VERSO QUALE FUTURO?
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
SBORNIA DA CONFUSIONE
In una fase come questa regna obbligatoriamente la confusione.
Finita la meta bipolare del referendum, ognuno torna a tirare la coperta dalla propria pare.
Renzi si dimette e apre la crisi Scontro totale con il Quirinale
La proposta di un governissimo impossibile paralizza il Paese. Ma c'è chi spinge per un clamoroso reincarico
Adalberto Signore - Gio, 08/12/2016 - 08:01
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Sarcasmo, autoreferenzialità, in alcuni passaggi forse anche un pizzico di arroganza. L'intervento di Matteo Renzi davanti alla direzione del Pd è a tratti surreale, più vicino ad un comizio da festa dell'Unità che all'analisi di un voto che ha portato ad una crisi di governo di difficilissima soluzione.
Il premier, però, preferisce non entrare nel merito del risultato referendario e si limita ad una sorta di angelus di circostanza in cui rivendica i successi ottenuti dal governo. Una scena a tratti fin troppo macchiettistica, al punto da alimentare il dubbio che il leader del Pd stia seriamente mancando di lucidità. L'impressione ce l'hanno molti dei presenti in sala durante la direzione che si tiene al Nazareno. E non solo, visto che anche al Quirinale pare siano rimasti piuttosto colpiti dai toni e dai modi di Renzi: dalle ironie sul torneo di Playstation da fare con i figli («con loro spero di avere più fortuna di quanta ne ho avuta con qualcun altro...») fino alla proposta di un governo sostenuto da tutti i partiti come unica alternativa alle elezioni anticipate.
D'altra parte, anche le confidenze di giornata di alcuni renziani di ferro raccontano Renzi come un uomo tormentato, asserragliato nel suo studio di Palazzo Chigi per tutta la mattinata, tanto da rifiutare di rispondere alle telefonate anche dei suoi uomini più fidati. E perfino il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti pare abbia faticato a parlargli almeno fino ad ora di pranzo. Renzi, insomma, ha accusato la botta e ora minaccia di fare fuoco e fiamme. Lo ha fatto anche con Sergio Mattarella che, pur con una discrezione che con la presidenza Napolitano si era persa, pare abbia risposto per le rime. Tra i due, infatti, i rapporti sono ai minimi termini. Da una parte Renzi teme lo stretto feeling tra il capo dello Stato e Dario Franceschini, che da settimane mobilita le sue truppe dentro il Pd in vista di una resa dei conti interna. Dall'altra Mattarella non ha affatto gradito i ripetuti sgarbi istituzionali del premier dimissionario. Da quello di domenica notte, quando da Palazzo Chigi ha anticipato le dimissioni che avrebbe invece dovuto comunicare direttamente al Quirinale, fino a quello delle consultazioni. Che Renzi ha infatti deciso di snobbare. Per il Pd da Matarella andranno il vicesegretario Lorenzo Guerini, il presidente Matteo Orfini e i due capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda. Renzi, che pure del Partito democratico è il segretario, non ci sarà. Un vero e proprio schiaffo al Colle, dettato anche dalla necessità di tenersi le mani libere.
Un clima da braccio di ferro, insomma. Con il premier dimissionario che punta alle elezioni al più presto, subito dopo la sentenza della Corte costituzionale sull'Italicum, e il capo dello Stato che vorrebbe invece privilegiare la stabilità. Ed è per questo che Renzi rilancia sull'ipotesi di un governo con dentro tutte le forze politiche, perché sa che la proposta è sostanzialmente destinata a cadere nel vuoto. Se questa resterà la posizione ufficiale del Pd, sarà davvero difficile per Mattarella trovare una quadra, visto che Cinque stelle e Lega certamente non si smuoveranno dal chiedere il voto subito. Una partita aperta, insomma. Che si è iniziata a giocare davvero da ieri sera, dopo che Renzi è salito al Quirinale per dimettersi, dimissioni che il presidente della Repubblica ha accolto «con riserva». Ora la palla passa alle consultazioni che si apriranno oggi alle 18 con i presidenti di Senato e Camera, Piero Grasso e Laura Boldrini, seguiti dall'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, uno che a Palazzo Giustiniani le sue personali consultazioni le ha già iniziate da due giorni. Al momento, gli scenari più gettonati sono soprattutto due. Il primo è quello di un Renzi bis che porti il Paese al voto, ma l'ex sindaco di Firenze dovrebbe accettare di «sporcarsi le mani» tornando a Palazzo Chigi. Il secondo è quello di un governo ponte, magari allargato a chi ci sta (e forse è per questo che ieri Renzi ha pensato bene di rifilare senza alcuna ragione apparente due affondi contro Silvio Berlusconi). Potrebbe essere un esecutivo istituzionale, anche se tra Mattarella e Grasso, entrambi siciliani, pare non ci sia per così dire molta sintonia. O un governo politico, guidato magari da un ministro uscente, e i nomi che girano sono quelli di Pier Carlo Padoan o Paolo Gentiloni.
In una fase come questa regna obbligatoriamente la confusione.
Finita la meta bipolare del referendum, ognuno torna a tirare la coperta dalla propria pare.
Renzi si dimette e apre la crisi Scontro totale con il Quirinale
La proposta di un governissimo impossibile paralizza il Paese. Ma c'è chi spinge per un clamoroso reincarico
Adalberto Signore - Gio, 08/12/2016 - 08:01
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Sarcasmo, autoreferenzialità, in alcuni passaggi forse anche un pizzico di arroganza. L'intervento di Matteo Renzi davanti alla direzione del Pd è a tratti surreale, più vicino ad un comizio da festa dell'Unità che all'analisi di un voto che ha portato ad una crisi di governo di difficilissima soluzione.
Il premier, però, preferisce non entrare nel merito del risultato referendario e si limita ad una sorta di angelus di circostanza in cui rivendica i successi ottenuti dal governo. Una scena a tratti fin troppo macchiettistica, al punto da alimentare il dubbio che il leader del Pd stia seriamente mancando di lucidità. L'impressione ce l'hanno molti dei presenti in sala durante la direzione che si tiene al Nazareno. E non solo, visto che anche al Quirinale pare siano rimasti piuttosto colpiti dai toni e dai modi di Renzi: dalle ironie sul torneo di Playstation da fare con i figli («con loro spero di avere più fortuna di quanta ne ho avuta con qualcun altro...») fino alla proposta di un governo sostenuto da tutti i partiti come unica alternativa alle elezioni anticipate.
D'altra parte, anche le confidenze di giornata di alcuni renziani di ferro raccontano Renzi come un uomo tormentato, asserragliato nel suo studio di Palazzo Chigi per tutta la mattinata, tanto da rifiutare di rispondere alle telefonate anche dei suoi uomini più fidati. E perfino il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti pare abbia faticato a parlargli almeno fino ad ora di pranzo. Renzi, insomma, ha accusato la botta e ora minaccia di fare fuoco e fiamme. Lo ha fatto anche con Sergio Mattarella che, pur con una discrezione che con la presidenza Napolitano si era persa, pare abbia risposto per le rime. Tra i due, infatti, i rapporti sono ai minimi termini. Da una parte Renzi teme lo stretto feeling tra il capo dello Stato e Dario Franceschini, che da settimane mobilita le sue truppe dentro il Pd in vista di una resa dei conti interna. Dall'altra Mattarella non ha affatto gradito i ripetuti sgarbi istituzionali del premier dimissionario. Da quello di domenica notte, quando da Palazzo Chigi ha anticipato le dimissioni che avrebbe invece dovuto comunicare direttamente al Quirinale, fino a quello delle consultazioni. Che Renzi ha infatti deciso di snobbare. Per il Pd da Matarella andranno il vicesegretario Lorenzo Guerini, il presidente Matteo Orfini e i due capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda. Renzi, che pure del Partito democratico è il segretario, non ci sarà. Un vero e proprio schiaffo al Colle, dettato anche dalla necessità di tenersi le mani libere.
Un clima da braccio di ferro, insomma. Con il premier dimissionario che punta alle elezioni al più presto, subito dopo la sentenza della Corte costituzionale sull'Italicum, e il capo dello Stato che vorrebbe invece privilegiare la stabilità. Ed è per questo che Renzi rilancia sull'ipotesi di un governo con dentro tutte le forze politiche, perché sa che la proposta è sostanzialmente destinata a cadere nel vuoto. Se questa resterà la posizione ufficiale del Pd, sarà davvero difficile per Mattarella trovare una quadra, visto che Cinque stelle e Lega certamente non si smuoveranno dal chiedere il voto subito. Una partita aperta, insomma. Che si è iniziata a giocare davvero da ieri sera, dopo che Renzi è salito al Quirinale per dimettersi, dimissioni che il presidente della Repubblica ha accolto «con riserva». Ora la palla passa alle consultazioni che si apriranno oggi alle 18 con i presidenti di Senato e Camera, Piero Grasso e Laura Boldrini, seguiti dall'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, uno che a Palazzo Giustiniani le sue personali consultazioni le ha già iniziate da due giorni. Al momento, gli scenari più gettonati sono soprattutto due. Il primo è quello di un Renzi bis che porti il Paese al voto, ma l'ex sindaco di Firenze dovrebbe accettare di «sporcarsi le mani» tornando a Palazzo Chigi. Il secondo è quello di un governo ponte, magari allargato a chi ci sta (e forse è per questo che ieri Renzi ha pensato bene di rifilare senza alcuna ragione apparente due affondi contro Silvio Berlusconi). Potrebbe essere un esecutivo istituzionale, anche se tra Mattarella e Grasso, entrambi siciliani, pare non ci sia per così dire molta sintonia. O un governo politico, guidato magari da un ministro uscente, e i nomi che girano sono quelli di Pier Carlo Padoan o Paolo Gentiloni.
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
GLI ORFANI DEL DUCE SONO GIA' IN ASTINENZA DA POLTRONA
Politica
mercoledì 07/12/2016
Dimissioni Renzi, verso le elezioni? Pagnoncelli: “Quel 40% non è del premier. Dentro c’è tutto, pure chi non voterà mai Pd”
Il sondaggista: "Da dove può ripartire il premier? Dai voti dem, il 30% delle rilevazioni"
Dimissioni Renzi, verso le elezioni? Pagnoncelli: “Quel 40% non è del premier. Dentro c’è tutto, pure chi non voterà mai Pd”
di Gianluca Roselli | 7 dicembre 2016
Il 40,05% di Sì al referendum non sono voti di Matteo Renzi e nemmeno del Pd. Quindi non è da lì che il premier può ripartire come sostengono diversi esponenti della maggioranza”. È il giorno dell’esame dei flussi elettorali e per Nando Pagnoncelli di Ipsos il quadro è piuttosto chiaro: al Sì sono arrivati l’80,6% dei voti del Pd alle Europee; il 48,7% di quelli di Ncd-Udc; il 23,8% di quelli di Forza Italia; il 16,4% di quelli di sinistra; il 10,9% degli elettori della Lega, il 10,4% di Fdi e il 9,9% pure dal M5S.
Un bel mix.
Certamente. Per questo dire che quel 40% è l’embrione del partito di Renzi o del partito della nazione è una semplificazione che non sta né in cielo né in terra.
Tra quegli elettori c’è dentro un po’ di tutto e molti di loro, in caso di elezioni politiche, non starebbero mai dalla parte di Renzi.
Quel 40% non è paragonabile alla cifra ottenuta dal Pd alle Europee del 2014. Un referendum viaggia su binari completamente diversi.
Molti renziani, a partire da Lotti, non la pensano così…
La loro è una semplificazione dovuta anche al linguaggio imposto dai social media, che oltretutto non tiene conto dello scenario tripolare: ormai sempre più spesso assistiamo a due alleati estemporanei che si coalizzano contro un terzo. Lo abbiamo visto in questo referendum, ma anche a Torino con la Appendino.
Quindi, eventualmente, da cosa Renzi può ripartire?
Dai voti del Pd, che al momento stanno intorno al 30%, ma nemmeno tutti. Come non può contare nemmeno sui voti totali degli alleati. A farlo sperare potrebbe essere il grado di fiducia degli italiani nei suoi confronti, il 36%, dietro solo a Sergio Mattarella col 61. Ma anche qui non confondiamo: il grado di fiducia non è traducibile in voti nell’urna in caso di elezioni.
Nel governo c’era l’opinione diffusa che più alta sarebbe stata la percentuale di voto, più chance aveva il Sì. È accaduto l’esatto contrario…
Noi abbiamo sempre sostenuto che il Sì avrebbe avuto più possibilità di vittoria con un’affluenza bassa, intorno al 50%. Con un numero alto di votanti, com’è stato, davamo il No tra il 55 e il 58%. Abbiamo sbagliato di poco…
È stato un voto contro la riforma o contro Renzi?
Alla vigilia del referendum, secondo un nostro sondaggio, solo il 14% degli italiani dichiarava di conoscere in dettaglio la riforma costituzionale, mentre il 50% diceva di conoscerla a grandi linee. Perciò la politicizzazione e la personalizzazione del voto sono stati elementi decisivi.
La stella di Renzi si è spenta definitivamente?
Difficile dirlo. Anche lui ha seguito un percorso simile agli altri leader dal ’94 in poi: dopo una prima fase di luna di miele, il suo gradimento s’è contratto sempre di più. Stare al governo non aiuta.
Gli hanno votato contro il Sud e i giovani…
Tutti i ceti più esposti alla crisi: anche disoccupati, partite Iva, precari e piccoli imprenditori. La mancata crescita e l’emergenza immigrazione hanno fatto il resto.
di Gianluca Roselli | 7 dicembre 2016
Politica
mercoledì 07/12/2016
Dimissioni Renzi, verso le elezioni? Pagnoncelli: “Quel 40% non è del premier. Dentro c’è tutto, pure chi non voterà mai Pd”
Il sondaggista: "Da dove può ripartire il premier? Dai voti dem, il 30% delle rilevazioni"
Dimissioni Renzi, verso le elezioni? Pagnoncelli: “Quel 40% non è del premier. Dentro c’è tutto, pure chi non voterà mai Pd”
di Gianluca Roselli | 7 dicembre 2016
Il 40,05% di Sì al referendum non sono voti di Matteo Renzi e nemmeno del Pd. Quindi non è da lì che il premier può ripartire come sostengono diversi esponenti della maggioranza”. È il giorno dell’esame dei flussi elettorali e per Nando Pagnoncelli di Ipsos il quadro è piuttosto chiaro: al Sì sono arrivati l’80,6% dei voti del Pd alle Europee; il 48,7% di quelli di Ncd-Udc; il 23,8% di quelli di Forza Italia; il 16,4% di quelli di sinistra; il 10,9% degli elettori della Lega, il 10,4% di Fdi e il 9,9% pure dal M5S.
Un bel mix.
Certamente. Per questo dire che quel 40% è l’embrione del partito di Renzi o del partito della nazione è una semplificazione che non sta né in cielo né in terra.
Tra quegli elettori c’è dentro un po’ di tutto e molti di loro, in caso di elezioni politiche, non starebbero mai dalla parte di Renzi.
Quel 40% non è paragonabile alla cifra ottenuta dal Pd alle Europee del 2014. Un referendum viaggia su binari completamente diversi.
Molti renziani, a partire da Lotti, non la pensano così…
La loro è una semplificazione dovuta anche al linguaggio imposto dai social media, che oltretutto non tiene conto dello scenario tripolare: ormai sempre più spesso assistiamo a due alleati estemporanei che si coalizzano contro un terzo. Lo abbiamo visto in questo referendum, ma anche a Torino con la Appendino.
Quindi, eventualmente, da cosa Renzi può ripartire?
Dai voti del Pd, che al momento stanno intorno al 30%, ma nemmeno tutti. Come non può contare nemmeno sui voti totali degli alleati. A farlo sperare potrebbe essere il grado di fiducia degli italiani nei suoi confronti, il 36%, dietro solo a Sergio Mattarella col 61. Ma anche qui non confondiamo: il grado di fiducia non è traducibile in voti nell’urna in caso di elezioni.
Nel governo c’era l’opinione diffusa che più alta sarebbe stata la percentuale di voto, più chance aveva il Sì. È accaduto l’esatto contrario…
Noi abbiamo sempre sostenuto che il Sì avrebbe avuto più possibilità di vittoria con un’affluenza bassa, intorno al 50%. Con un numero alto di votanti, com’è stato, davamo il No tra il 55 e il 58%. Abbiamo sbagliato di poco…
È stato un voto contro la riforma o contro Renzi?
Alla vigilia del referendum, secondo un nostro sondaggio, solo il 14% degli italiani dichiarava di conoscere in dettaglio la riforma costituzionale, mentre il 50% diceva di conoscerla a grandi linee. Perciò la politicizzazione e la personalizzazione del voto sono stati elementi decisivi.
La stella di Renzi si è spenta definitivamente?
Difficile dirlo. Anche lui ha seguito un percorso simile agli altri leader dal ’94 in poi: dopo una prima fase di luna di miele, il suo gradimento s’è contratto sempre di più. Stare al governo non aiuta.
Gli hanno votato contro il Sud e i giovani…
Tutti i ceti più esposti alla crisi: anche disoccupati, partite Iva, precari e piccoli imprenditori. La mancata crescita e l’emergenza immigrazione hanno fatto il resto.
di Gianluca Roselli | 7 dicembre 2016
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
La stella di Renzi si è spenta definitivamente?
Difficile dirlo. Anche lui ha seguito un percorso simile agli altri leader dal ’94 in poi: dopo una prima fase di luna di miele, il suo gradimento s’è contratto sempre di più. Stare al governo non aiuta.
NON AIUTAVA NEPPURE IL DIVO GIULIO ANDREOTTI, CHE AVEVA CONIATO IL DETTO:
"IL POTERE LOGORA CHI NON CE L'HA"
Difficile dirlo. Anche lui ha seguito un percorso simile agli altri leader dal ’94 in poi: dopo una prima fase di luna di miele, il suo gradimento s’è contratto sempre di più. Stare al governo non aiuta.
NON AIUTAVA NEPPURE IL DIVO GIULIO ANDREOTTI, CHE AVEVA CONIATO IL DETTO:
"IL POTERE LOGORA CHI NON CE L'HA"
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
Emiliano vola, Serracchiani fa flop: l'effetto No scuote i governatori Pd
Chi sale e chi scende dopo il referendum. In ribasso anche De Luca
Lodovica Bulian - Gio, 08/12/2016 - 08:21
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Milano - La batosta e la riscossa. De Luca ed Emiliano. La sconfitta e l'ascesa. Serracchiani e Chiamparino.
La delusione e il successo che ridimensionano o rafforzano le ambizioni alla leadership. La doppia lettura del referendum riconsegna quotazioni in salita e in discesa nei fortini regionali guidati dai «pezzi grossi» di casa Pd. E per molti dei presidenti di Regione che contano a largo del Nazareno, le urne di domenica hanno segnato il giro di boa. Il secondo, nell'arco di pochi mesi, dopo quello delle Amministrative. Per l'anti-Renzi, il presidente della Puglia Michele Emiliano, che si è battuto contro la riforma, la valanga di No che in regione ha toccato il 67% è nuova linfa dopo l'appannamento subito con la battaglia sulle trivelle ad aprile. Sufficiente a correre per la segreteria? Sì, «ma tra 4 anni». Intanto basti la conferma che nel Sud che ha dato il benservito al governo, la Puglia «ha seguito il voto del suo presidente: se c'è un legame autentico tra una comunità e la sua leadership, il parere del presidente della Regione conta. Può darsi che il mio abbia contato». Se il parametro è vero, in Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani non deve averla presa bene. Il volto numero due del partito renziano ha incassato un altro pollice verso, il 60% di No, dopo quelli che a giugno hanno visto il centrodestra strappare città saldamente in mano al Pd, da Trieste a Pordenone, alla rossa Monfalcone. «Abbiamo perso - ammette in una lettera ai circoli Pd - Tutti, a cominciare da me, siamo chiamati a riflettere sugli errori commessi». Mentre la Lega le chiede un «passo indietro», lei si limita ad annunciare primarie per le Regionali del 2018 onde evitare sonore cadute nel buio.
Chi ha scoperto le carte è il governatore della Toscana, Enrico Rossi, che sogna di archiviare la segreteria renziana, è da tempo l'unico candidato ufficiale al congresso. Eppure sembra condannato all'irrilevanza: la terra che guida è la stessa che ha dato i natali al suo rivale ed è tra le tre regioni in cui il Sì, (che è stato anche il suo voto, in linea al partito) ha vinto. Suggerendo che forse l'immagine del presidente non riesce a calamitare i consensi in fuga da Renzi.
Nel Meridione arrabbiato, la discesa in campo del potente governatore Vincenzo De Luca ha portato più danni che voti. Il No ha vinto in tutte e cinque le province, compresa la sua Salerno e l'efficacia della sua macchina per il Sì si è inceppata tra le gaffe, dalla frittura di Agropoli all'elogio al clientelismo.
Ai poli opposti, in Piemonte, dal «diversamente renziano» Sergio Chiamparino, quello che aveva detto di votate Sì per paura di una Brexit italiana, arrivano già siluri sulla sconfitta bruciante per il Pd: «Politiche sbagliate». Ma lui, in fondo, s'era smarcato per tempo dalla «personalizzazione». E anche dal premier, dimettendosi da presidente della conferenza delle regioni in polemica col governo.
Ma c'è ancora tempo per indovinare il prossimo carro del vincitore.
Chi sale e chi scende dopo il referendum. In ribasso anche De Luca
Lodovica Bulian - Gio, 08/12/2016 - 08:21
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Milano - La batosta e la riscossa. De Luca ed Emiliano. La sconfitta e l'ascesa. Serracchiani e Chiamparino.
La delusione e il successo che ridimensionano o rafforzano le ambizioni alla leadership. La doppia lettura del referendum riconsegna quotazioni in salita e in discesa nei fortini regionali guidati dai «pezzi grossi» di casa Pd. E per molti dei presidenti di Regione che contano a largo del Nazareno, le urne di domenica hanno segnato il giro di boa. Il secondo, nell'arco di pochi mesi, dopo quello delle Amministrative. Per l'anti-Renzi, il presidente della Puglia Michele Emiliano, che si è battuto contro la riforma, la valanga di No che in regione ha toccato il 67% è nuova linfa dopo l'appannamento subito con la battaglia sulle trivelle ad aprile. Sufficiente a correre per la segreteria? Sì, «ma tra 4 anni». Intanto basti la conferma che nel Sud che ha dato il benservito al governo, la Puglia «ha seguito il voto del suo presidente: se c'è un legame autentico tra una comunità e la sua leadership, il parere del presidente della Regione conta. Può darsi che il mio abbia contato». Se il parametro è vero, in Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani non deve averla presa bene. Il volto numero due del partito renziano ha incassato un altro pollice verso, il 60% di No, dopo quelli che a giugno hanno visto il centrodestra strappare città saldamente in mano al Pd, da Trieste a Pordenone, alla rossa Monfalcone. «Abbiamo perso - ammette in una lettera ai circoli Pd - Tutti, a cominciare da me, siamo chiamati a riflettere sugli errori commessi». Mentre la Lega le chiede un «passo indietro», lei si limita ad annunciare primarie per le Regionali del 2018 onde evitare sonore cadute nel buio.
Chi ha scoperto le carte è il governatore della Toscana, Enrico Rossi, che sogna di archiviare la segreteria renziana, è da tempo l'unico candidato ufficiale al congresso. Eppure sembra condannato all'irrilevanza: la terra che guida è la stessa che ha dato i natali al suo rivale ed è tra le tre regioni in cui il Sì, (che è stato anche il suo voto, in linea al partito) ha vinto. Suggerendo che forse l'immagine del presidente non riesce a calamitare i consensi in fuga da Renzi.
Nel Meridione arrabbiato, la discesa in campo del potente governatore Vincenzo De Luca ha portato più danni che voti. Il No ha vinto in tutte e cinque le province, compresa la sua Salerno e l'efficacia della sua macchina per il Sì si è inceppata tra le gaffe, dalla frittura di Agropoli all'elogio al clientelismo.
Ai poli opposti, in Piemonte, dal «diversamente renziano» Sergio Chiamparino, quello che aveva detto di votate Sì per paura di una Brexit italiana, arrivano già siluri sulla sconfitta bruciante per il Pd: «Politiche sbagliate». Ma lui, in fondo, s'era smarcato per tempo dalla «personalizzazione». E anche dal premier, dimettendosi da presidente della conferenza delle regioni in polemica col governo.
Ma c'è ancora tempo per indovinare il prossimo carro del vincitore.
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
Ma di Vicié (De Luca) non si sa più niente???
E' in sala rianimazione al Cardarelli di Napoli, dopo lo scoppolone del NO e il fiume di denaro promosso da Pinocchio Mussoloni che non arriva più???????
E' in sala rianimazione al Cardarelli di Napoli, dopo lo scoppolone del NO e il fiume di denaro promosso da Pinocchio Mussoloni che non arriva più???????
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
LA SITUAZIONE E' COSI' INTRICATA CHE SE ANCHE VENISSE PROPOSTO FRANCESCO (Papa Bergoglio), a qualcuno non starebbe bene.
2 ore fa
Se il giustiziere di Berlusconi
può fare il premier di garanzia
Stefano Zurlo
^^^^^^^
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Se il giustiziere di Berlusconi può fare il premier di garanzia
Allontanò il Cavaliere dal Senato brandendo la Severino come la Bibbia. E oggi vuole andare ad Arcore per accreditarsi come premier di garanzia
Stefano Zurlo - Gio, 08/12/2016 - 16:42
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Doveva essere l'arbitro. Il garante di una partita complicata che applicava le regole del diritto sul campo della politica.
Pietro Grasso sciolse i nodi della storia e i grumi della cronaca nel modo più facile: si accese come un semaforo che conosce solo un colore, il rosso. Silvio Berlusconi doveva decadere e decadde. Un pulsante da schiacciare, niente di più. Il presidente del Senato brandiva la Severino come la Bibbia dall'alto della sua poltrona, imbottita di codici e codicilli. Il resto, il contesto, la ferita che si apriva nel timbrare la norma, non contava e non contò. Pochi mesi, pochissimi, fra l'estate e l'autunno di tre anni fa, per sbrigare la pratica e togliere di mezzo il Cavaliere. Tutte le questioni sollevate, sul crinale nebbioso fra sentimento popolare e volontà del legislatore, furono respinte senza se e senza ma. Da più parti, anche da autorevoli e raffinati giuristi di sinistra, si sottolineavano le possibili forzature in atto, a cominciare dall'applicazione retroattiva della Severino. Tema divisivo e controverso, per più di un tecnico una camicia di forza inaccettabile. Ma il Senato con la bava alla bocca correva e il Grasso furioso correva ancora di più, fra le proteste e le eccezioni della minoranza di centrodestra. Una pausa, una riflessione, uno stop per valutare, soppesare, consultare: l'arbitro aveva fretta di spedire in tribuna il giocatore più pregiato degli ultimi vent'anni. Un ritmo forsennato, da marcia militare, per accelerare l'espulsione. E semaforo rosso a tutte le richieste di qualunque tipo: aprire sulla retroattività sarebbe stato un tradimento della sua purezza, così apprezzata dai duri e puri della galassia grillina. No e ancora no, persino al tentativo di procedere all'esecuzione con il voto segreto, come si usa a Palazzo Madama per vicende personali, dunque delicatissime. No pure alla pausa, invocata nelle more del rimpallo in Cassazione della pena accessoria: «Non possiamo liquidare vent'anni di storia - aveva spiegato il leader centrista Pier Ferdinando Casini - come un evento criminale».
Invece Grasso spinse fuori dal sacro perimetro il Cavaliere come un prodotto scaduto, fra gli applausi di una parte e le ire dell'altra. Nessuna sintesi, nemmeno un sussulto, solo un'applicazione formalmente corretta e notarile del compito assegnatogli.
Berlusconi fu allontanato dall'emiciclo che a lungo aveva dominato e non per via popolare. Oggi lo stesso Grasso potrebbe bussare dalle parti di Arcore, accreditandosi come premier di garanzia, in equilibrio fra istanze e spinte diverse. Una metamorfosi spettacolare: per carità, il presente non è mai la fotocopia del passato, ma gli spartiti fin qui eseguiti hanno solo incupito il Paese senza riscattarne lo spirito.
2 ore fa
Se il giustiziere di Berlusconi
può fare il premier di garanzia
Stefano Zurlo
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Se il giustiziere di Berlusconi può fare il premier di garanzia
Allontanò il Cavaliere dal Senato brandendo la Severino come la Bibbia. E oggi vuole andare ad Arcore per accreditarsi come premier di garanzia
Stefano Zurlo - Gio, 08/12/2016 - 16:42
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Doveva essere l'arbitro. Il garante di una partita complicata che applicava le regole del diritto sul campo della politica.
Pietro Grasso sciolse i nodi della storia e i grumi della cronaca nel modo più facile: si accese come un semaforo che conosce solo un colore, il rosso. Silvio Berlusconi doveva decadere e decadde. Un pulsante da schiacciare, niente di più. Il presidente del Senato brandiva la Severino come la Bibbia dall'alto della sua poltrona, imbottita di codici e codicilli. Il resto, il contesto, la ferita che si apriva nel timbrare la norma, non contava e non contò. Pochi mesi, pochissimi, fra l'estate e l'autunno di tre anni fa, per sbrigare la pratica e togliere di mezzo il Cavaliere. Tutte le questioni sollevate, sul crinale nebbioso fra sentimento popolare e volontà del legislatore, furono respinte senza se e senza ma. Da più parti, anche da autorevoli e raffinati giuristi di sinistra, si sottolineavano le possibili forzature in atto, a cominciare dall'applicazione retroattiva della Severino. Tema divisivo e controverso, per più di un tecnico una camicia di forza inaccettabile. Ma il Senato con la bava alla bocca correva e il Grasso furioso correva ancora di più, fra le proteste e le eccezioni della minoranza di centrodestra. Una pausa, una riflessione, uno stop per valutare, soppesare, consultare: l'arbitro aveva fretta di spedire in tribuna il giocatore più pregiato degli ultimi vent'anni. Un ritmo forsennato, da marcia militare, per accelerare l'espulsione. E semaforo rosso a tutte le richieste di qualunque tipo: aprire sulla retroattività sarebbe stato un tradimento della sua purezza, così apprezzata dai duri e puri della galassia grillina. No e ancora no, persino al tentativo di procedere all'esecuzione con il voto segreto, come si usa a Palazzo Madama per vicende personali, dunque delicatissime. No pure alla pausa, invocata nelle more del rimpallo in Cassazione della pena accessoria: «Non possiamo liquidare vent'anni di storia - aveva spiegato il leader centrista Pier Ferdinando Casini - come un evento criminale».
Invece Grasso spinse fuori dal sacro perimetro il Cavaliere come un prodotto scaduto, fra gli applausi di una parte e le ire dell'altra. Nessuna sintesi, nemmeno un sussulto, solo un'applicazione formalmente corretta e notarile del compito assegnatogli.
Berlusconi fu allontanato dall'emiciclo che a lungo aveva dominato e non per via popolare. Oggi lo stesso Grasso potrebbe bussare dalle parti di Arcore, accreditandosi come premier di garanzia, in equilibrio fra istanze e spinte diverse. Una metamorfosi spettacolare: per carità, il presente non è mai la fotocopia del passato, ma gli spartiti fin qui eseguiti hanno solo incupito il Paese senza riscattarne lo spirito.
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
TUTTI SULL'OTTOVOLANTE
Franceschini, l'uomo che ha in mano le sorti del capo
Vanta un rapporto privilegiato col Colle e tiene le redini dem. Quando tradì Letta
Roberto Scafuri - Gio, 08/12/2016 - 20:07
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Roma C'è sempre un prima e un dopo, nella felice parabola di Dario Franceschini, ex democristiano, ex popolare, ex capogruppo, ex segretario del Pd, tra breve ex ministro dei Beni culturali.
Non facciano confusione tutti questi «ex», però. Se il destino della legislatura, come quello di Matteo Renzi, sono appesi a un filo, questo filo si chiama Dario Franceschini.
È lui l'azionista di maggioranza, il detentore della golden share renziana. Così com'è lui l'autentico king-maker della candidatura (e quindi dell'elezione) del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E se l'idea della «responsabilità» si farà strada dentro il Pd, grazie alla moral suasion esercitata da quest'ultimo, sarà anche in virtù di una suasion assai più material: se Franceschini «tradisse» il patto di fiducia che lo lega all'attuale segretario-premier, mettendosi di traverso, per Matteo sarebbe assai dura riuscire a forzare la mano sulle elezioni anticipate. E se ieri le voci prevalenti indicavano un rallentamento dell'irruenza fiorentina, significa che sono in corso iniezioni di bromuro in dosi cavalline. L'infermiera che opera su Renzi è inviata dal Quirinale, ma l'équipe medica si riunisce altrove. D'altronde il ragionamento franceschiniano ai pontieri renziani non fa una grinza: la scadenza della legislatura è alle porte, il tempo aiuterà a ricucire il partito con la sua gente, rischiare troppo non è mai stato nelle corde del Pd. Dulcis in fundo, i 400 deputati e i cento senatori pd sarebbero assai grati e contenti se potessero giungere alla maturazione del vitalizio (settembre 2017) senza essere strappati anzitempo dai seggi. Come dire? Andrebbero poi in giro a raccattar elettori con spirito assai più leggero.
Tanta sagacia e senso istituzionale si deve non solo al folto curriculum vantato dal cinquantasettenne Dario, quanto alle buone frequentazioni che lo hanno nutrito a pane e politica. Figlio di Giorgio, partigiano cattolico e poi deputato dc, s'iscrive alla Dc di Zaccagnini giovanissimo. Si dichiarerà sempre «zaccagniniano», Dario, nonostante la necessità di far carriera nel partito lo porterà a sorbirsi lunghi weekend in Irpinia per abbeverarsi direttamente alla fonte del Verbo, Ciriaco De Mita. Soltanto più tardi, quando lo stellone precipitò, Franceschini si spostò tra i Cristiano sociali, per scegliere infine il rito di Franco Marini, mentore e papà putativo in Parlamento. Avvocato e scrittore non banale di romanzi (non alla Veltroni, per intendersi), viene accusato di aver impallinato lungo la sua già corposa carriera tutti coloro che non fossero «utili e congeniali» alle architetture da lui progettate per il partito e per il governo.
La lista è lunga, vede calibri di prima grandezza: Prodi e D'Alema, Veltroni e Bersani, Monti e Letta. Raccontano per esempio che quest'ultimo, cresciuto al suo fianco dai tempi del Ppi, l'avesse presa particolarmente male: «Ti ho creduto, Dario, quando giuravi che quelle riunioni le facevi per il mio governo. Scopro invece che trattavi per Renzi... Mi hai pugnalato alle spalle!». Ecco: fossimo in Matteo ora, ci chiederemmo chi sta incontrando Dario proprio in queste ore.
Franceschini, l'uomo che ha in mano le sorti del capo
Vanta un rapporto privilegiato col Colle e tiene le redini dem. Quando tradì Letta
Roberto Scafuri - Gio, 08/12/2016 - 20:07
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Roma C'è sempre un prima e un dopo, nella felice parabola di Dario Franceschini, ex democristiano, ex popolare, ex capogruppo, ex segretario del Pd, tra breve ex ministro dei Beni culturali.
Non facciano confusione tutti questi «ex», però. Se il destino della legislatura, come quello di Matteo Renzi, sono appesi a un filo, questo filo si chiama Dario Franceschini.
È lui l'azionista di maggioranza, il detentore della golden share renziana. Così com'è lui l'autentico king-maker della candidatura (e quindi dell'elezione) del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E se l'idea della «responsabilità» si farà strada dentro il Pd, grazie alla moral suasion esercitata da quest'ultimo, sarà anche in virtù di una suasion assai più material: se Franceschini «tradisse» il patto di fiducia che lo lega all'attuale segretario-premier, mettendosi di traverso, per Matteo sarebbe assai dura riuscire a forzare la mano sulle elezioni anticipate. E se ieri le voci prevalenti indicavano un rallentamento dell'irruenza fiorentina, significa che sono in corso iniezioni di bromuro in dosi cavalline. L'infermiera che opera su Renzi è inviata dal Quirinale, ma l'équipe medica si riunisce altrove. D'altronde il ragionamento franceschiniano ai pontieri renziani non fa una grinza: la scadenza della legislatura è alle porte, il tempo aiuterà a ricucire il partito con la sua gente, rischiare troppo non è mai stato nelle corde del Pd. Dulcis in fundo, i 400 deputati e i cento senatori pd sarebbero assai grati e contenti se potessero giungere alla maturazione del vitalizio (settembre 2017) senza essere strappati anzitempo dai seggi. Come dire? Andrebbero poi in giro a raccattar elettori con spirito assai più leggero.
Tanta sagacia e senso istituzionale si deve non solo al folto curriculum vantato dal cinquantasettenne Dario, quanto alle buone frequentazioni che lo hanno nutrito a pane e politica. Figlio di Giorgio, partigiano cattolico e poi deputato dc, s'iscrive alla Dc di Zaccagnini giovanissimo. Si dichiarerà sempre «zaccagniniano», Dario, nonostante la necessità di far carriera nel partito lo porterà a sorbirsi lunghi weekend in Irpinia per abbeverarsi direttamente alla fonte del Verbo, Ciriaco De Mita. Soltanto più tardi, quando lo stellone precipitò, Franceschini si spostò tra i Cristiano sociali, per scegliere infine il rito di Franco Marini, mentore e papà putativo in Parlamento. Avvocato e scrittore non banale di romanzi (non alla Veltroni, per intendersi), viene accusato di aver impallinato lungo la sua già corposa carriera tutti coloro che non fossero «utili e congeniali» alle architetture da lui progettate per il partito e per il governo.
La lista è lunga, vede calibri di prima grandezza: Prodi e D'Alema, Veltroni e Bersani, Monti e Letta. Raccontano per esempio che quest'ultimo, cresciuto al suo fianco dai tempi del Ppi, l'avesse presa particolarmente male: «Ti ho creduto, Dario, quando giuravi che quelle riunioni le facevi per il mio governo. Scopro invece che trattavi per Renzi... Mi hai pugnalato alle spalle!». Ecco: fossimo in Matteo ora, ci chiederemmo chi sta incontrando Dario proprio in queste ore.
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
MAN MANO CHE PASSANO LE ORE SI SCOPRONO TUTTE LE CREPE ALL'INTERNO DEL PD.
LA CONVIVENZA SINISTRA CENTRO E' FORSE GIUNTA AL TERMINE.
Post referendum: D’Alema, Bersani e Speranza fuori dal Pd
di Andrea Viola | 7 dicembre 2016
commenti (439)
Profilo blogger
Andrea Viola
Avvocato e consigliere comunale Pd
Post | Articoli
Twitter
Il referendum costituzionale è passato. Hanno vinto i NO. Hanno perso i SI’. La partecipazione è stata alta ed è un buon segno di civiltà democratica.
Cosa è accaduto e cosa accadrà?
Partiamo dallo scenario politico generale per poi discutere del Pd.
Il Movimento 5 Stelle più o meno compatto ha sostenuto il NO alla Riforma. Sappiamo benissimo che non tanto per delle ragioni di merito ma per un voto contro Renzi e il suo governo. Opinabile ma legittimo.
Forza Italia dopo aver votato la Riforma in Parlamento e aver rotto il patto del Nazareno ha sostenuto anche lei il NO. La Lega di Salvini stessa cosa insieme a Fratelli d’Italia. I comunisti e antagonisti compresi Casapound hanno sostenuto anche loro il NO. Insomma tutte le opposizioni a Renzi compatte per il NO.
Politicamente ci sta.
Ora veniamo al Pd.
Le discussioni all’interno del Partito sono sempre legittime e sono la forza di un partito democratico nel vero senso della parola. Ma una regola vale per tutti. Si discute, si lavora, si analizza ma poi la linea della maggioranza deve essere seguita per disciplina di partito.
Nel caso specifico tutto il Pd votò la riforma e lo stesso Cuperlo dopo aver discusso la modifica dell’Italicum si è pronunciò a favore del Sì.
Fin qui dovrebbe essere tutto logico, quello che però non può essere più tollerato è l’atteggiamento di certi personaggi del Pd, quali Bersani, D’Alema e Speranza che hanno esultato alle dimissioni di Renzi da Presidente del Consiglio.
Come se durante una partita di calcio l’attaccante di una squadra esultasse per aver preso un goal perché il portiere gli è antipatico.
Da tali atteggiamenti capisci il vero dramma di questi anni del Pd.
Bersani è riuscito a perdere le ultime elezioni politiche per la propria incapacità e inefficienza.
Non è riuscito a formare un governo e ha perso le primarie.
Renzi ha vinto le primarie del Pd e le Europee da solo con il 40% dei consensi.
Potrà essere odiato dai propri rivali ma non può essere tollerato che ciò accada all’interno del partito stesso.
La sinistra di D’Alema e Bersani non ha mai governato realmente e quando vi era un segretario o un presidente diverso dalla loro corrente lo hanno sempre logorato e fatto cadere.
Un dramma infinito. Dove quello che per loro conta è solo il controllo del Partito.
Partito da improntare sempre e solo all’opposizione non certo al governo.
Ed allora basta.
Il Movimento 5 Stelle una cosa forse l’ha capita. Chi dissente dal proprio segretario deve essere messo alla porta a prescindere, senza tante giustificazioni. Il caso Pizzarotti è un esempio lampante.
Ebbene non è possibile che certi politicanti possano esultare per le dimissioni del proprio segretario da Presidente del Consiglio.
Ed ora che hanno anche il coraggio di intestarsi la vittoria del NO non vorrebbero andare subito a votare.
Vogliono aspettare il vitalizio che arriva a settembre. Mica importava la Costituzione. Tutto ruota per gli interessi personali politici. Fuori Renzi ora ci riprendiamo il partito.
Come se per tutti questi 30 anni loro non ci fossero stati.
Basta. Ognuno nella sua squadra. Ognuno con il suo segretario.
Scene del genere non possono più tollerarsi.
In guerra si può perdere ma non per colpa del fuoco amico.
E come diceva un antico proverbio: Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io.
D’Alema e compagnia fuori dal Pd.
LA CONVIVENZA SINISTRA CENTRO E' FORSE GIUNTA AL TERMINE.
Post referendum: D’Alema, Bersani e Speranza fuori dal Pd
di Andrea Viola | 7 dicembre 2016
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Andrea Viola
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Il referendum costituzionale è passato. Hanno vinto i NO. Hanno perso i SI’. La partecipazione è stata alta ed è un buon segno di civiltà democratica.
Cosa è accaduto e cosa accadrà?
Partiamo dallo scenario politico generale per poi discutere del Pd.
Il Movimento 5 Stelle più o meno compatto ha sostenuto il NO alla Riforma. Sappiamo benissimo che non tanto per delle ragioni di merito ma per un voto contro Renzi e il suo governo. Opinabile ma legittimo.
Forza Italia dopo aver votato la Riforma in Parlamento e aver rotto il patto del Nazareno ha sostenuto anche lei il NO. La Lega di Salvini stessa cosa insieme a Fratelli d’Italia. I comunisti e antagonisti compresi Casapound hanno sostenuto anche loro il NO. Insomma tutte le opposizioni a Renzi compatte per il NO.
Politicamente ci sta.
Ora veniamo al Pd.
Le discussioni all’interno del Partito sono sempre legittime e sono la forza di un partito democratico nel vero senso della parola. Ma una regola vale per tutti. Si discute, si lavora, si analizza ma poi la linea della maggioranza deve essere seguita per disciplina di partito.
Nel caso specifico tutto il Pd votò la riforma e lo stesso Cuperlo dopo aver discusso la modifica dell’Italicum si è pronunciò a favore del Sì.
Fin qui dovrebbe essere tutto logico, quello che però non può essere più tollerato è l’atteggiamento di certi personaggi del Pd, quali Bersani, D’Alema e Speranza che hanno esultato alle dimissioni di Renzi da Presidente del Consiglio.
Come se durante una partita di calcio l’attaccante di una squadra esultasse per aver preso un goal perché il portiere gli è antipatico.
Da tali atteggiamenti capisci il vero dramma di questi anni del Pd.
Bersani è riuscito a perdere le ultime elezioni politiche per la propria incapacità e inefficienza.
Non è riuscito a formare un governo e ha perso le primarie.
Renzi ha vinto le primarie del Pd e le Europee da solo con il 40% dei consensi.
Potrà essere odiato dai propri rivali ma non può essere tollerato che ciò accada all’interno del partito stesso.
La sinistra di D’Alema e Bersani non ha mai governato realmente e quando vi era un segretario o un presidente diverso dalla loro corrente lo hanno sempre logorato e fatto cadere.
Un dramma infinito. Dove quello che per loro conta è solo il controllo del Partito.
Partito da improntare sempre e solo all’opposizione non certo al governo.
Ed allora basta.
Il Movimento 5 Stelle una cosa forse l’ha capita. Chi dissente dal proprio segretario deve essere messo alla porta a prescindere, senza tante giustificazioni. Il caso Pizzarotti è un esempio lampante.
Ebbene non è possibile che certi politicanti possano esultare per le dimissioni del proprio segretario da Presidente del Consiglio.
Ed ora che hanno anche il coraggio di intestarsi la vittoria del NO non vorrebbero andare subito a votare.
Vogliono aspettare il vitalizio che arriva a settembre. Mica importava la Costituzione. Tutto ruota per gli interessi personali politici. Fuori Renzi ora ci riprendiamo il partito.
Come se per tutti questi 30 anni loro non ci fossero stati.
Basta. Ognuno nella sua squadra. Ognuno con il suo segretario.
Scene del genere non possono più tollerarsi.
In guerra si può perdere ma non per colpa del fuoco amico.
E come diceva un antico proverbio: Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io.
D’Alema e compagnia fuori dal Pd.
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
LA VOX POPULI
pietro goglia • un'ora fa
ha perso, e pure continua a ridere.
△ ▽
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Passero • un'ora fa
Ragazzi lasciate che questo "avvocato consigliere comunale del Partito di Renzi" scriva queste sue cosucce; come un Rondolino qualsiasi che insulta Bersani sull'Unità! E' tutto utile per far capire agli isritti al PD chi NON dovranno votare alle prossime primarie (se ci saranno). Lasciate che si facciano riconoscere per quello che sono; che manifestino i loro valori forzaitalioti. Grazie avvocato e consigliere comunale Viola ! Continui pure così. (Tanto a me che me frega mica sono di Tempio Pausania! )
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yenauno • un'ora fa
Viola se stavi zitto facevi più bella figura
△ ▽
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Passero • un'ora fa
Facciamo anche che il ducetto di Rignano si fonda il suo bel partitello invece di scalare il PD e defraudare milioni di persone della propria storia, del proprio impegno, della propria cultura. Insomma: che si faccia pure il suo Partito della Nazione (nome quantomai profetico) che, visti i tempi, avrà sicuro successo. Come quando c'era la buonanima!
△ ▽
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Tiziano Catini • un'ora fa
JB79 come Andrea Viola chi? Ha detto cose SACROSANTE SACROSANTE SACROSANTE tanto che non ho NULLA DA AGGIUNGERE Grande Andrea Viola
△ ▽
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Alepip > Tiziano Catini • un'ora fa
MA no, ha detto le cose che dicono i renziani che non conoscono vergogna. Allora Ignazio Marino che dovrebbe dire di Renzi e dei suoi lacché.
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pietro goglia • un'ora fa
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Ragazzi lasciate che questo "avvocato consigliere comunale del Partito di Renzi" scriva queste sue cosucce; come un Rondolino qualsiasi che insulta Bersani sull'Unità! E' tutto utile per far capire agli isritti al PD chi NON dovranno votare alle prossime primarie (se ci saranno). Lasciate che si facciano riconoscere per quello che sono; che manifestino i loro valori forzaitalioti. Grazie avvocato e consigliere comunale Viola ! Continui pure così. (Tanto a me che me frega mica sono di Tempio Pausania! )
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yenauno • un'ora fa
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Passero • un'ora fa
Facciamo anche che il ducetto di Rignano si fonda il suo bel partitello invece di scalare il PD e defraudare milioni di persone della propria storia, del proprio impegno, della propria cultura. Insomma: che si faccia pure il suo Partito della Nazione (nome quantomai profetico) che, visti i tempi, avrà sicuro successo. Come quando c'era la buonanima!
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Tiziano Catini • un'ora fa
JB79 come Andrea Viola chi? Ha detto cose SACROSANTE SACROSANTE SACROSANTE tanto che non ho NULLA DA AGGIUNGERE Grande Andrea Viola
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Alepip > Tiziano Catini • un'ora fa
MA no, ha detto le cose che dicono i renziani che non conoscono vergogna. Allora Ignazio Marino che dovrebbe dire di Renzi e dei suoi lacché.
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
UncleTom • 34 minuti fa
Il primo a meravigliarmi sono io, perché la moderazione del Fatto in questi mesi ha cassato tutto quanto era contro Renzi.
Questa volta l'hanno pubblicata nei commenti del Fatto
Meglio tacere e passare per idiota, che parlare e dissipare ogni dubbio
ABRAHAM LINCOLN
Aforismi
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Il primo a meravigliarmi sono io, perché la moderazione del Fatto in questi mesi ha cassato tutto quanto era contro Renzi.
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Meglio tacere e passare per idiota, che parlare e dissipare ogni dubbio
ABRAHAM LINCOLN
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