotti chimici, gas serra, ecc, ma con un approccio diverso.
Essi impiegano esperti influenzati per scrivere articoli che creino dubbi nella opinione pubblica anche in merito a fatti scientificamente assodati; creano falsi «comitati» o gruppi di «cittadini» finalizzati a difendere i loro prodotti e a sostenere che la «libertà di scelta» del consumatore viene limitata dalla invadenza di chi vuole prendere le decisioni al posto dei singoli.
Tornando su Bruxelles, decine di «comitati di esperti» formate da personale Tnc, praticamente prive di partecipazione da parte dei cittadini o delle Ong, preparano regolamenti dettagliati in ogni possibile settore.
Dalla metà degli anni 1990, le più grandi compagnie americane dei settori bancario, pensionistico, assicurativo e di revisione contabile hanno unito le forze e, impiegando tremila persone, hanno speso cinque miliardi dollari per sbarazzarsi di tutte le leggi del New Deal, approvate sotto l'amministrazione Roosevelt negli anni '30, che avevano protetto l'economia americana per sessant'anni. Attraverso questa azione collettiva di lobbying, hanno guadagnato totale libertà per trasferire attività in perdita dai loro bilanci, verso istituti-ombra, non controllati.
Queste compagnie hanno potuto immettere sul mercato e scambiare centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici «derivati», come i pacchetti di mutui sub-prime, senza alcuna regolamentazione.
Poco è stato fatto dopo la caduta di Lehman Brothers per regolamentare nuovamente la finanza e nel frattempo, il commercio dei derivati ha raggiunto la cifra di $ 2.300.000.000.000 al giorno, un terzo in più di sei anni fa.
Tutti noi conosciamo i risultati delle attività di lobby finanziaria: la crisi del 2007-2008, in cui siamo ancora invischiati.
Ci sono poi organismi quali l'International Accounting Standards Board, sicuramente sconosciuto al 99 per cento della popolazione europea.
Quando l'Ue si è confrontata con l'allargamento a ventisette e con l'incubo di ventisette diversi mercati azionari, con diversi insiemi di regole e norme contabili, ha chiesto supporto a un gruppo ad hoc di consulenti provenienti dalle quattro maggiori società mondiali di revisione contabile.
Nel corso degli anni successivi, questo gruppo è stato silenziosamente trasformato in un organismo ufficiale, lo Iasb, ancora formato dagli esperti delle quattro grandi società, ma che adesso sta elaborando regolamenti per sessantasei paesi membri, tra cui l'intera Europa.
Lo Iasb è diventato ufficiale grazie agli sforzi di un Commissario Ue non eletto dai cittadini, Charlie MacCreevy, un neoliberista irlandese, egli stesso un esperto contabile, senza alcun controllo parlamentare. Per chi fosse interessato a saperlo, è stato detto che l'agenzia era «puramente tecnica».
Gli evasori competenti
Fino a quando non potremo chiedere alle imprese di adottare bilanci dettagliati per paese, continueranno a pagare - abbastanza legalmente - pochissime tasse nella maggior parte dei paesi in cui hanno attività.
Le aziende possono collocare i loro profitti in paesi con bassa o nessuna tassazione e le loro perdite in quelli ad alta fiscalità.
Per tassare in maniera efficace, le autorità fiscali hanno bisogno di sapere quali vendite, profitti e imposte sono effettivamente di competenza di ciascuna giurisdizione.
Oggi questo non è possibile, perché le regole sono fatte su misura per evitare la trasparenza.
Piccole imprese nazionali o famigliari con un indirizzo nazionale fisso, continueranno a sopportare la maggior parte del carico fiscale o a fare a meno dei servizi pubblici che una tassazione equa delle Tnc avrebbe potuto garantire.
Ho contattato lo Iasb per chiedere se una rendicontazione dettagliata per paese fosse nella loro agenda, e mi hanno cortesemente risposto che non lo era. Non c'è di che stupirsi.
Le quattro grandi agenzie i cui amici e colleghi fanno le regole, perderebbero milioni di fatturato, se non potessero più consigliare i loro clienti sul modo migliore per evitare la tassazione.
Nel luglio di quest'anno, sono iniziati i negoziati della Transatlantic Trade and Investment Partnership, o Ttip.
Questo accordi definiranno le norme che regolamenteranno la metà del Pil mondiale - gli Stati Uniti e l'Europa - e sono in preparazione dal 1995, quando le più grandi multinazionali da entrambi i lati dell'oceano si sono riunite nel Trans-Atlantic Business Dialogue per lavorare su tutti gli aspetti delle pratiche regolamentari, settore per settore.
I negoziatori stanno ora lavorando sulla bozza di progetto che il Tabd ha redatto.
Il commercio transatlantico ammonta a circa mille e cinquecento miliardi dollari all'anno, ma c'è poco da negoziare sull'aspetto delle tariffe, questi pesano media solo un tre per cento.
L'obiettivo è invece di privatizzare il maggior numero possibile di servizi pubblici ed eliminare le barriere non tariffarie, come per esempio i regolamenti e ciò che le multinazionali chiamano «ostacoli commerciali».
Al centro di tutti i trattati commerciali e di investimento oggi è la clausola che consente alle aziende di citare in giudizio i governi sovrani, se la società ritiene che un provvedimento del governo danneggi il suo presente, o anche i suoi profitti «attesi».
Il Trans-Atlantic Business Dialogue ha recentemente cambiato il suo nome in Consiglio economico transatlantico e descrive il suo lavoro come volto a «ridurre i regolamenti per potenziare il settore privato».
Si definisce un «organo politico» e il suo direttore afferma con orgoglio che è la prima volta che «il settore privato ha ottenuto un ruolo ufficiale nella determinazione della politica pubblica Ue / Usa».
Con questo trattato, se approvato secondo le intenzioni delle Tnc, includerà modifiche ai regolamenti riguardanti la sicurezza dei prodotti alimentari, prodotti farmaceutici, prodotti chimici, ecc; stabilità finanziaria (libertà per gli investitori di trasferire i loro capitali senza preavviso); nuove proposte fiscali, come la finanziaria tassa sulle transazioni; sicurezza ambientale (ad esempio il diritto di imporre norme più rigorose sulle industrie inquinanti) e così via.
I governi non potranno privilegiare operatori nazionali in rapporto a quelli stranieri per i contratti di appalto (una parte significativa di ogni economia moderna).
Il processo negoziale si terrà a porte chiuse, senza il controllo dei cittadini.
Democrazia a rischio
Come se non bastasse l'infiltrazione nei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario da parte delle imprese transnazionali, anche le Nazioni Unite sono ormai un obiettivo delle Tnc.
Alla conferenza Rio + 20 sull'ambiente delle Nazioni Unite nel 2012, le imprese transnazionali formavano la più grande delegazione e misero in scena il più grande evento, noto come «Business Day».
Il rappresentante permanente della Camera di commercio internazionale presso le Nazioni Unite dichiarò tra fragorosi applausi, «Siamo (...) la più grande delegazione d'affari che mai abbia partecipato a una conferenza delle Nazioni Unite... Le imprese hanno bisogno di prendere la guida e noi lo stiamo facendo».
Le multinazionali chiedono ora un ruolo formale nei negoziati sul clima delle Nazioni Unite.
Non sono solo le dimensioni, gli enormi profitti e i patrimoni che rendono le Tnc pericolose per le democrazie.
È anche la loro concentrazione, la loro capacità di influenzare, spesso dall'interno, i governi e la loro abilità a operare come una vera e propria classe sociale che difende i propri interessi economici, anche contro il bene comune.
Condividono linguaggi, ideologie e obiettivi che riguardano ciascuno di noi. Se i cittadini che hanno a cuore la democrazia le ignorano, lo fanno a loro rischio.
* Susan George, sociologa, politologa e scrittrice franco-statunitense, dirige il Transnational institute di Amsterdam. Ha fatto parte del comitato direttivo di Greenpeace International e di Corporate Europe Observatory. Il suo ultimo libro èCome vincere la guerra di classe (Feltrinelli).
In queste ore convulse che mostrano un'Europa in preda a schock nervoso, ma anche prima, in tutte le riflessioni degli analisti, dei commentatori, degli editorialisti, degli economisti, che si occupano della politica planetaria, o di quella a livello nazionale, si evita sempre di fare riferimento a chi detiene veramente il potere a livello internazionale e che condiziona da sempre molti avvenimenti che noi tranquillamente trascuriamo.
Ignoranza???
Paura???
Sottomissione???
Convenienza???
Decidete voi. Ma non trascurate mai di non tenerli in considerazione.
Perché loro ci sono anche se operano evidentemente nell’ombra o per interposta persona.
Da MICROMEGA 4/2016
Poteri occulti. L'intero pianeta è sotto scacco
di Susan George *, da controlacrisi.org
Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la sicurezza finanziaria vostra e quella della vostra famiglia, le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, vi è un importante cambiamento politico di cui dovete essere consapevoli.
Io chiamo questo cambiamento la «ascesa di autorità illegittima».
Il governo di rappresentanti chiaramente identificabili e democraticamente eletti viene gradualmente soppiantato da un nuovo governo ombra in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo di più in più decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana.
Essi possono agire attraverso le lobby o oscuri «comitati di esperti»; attraverso organismi ad hoc che ottengono un riconoscimento ufficiale; talvolta, attraverso accordi negoziati in segreto e preparati con cura da executive delle imprese al più alto livello.
Lavorano a livello nazionale, europeo e sovranazionale, ma anche all'interno delle stesse Nazioni Unite, da una dozzina di anni nuovo campo di azione per le attività delle corporate.
Non si tratta di una sorta di teoria paranoica della cospirazione: i segni sono tutti intorno a noi, ma per il cittadino medio sono difficili da riconoscere.
Noi continuiamo a credere, almeno in Europa, di vivere in un sistema democratico.
Tecniche da mercenario
Cominciamo con le lobby ordinarie, attori famigliari ai margini dei governi per un paio di secoli.
Hanno migliorato le loro tecniche, sono pagate più che mai e ottengono risultati.
Negli Stati Uniti, devono almeno dichiararsi al Congresso e dire quanto sono pagate e da chi.
A Bruxelles, c'è solo un registro «volontario», che è una presa in giro, mentre dieci-quindicimila lobbisti si interfacciano ogni giorno con la Commissione europea e con gli euro-parlamentari.
Difendono il cibo spazzatura, le coltivazioni geneticamente modificate, prodotti nocivi come il tabacco, sostanze chimiche pericolose o farmaceutici rischiosi, difendono i maggiori responsabili delle emissioni di gas a effetto serra e le grandi banche.
Meno conosciute delle lobby favorevoli a singole imprese transnazionali, ma in crescita a livelli di comparto industriale sono «istituti», «fondazioni» o «consigli», spesso con sede a Washington DC, che difendono anche l'alcool, tabacco, cibo spazzatura, prodotti chimici, gas serra, ecc, ma con un approccio diverso.
Essi impiegano esperti influenzati per scrivere articoli che creino dubbi nella opinione pubblica anche in merito a fatti scientificamente assodati; creano falsi «comitati» o gruppi di «cittadini» finalizzati a difendere i loro prodotti e a sostenere che la «libertà di scelta» del consumatore viene limitata dalla invadenza di chi vuole prendere le decisioni al posto dei singoli.
Tornando su Bruxelles, decine di «comitati di esperti» formate da personale Tnc, praticamente prive di partecipazione da parte dei cittadini o delle Ong, preparano regolamenti dettagliati in ogni possibile settore.
Dalla metà degli anni 1990, le più grandi compagnie americane dei settori bancario, pensionistico, assicurativo e di revisione contabile hanno unito le forze e, impiegando tremila persone, hanno speso cinque miliardi dollari per sbarazzarsi di tutte le leggi del New Deal, approvate sotto l'amministrazione Roosevelt negli anni '30, che avevano protetto l'economia americana per sessant'anni. Attraverso questa azione collettiva di lobbying, hanno guadagnato totale libertà per trasferire attività in perdita dai loro bilanci, verso istituti-ombra, non controllati.
Queste compagnie hanno potuto immettere sul mercato e scambiare centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici «derivati», come i pacchetti di mutui sub-prime, senza alcuna regolamentazione.
Poco è stato fatto dopo la caduta di Lehman Brothers per regolamentare nuovamente la finanza e nel frattempo, il commercio dei derivati ha raggiunto la cifra di $ 2.300.000.000.000 al giorno, un terzo in più di sei anni fa.
Tutti noi conosciamo i risultati delle attività di lobby finanziaria: la crisi del 2007-2008, in cui siamo ancora invischiati.
Ci sono poi organismi quali l'International Accounting Standards Board, sicuramente sconosciuto al 99 per cento della popolazione europea.
Quando l'Ue si è confrontata con l'allargamento a ventisette e con l'incubo di ventisette diversi mercati azionari, con diversi insiemi di regole e norme contabili, ha chiesto supporto a un gruppo ad hoc di consulenti provenienti dalle quattro maggiori società mondiali di revisione contabile.
Nel corso degli anni successivi, questo gruppo è stato silenziosamente trasformato in un organismo ufficiale, lo Iasb, ancora formato dagli esperti delle quattro grandi società, ma che adesso sta elaborando regolamenti per sessantasei paesi membri, tra cui l'intera Europa.
Lo Iasb è diventato ufficiale grazie agli sforzi di un Commissario Ue non eletto dai cittadini, Charlie MacCreevy, un neoliberista irlandese, egli stesso un esperto contabile, senza alcun controllo parlamentare. Per chi fosse interessato a saperlo, è stato detto che l'agenzia era «puramente tecnica».
Gli evasori competenti
Fino a quando non potremo chiedere alle imprese di adottare bilanci dettagliati per paese, continueranno a pagare - abbastanza legalmente - pochissime tasse nella maggior parte dei paesi in cui hanno attività.
Le aziende possono collocare i loro profitti in paesi con bassa o nessuna tassazione e le loro perdite in quelli ad alta fiscalità.
Per tassare in maniera efficace, le autorità fiscali hanno bisogno di sapere quali vendite, profitti e imposte sono effettivamente di competenza di ciascuna giurisdizione.
Oggi questo non è possibile, perché le regole sono fatte su misura per evitare la trasparenza.
Piccole imprese nazionali o famigliari con un indirizzo nazionale fisso, continueranno a sopportare la maggior parte del carico fiscale o a fare a meno dei servizi pubblici che una tassazione equa delle Tnc avrebbe potuto garantire.
Ho contattato lo Iasb per chiedere se una rendicontazione dettagliata per paese fosse nella loro agenda, e mi hanno cortesemente risposto che non lo era. Non c'è di che stupirsi.
Le quattro grandi agenzie i cui amici e colleghi fanno le regole, perderebbero milioni di fatturato, se non potessero più consigliare i loro clienti sul modo migliore per evitare la tassazione.
Nel luglio di quest'anno, sono iniziati i negoziati della Transatlantic Trade and Investment Partnership, o Ttip.
Questo accordi definiranno le norme che regolamenteranno la metà del Pil mondiale - gli Stati Uniti e l'Europa - e sono in preparazione dal 1995, quando le più grandi multinazionali da entrambi i lati dell'oceano si sono riunite nel Trans-Atlantic Business Dialogue per lavorare su tutti gli aspetti delle pratiche regolamentari, settore per settore.
I negoziatori stanno ora lavorando sulla bozza di progetto che il Tabd ha redatto.
Il commercio transatlantico ammonta a circa mille e cinquecento miliardi dollari all'anno, ma c'è poco da negoziare sull'aspetto delle tariffe, questi pesano media solo un tre per cento.
L'obiettivo è invece di privatizzare il maggior numero possibile di servizi pubblici ed eliminare le barriere non tariffarie, come per esempio i regolamenti e ciò che le multinazionali chiamano «ostacoli commerciali».
Al centro di tutti i trattati commerciali e di investimento oggi è la clausola che consente alle aziende di citare in giudizio i governi sovrani, se la società ritiene che un provvedimento del governo danneggi il suo presente, o anche i suoi profitti «attesi».
Il Trans-Atlantic Business Dialogue ha recentemente cambiato il suo nome in Consiglio economico transatlantico e descrive il suo lavoro come volto a «ridurre i regolamenti per potenziare il settore privato».
Si definisce un «organo politico» e il suo direttore afferma con orgoglio che è la prima volta che «il settore privato ha ottenuto un ruolo ufficiale nella determinazione della politica pubblica Ue / Usa».
Con questo trattato, se approvato secondo le intenzioni delle Tnc, includerà modifiche ai regolamenti riguardanti la sicurezza dei prodotti alimentari, prodotti farmaceutici, prodotti chimici, ecc; stabilità finanziaria (libertà per gli investitori di trasferire i loro capitali senza preavviso); nuove proposte fiscali, come la finanziaria tassa sulle transazioni; sicurezza ambientale (ad esempio il diritto di imporre norme più rigorose sulle industrie inquinanti) e così via.
I governi non potranno privilegiare operatori nazionali in rapporto a quelli stranieri per i contratti di appalto (una parte significativa di ogni economia moderna).
Il processo negoziale si terrà a porte chiuse, senza il controllo dei cittadini.
Democrazia a rischio
Come se non bastasse l'infiltrazione nei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario da parte delle imprese transnazionali, anche le Nazioni Unite sono ormai un obiettivo delle Tnc.
Alla conferenza Rio + 20 sull'ambiente delle Nazioni Unite nel 2012, le imprese transnazionali formavano la più grande delegazione e misero in scena il più grande evento, noto come «Business Day».
Il rappresentante permanente della Camera di commercio internazionale presso le Nazioni Unite dichiarò tra fragorosi applausi, «Siamo (...) la più grande delegazione d'affari che mai abbia partecipato a una conferenza delle Nazioni Unite... Le imprese hanno bisogno di prendere la guida e noi lo stiamo facendo».
Le multinazionali chiedono ora un ruolo formale nei negoziati sul clima delle Nazioni Unite.
Non sono solo le dimensioni, gli enormi profitti e i patrimoni che rendono le Tnc pericolose per le democrazie.
È anche la loro concentrazione, la loro capacità di influenzare, spesso dall'interno, i governi e la loro abilità a operare come una vera e propria classe sociale che difende i propri interessi economici, anche contro il bene comune.
Condividono linguaggi, ideologie e obiettivi che riguardano ciascuno di noi. Se i cittadini che hanno a cuore la democrazia le ignorano, lo fanno a loro rischio.
* Susan George, sociologa, politologa e scrittrice franco-statunitense, dirige il Transnational institute di Amsterdam. Ha fatto parte del comitato direttivo di Greenpeace International e di Corporate Europe Observatory. Il suo ultimo libro èCome vincere la guerra di classe (Feltrinelli).
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Re: La crisi dell'Europa
L'AUTORE DEL PIANO D'INVASIONE DELL'EUROPA, IN CONCORSO CON LA CIA, SI PRONUNCIA SUL BREXIT
George Soros: "La disgregazione dell'Ue è irreversibile"
Il finanziere e filantropo George Soros ritiene che il voto britannico sulla Brexit rende "la disgregazione dell'Unione europea praticamente irreversibile"
Claudio Torre - Dom, 26/06/2016 - 08:02
commenta
Il finanziere e filantropo George Soros ritiene che il voto britannico sulla Brexit rende "la disgregazione dell'Unione europea praticamente irreversibile".
Soros che aveva avvertito del tracollo finanziario se il Regno Unito fosse uscito dall'Ue, ha ribadito che gli effetti del voto danneggeranno anche il Regno Unito stesso. "Il Regno Unito alla fine può o non può essere relativamente migliore rispetto ad altri Paese, ma la sua economia e la gente soffriranno in modo significativo nel medio termine", ha scritto in un commento sul sito Project Syndicate, in cui in cui sottolinea che "la sterlina è precipitata al suo valore più basso da oltre tre decenni, immediatamente dopo il voto, e i mercati finanziari in tutto il mondo probabilmente rimarranno instabili finche' viene negoziato il lungo e complicato processo per il divorzio politico ed economico".
"Ora lo scenario catastrofico che molti temevano si è materializzato, rendendo la disintegrazione dell'Ue praticamente irreversibile", ha scritto Soros. "I mercati finanziari di tutto il mondo rischiano di rimanere in fibrillazione durante il processo lungo e complicato del divorzio politico ed economico da parte dell'Ue". Ma non dobbiamo arrenderci", esorta infine, sostenendo che "dopo la Brexit tutti quelli di noi che credono nei valori e principi per cui la Ue è stata creata, si devono unire per salvarla, ricostruendola a fondo. Sono convinto che quando le conseguenze della Brexit si svilupperanno nelle settimane e nei mesi a venire, sempre piu' persone si uniranno a noi".
George Soros: "La disgregazione dell'Ue è irreversibile"
Il finanziere e filantropo George Soros ritiene che il voto britannico sulla Brexit rende "la disgregazione dell'Unione europea praticamente irreversibile"
Claudio Torre - Dom, 26/06/2016 - 08:02
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Il finanziere e filantropo George Soros ritiene che il voto britannico sulla Brexit rende "la disgregazione dell'Unione europea praticamente irreversibile".
Soros che aveva avvertito del tracollo finanziario se il Regno Unito fosse uscito dall'Ue, ha ribadito che gli effetti del voto danneggeranno anche il Regno Unito stesso. "Il Regno Unito alla fine può o non può essere relativamente migliore rispetto ad altri Paese, ma la sua economia e la gente soffriranno in modo significativo nel medio termine", ha scritto in un commento sul sito Project Syndicate, in cui in cui sottolinea che "la sterlina è precipitata al suo valore più basso da oltre tre decenni, immediatamente dopo il voto, e i mercati finanziari in tutto il mondo probabilmente rimarranno instabili finche' viene negoziato il lungo e complicato processo per il divorzio politico ed economico".
"Ora lo scenario catastrofico che molti temevano si è materializzato, rendendo la disintegrazione dell'Ue praticamente irreversibile", ha scritto Soros. "I mercati finanziari di tutto il mondo rischiano di rimanere in fibrillazione durante il processo lungo e complicato del divorzio politico ed economico da parte dell'Ue". Ma non dobbiamo arrenderci", esorta infine, sostenendo che "dopo la Brexit tutti quelli di noi che credono nei valori e principi per cui la Ue è stata creata, si devono unire per salvarla, ricostruendola a fondo. Sono convinto che quando le conseguenze della Brexit si svilupperanno nelle settimane e nei mesi a venire, sempre piu' persone si uniranno a noi".
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Re: La crisi dell'Europa
ANCORA SULLA PLAZA DE SOROS.
Brexit, Soros: “Disintegrazione della Ue ora è irreversibile. Italia vulnerabile a una crisi bancaria conclamata”
Economia
Il finanziere 85enne, protagonista nel 1992 della speculazione contro lira e sterlina, parla di "scenario catastrofico" e prevede che per l'Unione "le conseguenze per l'economia reale saranno comparabili solo alla crisi finanziaria del 2007-2008". Quanto alla Penisola, questo quadro "potrebbe portare al potere il movimento populista 5 Stelle già l'anno prossimo"
di F. Q. | 26 giugno 2016
COMMENTI (132)
L’aveva detto, pochi giorni prima del voto sulla Brexit, in un editoriale pubblicato sul Guardian: “E’ ragionevole assumere, viste le aspettative dei mercati, che, a seguito di un voto per il ‘Leave’, la sterlina crollerebbe precipitosamente scendendo al di sotto di $1,15.
Se la sterlina scendesse a tale livello finirebbe con l’avere lo stesso valore dell’euro: un metodo di ‘far parte dell’euro’ che nessuno, nel Regno Unito, vorrebbe”.
Così George Soros, finanziere americano di origini ungheresi protagonista nell’estate 1992 di un leggendario raid speculativo contro la lira e la stessa sterlina, aveva messo in guardia gli elettori britannici sui rischi di un eventuale voto a favore dell’uscita dall’Ue.
Ora, dopo che gli elettori britannici si sono espressi per la exit, lo speculatore che ha un patrimonio personale valutato in 14 miliardi di dollari e alla seconda vita da filantropo continua ad affiancare la gestione di un fondo da 30 miliardi di dollari ha buon gioco a sostenere che “lo scenario catastrofico che molti temevano si è materializzato, rendendo la disintegrazione dell’Ue praticamente irreversibile“. Il suo commento pubblicato online da Project Syndicate continua notando notando che “la sterlina è precipitata al suo valore più basso da oltre tre decenni, immediatamente dopo il voto” e traendone la conclusione che “i mercati finanziari di tutto il mondo rischiano di rimanere in fibrillazione durante il processo lungo e complicato del divorzio politico ed economico da parte dell’Ue.
Le conseguenze per l’economia reale saranno comparabili solo alla crisi finanziaria del 2007-2008″.
I primi effetti negativi del referendum, per Soros, si faranno sentire ovviamente proprio in Gran Bretagna: “La sua economia e la sua gente soffriranno significativamente nel breve e medio termine”.
Ma l’85enne che 24 anni fa fece uscire la valuta italiana e quella inglese dal Sistema monetario europeo concentra poi l’analisi anche sull’Italia sottolineando che “la caduta del 10% del mercato azionario in seguito al voto sulla Brexit segnala chiaramente la vulnerabilità del Paese a una crisi bancaria conclamata che potrebbe portare al potere il movimento populista 5 Stelle già l’anno prossimo”.
Si vedrà nei prossimi mesi se le previsioni di Soros si riveleranno esatte, ancora una volta.
Il finanziere lascia comunque uno spiraglio di speranza esortando a “non arrendersi.
Dopo la Brexit tutti quelli di noi che credono nei valori e principi per cui la Ue è stata creata, si devono unire per salvarla, ricostruendola a fondo.
Sono convinto che quando le conseguenze della Brexit si svilupperanno nelle settimane e nei mesi a venire, sempre più persone si uniranno a noi”.
Brexit, Soros: “Disintegrazione della Ue ora è irreversibile. Italia vulnerabile a una crisi bancaria conclamata”
Economia
Il finanziere 85enne, protagonista nel 1992 della speculazione contro lira e sterlina, parla di "scenario catastrofico" e prevede che per l'Unione "le conseguenze per l'economia reale saranno comparabili solo alla crisi finanziaria del 2007-2008". Quanto alla Penisola, questo quadro "potrebbe portare al potere il movimento populista 5 Stelle già l'anno prossimo"
di F. Q. | 26 giugno 2016
COMMENTI (132)
L’aveva detto, pochi giorni prima del voto sulla Brexit, in un editoriale pubblicato sul Guardian: “E’ ragionevole assumere, viste le aspettative dei mercati, che, a seguito di un voto per il ‘Leave’, la sterlina crollerebbe precipitosamente scendendo al di sotto di $1,15.
Se la sterlina scendesse a tale livello finirebbe con l’avere lo stesso valore dell’euro: un metodo di ‘far parte dell’euro’ che nessuno, nel Regno Unito, vorrebbe”.
Così George Soros, finanziere americano di origini ungheresi protagonista nell’estate 1992 di un leggendario raid speculativo contro la lira e la stessa sterlina, aveva messo in guardia gli elettori britannici sui rischi di un eventuale voto a favore dell’uscita dall’Ue.
Ora, dopo che gli elettori britannici si sono espressi per la exit, lo speculatore che ha un patrimonio personale valutato in 14 miliardi di dollari e alla seconda vita da filantropo continua ad affiancare la gestione di un fondo da 30 miliardi di dollari ha buon gioco a sostenere che “lo scenario catastrofico che molti temevano si è materializzato, rendendo la disintegrazione dell’Ue praticamente irreversibile“. Il suo commento pubblicato online da Project Syndicate continua notando notando che “la sterlina è precipitata al suo valore più basso da oltre tre decenni, immediatamente dopo il voto” e traendone la conclusione che “i mercati finanziari di tutto il mondo rischiano di rimanere in fibrillazione durante il processo lungo e complicato del divorzio politico ed economico da parte dell’Ue.
Le conseguenze per l’economia reale saranno comparabili solo alla crisi finanziaria del 2007-2008″.
I primi effetti negativi del referendum, per Soros, si faranno sentire ovviamente proprio in Gran Bretagna: “La sua economia e la sua gente soffriranno significativamente nel breve e medio termine”.
Ma l’85enne che 24 anni fa fece uscire la valuta italiana e quella inglese dal Sistema monetario europeo concentra poi l’analisi anche sull’Italia sottolineando che “la caduta del 10% del mercato azionario in seguito al voto sulla Brexit segnala chiaramente la vulnerabilità del Paese a una crisi bancaria conclamata che potrebbe portare al potere il movimento populista 5 Stelle già l’anno prossimo”.
Si vedrà nei prossimi mesi se le previsioni di Soros si riveleranno esatte, ancora una volta.
Il finanziere lascia comunque uno spiraglio di speranza esortando a “non arrendersi.
Dopo la Brexit tutti quelli di noi che credono nei valori e principi per cui la Ue è stata creata, si devono unire per salvarla, ricostruendola a fondo.
Sono convinto che quando le conseguenze della Brexit si svilupperanno nelle settimane e nei mesi a venire, sempre più persone si uniranno a noi”.
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Re: La crisi dell'Europa
LA VOX POPULI
Maciste2011 • 18 minuti fa
Proporzioni semplici:
La lupara sta alla Mafia come Soros sta alla CIA.
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Vittorio Agabio • 25 minuti fa
A Soros piacerebbe tanto che andasse come la vede lui... ma ci sono milioni di persone che ne soffrirebbero... quindi io spero che abbia torto.
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Kibuz • 39 minuti fa
Quindi, se ci sarà un ripensamento o una marcia indietro dell'Europa verso la Gran Bretagna, vincerebbe Renzi.... bel dilemma!
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Cico Cichetti • 43 minuti fa
Auguro a soros tutta la morte di questo mondo
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2Enz • 44 minuti fa
Tra qualche anno personaggi come Soros saranno considerati PERICOLOSI CRIMINALI, dobbiamo spingere affinchè i parlamenti avviano gli iter per produrre le leggi necessarie alle magistrature affinchè queste abbiano gli strumenti per far PIAZZA PULITA, nel frattempo possiamo sperare in qualche sentenza innovativa ( anche se disgustoso vedasi esempio nell'ambito delle adozioni) di qualche magistrato ...... non allineato .....
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Giacinto Auriti • un'ora fa
Nessun debunker a favore di Soros? Dove siete spartani? Difendere questo criminale nazi-sionista e' troppo anche per voi eh? Una volta tanto vi capisco ...
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Maciste2011 Giacinto Auriti • 17 minuti fa
E' domenica ma non so cosa prescrive il Talmud
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Giacinto Auriti • un'ora fa
Soros deve essere arrestato... In Malayisia ha gia una condanna a morte che lo aspetta...
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Maciste2011 • 18 minuti fa
Proporzioni semplici:
La lupara sta alla Mafia come Soros sta alla CIA.
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Vittorio Agabio • 25 minuti fa
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Quindi, se ci sarà un ripensamento o una marcia indietro dell'Europa verso la Gran Bretagna, vincerebbe Renzi.... bel dilemma!
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Cico Cichetti • 43 minuti fa
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Tra qualche anno personaggi come Soros saranno considerati PERICOLOSI CRIMINALI, dobbiamo spingere affinchè i parlamenti avviano gli iter per produrre le leggi necessarie alle magistrature affinchè queste abbiano gli strumenti per far PIAZZA PULITA, nel frattempo possiamo sperare in qualche sentenza innovativa ( anche se disgustoso vedasi esempio nell'ambito delle adozioni) di qualche magistrato ...... non allineato .....
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Giacinto Auriti • un'ora fa
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Maciste2011 Giacinto Auriti • 17 minuti fa
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Soros deve essere arrestato... In Malayisia ha gia una condanna a morte che lo aspetta...
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