La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
LA PRIMA RIVOLUZIONE EUROPEA
LIBRE news
La Bundesbank: preparatevi a dire addio alla pensione
Scritto il 17/9/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
In pensione sempre più tardi, possibilmente mai: «Un allungamento della vita lavorativa non dovrebbe essere un tabù ma deve, anzi, essere considerato come un elemento fondamentale», avvertono gli economisti della Bundesbank, la banca centrale tedesca presieduta da Jens Weidmann. «Non appena la crisi ricorda a tutti di non esser mai finita, si alza immediatamente la voce ammonitrice di chi reclama più austerità sui conti pubblici (tacendo sempre sull’insostenibilità di quello privato, soprattutto)», commenta Claudio Conti su “Contropiano”. «Inutile far notare a un Weidmann o un Dijsselbloem che in questo modo si distrugge il benessere della popolazione: l’obiettivo è infatti proprio quello». Oggi in Germania l’età del ritiro dal lavoro è a 67 anni. Allontanare ancora l’età pensionabile significa arrivare ai settant’anni. E la previsione è ancora peggiore per le generazioni più giovani, entrate al lavoro con le leggi “Hartz IV” varate sul modello delle “riforme” introdotte anni fa alla Volkwagen corrompendo i leader sindacali perché firmassero accordi-capestro per i dipendenti. Problema: il modello-Germania, creato con l’inganno, oggi in Europa fa testo. Ispira tutte le nuove legislazioni, dal Jobs Act al Loi Travail francese.Il calcolo della banca centrale tedesca, aggiunge “Contropiano”, è truccato anche questa volta: esclude infatti moltissime voci del bilancio statale, «per arrivare infine a “dimostrare” che, se non si toccano unicamente le pensioni, tutto salta». Il ragionamento, continua Conti, si basa sulla generazione dei baby-boomers, nati negli anni ‘50 e ‘60, quando il benessere della ricostruzione post-bellica aveva spinto le famiglie a mettere al mondo molti figli. Dopo l’exploit del 1964, come in Italia, anche in Germania poi è cominciata una “discesa” demografica: ogni anno, c’è mezzo milione di tedeschi in meno rispetto all’anno prima (solo gli immigrati mantengono il bilancio in equilibrio). L’allarme di Weidmann considera solo il “picco negativo” elevandolo a tendenza, «come se negli anni successivi quel trend non si fosse mai invertito», arrivando così a sostenere che «tra il 2030 e il 2060» il costo sociale del declino demografico potrebbe farsi insostenibile. Per “Contropiano”, si tratta di un ricatto esplicito: «O si aumenta l’età pensionabile, portandola il più vicino possibile all’aspettativa di vita (tradotto: dovete morire sul lavoro), oppure si aumenta la percentuale di salario dirottata ai contributi previdenziali». O, ancora, «si abbassa il “tasso di sostituzione”, cioè il rapporto tra assegno pensionistico mensile e ultima retribuzione percepita (già ora molto basso, intorno al 42%)».Con le elezioni ormai alle porte – in Germania di voterà nel 2017 – la Merkel non intende fornire un assist ai suoi avversari: si è infatti affrettata a garantire che il sistema previdenziale resterà immutato. Ma la sortita della banca centrale, osserva Conti, è chiaramente rivolta a tutti i membri dell’Ue. Il messaggio è chiaro: se è costretta a tirare la cinghia persino la Germania, cioè il paese economicamente più forte (e con i conti quasi in regola con i parametri di Maastricht), figuriamoci cosa dovranno fare i paesi con deficit o debito eccessivo, Francia e Italia in primis. In altre parole: la tecnocrazia agli ordini dell’élite sembra ben decisa a “terminare” quel che resta del welfare europeo. Il grosso del “lavoro sporco” è già stato fatto, con le varie “riforme” del mercato occupazionale che hanno azzerato i diritti dei dipendenti, senza contare i tagli alla sanità e la privatizzazione selvaggia dei servizi essenziali, come trasporti, acqua ed energia. Resta il boccone più grosso, quello delle pensioni: terremotare la previdenza pubblica significa, tra l’altro, scatenare la corsa alle pensioni integrative, private, secondo lo schema italiano della legge Fornero.Tutto questo, conclude Claudio Conti, serve ad «affermare concretamente il principio che tutto è dovuto all’interesse del mercato capitalistico e nulla alle popolazioni». Si teme dunque che «anche le pensioni già in essere dovranno subire tagli forsennati, come è stato imposto alla Grecia». Neoliberismo, reinterpretato dal neo-feudalesimo europeo che nega l’istituto strategico del deficit positivo, la spesa pubblica come investimento strategico, sociale ed economico. La logica resta quella, aberrante (puro delirio anti-economico) del pareggio di bilancio: impossibile spendere più di quanto si produce (il che è vero solo per famiglie e aziende, mai per uno Stato che sia sovrano della sua moneta, da emettere in quantità necessaria per sostenere il sistema-paese). In più, l’ordoliberismo teutonico impugna a senso unico il falso dogma del bilancio in pareggio: «Nel settore finanziario, infatti, nulla viene rimproverato a quanti (ad iniziare da Deutsche Bank, hanno accumulato perdite, debiti, “sofferenze” sistemiche inaffrontabili». In quel caso, al contrario, lo Stato è generosissimo: ogni sforzo pubblico è stato invocato (e ottenuto) per “salvare” gli istituti di credito rigorosamente privati. E ora, chiosa “Contropiano”, il fatto che alcune voci del bilancio pubblico (persino tedesco) siano considerate sacrificabili, significa una sola cosa: la resa dei conti è ogni giorno più vicina.
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E la previsione è ancora peggiore per le generazioni più giovani, entrate al lavoro con le leggi “Hartz IV” varate sul modello delle “riforme” introdotte anni fa alla Volkwagen corrompendo i leader sindacali perché firmassero accordi-capestro per i dipendenti. Problema: il modello-Germania, creato con l’inganno, oggi in Europa fa testo. Ispira tutte le nuove legislazioni, dal Jobs Act al Loi Travail francese.Il calcolo della banca centrale tedesca, aggiunge “Contropiano”, è truccato anche questa volta: esclude infatti moltissime voci del bilancio statale, «per arrivare infine a “dimostrare” che, se non si toccano unicamente le pensioni, tutto salta». Il ragionamento, continua Conti, si basa sulla generazione dei baby-boomers, nati negli anni ‘50 e ‘60, quando il benessere della ricostruzione post-bellica aveva spinto le famiglie a mettere al mondo molti figli. Dopo l’exploit del 1964, come in Italia, anche in Germania poi è cominciata una “discesa” demografica: ogni anno, c’è mezzo milione di tedeschi in meno rispetto all’anno prima (solo gli immigrati mantengono il bilancio in equilibrio). L’allarme di Weidmann considera solo il “picco negativo” elevandolo a tendenza, «come se negli anni successivi quel trend non si fosse mai invertito», arrivando così a sostenere che «tra il 2030 e il 2060» il costo sociale del declino demografico potrebbe farsi insostenibile. Per “Contropiano”, si tratta di un ricatto esplicito: «O si aumenta l’età pensionabile, portandola il più vicino possibile all’aspettativa di vita (tradotto: dovete morire sul lavoro), oppure si aumenta la percentuale di salario dirottata ai contributi previdenziali». O, ancora, «si abbassa il “tasso di sostituzione”, cioè il rapporto tra assegno pensionistico mensile e ultima retribuzione percepita (già ora molto basso, intorno al 42%)».Con le elezioni ormai alle porte – in Germania di voterà nel 2017 – la Merkel non intende fornire un assist ai suoi avversari: si è infatti affrettata a garantire che il sistema previdenziale resterà immutato. Ma la sortita della banca centrale, osserva Conti, è chiaramente rivolta a tutti i membri dell’Ue. Il messaggio è chiaro: se è costretta a tirare la cinghia persino la Germania, cioè il paese economicamente più forte (e con i conti quasi in regola con i parametri di Maastricht), figuriamoci cosa dovranno fare i paesi con deficit o debito eccessivo, Francia e Italia in primis. In altre parole: la tecnocrazia agli ordini dell’élite sembra ben decisa a “terminare” quel che resta del welfare europeo. Il grosso del “lavoro sporco” è già stato fatto, con le varie “riforme” del mercato occupazionale che hanno azzerato i diritti dei dipendenti, senza contare i tagli alla sanità e la privatizzazione selvaggia dei servizi essenziali, come trasporti, acqua ed energia. Resta il boccone più grosso, quello delle pensioni: terremotare la previdenza pubblica significa, tra l’altro, scatenare la corsa alle pensioni integrative, private, secondo lo schema italiano della legge Fornero.Tutto questo, conclude Claudio Conti, serve ad «affermare concretamente il principio che tutto è dovuto all’interesse del mercato capitalistico e nulla alle popolazioni». Si teme dunque che «anche le pensioni già in essere dovranno subire tagli forsennati, come è stato imposto alla Grecia». Neoliberismo, reinterpretato dal neo-feudalesimo europeo che nega l’istituto strategico del deficit positivo, la spesa pubblica come investimento strategico, sociale ed economico. La logica resta quella, aberrante (puro delirio anti-economico) del pareggio di bilancio: impossibile spendere più di quanto si produce (il che è vero solo per famiglie e aziende, mai per uno Stato che sia sovrano della sua moneta, da emettere in quantità necessaria per sostenere il sistema-paese). In più, l’ordoliberismo teutonico impugna a senso unico il falso dogma del bilancio in pareggio: «Nel settore finanziario, infatti, nulla viene rimproverato a quanti (ad iniziare da Deutsche Bank, hanno accumulato perdite, debiti, “sofferenze” sistemiche inaffrontabili». In quel caso, al contrario, lo Stato è generosissimo: ogni sforzo pubblico è stato invocato (e ottenuto) per “salvare” gli istituti di credito rigorosamente privati. E ora, chiosa “Contropiano”, il fatto che alcune voci del bilancio pubblico (persino tedesco) siano considerate sacrificabili, significa una sola cosa: la resa dei conti è ogni giorno più vicina.
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E la previsione è ancora peggiore per le generazioni più giovani, entrate al lavoro con le leggi “Hartz IV” varate sul modello delle “riforme” introdotte anni fa alla Volkwagen corrompendo i leader sindacali perché firmassero accordi-capestro per i dipendenti. Problema: il modello-Germania, creato con l’inganno, oggi in Europa fa testo. Ispira tutte le nuove legislazioni, dal Jobs Act al Loi Travail francese.Il calcolo della banca centrale tedesca, aggiunge “Contropiano”, è truccato anche questa volta: esclude infatti moltissime voci del bilancio statale, «per arrivare infine a “dimostrare” che, se non si toccano unicamente le pensioni, tutto salta». Il ragionamento, continua Conti, si basa sulla generazione dei baby-boomers, nati negli anni ‘50 e ‘60, quando il benessere della ricostruzione post-bellica aveva spinto le famiglie a mettere al mondo molti figli. Dopo l’exploit del 1964, come in Italia, anche in Germania poi è cominciata una “discesa” demografica: ogni anno, c’è mezzo milione di tedeschi in meno rispetto all’anno prima (solo gli immigrati mantengono il bilancio in equilibrio). L’allarme di Weidmann considera solo il “picco negativo” elevandolo a tendenza, «come se negli anni successivi quel trend non si fosse mai invertito», arrivando così a sostenere che «tra il 2030 e il 2060» il costo sociale del declino demografico potrebbe farsi insostenibile. Per “Contropiano”, si tratta di un ricatto esplicito: «O si aumenta l’età pensionabile, portandola il più vicino possibile all’aspettativa di vita (tradotto: dovete morire sul lavoro), oppure si aumenta la percentuale di salario dirottata ai contributi previdenziali». O, ancora, «si abbassa il “tasso di sostituzione”, cioè il rapporto tra assegno pensionistico mensile e ultima retribuzione percepita (già ora molto basso, intorno al 42%)».Con le elezioni ormai alle porte – in Germania di voterà nel 2017 – la Merkel non intende fornire un assist ai suoi avversari: si è infatti affrettata a garantire che il sistema previdenziale resterà immutato. Ma la sortita della banca centrale, osserva Conti, è chiaramente rivolta a tutti i membri dell’Ue. Il messaggio è chiaro: se è costretta a tirare la cinghia persino la Germania, cioè il paese economicamente più forte (e con i conti quasi in regola con i parametri di Maastricht), figuriamoci cosa dovranno fare i paesi con deficit o debito eccessivo, Francia e Italia in primis. In altre parole: la tecnocrazia agli ordini dell’élite sembra ben decisa a “terminare” quel che resta del welfare europeo. Il grosso del “lavoro sporco” è già stato fatto, con le varie “riforme” del mercato occupazionale che hanno azzerato i diritti dei dipendenti, senza contare i tagli alla sanità e la privatizzazione selvaggia dei servizi essenziali, come trasporti, acqua ed energia. Resta il boccone più grosso, quello delle pensioni: terremotare la previdenza pubblica significa, tra l’altro, scatenare la corsa alle pensioni integrative, private, secondo lo schema italiano della legge Fornero.Tutto questo, conclude Claudio Conti, serve ad «affermare concretamente il principio che tutto è dovuto all’interesse del mercato capitalistico e nulla alle popolazioni». Si teme dunque che «anche le pensioni già in essere dovranno subire tagli forsennati, come è stato imposto alla Grecia». Neoliberismo, reinterpretato dal neo-feudalesimo europeo che nega l’istituto strategico del deficit positivo, la spesa pubblica come investimento strategico, sociale ed economico. La logica resta quella, aberrante (puro delirio anti-economico) del pareggio di bilancio: impossibile spendere più di quanto si produce (il che è vero solo per famiglie e aziende, mai per uno Stato che sia sovrano della sua moneta, da emettere in quantità necessaria per sostenere il sistema-paese). In più, l’ordoliberismo teutonico impugna a senso unico il falso dogma del bilancio in pareggio: «Nel settore finanziario, infatti, nulla viene rimproverato a quanti (ad iniziare da Deutsche Bank, hanno accumulato perdite, debiti, “sofferenze” sistemiche inaffrontabili». In quel caso, al contrario, lo Stato è generosissimo: ogni sforzo pubblico è stato invocato (e ottenuto) per “salvare” gli istituti di credito rigorosamente privati. E ora, chiosa “Contropiano”, il fatto che alcune voci del bilancio pubblico (persino tedesco) siano considerate sacrificabili, significa una sola cosa: la resa dei conti è ogni giorno più vicina.
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E la previsione è ancora peggiore per le generazioni più giovani, entrate al lavoro con le leggi “Hartz IV” varate sul modello delle “riforme” introdotte anni fa alla Volkwagen corrompendo i leader sindacali perché firmassero accordi-capestro per i dipendenti. Problema: il modello-Germania, creato con l’inganno, oggi in Europa fa testo. Ispira tutte le nuove legislazioni, dal Jobs Act al Loi Travail francese.Il calcolo della banca centrale tedesca, aggiunge “Contropiano”, è truccato anche questa volta: esclude infatti moltissime voci del bilancio statale, «per arrivare infine a “dimostrare” che, se non si toccano unicamente le pensioni, tutto salta». Il ragionamento, continua Conti, si basa sulla generazione dei baby-boomers, nati negli anni ‘50 e ‘60, quando il benessere della ricostruzione post-bellica aveva spinto le famiglie a mettere al mondo molti figli. Dopo l’exploit del 1964, come in Italia, anche in Germania poi è cominciata una “discesa” demografica: ogni anno, c’è mezzo milione di tedeschi in meno rispetto all’anno prima (solo gli immigrati mantengono il bilancio in equilibrio). L’allarme di Weidmann considera solo il “picco negativo” elevandolo a tendenza, «come se negli anni successivi quel trend non si fosse mai invertito», arrivando così a sostenere che «tra il 2030 e il 2060» il costo sociale del declino demografico potrebbe farsi insostenibile. Per “Contropiano”, si tratta di un ricatto esplicito: «O si aumenta l’età pensionabile, portandola il più vicino possibile all’aspettativa di vita (tradotto: dovete morire sul lavoro), oppure si aumenta la percentuale di salario dirottata ai contributi previdenziali». O, ancora, «si abbassa il “tasso di sostituzione”, cioè il rapporto tra assegno pensionistico mensile e ultima retribuzione percepita (già ora molto basso, intorno al 42%)».Con le elezioni ormai alle porte – in Germania di voterà nel 2017 – la Merkel non intende fornire un assist ai suoi avversari: si è infatti affrettata a garantire che il sistema previdenziale resterà immutato. Ma la sortita della banca centrale, osserva Conti, è chiaramente rivolta a tutti i membri dell’Ue. Il messaggio è chiaro: se è costretta a tirare la cinghia persino la Germania, cioè il paese economicamente più forte (e con i conti quasi in regola con i parametri di Maastricht), figuriamoci cosa dovranno fare i paesi con deficit o debito eccessivo, Francia e Italia in primis. In altre parole: la tecnocrazia agli ordini dell’élite sembra ben decisa a “terminare” quel che resta del welfare europeo. Il grosso del “lavoro sporco” è già stato fatto, con le varie “riforme” del mercato occupazionale che hanno azzerato i diritti dei dipendenti, senza contare i tagli alla sanità e la privatizzazione selvaggia dei servizi essenziali, come trasporti, acqua ed energia. Resta il boccone più grosso, quello delle pensioni: terremotare la previdenza pubblica significa, tra l’altro, scatenare la corsa alle pensioni integrative, private, secondo lo schema italiano della legge Fornero.Tutto questo, conclude Claudio Conti, serve ad «affermare concretamente il principio che tutto è dovuto all’interesse del mercato capitalistico e nulla alle popolazioni». Si teme dunque che «anche le pensioni già in essere dovranno subire tagli forsennati, come è stato imposto alla Grecia». Neoliberismo, reinterpretato dal neo-feudalesimo europeo che nega l’istituto strategico del deficit positivo, la spesa pubblica come investimento strategico, sociale ed economico. La logica resta quella, aberrante (puro delirio anti-economico) del pareggio di bilancio: impossibile spendere più di quanto si produce (il che è vero solo per famiglie e aziende, mai per uno Stato che sia sovrano della sua moneta, da emettere in quantità necessaria per sostenere il sistema-paese). In più, l’ordoliberismo teutonico impugna a senso unico il falso dogma del bilancio in pareggio: «Nel settore finanziario, infatti, nulla viene rimproverato a quanti (ad iniziare da Deutsche Bank, hanno accumulato perdite, debiti, “sofferenze” sistemiche inaffrontabili». In quel caso, al contrario, lo Stato è generosissimo: ogni sforzo pubblico è stato invocato (e ottenuto) per “salvare” gli istituti di credito rigorosamente privati. E ora, chiosa “Contropiano”, il fatto che alcune voci del bilancio pubblico (persino tedesco) siano considerate sacrificabili, significa una sola cosa: la resa dei conti è ogni giorno più vicina.
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Re: La crisi dell'Europa
Anche il famoso nazionalismo francese non si sa che fine ha fatto. Hollande fa tutto quello che dice la Germania.
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Re: La crisi dell'Europa
18 SET 2016 10:29
EUROPA IN PEZZI
- ESISTE SOLO L’ASSE TRA BERLINO E PARIGI, RENZI SI DICE INSODDISFATTO, LA MERKEL REPLICA: L’AGENDA ERA CONCORDATA
- LA CONVINZIONE È CHE FRAU ANGELA VOGLIA ARRIVARE AL VOTO DELL' AUTUNNO 2017 SENZA PRENDERE INIZIATIVE FORTI: IL RISCHIO E' CHE I PROSSIMI 12 MESI VEDANO LO SFILACCIARSI DEFINITIVO DELLA UE -
Danilo Taino per il Corriere della Sera
Esiste solo una relazione speciale in Europa: quella tra Berlino e Parigi. Non è più l' asse di una volta, è del tutto sbilanciata a favore della Germania e soprattutto non sta funzionando, di fronte alle crisi multiple della Ue. Ma sembra non avere alternative. È stata sufficiente una conferenza stampa a due, Angela Merkel e François Hollande assieme, per chiarire che «fronte dei Paesi mediterranei» e «alleanza dei governi socialisti» sono palloncini di aria calda. Per quanto mezza mediterranea e al momento socialista, la Francia non romperà con la Germania.
L' incontro EuMed di Atene del 9 settembre - capi di governo dei Paesi europei del Mediterraneo della famiglia socialdemocratica, compreso il presidente francese - aveva irritato il governo di Berlino. E aveva provocato la reazione di Wolfgang Schäuble sulle idee «poco intelligenti» che escono dai vertici della sinistra. La conferenza stampa Merkel-Hollande alla fine del summit europeo di Bratislava, venerdì, ha ricostituito l' ordine europeo: Parigi non va da nessuna parte senza Berlino. È una brutale piccolezza, confrontata con le sfide di oggi: ma è così. Il problema è capire se il vecchio motore franco-tedesco ha un piano e verso cosa conduce.
L' idea di Merkel, alla quale Hollande si è adeguato, è che dopo la Brexit non ci sia la possibilità di proseguire verso «una maggiore integrazione» della Ue: gli elettori non la vogliono e l' Unione si spaccherebbe, mentre oggi il primo obiettivo è l' unità dei 27. Quindi, solo iniziative concrete che i cittadini capiscano, su sicurezza, crescita economica e lavoro ai giovani. Questa è la linea seguita nel vertice informale di venerdì, che i leader di Germania e Francia hanno giudicato positivo.
Quella che Merkel, Hollande e il Consiglio europeo hanno chiamato Dichiarazione di Bratislava, però, per Matteo Renzi è molto meno, più uno Schizzo di Bratislava.
Nel governo italiano, l' idea è che la risposta che si sta dando alla Brexit e alle altre sfide a cui l' Europa è di fronte sia pericolosamente inadeguata.
La convinzione è che Merkel voglia arrivare alle elezioni federali tedesche dell' autunno 2017 senza prendere iniziative forti, con il rischio che i prossimi 12 mesi vedano lo sfilacciarsi definitivo della Ue, già nel pieno della sua maggiore crisi, con il Regno Unito in uscita, i Quattro di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) su una rotta centrifuga, governi in ginocchio quasi ovunque e alle porte Putin, Erdogan, i terroristi, la tragedia siriana, i rifugiati e la possibilità di un presidente Trump. In quest' ottica, Renzi si è detto «insoddisfatto» delle conclusioni del vertice.
In realtà, che nella capitale slovacca non si sarebbero prese decisioni concrete ma si sarebbe per lo più mostrato la faccia unita della Ue a 27 e avviato un processo si sapeva da tempo. E il portavoce di Merkel ieri ha ricordato all' agenzia d' informazioni Ansa che la road-map «è stata condivisa e concordata da tutti i 27» della Ue, compresa l' Italia, e che lo «spirito di Bratislava» è uno «spirito di collaborazione». Resta il fatto che Renzi ha voluto allontanarsi da Berlino e Parigi: a costo di apparire isolato, ha diretto critiche forti soprattutto a Merkel ma si è anche irritato con Hollande. Idee e agende elettorali diverse.
In discussione è la lenta strada dei «nervi saldi» presa dalla cancelliera e seguita dal presidente francese: capire se può avere successo nei prossimi 12-18 mesi, che per la Comunità saranno probabilmente i più duri in 60 anni di vita. Resta il fatto che l' obiettivo di Berlino e Parigi è l' unità europea: polemiche e ripicche a parte, di sicuro con Roma.
EUROPA IN PEZZI
- ESISTE SOLO L’ASSE TRA BERLINO E PARIGI, RENZI SI DICE INSODDISFATTO, LA MERKEL REPLICA: L’AGENDA ERA CONCORDATA
- LA CONVINZIONE È CHE FRAU ANGELA VOGLIA ARRIVARE AL VOTO DELL' AUTUNNO 2017 SENZA PRENDERE INIZIATIVE FORTI: IL RISCHIO E' CHE I PROSSIMI 12 MESI VEDANO LO SFILACCIARSI DEFINITIVO DELLA UE -
Danilo Taino per il Corriere della Sera
Esiste solo una relazione speciale in Europa: quella tra Berlino e Parigi. Non è più l' asse di una volta, è del tutto sbilanciata a favore della Germania e soprattutto non sta funzionando, di fronte alle crisi multiple della Ue. Ma sembra non avere alternative. È stata sufficiente una conferenza stampa a due, Angela Merkel e François Hollande assieme, per chiarire che «fronte dei Paesi mediterranei» e «alleanza dei governi socialisti» sono palloncini di aria calda. Per quanto mezza mediterranea e al momento socialista, la Francia non romperà con la Germania.
L' incontro EuMed di Atene del 9 settembre - capi di governo dei Paesi europei del Mediterraneo della famiglia socialdemocratica, compreso il presidente francese - aveva irritato il governo di Berlino. E aveva provocato la reazione di Wolfgang Schäuble sulle idee «poco intelligenti» che escono dai vertici della sinistra. La conferenza stampa Merkel-Hollande alla fine del summit europeo di Bratislava, venerdì, ha ricostituito l' ordine europeo: Parigi non va da nessuna parte senza Berlino. È una brutale piccolezza, confrontata con le sfide di oggi: ma è così. Il problema è capire se il vecchio motore franco-tedesco ha un piano e verso cosa conduce.
L' idea di Merkel, alla quale Hollande si è adeguato, è che dopo la Brexit non ci sia la possibilità di proseguire verso «una maggiore integrazione» della Ue: gli elettori non la vogliono e l' Unione si spaccherebbe, mentre oggi il primo obiettivo è l' unità dei 27. Quindi, solo iniziative concrete che i cittadini capiscano, su sicurezza, crescita economica e lavoro ai giovani. Questa è la linea seguita nel vertice informale di venerdì, che i leader di Germania e Francia hanno giudicato positivo.
Quella che Merkel, Hollande e il Consiglio europeo hanno chiamato Dichiarazione di Bratislava, però, per Matteo Renzi è molto meno, più uno Schizzo di Bratislava.
Nel governo italiano, l' idea è che la risposta che si sta dando alla Brexit e alle altre sfide a cui l' Europa è di fronte sia pericolosamente inadeguata.
La convinzione è che Merkel voglia arrivare alle elezioni federali tedesche dell' autunno 2017 senza prendere iniziative forti, con il rischio che i prossimi 12 mesi vedano lo sfilacciarsi definitivo della Ue, già nel pieno della sua maggiore crisi, con il Regno Unito in uscita, i Quattro di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) su una rotta centrifuga, governi in ginocchio quasi ovunque e alle porte Putin, Erdogan, i terroristi, la tragedia siriana, i rifugiati e la possibilità di un presidente Trump. In quest' ottica, Renzi si è detto «insoddisfatto» delle conclusioni del vertice.
In realtà, che nella capitale slovacca non si sarebbero prese decisioni concrete ma si sarebbe per lo più mostrato la faccia unita della Ue a 27 e avviato un processo si sapeva da tempo. E il portavoce di Merkel ieri ha ricordato all' agenzia d' informazioni Ansa che la road-map «è stata condivisa e concordata da tutti i 27» della Ue, compresa l' Italia, e che lo «spirito di Bratislava» è uno «spirito di collaborazione». Resta il fatto che Renzi ha voluto allontanarsi da Berlino e Parigi: a costo di apparire isolato, ha diretto critiche forti soprattutto a Merkel ma si è anche irritato con Hollande. Idee e agende elettorali diverse.
In discussione è la lenta strada dei «nervi saldi» presa dalla cancelliera e seguita dal presidente francese: capire se può avere successo nei prossimi 12-18 mesi, che per la Comunità saranno probabilmente i più duri in 60 anni di vita. Resta il fatto che l' obiettivo di Berlino e Parigi è l' unità europea: polemiche e ripicche a parte, di sicuro con Roma.
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Re: La crisi dell'Europa
ULTIMA ORA
Elezioni Germania, exit poll Berlino: Merkel in calo al 18%, populisti debuttano all’11,5%. Spd al 23%
Zonaeuro
di F. Q. | 18 settembre 2016
COMMENTI
Secondo i primi exit-poll delle elezioni per la città Land di Berlino, il partito della cancelliera Angela Merkel avrebbe ottenuto solo il 18%, rispetto al 23,3% delle precedenti consultazioni. Al primo posto i socialdemocratici della Spd con il 23%. I populisti della Afd, al loro esordio nel Land della capitale, avrebbero raggiunto solo il 11,5%. I dati sono stati pubblicati dal primo canale pubblico Ard alla chiusura dei seggi.
Elezioni Germania, exit poll Berlino: Merkel in calo al 18%, populisti debuttano all’11,5%. Spd al 23%
Zonaeuro
di F. Q. | 18 settembre 2016
COMMENTI
Secondo i primi exit-poll delle elezioni per la città Land di Berlino, il partito della cancelliera Angela Merkel avrebbe ottenuto solo il 18%, rispetto al 23,3% delle precedenti consultazioni. Al primo posto i socialdemocratici della Spd con il 23%. I populisti della Afd, al loro esordio nel Land della capitale, avrebbero raggiunto solo il 11,5%. I dati sono stati pubblicati dal primo canale pubblico Ard alla chiusura dei seggi.
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Re: La crisi dell'Europa
LIBRE news
Brancaccio: l’Ue distrugge il lavoro e fabbrica migranti
Scritto il 19/9/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.In Italia, ovviamente, buio pesto: «Dalle nostre parti il dibattito politico è dominato dal nulla», dichiara Brancaccio a Giacomo Russo Spena in un’intervista su “Micromega”. «Eppure, quando ai prossimi appuntamenti elettorali si tratterà di giudicare i programmi dei partiti, poche cose saranno importanti quanto la posizione che le varie forze assumeranno sul tema della circolazione indiscriminata dei capitali». L’esodo di massa dei lavoratori, dal Sud verso il Nord dell’Europa? E’ «l’unico meccanismo che può mitigare gli effetti della forbice occupazionale in atto». Ma siamo alla macelleria pura: «Quella migratoria è una valvola di sfogo delicata, complessa, dolorosa, che richiederebbe un minimo di organizzazione preventiva della direzione e della velocità dei flussi». Dinamiche che l’Ue non ha neppure provato a governare, preferendo affidarsi «a rozzi meccanismi di mercato», contribuendo così a «cospargere altra benzina sul fuoco del risentimento sociale e della xenofobia». Ci siamo dentro anche noi: «Oggi la propaganda delle forze reazionarie, in Gran Bretagna come in Germania, cattura consensi anche lamentando che “ci sono troppi italiani in giro”. Con buona pace per gli ideali di fratellanza tra i popoli europei».Queste tendenze, aggiunge Brancaccio, potrebbero sfociare in una sorta di “xenofobia liberista”, a partire dai possibili esiti della trattativa sulla Brexit. L’influente Istituto Bruegel di Bruxelles promuove un nuovo accordo tra Ue e Regno Unito che si basi da un lato sulla riaffermazione della indiscriminata circolazione internazionale dei capitali tra le due aree, e dall’altro sulla concessione ai britannici di bloccare a piacimento i flussi di immigrati dal continente. «Se questo è il meglio che gli illuminati think-tank europei sono in grado di proporre, la sintesi che ho definito “xenofobia liberista” non è più semplicemente un’ipotesi sul futuro, ma deve già esser considerata un’orrida realtà di fatto», dice Brancaccio. Gli storici revisionisti sostengono che l’avvento dei fascismi in Europa fu una reazione alla rivoluzione bolscevica? «Quel che sta avvenendo in questi anni sembra suggerire che l’ascesa di forme più o meno surrettizie di fascismo può anche verificarsi come effetto diretto del meccanismo capitalistico e delle sue crisi, pur nella totale assenza di una minaccia di tipo comunista o anche solo vagamente tradeunionista».E il peggio è che nessuna schiarita è in vista: «Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento». La sostanza delle politiche economiche non è cambiata: «L’Eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente». Morale: «Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile». E il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti più in difficoltà: attraverso l’acquisto di titoli di Stato, il grosso delle erogazioni Bce finisce alla Germania, anziché alle economie che più ne avrebbero bisogno. E non ci sono segnali politici che possano lasciar sperare in un cambio di rotta. «Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri paesi del Sud Europa». Se Draghi si decidesse ad affrontare davvero il problema, aggiunge Brancaccio, dovrebbe riconoscere che l’Eurozona sta implodendo: «Nessuna unione monetaria alla lunga può sopravvivere se il paese più forte si ostina ad attuare una politica di competizione al ribasso sui salari».Oggi in Germania le retribuzioni hanno cominciato finalmente a crescere, ma in questo modo «è stato eliminato solo un terzo del vantaggio competitivo che la Germania aveva accumulato nello scorso decennio, anche grazie a una ferrea politica di controllo dei salari». In una situazione di deflazione – più merci che denaro circolante – si distrugge capacità produttiva, eliminando posti di lavoro nel Sud Europa. In Italia, dall’approvazione del Jobs Act l’occupazione è aumentata meno della metà rispetto alla crescita media europea, già molto modesta. E’ provato: «La precarizzazione dei contratti non crea occupazione, serve solo a indebolire i lavoratori e a ridurre ulteriormente i salari». Così, oggi, gli italiani che lasciano i confini nazionali sono più degli immigrati che arrivano. Altro che Asia e Africa: «Almeno metà delle attuali migrazioni è interna al continente». Era tutto previsto, peraltro, dalla castrofica architettura Ue: fin dall’inizio, «si sapeva che l’assetto dell’Unione avrebbe determinato andamenti sbilanciati dell’occupazione nei diversi paesi, e quindi avrebbe indotto imponenti migrazioni di lavoratori dalle aree più deboli a quelle più forti». Rispetto al 2007, aggiunge Brancaccio, in Germania ci sono oggi circa tre milioni di occupati in più, mentre in Spagna registriamo 2 milioni e trecentomila occupati in meno. In Italia i posti di lavoro sono un milione in meno rispetto a dieci anni fa. «E in tutto il Sud Europa sono stati distrutti circa 5 milioni di posti di lavoro».
I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.
In Italia, ovviamente, buio pesto: «Dalle nostre parti il dibattito politico è dominato dal nulla», dichiara Brancaccio a Giacomo Russo Spena in un’intervista su “Micromega”. «Eppure, quando ai prossimi appuntamenti elettorali si tratterà di giudicare i Emiliano Brancaccioprogrammi dei partiti, poche cose saranno importanti quanto la posizione che le varie forze assumeranno sul tema della circolazione indiscriminata dei capitali». L’esodo di massa dei lavoratori, dal Sud verso il Nord dell’Europa? E’ «l’unico meccanismo che può mitigare gli effetti della forbice occupazionale in atto». Ma siamo alla macelleria pura: «Quella migratoria è una valvola di sfogo delicata, complessa, dolorosa, che richiederebbe un minimo di organizzazione preventiva della direzione e della velocità dei flussi». Dinamiche che l’Ue non ha neppure provato a governare, preferendo affidarsi «a rozzi meccanismi di mercato», contribuendo così a «cospargere altra benzina sul fuoco del risentimento sociale e della xenofobia». Ci siamo dentro anche noi: «Oggi la propaganda delle forze reazionarie, in Gran Bretagna come in Germania, cattura consensi anche lamentando che “ci sono troppi italiani in giro”. Con buona pace per gli ideali di fratellanza tra i popoli europei».
Queste tendenze, aggiunge Brancaccio, potrebbero sfociare in una sorta di “xenofobia liberista”, a partire dai possibili esiti della trattativa sulla Brexit. L’influente Istituto Bruegel di Bruxelles promuove un nuovo accordo tra Ue e Regno Unito che si basi da un lato sulla riaffermazione della indiscriminata circolazione internazionale dei capitali tra le due aree, e dall’altro sulla concessione ai britannici di bloccare a piacimento i flussi di immigrati dal continente. «Se questo è il meglio che gli illuminati think-tank europei sono in grado di proporre, la sintesi che ho definito “xenofobia liberista” non è più semplicemente un’ipotesi sul futuro, ma deve già esser considerata un’orrida realtà di fatto», dice Brancaccio. Gli storici revisionisti sostengono che l’avvento dei fascismi in Europa fu una reazione alla rivoluzione bolscevica? «Quel che sta avvenendo in questi anni sembra suggerire che l’ascesa di forme più o meno surrettizie di fascismo può anche verificarsi come Mario Draghieffetto diretto del meccanismo capitalistico e delle sue crisi, pur nella totale assenza di una minaccia di tipo comunista o anche solo vagamente tradeunionista».
E il peggio è che nessuna schiarita è in vista: «Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento». La sostanza delle politiche economiche non è cambiata: «L’Eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente». Morale: «Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile». E il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti più in difficoltà: attraverso l’acquisto di titoli di Stato, il grosso delle erogazioni Bce finisce alla Germania, anziché alle economie che più ne avrebbero bisogno. E non ci sono segnali politici che possano lasciar sperare in un cambio di rotta. «Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri paesi del Sud Europa». Se Draghi si decidesse ad affrontare davvero il problema, Renziaggiunge Brancaccio, dovrebbe riconoscere che l’Eurozona sta implodendo: «Nessuna unione monetaria alla lunga può sopravvivere se il paese più forte si ostina ad attuare una politica di competizione al ribasso sui salari».
Oggi in Germania le retribuzioni hanno cominciato finalmente a crescere, ma in questo modo «è stato eliminato solo un terzo del vantaggio competitivo che la Germania aveva accumulato nello scorso decennio, anche grazie a una ferrea politica di controllo dei salari». In una situazione di deflazione – più merci che denaro circolante – si distrugge capacità produttiva, eliminando posti di lavoro nel Sud Europa. In Italia, dall’approvazione del Jobs Act l’occupazione è aumentata meno della metà rispetto alla crescita media europea, già molto modesta. E’ provato: «La precarizzazione dei contratti non crea occupazione, serve solo a indebolire i lavoratori e a ridurre ulteriormente i salari». Così, oggi, gli italiani che lasciano i confini nazionali sono più degli immigrati che arrivano. Altro che Asia e Africa: «Almeno metà delle attuali migrazioni è interna al continente». Era tutto previsto, peraltro, dalla castrofica architettura Ue: fin dall’inizio, «si sapeva che l’assetto dell’Unione avrebbe determinato andamenti sbilanciati dell’occupazione nei diversi paesi, e quindi avrebbe indotto imponenti migrazioni di lavoratori dalle aree più deboli a quelle più forti». Rispetto al 2007, aggiunge Brancaccio, in Germania ci sono oggi circa tre milioni di occupati in più, mentre in Spagna registriamo 2 milioni e trecentomila occupati in meno. In Italia i posti di lavoro sono un milione in meno rispetto a dieci anni fa. «E in tutto il Sud Europa sono stati distrutti circa 5 milioni di posti di lavoro».
Brancaccio: l’Ue distrugge il lavoro e fabbrica migranti
Scritto il 19/9/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.In Italia, ovviamente, buio pesto: «Dalle nostre parti il dibattito politico è dominato dal nulla», dichiara Brancaccio a Giacomo Russo Spena in un’intervista su “Micromega”. «Eppure, quando ai prossimi appuntamenti elettorali si tratterà di giudicare i programmi dei partiti, poche cose saranno importanti quanto la posizione che le varie forze assumeranno sul tema della circolazione indiscriminata dei capitali». L’esodo di massa dei lavoratori, dal Sud verso il Nord dell’Europa? E’ «l’unico meccanismo che può mitigare gli effetti della forbice occupazionale in atto». Ma siamo alla macelleria pura: «Quella migratoria è una valvola di sfogo delicata, complessa, dolorosa, che richiederebbe un minimo di organizzazione preventiva della direzione e della velocità dei flussi». Dinamiche che l’Ue non ha neppure provato a governare, preferendo affidarsi «a rozzi meccanismi di mercato», contribuendo così a «cospargere altra benzina sul fuoco del risentimento sociale e della xenofobia». Ci siamo dentro anche noi: «Oggi la propaganda delle forze reazionarie, in Gran Bretagna come in Germania, cattura consensi anche lamentando che “ci sono troppi italiani in giro”. Con buona pace per gli ideali di fratellanza tra i popoli europei».Queste tendenze, aggiunge Brancaccio, potrebbero sfociare in una sorta di “xenofobia liberista”, a partire dai possibili esiti della trattativa sulla Brexit. L’influente Istituto Bruegel di Bruxelles promuove un nuovo accordo tra Ue e Regno Unito che si basi da un lato sulla riaffermazione della indiscriminata circolazione internazionale dei capitali tra le due aree, e dall’altro sulla concessione ai britannici di bloccare a piacimento i flussi di immigrati dal continente. «Se questo è il meglio che gli illuminati think-tank europei sono in grado di proporre, la sintesi che ho definito “xenofobia liberista” non è più semplicemente un’ipotesi sul futuro, ma deve già esser considerata un’orrida realtà di fatto», dice Brancaccio. Gli storici revisionisti sostengono che l’avvento dei fascismi in Europa fu una reazione alla rivoluzione bolscevica? «Quel che sta avvenendo in questi anni sembra suggerire che l’ascesa di forme più o meno surrettizie di fascismo può anche verificarsi come effetto diretto del meccanismo capitalistico e delle sue crisi, pur nella totale assenza di una minaccia di tipo comunista o anche solo vagamente tradeunionista».E il peggio è che nessuna schiarita è in vista: «Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento». La sostanza delle politiche economiche non è cambiata: «L’Eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente». Morale: «Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile». E il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti più in difficoltà: attraverso l’acquisto di titoli di Stato, il grosso delle erogazioni Bce finisce alla Germania, anziché alle economie che più ne avrebbero bisogno. E non ci sono segnali politici che possano lasciar sperare in un cambio di rotta. «Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri paesi del Sud Europa». Se Draghi si decidesse ad affrontare davvero il problema, aggiunge Brancaccio, dovrebbe riconoscere che l’Eurozona sta implodendo: «Nessuna unione monetaria alla lunga può sopravvivere se il paese più forte si ostina ad attuare una politica di competizione al ribasso sui salari».Oggi in Germania le retribuzioni hanno cominciato finalmente a crescere, ma in questo modo «è stato eliminato solo un terzo del vantaggio competitivo che la Germania aveva accumulato nello scorso decennio, anche grazie a una ferrea politica di controllo dei salari». In una situazione di deflazione – più merci che denaro circolante – si distrugge capacità produttiva, eliminando posti di lavoro nel Sud Europa. In Italia, dall’approvazione del Jobs Act l’occupazione è aumentata meno della metà rispetto alla crescita media europea, già molto modesta. E’ provato: «La precarizzazione dei contratti non crea occupazione, serve solo a indebolire i lavoratori e a ridurre ulteriormente i salari». Così, oggi, gli italiani che lasciano i confini nazionali sono più degli immigrati che arrivano. Altro che Asia e Africa: «Almeno metà delle attuali migrazioni è interna al continente». Era tutto previsto, peraltro, dalla castrofica architettura Ue: fin dall’inizio, «si sapeva che l’assetto dell’Unione avrebbe determinato andamenti sbilanciati dell’occupazione nei diversi paesi, e quindi avrebbe indotto imponenti migrazioni di lavoratori dalle aree più deboli a quelle più forti». Rispetto al 2007, aggiunge Brancaccio, in Germania ci sono oggi circa tre milioni di occupati in più, mentre in Spagna registriamo 2 milioni e trecentomila occupati in meno. In Italia i posti di lavoro sono un milione in meno rispetto a dieci anni fa. «E in tutto il Sud Europa sono stati distrutti circa 5 milioni di posti di lavoro».
I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.
In Italia, ovviamente, buio pesto: «Dalle nostre parti il dibattito politico è dominato dal nulla», dichiara Brancaccio a Giacomo Russo Spena in un’intervista su “Micromega”. «Eppure, quando ai prossimi appuntamenti elettorali si tratterà di giudicare i Emiliano Brancaccioprogrammi dei partiti, poche cose saranno importanti quanto la posizione che le varie forze assumeranno sul tema della circolazione indiscriminata dei capitali». L’esodo di massa dei lavoratori, dal Sud verso il Nord dell’Europa? E’ «l’unico meccanismo che può mitigare gli effetti della forbice occupazionale in atto». Ma siamo alla macelleria pura: «Quella migratoria è una valvola di sfogo delicata, complessa, dolorosa, che richiederebbe un minimo di organizzazione preventiva della direzione e della velocità dei flussi». Dinamiche che l’Ue non ha neppure provato a governare, preferendo affidarsi «a rozzi meccanismi di mercato», contribuendo così a «cospargere altra benzina sul fuoco del risentimento sociale e della xenofobia». Ci siamo dentro anche noi: «Oggi la propaganda delle forze reazionarie, in Gran Bretagna come in Germania, cattura consensi anche lamentando che “ci sono troppi italiani in giro”. Con buona pace per gli ideali di fratellanza tra i popoli europei».
Queste tendenze, aggiunge Brancaccio, potrebbero sfociare in una sorta di “xenofobia liberista”, a partire dai possibili esiti della trattativa sulla Brexit. L’influente Istituto Bruegel di Bruxelles promuove un nuovo accordo tra Ue e Regno Unito che si basi da un lato sulla riaffermazione della indiscriminata circolazione internazionale dei capitali tra le due aree, e dall’altro sulla concessione ai britannici di bloccare a piacimento i flussi di immigrati dal continente. «Se questo è il meglio che gli illuminati think-tank europei sono in grado di proporre, la sintesi che ho definito “xenofobia liberista” non è più semplicemente un’ipotesi sul futuro, ma deve già esser considerata un’orrida realtà di fatto», dice Brancaccio. Gli storici revisionisti sostengono che l’avvento dei fascismi in Europa fu una reazione alla rivoluzione bolscevica? «Quel che sta avvenendo in questi anni sembra suggerire che l’ascesa di forme più o meno surrettizie di fascismo può anche verificarsi come Mario Draghieffetto diretto del meccanismo capitalistico e delle sue crisi, pur nella totale assenza di una minaccia di tipo comunista o anche solo vagamente tradeunionista».
E il peggio è che nessuna schiarita è in vista: «Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento». La sostanza delle politiche economiche non è cambiata: «L’Eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente». Morale: «Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile». E il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti più in difficoltà: attraverso l’acquisto di titoli di Stato, il grosso delle erogazioni Bce finisce alla Germania, anziché alle economie che più ne avrebbero bisogno. E non ci sono segnali politici che possano lasciar sperare in un cambio di rotta. «Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri paesi del Sud Europa». Se Draghi si decidesse ad affrontare davvero il problema, Renziaggiunge Brancaccio, dovrebbe riconoscere che l’Eurozona sta implodendo: «Nessuna unione monetaria alla lunga può sopravvivere se il paese più forte si ostina ad attuare una politica di competizione al ribasso sui salari».
Oggi in Germania le retribuzioni hanno cominciato finalmente a crescere, ma in questo modo «è stato eliminato solo un terzo del vantaggio competitivo che la Germania aveva accumulato nello scorso decennio, anche grazie a una ferrea politica di controllo dei salari». In una situazione di deflazione – più merci che denaro circolante – si distrugge capacità produttiva, eliminando posti di lavoro nel Sud Europa. In Italia, dall’approvazione del Jobs Act l’occupazione è aumentata meno della metà rispetto alla crescita media europea, già molto modesta. E’ provato: «La precarizzazione dei contratti non crea occupazione, serve solo a indebolire i lavoratori e a ridurre ulteriormente i salari». Così, oggi, gli italiani che lasciano i confini nazionali sono più degli immigrati che arrivano. Altro che Asia e Africa: «Almeno metà delle attuali migrazioni è interna al continente». Era tutto previsto, peraltro, dalla castrofica architettura Ue: fin dall’inizio, «si sapeva che l’assetto dell’Unione avrebbe determinato andamenti sbilanciati dell’occupazione nei diversi paesi, e quindi avrebbe indotto imponenti migrazioni di lavoratori dalle aree più deboli a quelle più forti». Rispetto al 2007, aggiunge Brancaccio, in Germania ci sono oggi circa tre milioni di occupati in più, mentre in Spagna registriamo 2 milioni e trecentomila occupati in meno. In Italia i posti di lavoro sono un milione in meno rispetto a dieci anni fa. «E in tutto il Sud Europa sono stati distrutti circa 5 milioni di posti di lavoro».
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Re: La crisi dell'Europa
LIBRE news
Non esistono multinazionali innocenti, ricattano il mondo
Scritto il 28/9/16 • nella Categoria: idee Condividi
La Apple ha rubato 13 miliardi di tasse ai cittadini europei secondo la Commissione Ue, ma è solo la punta dell’iceberg. Tutte le multinazionali hanno come ragione sociale l’elusione e l’evasione dalle leggi e dal rispetto dei diritti sociali e delle norme ambientali, esistono precisamente per questo scopo. E tutti i governi che praticano il libero mercato sono con esse complici. Il governo irlandese è sotto accusa perché non faceva pagare tasse solo alla Apple. Se avesse esteso a tutte le aziende il trattamento di favore riservato a quella della Mela, e ricordiamo che la tasse sui profitti in quel paese sono già abbassate ad un ridicolo 12,5%, se tutte le imprese in Irlanda fossero state fisco esenti, la Ue non avrebbe potuto dire nulla. Come non dice nulla sul trasferimento della sede Fca in Olanda e su tanti altri casi simili. Ogni paese Ue può essere un paradiso fiscale per ricchi e multinazionali, purché non faccia favoritismi, il privilegio deve essere uguale per tutti. Per questo il Lussemburgo dell’attuale presidente della Commissione, Juncker, è sotto accusa.A Fiat e Starbucks, sono stati fatti favoritismi eccessivi rispetto a tanti altri. Ma la concorrenza fiscale al ribasso tra i paesi della Ue come tale è ammessa, anzi è nello spirito del trattato di Maastricht e dei suoi principi ultraliberisti. A questo serve la moneta unica, a mettere in concorrenza tra loro gli Stati sulla svalutazione di tasse, salari e diritti. E le multinazionali conducono l’asta. Durante il confronto sulla Brexit l’europeismo irlandese è stato contrapposto allo scetticismo britannico. L’Irlanda è stata presentata come il solo paese, tra quelli “periferici”, ad aver gestito virtuosamente crisi ed euro. Altro che gli altri Piigs. Ora sappiamo a quale prezzo e con quali risultati, ma niente ipocrisia. Alla Apple è capitato su questa sponda dell’Atlantico ciò che è toccato alla Volkswagen sull’altra. Sono rondini che non fanno primavera e stanno tutte dentro il cielo del Ttip. Oggi questo trattato è in crisi per il rifiuto dei popoli, e dobbiamo dire grazie alla Brexit, ma anche perché le multinazionali tra le due sponde dell’oceano hanno conti da regolare.In ogni caso però la linea di fondo che ispira la Ue e tutti i suoi governi rimane sempre la stessa: attirare gli investimenti delle multinazionali con concessioni fiscali e sociali per rimpiazzare così i tagli alla spesa e agli investimenti pubblici. Il governo italiano, non a caso il più ottusamente servile verso il Ttip, il suo regalo alla Apple lo ha già fatto. L’azienda doveva al fisco 880 milioni per Ires non pagata, e lo Stato italiano ha transato accontentandosi di 330. Immaginatevi un cittadino normale che debba 880 semplici euro al fisco e che si rivolga all’Agenzia delle Entrate esigendo il trattamento Apple, verrebbe considerato matto. Invece con Tim Cook Renzi fa i selfie sperando che porti lavoro. Le multinazionali sono al disopra delle leggi e delle regole di tutti noi e per i governi è un merito riconoscerglielo. Quello turco, anche per coprire la sporca guerra contro i curdi, ha subito offerto i suoi servigi ad Apple.Non sappiamo se la vicenda Apple si concluderà come è iniziata, o, più probabilmente, con una transazione all’italiana o con altro ancora. Quello che è chiaro è che senza mettere in discussione i meccanismi del libero mercato e della globalizzaione liberista le multinazionali continueranno a ricattare il mondo, con l’aiuto dei governi complici. Ed è altrettanto chiaro che la Ue e l’euro, che hanno fatto del libero mercato il principio costituzionale, non sono la soluzione, ma parte del problema. La nostra Costituzione, all’articolo 53, impone un fisco progressivo e sono incompatibili con essa i privilegi sulle tasse per chi ha più potere e ricchezza, a partire dalle multinazionali. Che non a caso, assieme a tutti i poteri Ue, sostengono il Sì alla controriforma costituzionale del governo e temono un vittoria del No. Che è invece un passo necessario per restituire al popolo il diritto all’eguaglianza, cancellato oggi dai privilegi del mercato globalizzato. Solo un No ci può salvare.
(Giorgio Cremaschi, “Non esistono multinazionali innocenti”, dal blog di Cremaschi sull’“Huffington Post” del 31 agosto 2016).
Non esistono multinazionali innocenti, ricattano il mondo
Scritto il 28/9/16 • nella Categoria: idee Condividi
La Apple ha rubato 13 miliardi di tasse ai cittadini europei secondo la Commissione Ue, ma è solo la punta dell’iceberg. Tutte le multinazionali hanno come ragione sociale l’elusione e l’evasione dalle leggi e dal rispetto dei diritti sociali e delle norme ambientali, esistono precisamente per questo scopo. E tutti i governi che praticano il libero mercato sono con esse complici. Il governo irlandese è sotto accusa perché non faceva pagare tasse solo alla Apple. Se avesse esteso a tutte le aziende il trattamento di favore riservato a quella della Mela, e ricordiamo che la tasse sui profitti in quel paese sono già abbassate ad un ridicolo 12,5%, se tutte le imprese in Irlanda fossero state fisco esenti, la Ue non avrebbe potuto dire nulla. Come non dice nulla sul trasferimento della sede Fca in Olanda e su tanti altri casi simili. Ogni paese Ue può essere un paradiso fiscale per ricchi e multinazionali, purché non faccia favoritismi, il privilegio deve essere uguale per tutti. Per questo il Lussemburgo dell’attuale presidente della Commissione, Juncker, è sotto accusa.A Fiat e Starbucks, sono stati fatti favoritismi eccessivi rispetto a tanti altri. Ma la concorrenza fiscale al ribasso tra i paesi della Ue come tale è ammessa, anzi è nello spirito del trattato di Maastricht e dei suoi principi ultraliberisti. A questo serve la moneta unica, a mettere in concorrenza tra loro gli Stati sulla svalutazione di tasse, salari e diritti. E le multinazionali conducono l’asta. Durante il confronto sulla Brexit l’europeismo irlandese è stato contrapposto allo scetticismo britannico. L’Irlanda è stata presentata come il solo paese, tra quelli “periferici”, ad aver gestito virtuosamente crisi ed euro. Altro che gli altri Piigs. Ora sappiamo a quale prezzo e con quali risultati, ma niente ipocrisia. Alla Apple è capitato su questa sponda dell’Atlantico ciò che è toccato alla Volkswagen sull’altra. Sono rondini che non fanno primavera e stanno tutte dentro il cielo del Ttip. Oggi questo trattato è in crisi per il rifiuto dei popoli, e dobbiamo dire grazie alla Brexit, ma anche perché le multinazionali tra le due sponde dell’oceano hanno conti da regolare.In ogni caso però la linea di fondo che ispira la Ue e tutti i suoi governi rimane sempre la stessa: attirare gli investimenti delle multinazionali con concessioni fiscali e sociali per rimpiazzare così i tagli alla spesa e agli investimenti pubblici. Il governo italiano, non a caso il più ottusamente servile verso il Ttip, il suo regalo alla Apple lo ha già fatto. L’azienda doveva al fisco 880 milioni per Ires non pagata, e lo Stato italiano ha transato accontentandosi di 330. Immaginatevi un cittadino normale che debba 880 semplici euro al fisco e che si rivolga all’Agenzia delle Entrate esigendo il trattamento Apple, verrebbe considerato matto. Invece con Tim Cook Renzi fa i selfie sperando che porti lavoro. Le multinazionali sono al disopra delle leggi e delle regole di tutti noi e per i governi è un merito riconoscerglielo. Quello turco, anche per coprire la sporca guerra contro i curdi, ha subito offerto i suoi servigi ad Apple.Non sappiamo se la vicenda Apple si concluderà come è iniziata, o, più probabilmente, con una transazione all’italiana o con altro ancora. Quello che è chiaro è che senza mettere in discussione i meccanismi del libero mercato e della globalizzaione liberista le multinazionali continueranno a ricattare il mondo, con l’aiuto dei governi complici. Ed è altrettanto chiaro che la Ue e l’euro, che hanno fatto del libero mercato il principio costituzionale, non sono la soluzione, ma parte del problema. La nostra Costituzione, all’articolo 53, impone un fisco progressivo e sono incompatibili con essa i privilegi sulle tasse per chi ha più potere e ricchezza, a partire dalle multinazionali. Che non a caso, assieme a tutti i poteri Ue, sostengono il Sì alla controriforma costituzionale del governo e temono un vittoria del No. Che è invece un passo necessario per restituire al popolo il diritto all’eguaglianza, cancellato oggi dai privilegi del mercato globalizzato. Solo un No ci può salvare.
(Giorgio Cremaschi, “Non esistono multinazionali innocenti”, dal blog di Cremaschi sull’“Huffington Post” del 31 agosto 2016).
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Re: La crisi dell'Europa
4 OTT 2016 17:40
GUERRILLA ARZILLA! (SALUTAME IL COMPAGNO TSIPRAS)
- UNO SPETTACOLO MAI VISTO: PENSIONATI GRECI CHE PROVANO A RIBALTARE I BLINDATI DELLA POLIZIA E ATTACCANO A MANI NUDE GLI AGENTI ANTISOMMOSSA (VIDEO), CHE RISPONDONO CON GAS LACRIMOGENI E SPRAY URTICANTI
- PENSIONI TAGLIATE DAL 25 AL 55% RISPETTO AI LIVELLI PRE-AUSTERITY, E GLI ANZIANI SCENDONO IN PIAZZA CONTRO TSIPRAS,
VEDI:
Chttp://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/gue ... 3230.htmHE LE RIDURRÀ ANCORA
GUERRILLA ARZILLA! (SALUTAME IL COMPAGNO TSIPRAS)
- UNO SPETTACOLO MAI VISTO: PENSIONATI GRECI CHE PROVANO A RIBALTARE I BLINDATI DELLA POLIZIA E ATTACCANO A MANI NUDE GLI AGENTI ANTISOMMOSSA (VIDEO), CHE RISPONDONO CON GAS LACRIMOGENI E SPRAY URTICANTI
- PENSIONI TAGLIATE DAL 25 AL 55% RISPETTO AI LIVELLI PRE-AUSTERITY, E GLI ANZIANI SCENDONO IN PIAZZA CONTRO TSIPRAS,
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Re: La crisi dell'Europa
Il Sole 13.10.16
Spagna, un nuovo governo Rajoy
Dieci mesi di stallo. Madrid verso la soluzione della crisi politica mentre l’economia continua a crescere a un ritmo del 3%
di Luca Veronese
Grazie all’astensione della vecchia guardia socialista, atteso il «sì» del Parlamento
Il nuovo Governo conservatore di Mariano Rajoy riceverà il via libera del Parlamento il 29 ottobre. E sarà l’astensione della vecchia guardia socialista a far passare la fiducia. Pedro Sanchez, il segretario del Psoe cacciato per essersi opposto in tutti i modi alla nascita di un Esecutivo conservatore, ha pochi dubbi: «Ce l’hanno fatta, sono riusciti a riprendere il partito e ora sono pronti a fare accordi con il nostro avversario, con la destra conservatrice che abbiamo sempre contrastato. Ancora devo capire bene perché lo fanno ma spero che non sia solo per la smania di conservare il potere», ha confidato ai suoi fedelissimi l’ormai ex leader del Partido socialista obrero espanol, spaccato in due e mai così in difficoltà nella sua storia.
Dopo dieci mesi senza Governo, la Spagna potrebbe uscire dalla crisi politica a poche ore dal termine del 31 ottobre, oltre il quale, in mancanza di un accordo tra le diverse formazioni, il Parlamento verrebbe sciolto automaticamente e diverrebbe inevitabile il ricorso a un nuovo voto, il terzo in un anno, a Natale. L’economia continua a stupire: l’Fmi ha appena rivisto al rialzo le stime sul Pil che, nel 2016, dovrebbe aumentare del 3,1 per cento. Ma c’è da definire in tempi rapidi una legge di bilancio che riesca a contenere il deficit pubblico: il ministro dell’Economia, Luis de Guindos, ha già spiegato che in mancanza di aggiustamenti il deficit si attesterà al 3,6% del Pil, contro il 3,1% concordato con Bruxelles, e ha avvisato che il nuovo Esecutivo sarà obbligato a intervenire con misure urgenti per recuperare circa 5,5 miliardi di euro. Ieri i rendimenti dei titoli del debito spagnolo sono tornati a salire come non accadeva da tre settimane con il decennale all’1,14 per cento.
Re Felipe VI ha annunciato che effettuerà un nuovo giro di consultazioni con i leader dei partiti tra il 24 e il 25 ottobre. Il primo voto della Camera dovrebbe tenersi il 26 o il 27 ottobre, se non verrà raggiunta la maggioranza assoluta sarà convocato entro due giorni un secondo voto, nel quale per la fiducia sarà sufficiente la maggioranza semplice, quindi il 50% più uno dei votanti. Ed è lì che l’astensione dei cosiddetti baroni socialisti diventerà determinante.
Nell’incastro di date che dovrebbero risolvere in extremis il vuoto politico di Madrid, il passaggio cruciale sarà dunque quello di domenica 23 ottobre, quando si riunirà il Consiglio federale del Psoe per decidere come comportarsi di fronte alla proposta di un nuovo Governo Rajoy. A guidare il fronte dell’astensione - e quindi il gruppo di chi è pronto a sostenere seppure indirettamente Rajoy, per senso di responsabilità o per opportunità politica - c’è Susana Diaz, governatrice dell’Andalusia e grande favorita nella corsa alla segreteria, che ha accusato Sanchez di avere «podemizzato il partito». Nonostante gli ordini di partito, con Sanchez e quindi con il fronte del «No è no!» a ogni costo a Rajoy, sono rimasti almeno 50 deputati sugli 85 ottenuti dal Psoe a giugno: in molti tra loro hanno già dichiarato pubblicamente che non seguiranno le indicazioni dei vertici socialisti, «costi quel che costi» perché «non disposti ad appoggiare la destra» e invece favorevoli a «un Governo di rinnovamento nazionale» che dovrebbe coinvolgere anche Podemos e Ciudadanos.
Lo scontro senza precedenti nel Psoe finirà comunque per favorire Rajoy. In Parlamento, il leader conservatore che ha guidato il Paese dal 2011 può contare sul sostegno di Ciudadanos e di Coalicion Canaria, quindi ha già dalla sua parte 170 deputati sui 350 complessivi e gli bastano 11 astensioni dei socialisti per raggiungere la fiducia. Rendendo inutile l’opposizione di Sanchez, oltre a quella di Podemos e dei movimenti indipendentisti rappresentati nelle Cortes Generales. Nel caso, davvero improbabile, che invece la Spagna finisse per ricorrere a nuove elezioni, i sondaggi sono concordi nel confermare i Popolari come partito più votato, prevedendo invece un disastro per i socialisti con la perdita di 20 seggi e il sorpasso a sinistra di Podemos.
«La cosa migliore che posso fare in questo momento è starmene in silenzio», ha detto ieri Rajoy, confermando il suo carattere prudente e schivo, ma dando anche la sensazione di non volere compromettere la nascita di un Governo che dopo lunghi mesi vede finalmente possibile. «Non posso parlare, vedremo, ma sono moderatamente ottimista», ha aggiunto entrando al Palazzo Reale per la Fiesta de la Hispanidad, con la quale il Paese iberico celebra la scoperta dell’America. «Non possiamo portarci troppo avanti con i piani, vediamo cosa succederà: la data cruciale sarà il 23 ottobre», ha detto Rajoy, già pregustando il regalo di investitura della vecchia guardia socialista.
Spagna, un nuovo governo Rajoy
Dieci mesi di stallo. Madrid verso la soluzione della crisi politica mentre l’economia continua a crescere a un ritmo del 3%
di Luca Veronese
Grazie all’astensione della vecchia guardia socialista, atteso il «sì» del Parlamento
Il nuovo Governo conservatore di Mariano Rajoy riceverà il via libera del Parlamento il 29 ottobre. E sarà l’astensione della vecchia guardia socialista a far passare la fiducia. Pedro Sanchez, il segretario del Psoe cacciato per essersi opposto in tutti i modi alla nascita di un Esecutivo conservatore, ha pochi dubbi: «Ce l’hanno fatta, sono riusciti a riprendere il partito e ora sono pronti a fare accordi con il nostro avversario, con la destra conservatrice che abbiamo sempre contrastato. Ancora devo capire bene perché lo fanno ma spero che non sia solo per la smania di conservare il potere», ha confidato ai suoi fedelissimi l’ormai ex leader del Partido socialista obrero espanol, spaccato in due e mai così in difficoltà nella sua storia.
Dopo dieci mesi senza Governo, la Spagna potrebbe uscire dalla crisi politica a poche ore dal termine del 31 ottobre, oltre il quale, in mancanza di un accordo tra le diverse formazioni, il Parlamento verrebbe sciolto automaticamente e diverrebbe inevitabile il ricorso a un nuovo voto, il terzo in un anno, a Natale. L’economia continua a stupire: l’Fmi ha appena rivisto al rialzo le stime sul Pil che, nel 2016, dovrebbe aumentare del 3,1 per cento. Ma c’è da definire in tempi rapidi una legge di bilancio che riesca a contenere il deficit pubblico: il ministro dell’Economia, Luis de Guindos, ha già spiegato che in mancanza di aggiustamenti il deficit si attesterà al 3,6% del Pil, contro il 3,1% concordato con Bruxelles, e ha avvisato che il nuovo Esecutivo sarà obbligato a intervenire con misure urgenti per recuperare circa 5,5 miliardi di euro. Ieri i rendimenti dei titoli del debito spagnolo sono tornati a salire come non accadeva da tre settimane con il decennale all’1,14 per cento.
Re Felipe VI ha annunciato che effettuerà un nuovo giro di consultazioni con i leader dei partiti tra il 24 e il 25 ottobre. Il primo voto della Camera dovrebbe tenersi il 26 o il 27 ottobre, se non verrà raggiunta la maggioranza assoluta sarà convocato entro due giorni un secondo voto, nel quale per la fiducia sarà sufficiente la maggioranza semplice, quindi il 50% più uno dei votanti. Ed è lì che l’astensione dei cosiddetti baroni socialisti diventerà determinante.
Nell’incastro di date che dovrebbero risolvere in extremis il vuoto politico di Madrid, il passaggio cruciale sarà dunque quello di domenica 23 ottobre, quando si riunirà il Consiglio federale del Psoe per decidere come comportarsi di fronte alla proposta di un nuovo Governo Rajoy. A guidare il fronte dell’astensione - e quindi il gruppo di chi è pronto a sostenere seppure indirettamente Rajoy, per senso di responsabilità o per opportunità politica - c’è Susana Diaz, governatrice dell’Andalusia e grande favorita nella corsa alla segreteria, che ha accusato Sanchez di avere «podemizzato il partito». Nonostante gli ordini di partito, con Sanchez e quindi con il fronte del «No è no!» a ogni costo a Rajoy, sono rimasti almeno 50 deputati sugli 85 ottenuti dal Psoe a giugno: in molti tra loro hanno già dichiarato pubblicamente che non seguiranno le indicazioni dei vertici socialisti, «costi quel che costi» perché «non disposti ad appoggiare la destra» e invece favorevoli a «un Governo di rinnovamento nazionale» che dovrebbe coinvolgere anche Podemos e Ciudadanos.
Lo scontro senza precedenti nel Psoe finirà comunque per favorire Rajoy. In Parlamento, il leader conservatore che ha guidato il Paese dal 2011 può contare sul sostegno di Ciudadanos e di Coalicion Canaria, quindi ha già dalla sua parte 170 deputati sui 350 complessivi e gli bastano 11 astensioni dei socialisti per raggiungere la fiducia. Rendendo inutile l’opposizione di Sanchez, oltre a quella di Podemos e dei movimenti indipendentisti rappresentati nelle Cortes Generales. Nel caso, davvero improbabile, che invece la Spagna finisse per ricorrere a nuove elezioni, i sondaggi sono concordi nel confermare i Popolari come partito più votato, prevedendo invece un disastro per i socialisti con la perdita di 20 seggi e il sorpasso a sinistra di Podemos.
«La cosa migliore che posso fare in questo momento è starmene in silenzio», ha detto ieri Rajoy, confermando il suo carattere prudente e schivo, ma dando anche la sensazione di non volere compromettere la nascita di un Governo che dopo lunghi mesi vede finalmente possibile. «Non posso parlare, vedremo, ma sono moderatamente ottimista», ha aggiunto entrando al Palazzo Reale per la Fiesta de la Hispanidad, con la quale il Paese iberico celebra la scoperta dell’America. «Non possiamo portarci troppo avanti con i piani, vediamo cosa succederà: la data cruciale sarà il 23 ottobre», ha detto Rajoy, già pregustando il regalo di investitura della vecchia guardia socialista.
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Re: La crisi dell'Europa
La Stampa 13.10.16
Se la Francia riscopre le ideologie
di Cesare Martinetti
Destra e sinistra non erano morte? Non sembrava superata la divisione novecentesca che ha ferocemente separato il mondo, l‘economia e la cultura per oltre un secolo? Niente affatto. Nella durissima corsa alla presidenziale francese che si svolgerà nella prossima primavera, tutto si gioca su questo antico crinale. Un wrestling politico appena cominciato e già caldissimo, con colpi sopra e sotto la cintura.
L’ultima scoperta è che, secondo un’indagine d’opinione pubblicata da Le Monde, una significativa fetta di sinistra si appresta ad andare a votare alle primarie della destra per impedire che Nicolas Sarkozy vinca la candidatura che gli consentirebbe di giocarsi la rivincita sul 2012, quando venne sonoramente sconfitto da François Hollande. Perché così accaniti contro Sarkò che ha già tanti guai giudiziari? Perché si dà per scontato che Marine Le Pen sarà al ballottaggio. E dunque l’elettore più machiavellico della gauche non troverebbe affatto strano mescolarsi alla destra per evitare di doversi trovare in primavera a votare per il politico più odiato contro la figlia del vecchio duce del fascismo francese.
È successo nel 2002 quando toccò votare Chirac per sbarrare la strada a Jean-Marie Le Pen arrivato inaspettatamente al ballottaggio. Allora finì 82 a 18 per il vecchio leader gollista, ma siccome la storia si ripete solitamente sotto forma di farsa, non è affatto detto che finirebbe così. E poi tra Chirac e Sarkozy c’è una bella differenza: quest’ultimo ha ormai rincorso il Front National su tutti i terreni, dalla preferenza nazionale fino all’abolizione del menu per i bambini musulmani nelle scuole. Cosa che Chirac non ha - e non avrebbe - mai fatto.
Al momento l’unico sicuro di battere la Le Pen al ballottaggio, sempre secondo i sondaggi, è Alain Juppé, il più forte competitor di Sarkozy alle primarie. È il vero erede politico di Chirac, sindaco di Bordeaux, moderato, freddo e razionale, di solidissima cultura europeista. Ma si tratta di un altro paradosso perché il Juppé ora diventato un leader di sostituzione (in mancanza d’altri) della gauche in funzione anti-Sarkozy, tra il ’95 e il ’97 era il primo ministro della destra che ha battuto record di impopolarità. Scioperi e proteste fino alle elezioni anticipate che furono un plebiscito per la sinistra rosso-verde di Lionel Jospin.
Sono dunque gli elettori di sinistra che potrebbero regalare la candidatura al vecchio nemico Juppé? Possibile perché le primarie della destra - lo scrive oggi Mediapart - si stanno trasformando in un referendum anti-Sarkozy. Anche perché il modello delle primarie è stato copiato in tutto e per tutto dall’Italia, dove a ogni giro si denunciano infiltrazioni di gruppi: i cinesi a Milano, la camorra a Napoli, etc. Per votare basta firmare una dichiarazione generica sui principi e versare due euro al partito. Il gioco si presta a manipolazioni e sospetti.
A sinistra, aspettando di vedere che farà Hollande, intanto si moltiplicano le candidature, tutte dichiaratamente «di sinistra», a cominciare da Arnaud Montebourg che di Hollande fu ministro dell’Economia. Il programma arriva a prevedere parziali e temporanee nazionalizzazioni per le imprese che delocalizzano il lavoro all’estero. Il suo successore (ora anch’egli dimissionario, in vista - forse - della presidenziale) Emmanuel Macron, unico vero volto nuovo della partita, si presenta invece come il rappresentante del nuovo orizzonte liberal, oltre destra e sinistra. Ma cosa sono ormai l’uno e l’altra? Nemmeno il vecchio filosofo teorico della «Nouvelle droite» Alain De Benoist se la sente di rispondere e, interrogato da «le1», se la cava con una battuta: «Si chiama destra tutto ciò che non è sinistra».
Se la Francia riscopre le ideologie
di Cesare Martinetti
Destra e sinistra non erano morte? Non sembrava superata la divisione novecentesca che ha ferocemente separato il mondo, l‘economia e la cultura per oltre un secolo? Niente affatto. Nella durissima corsa alla presidenziale francese che si svolgerà nella prossima primavera, tutto si gioca su questo antico crinale. Un wrestling politico appena cominciato e già caldissimo, con colpi sopra e sotto la cintura.
L’ultima scoperta è che, secondo un’indagine d’opinione pubblicata da Le Monde, una significativa fetta di sinistra si appresta ad andare a votare alle primarie della destra per impedire che Nicolas Sarkozy vinca la candidatura che gli consentirebbe di giocarsi la rivincita sul 2012, quando venne sonoramente sconfitto da François Hollande. Perché così accaniti contro Sarkò che ha già tanti guai giudiziari? Perché si dà per scontato che Marine Le Pen sarà al ballottaggio. E dunque l’elettore più machiavellico della gauche non troverebbe affatto strano mescolarsi alla destra per evitare di doversi trovare in primavera a votare per il politico più odiato contro la figlia del vecchio duce del fascismo francese.
È successo nel 2002 quando toccò votare Chirac per sbarrare la strada a Jean-Marie Le Pen arrivato inaspettatamente al ballottaggio. Allora finì 82 a 18 per il vecchio leader gollista, ma siccome la storia si ripete solitamente sotto forma di farsa, non è affatto detto che finirebbe così. E poi tra Chirac e Sarkozy c’è una bella differenza: quest’ultimo ha ormai rincorso il Front National su tutti i terreni, dalla preferenza nazionale fino all’abolizione del menu per i bambini musulmani nelle scuole. Cosa che Chirac non ha - e non avrebbe - mai fatto.
Al momento l’unico sicuro di battere la Le Pen al ballottaggio, sempre secondo i sondaggi, è Alain Juppé, il più forte competitor di Sarkozy alle primarie. È il vero erede politico di Chirac, sindaco di Bordeaux, moderato, freddo e razionale, di solidissima cultura europeista. Ma si tratta di un altro paradosso perché il Juppé ora diventato un leader di sostituzione (in mancanza d’altri) della gauche in funzione anti-Sarkozy, tra il ’95 e il ’97 era il primo ministro della destra che ha battuto record di impopolarità. Scioperi e proteste fino alle elezioni anticipate che furono un plebiscito per la sinistra rosso-verde di Lionel Jospin.
Sono dunque gli elettori di sinistra che potrebbero regalare la candidatura al vecchio nemico Juppé? Possibile perché le primarie della destra - lo scrive oggi Mediapart - si stanno trasformando in un referendum anti-Sarkozy. Anche perché il modello delle primarie è stato copiato in tutto e per tutto dall’Italia, dove a ogni giro si denunciano infiltrazioni di gruppi: i cinesi a Milano, la camorra a Napoli, etc. Per votare basta firmare una dichiarazione generica sui principi e versare due euro al partito. Il gioco si presta a manipolazioni e sospetti.
A sinistra, aspettando di vedere che farà Hollande, intanto si moltiplicano le candidature, tutte dichiaratamente «di sinistra», a cominciare da Arnaud Montebourg che di Hollande fu ministro dell’Economia. Il programma arriva a prevedere parziali e temporanee nazionalizzazioni per le imprese che delocalizzano il lavoro all’estero. Il suo successore (ora anch’egli dimissionario, in vista - forse - della presidenziale) Emmanuel Macron, unico vero volto nuovo della partita, si presenta invece come il rappresentante del nuovo orizzonte liberal, oltre destra e sinistra. Ma cosa sono ormai l’uno e l’altra? Nemmeno il vecchio filosofo teorico della «Nouvelle droite» Alain De Benoist se la sente di rispondere e, interrogato da «le1», se la cava con una battuta: «Si chiama destra tutto ciò che non è sinistra».
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