La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
DOVE MANCA LA SINISTRA LE SOCIETA' VANNO IN DISFACIMENTO
UN MINIMO DI EQUAGLIANZA E' NECESSARIO IN QUALSIASI SOCIETA' UMANA.
LA NOSTRA ESPERIENZA ITALIANA IN MATERIA E' ORAMAI TRENTENNALE.
LA SINISTRA SI E' SCIOLTA, O DISLENGUATA, COME DICONO A MILANO, E LA SOCIETA' ITALIANA E' AL DISASTRO.
ADESSO TOCCA ALL'EUROPA.
POSSIAMO DIRE CHE LA STORIA SI RIPETE, MA GLI UOMINI NON IMPARANO MAI UN C......
ANALISI
La sinistra è in crisi e l'Europa svolta a destra
Per capire il futuro dell’Europa si deve guardare alla Francia dove la sfida per l’Eliseo tra Le Pen e Fillon potrebbe dare il colpo definitivo a quel che rimane delle forze progressiste
DI BERNARD GUETTA
12 gennaio 2017
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La sinistra è in crisi e l'Europa svolta a destra
Lasciate perdere la tradizione: dite quello che vi pare alla sinistra francese ma soprattutto, innanzitutto, non auguratele buon anno. Se lo faceste, in tale augurio essa leggerebbe soltanto beffarda ironia e crudeltà, nel migliore dei casi qualcosa di derisorio perché di fatto ha già messo una croce sul 2017, l’annus horribilis nel quale i suoi scompigli e le sue divisioni interne le riservano una primavera di sconfitte, alle presidenziali e alle legislative.
A ben guardare, potreste anche individuare tre socialisti che ci credono ancora e potrebbero spiegarvi che, in fondo, non è detto che vada proprio così, tenuto conto che gli elettori occidentali ormai provano un piacere sottile a contraddire i sondaggi, vedi Trump. La Francia, vi diranno, non vorrà saperne di scegliere tra il Front National di Marine Le Pen e quell’amico di Vladimir Putin, il grande favorito degli ambienti cattolici più integralisti, che è François Fillon, il candidato della destra.
Del resto, non siamo del tutto lontani dalla verità, perché desiderio dei francesi sarebbe stato quello di vedere candidato alla presidenza Alain Juppé, uomo moderato e riflessivo, aperto, filoeuropeo e ultima incarnazione di quella destra gollista che, come De Gaulle, teneva un piede a sinistra e l’altro a destra.
Al secondo turno delle presidenziali, Juppé avrebbe inflitto una batosta a Marine Le Pen raccogliendo i consensi degli elettori di destra, di sinistra e del centro. Così avrebbero dovuto andare le cose, e invece alle loro primarie i militanti di destra non ne hanno voluto sapere di questo ex Primo ministro che assomiglia loro così poco, troppo moderato ma non abbastanza liberale e troppo ostile all’abolizione delle tutele sociali. Gli hanno preferito Fillon, più reazionario e più euroscettico, più incarnazione ideale del notaio di provincia, più liberale. Ormai il dado è tratto.
Adesso, non soltanto la Francia dovrà scegliere tra la destra dura e pura e l’estrema destra, ma oltre a ciò il risultato del 7 maggio non è nemmeno del tutto sicuro. Sì, avete letto bene: non è più del tutto inverosimile che Marine Le Pen riesca ad avere la meglio perché, avendo come avversario François Fillon, si presenterà nelle vesti di portavoce degli esclusi della globalizzazione, e molti elettori di sinistra non vorranno dare i loro voti a un Thatcher francese nemmeno per mettere i bastoni tra le ruote all’estrema destra.
L’astensione della sinistra rischia dunque di regalare l’Eliseo al Front National. Ma come? Nemmeno un pericolo simile indurrebbe la sinistra a serrare i ranghi? Prima la Brexit, poi Trump e infine Le Pen? Davvero la sinistra francese lascerebbe correre, restando immobile, incapace di scuotersi, di trascendere sé stessa, di trovare un candidato in grado una volta per tutte di ribaltare una situazione così allarmante?
Restano quattro mesi al primo turno delle presidenziali, ancora molto tempo. Parecchie cose potranno cambiare da qui ad allora, ma già dalla prima settimana dopo quest’ultima linea assunta dalla destra le cose si sono messe male. È tutta questione di aritmetica.
La sinistra ha nove candidati. Il 22 e il 29 gennaio sette di loro prenderanno parte alle primarie della Belle alliance populaire, vale a dire il PS e i suoi alleati. François Hollande, troppo impopolare per ripresentarsi, non vi parteciperà e la battaglia divamperà quindi tra il Primo ministro uscente Manuel Valls, uomo d’ordine e di grande rigore economico, i due rivali della sinistra socialista Benoît Hamon e Arnaud Montebourg, l’intellettuale della mischia Vincent Peillon, filosofo ed ex ministro dell’Istruzione, e gli outsider ambientalisti e radicali di sinistra. Il vincitore - inequivocabile, esperto, dinamico - dovrebbe essere Valls, ma è inevitabile che i tre dibattiti che precederanno questo primo turno riservino sorprese e può anche darsi che a vincere sia Hamon o Montebourg o Peillon, ovvero uno degli outsider, tenuto conto che prima dei dibattiti della destra nemmeno Fillon era stato preso sul serio.
L’asso nella manica di Valls consiste nel fatto di poter essere un candidato di sinistra che la destra moderata potrebbe preferire a Marine Le Pen al secondo turno elettorale. Quello di Hamon e di Montebourg è di essersi dimessi dal governo non appena François Hollande ha dirottato la sua politica verso destra, esasperando la base socialista con la concessione di aiuti massicci all’industria. Peillon ha dalla sua il vantaggio di poter proporre una sintesi tra la destra e la sinistra socialiste. Quanto agli outsider, il loro asso nella manica è di essere pressoché sconosciuti, perfino ai militanti, e di poter dunque offrire agli elettori l’occasione di trasformare gli ultimi in primi.
L’unica certezza è che il 29 sera non resteranno che tre candidati di sinistra: quello della Belle alliance e i due che si sono rifiutati di prendere parte alle primarie, Emmanuel Macron e Jean-Luc Mélenchon.
Macron è un politico in rapida ascesa in Francia, giovane ministro di bella presenza nel quale possono riconoscersi la destra e la sinistra, giovani e anziani, la provincia e Parigi. Ha studiato dai gesuiti, è stato membro del PS dal quale è uscito l’estate scorsa per fondare un suo movimento, En marche, che conta già oltre centomila affiliati. Non ha ancora 40 anni, ha sposato una delle sue ex professoresse, figlia di produttori di cioccolato, di 25 anni più grande di lui. Cresciuto ad Amiens, quintessenza della provincia borghese, è però un puro prodotto delle Grandes Écoles, è passato dalla banca Rothschild alla segreteria generale dell’Eliseo e quindi al ministero dell’Economia e delle Finanze.
Promotore di una legge che snellisce il Codice del Lavoro, è adorato dai grandi proprietari d’azienda, ma ancor più dai giovani imprenditori con i quali parla correntemente di digitale e di nuova rivoluzione industriale. Ancora acerbo, con minore esperienza ma nettamente più affascinante e altrettanto filoeuropeo, Macron è la versione giovanile di Juppé della sinistra, ma con tutto ciò che egli rappresenta è in rottura con l’insieme della classe politica le cui azioni sono al minimo storico. In Francia come dappertutto.
Mélenchon è il suo esatto contrario. Ex trotskista oggi 65enne, Mélenchon è stato un veterano del PS dal quale è uscito sbattendo la porta per portare a termine con successo una sorta di offerta pubblica d’acquisto del PC e della sinistra più a sinistra. È un oratore del XIX secolo, sfavillante, hugoliano, intriso di cultura francese e di storia del movimento operaio, e gli piace fare a pezzi la stampa, Bruxelles, l’imperialismo americano e tutti i partiti. È un uomo che sui suoi meeting sa far soffiare il vento del Grand Soir, l’idea di un’onda rivoluzionaria.
Ciò nonostante, egli non è rivoluzionario. Molto più moderato di quanto appaia, è un socialdemocratico ma, a differenza dei socialisti francesi e dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi, è imbevuto di una giusta collera nei confronti dell’ingiustizia e resta fedele alle radici operaie della sinistra europea.
La sfida di Macron consisterà nel far vincere la sinistra federando i moderati tanto dei progressisti quanto dei conservatori, sconfiggendo François Fillon al primo turno e sbaragliando Marine Le Pen al secondo. Qualora non ci riuscisse, Mélenchon potrebbe ottenere in ogni caso un buon risultato che gli consenta di ricostituire, all’opposizione, una sinistra vicina alle nuove sinistre di Spagna e Grecia, Podemos e Syriza. Per il momento, però, la sinistra francese è perdente, ai margini, come del resto tutte le sinistre in Europa.
Divisa tra la Belle Alliance, Macron e Mélenchon che raggiungono il 15 per cento delle intenzioni di voto, la sinistra non potrà che perdere al primo turno e lasciare che destra ed estrema destra si disputino la presidenza. Perché? Che sta succedendo alla sinistra, e non soltanto in Francia ma ovunque?
La risposta è che il rapporto di forze tra capitale e lavoro si è capovolto quasi del tutto dagli anni Ottanta a oggi.
Nel dopoguerra, la situazione era favorevole alla sinistra. La ricostruzione assicurava la piena occupazione. La minaccia sovietica e la potenza dei partiti comunisti europei avevano il loro peso sullo scacchiere politico. Ogni cosa induceva governi e proprietari d’azienda a concessioni sociali. Ogni sciopero o quasi si concludeva con nuovi aumenti salariali, nuove estensioni delle tutele garantite a operai e subordinati.
Il dopoguerra è stato l’epoca d’oro della sinistra ma, una volta giunta a termine la ricostruzione, ha risuscitato la disoccupazione; il crollo sovietico ha affrancato il capitale dalla paura delle rivoluzioni; la riduzione delle distanze ha permesso al capitale di delocalizzare la produzione in paesi dai salari irrisori e dalle tutele inesistenti, e l’ascesa delle nuove potenze industriali ha condannato il settore pubblico e quello privato a ridurre drasticamente i costi salariali a fronte di una concorrenza di giorno in giorno più aggressiva.
Non soltanto adesso l’industria non è più a corto di manodopera e non teme più il Comunismo, ma oltre a ciò, cascasse il mondo, deve abbassare i prezzi dei costi occidentali. Il rapporto di forze avvantaggia ormai il capitale che può fare spallucce con noncuranza davanti alle regolamentazioni sociali dei vecchi paesi industriali, perché può sempre sottrarsi a esse investendo nei paesi emergenti. Di conseguenza, gli Stati nazione non possono più trovare un punto d’accordo tra gli interessi dei lavoratori e del capitale, perché l’imperativo assoluto è mantenere l’occupazione all’interno delle loro frontiere, per ridurre la disoccupazione e i deficit di bilancio. La sinistra, in parole povere, non è più in grado di imporre il progresso e i compromessi sociali che erano la sua stessa ragion d’essere e le attiravano i voti dei salariati. La sinistra non ha tradito.
È disarmata e lo sarà a lungo, perché non può invitare i suoi elettori a guardare i nuovi rapporti di forza che si sono venuti a creare senza confessare nel contempo la propria impotenza, e perché continua a indebolirsi sempre più, di elezione in elezione, visto che le soluzioni che le si prospettano - e ce ne sono - sono in ogni caso lontane o difficili da difendere.
Una delle soluzioni è l’Europa. Uniti, gli Stati europei potrebbero ritrovare il loro ruolo di arbitri, perché l’ascesa di una potenza pubblica di dimensione continentale potrebbe imporre al capitale di negoziare un nuovo compromesso sociale e agli altri Stati-continente le condizioni di transazioni commerciali eque e reciprocamente vantaggiose. Unite da un potere esecutivo e da un potere legislativo comuni, le nazioni e le sinistre europee potrebbero realizzare ciò che oggi non sono in grado di fare. Peccato che l’unità dell’Europa di questi tempi non sia più un’ambizione in grado di appassionare e coinvolgere, e che in ogni caso non lo sia nelle corse elettorali.
Assimilata alle politiche di risanamento di bilancio, l’Unione è diventata impopolare, è percepita alla stregua del cavallo di Troia della globalizzazione, e la sinistra incontra dunque difficoltà sia a perorarne il rafforzamento sia a dire ai salariati che ormai pensioni e assicurazioni malattia devono essere finanziate dalle imposte e non più dagli oneri sociali delle imprese.
Proprio quando le entrate dei proprietari d’azienda e l’evasione fiscale delle grandi imprese sfiorano livelli osceni mai raggiunti in precedenza, la sinistra non può annunciare ai suoi elettori che, contrariamente alle industrie pesanti di ieri, le industrie innovative contemporanee - quelle dedite alla ricerca e alle tecnologie del futuro, quelle del nostro comune avvenire - non hanno ancora le spalle sufficientemente solide per garantire il perpetuarsi del modello sociale europeo. A meno di precipitare al medesimo livello di rifiuto di François Hollande – che negli ultimi tempi egli si è arrischiato ad avere, bruscamente e inspiegabilmente -, la sinistra non potrà invocare dall’oggi al domani la necessità di aiutare l’industria per salvaguardare le tutele sociali.
La sinistra, francese ed europea, è dunque a un punto morto.
Potrà riprendersi e uscirne soltanto attingendo a uno stesso tempo a Macron e a Mélenchon, all’indignazione dell’uno e alla volontà dell’altro di superare le frontiere del passato e riunire sotto un’unica bandiera tutti i sostenitori del compromesso sociale, tutti i fautori di un nuovo compromesso per un nuovo secolo. Impossibile?
No, soltanto difficile. Siamo ancora lontani da quel traguardo ma - se non vogliamo essere costretti a scegliere tra thatcherismo e nazionalismo, tra destra dura e pura ed estrema destra, tra violenza sociale e insolvenza dei nostri paesi - sarà indispensabile passare proprio da lì e ricominciare a parlare alla sinistra per reinventarla, partire dalla realtà per trasformarla, riportare in auge l’utopia e rimettere l’immaginazione al potere.
Traduzione di Anna Bissanti
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
UN MINIMO DI EQUAGLIANZA E' NECESSARIO IN QUALSIASI SOCIETA' UMANA.
LA NOSTRA ESPERIENZA ITALIANA IN MATERIA E' ORAMAI TRENTENNALE.
LA SINISTRA SI E' SCIOLTA, O DISLENGUATA, COME DICONO A MILANO, E LA SOCIETA' ITALIANA E' AL DISASTRO.
ADESSO TOCCA ALL'EUROPA.
POSSIAMO DIRE CHE LA STORIA SI RIPETE, MA GLI UOMINI NON IMPARANO MAI UN C......
ANALISI
La sinistra è in crisi e l'Europa svolta a destra
Per capire il futuro dell’Europa si deve guardare alla Francia dove la sfida per l’Eliseo tra Le Pen e Fillon potrebbe dare il colpo definitivo a quel che rimane delle forze progressiste
DI BERNARD GUETTA
12 gennaio 2017
3
La sinistra è in crisi e l'Europa svolta a destra
Lasciate perdere la tradizione: dite quello che vi pare alla sinistra francese ma soprattutto, innanzitutto, non auguratele buon anno. Se lo faceste, in tale augurio essa leggerebbe soltanto beffarda ironia e crudeltà, nel migliore dei casi qualcosa di derisorio perché di fatto ha già messo una croce sul 2017, l’annus horribilis nel quale i suoi scompigli e le sue divisioni interne le riservano una primavera di sconfitte, alle presidenziali e alle legislative.
A ben guardare, potreste anche individuare tre socialisti che ci credono ancora e potrebbero spiegarvi che, in fondo, non è detto che vada proprio così, tenuto conto che gli elettori occidentali ormai provano un piacere sottile a contraddire i sondaggi, vedi Trump. La Francia, vi diranno, non vorrà saperne di scegliere tra il Front National di Marine Le Pen e quell’amico di Vladimir Putin, il grande favorito degli ambienti cattolici più integralisti, che è François Fillon, il candidato della destra.
Del resto, non siamo del tutto lontani dalla verità, perché desiderio dei francesi sarebbe stato quello di vedere candidato alla presidenza Alain Juppé, uomo moderato e riflessivo, aperto, filoeuropeo e ultima incarnazione di quella destra gollista che, come De Gaulle, teneva un piede a sinistra e l’altro a destra.
Al secondo turno delle presidenziali, Juppé avrebbe inflitto una batosta a Marine Le Pen raccogliendo i consensi degli elettori di destra, di sinistra e del centro. Così avrebbero dovuto andare le cose, e invece alle loro primarie i militanti di destra non ne hanno voluto sapere di questo ex Primo ministro che assomiglia loro così poco, troppo moderato ma non abbastanza liberale e troppo ostile all’abolizione delle tutele sociali. Gli hanno preferito Fillon, più reazionario e più euroscettico, più incarnazione ideale del notaio di provincia, più liberale. Ormai il dado è tratto.
Adesso, non soltanto la Francia dovrà scegliere tra la destra dura e pura e l’estrema destra, ma oltre a ciò il risultato del 7 maggio non è nemmeno del tutto sicuro. Sì, avete letto bene: non è più del tutto inverosimile che Marine Le Pen riesca ad avere la meglio perché, avendo come avversario François Fillon, si presenterà nelle vesti di portavoce degli esclusi della globalizzazione, e molti elettori di sinistra non vorranno dare i loro voti a un Thatcher francese nemmeno per mettere i bastoni tra le ruote all’estrema destra.
L’astensione della sinistra rischia dunque di regalare l’Eliseo al Front National. Ma come? Nemmeno un pericolo simile indurrebbe la sinistra a serrare i ranghi? Prima la Brexit, poi Trump e infine Le Pen? Davvero la sinistra francese lascerebbe correre, restando immobile, incapace di scuotersi, di trascendere sé stessa, di trovare un candidato in grado una volta per tutte di ribaltare una situazione così allarmante?
Restano quattro mesi al primo turno delle presidenziali, ancora molto tempo. Parecchie cose potranno cambiare da qui ad allora, ma già dalla prima settimana dopo quest’ultima linea assunta dalla destra le cose si sono messe male. È tutta questione di aritmetica.
La sinistra ha nove candidati. Il 22 e il 29 gennaio sette di loro prenderanno parte alle primarie della Belle alliance populaire, vale a dire il PS e i suoi alleati. François Hollande, troppo impopolare per ripresentarsi, non vi parteciperà e la battaglia divamperà quindi tra il Primo ministro uscente Manuel Valls, uomo d’ordine e di grande rigore economico, i due rivali della sinistra socialista Benoît Hamon e Arnaud Montebourg, l’intellettuale della mischia Vincent Peillon, filosofo ed ex ministro dell’Istruzione, e gli outsider ambientalisti e radicali di sinistra. Il vincitore - inequivocabile, esperto, dinamico - dovrebbe essere Valls, ma è inevitabile che i tre dibattiti che precederanno questo primo turno riservino sorprese e può anche darsi che a vincere sia Hamon o Montebourg o Peillon, ovvero uno degli outsider, tenuto conto che prima dei dibattiti della destra nemmeno Fillon era stato preso sul serio.
L’asso nella manica di Valls consiste nel fatto di poter essere un candidato di sinistra che la destra moderata potrebbe preferire a Marine Le Pen al secondo turno elettorale. Quello di Hamon e di Montebourg è di essersi dimessi dal governo non appena François Hollande ha dirottato la sua politica verso destra, esasperando la base socialista con la concessione di aiuti massicci all’industria. Peillon ha dalla sua il vantaggio di poter proporre una sintesi tra la destra e la sinistra socialiste. Quanto agli outsider, il loro asso nella manica è di essere pressoché sconosciuti, perfino ai militanti, e di poter dunque offrire agli elettori l’occasione di trasformare gli ultimi in primi.
L’unica certezza è che il 29 sera non resteranno che tre candidati di sinistra: quello della Belle alliance e i due che si sono rifiutati di prendere parte alle primarie, Emmanuel Macron e Jean-Luc Mélenchon.
Macron è un politico in rapida ascesa in Francia, giovane ministro di bella presenza nel quale possono riconoscersi la destra e la sinistra, giovani e anziani, la provincia e Parigi. Ha studiato dai gesuiti, è stato membro del PS dal quale è uscito l’estate scorsa per fondare un suo movimento, En marche, che conta già oltre centomila affiliati. Non ha ancora 40 anni, ha sposato una delle sue ex professoresse, figlia di produttori di cioccolato, di 25 anni più grande di lui. Cresciuto ad Amiens, quintessenza della provincia borghese, è però un puro prodotto delle Grandes Écoles, è passato dalla banca Rothschild alla segreteria generale dell’Eliseo e quindi al ministero dell’Economia e delle Finanze.
Promotore di una legge che snellisce il Codice del Lavoro, è adorato dai grandi proprietari d’azienda, ma ancor più dai giovani imprenditori con i quali parla correntemente di digitale e di nuova rivoluzione industriale. Ancora acerbo, con minore esperienza ma nettamente più affascinante e altrettanto filoeuropeo, Macron è la versione giovanile di Juppé della sinistra, ma con tutto ciò che egli rappresenta è in rottura con l’insieme della classe politica le cui azioni sono al minimo storico. In Francia come dappertutto.
Mélenchon è il suo esatto contrario. Ex trotskista oggi 65enne, Mélenchon è stato un veterano del PS dal quale è uscito sbattendo la porta per portare a termine con successo una sorta di offerta pubblica d’acquisto del PC e della sinistra più a sinistra. È un oratore del XIX secolo, sfavillante, hugoliano, intriso di cultura francese e di storia del movimento operaio, e gli piace fare a pezzi la stampa, Bruxelles, l’imperialismo americano e tutti i partiti. È un uomo che sui suoi meeting sa far soffiare il vento del Grand Soir, l’idea di un’onda rivoluzionaria.
Ciò nonostante, egli non è rivoluzionario. Molto più moderato di quanto appaia, è un socialdemocratico ma, a differenza dei socialisti francesi e dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi, è imbevuto di una giusta collera nei confronti dell’ingiustizia e resta fedele alle radici operaie della sinistra europea.
La sfida di Macron consisterà nel far vincere la sinistra federando i moderati tanto dei progressisti quanto dei conservatori, sconfiggendo François Fillon al primo turno e sbaragliando Marine Le Pen al secondo. Qualora non ci riuscisse, Mélenchon potrebbe ottenere in ogni caso un buon risultato che gli consenta di ricostituire, all’opposizione, una sinistra vicina alle nuove sinistre di Spagna e Grecia, Podemos e Syriza. Per il momento, però, la sinistra francese è perdente, ai margini, come del resto tutte le sinistre in Europa.
Divisa tra la Belle Alliance, Macron e Mélenchon che raggiungono il 15 per cento delle intenzioni di voto, la sinistra non potrà che perdere al primo turno e lasciare che destra ed estrema destra si disputino la presidenza. Perché? Che sta succedendo alla sinistra, e non soltanto in Francia ma ovunque?
La risposta è che il rapporto di forze tra capitale e lavoro si è capovolto quasi del tutto dagli anni Ottanta a oggi.
Nel dopoguerra, la situazione era favorevole alla sinistra. La ricostruzione assicurava la piena occupazione. La minaccia sovietica e la potenza dei partiti comunisti europei avevano il loro peso sullo scacchiere politico. Ogni cosa induceva governi e proprietari d’azienda a concessioni sociali. Ogni sciopero o quasi si concludeva con nuovi aumenti salariali, nuove estensioni delle tutele garantite a operai e subordinati.
Il dopoguerra è stato l’epoca d’oro della sinistra ma, una volta giunta a termine la ricostruzione, ha risuscitato la disoccupazione; il crollo sovietico ha affrancato il capitale dalla paura delle rivoluzioni; la riduzione delle distanze ha permesso al capitale di delocalizzare la produzione in paesi dai salari irrisori e dalle tutele inesistenti, e l’ascesa delle nuove potenze industriali ha condannato il settore pubblico e quello privato a ridurre drasticamente i costi salariali a fronte di una concorrenza di giorno in giorno più aggressiva.
Non soltanto adesso l’industria non è più a corto di manodopera e non teme più il Comunismo, ma oltre a ciò, cascasse il mondo, deve abbassare i prezzi dei costi occidentali. Il rapporto di forze avvantaggia ormai il capitale che può fare spallucce con noncuranza davanti alle regolamentazioni sociali dei vecchi paesi industriali, perché può sempre sottrarsi a esse investendo nei paesi emergenti. Di conseguenza, gli Stati nazione non possono più trovare un punto d’accordo tra gli interessi dei lavoratori e del capitale, perché l’imperativo assoluto è mantenere l’occupazione all’interno delle loro frontiere, per ridurre la disoccupazione e i deficit di bilancio. La sinistra, in parole povere, non è più in grado di imporre il progresso e i compromessi sociali che erano la sua stessa ragion d’essere e le attiravano i voti dei salariati. La sinistra non ha tradito.
È disarmata e lo sarà a lungo, perché non può invitare i suoi elettori a guardare i nuovi rapporti di forza che si sono venuti a creare senza confessare nel contempo la propria impotenza, e perché continua a indebolirsi sempre più, di elezione in elezione, visto che le soluzioni che le si prospettano - e ce ne sono - sono in ogni caso lontane o difficili da difendere.
Una delle soluzioni è l’Europa. Uniti, gli Stati europei potrebbero ritrovare il loro ruolo di arbitri, perché l’ascesa di una potenza pubblica di dimensione continentale potrebbe imporre al capitale di negoziare un nuovo compromesso sociale e agli altri Stati-continente le condizioni di transazioni commerciali eque e reciprocamente vantaggiose. Unite da un potere esecutivo e da un potere legislativo comuni, le nazioni e le sinistre europee potrebbero realizzare ciò che oggi non sono in grado di fare. Peccato che l’unità dell’Europa di questi tempi non sia più un’ambizione in grado di appassionare e coinvolgere, e che in ogni caso non lo sia nelle corse elettorali.
Assimilata alle politiche di risanamento di bilancio, l’Unione è diventata impopolare, è percepita alla stregua del cavallo di Troia della globalizzazione, e la sinistra incontra dunque difficoltà sia a perorarne il rafforzamento sia a dire ai salariati che ormai pensioni e assicurazioni malattia devono essere finanziate dalle imposte e non più dagli oneri sociali delle imprese.
Proprio quando le entrate dei proprietari d’azienda e l’evasione fiscale delle grandi imprese sfiorano livelli osceni mai raggiunti in precedenza, la sinistra non può annunciare ai suoi elettori che, contrariamente alle industrie pesanti di ieri, le industrie innovative contemporanee - quelle dedite alla ricerca e alle tecnologie del futuro, quelle del nostro comune avvenire - non hanno ancora le spalle sufficientemente solide per garantire il perpetuarsi del modello sociale europeo. A meno di precipitare al medesimo livello di rifiuto di François Hollande – che negli ultimi tempi egli si è arrischiato ad avere, bruscamente e inspiegabilmente -, la sinistra non potrà invocare dall’oggi al domani la necessità di aiutare l’industria per salvaguardare le tutele sociali.
La sinistra, francese ed europea, è dunque a un punto morto.
Potrà riprendersi e uscirne soltanto attingendo a uno stesso tempo a Macron e a Mélenchon, all’indignazione dell’uno e alla volontà dell’altro di superare le frontiere del passato e riunire sotto un’unica bandiera tutti i sostenitori del compromesso sociale, tutti i fautori di un nuovo compromesso per un nuovo secolo. Impossibile?
No, soltanto difficile. Siamo ancora lontani da quel traguardo ma - se non vogliamo essere costretti a scegliere tra thatcherismo e nazionalismo, tra destra dura e pura ed estrema destra, tra violenza sociale e insolvenza dei nostri paesi - sarà indispensabile passare proprio da lì e ricominciare a parlare alla sinistra per reinventarla, partire dalla realtà per trasformarla, riportare in auge l’utopia e rimettere l’immaginazione al potere.
Traduzione di Anna Bissanti
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Re: La crisi dell'Europa
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Traviare la Germania? Ci riescono sempre, e sono guai
Scritto il 19/1/17 • nella Categoria: idee Condividi
Così seria, rigorosa, diligente. E così facile da manipolare. Per questo la Germania finisce per essere il problema numero uno dell’Europa: lo fu con Hitler, lo è oggi con la Merkel e il suo rigore devastante. Lo afferma “Grande Oriente Democratico”, sito curato da Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che svela il ruolo fondamentale, a livello internazionale, di 36 Ur-Lodges che rappresentano il vertice occulto, apolide e massonico, del supremo potere mondiale, decisivo nella storia del ‘900 e nell’attualità dei nostri giorni. «A fronte delle giuste considerazioni sui vantaggi (cinici) conseguiti dal sistema-Germania grazie alle attuali politiche suicide della Ue – premette il post – bisogna tuttavia rifuggire da qualsivoglia demonizzazione del popolo tedesco», composto da «grandi filosofi, artisti, intellettuali di spessore», ma anche da «una genia piuttosto facile da manipolare». Ovvero: «Non è colpa loro e non è un problema razziale-biologico, quanto piuttosto socio-culturale». In altre parole: a scadenze fisse, l’Europa (che non è “innocente”) paga il prezzo, tremendo, della grande fragilità psicologica della Germania.
«Per le stesse ragioni per le quali la cultura clerical-fascista e poi comunista e democristiana ha reso larghe fasce di italiani ipocriti, corrotti, doppiogiochisti e vili (dimenticando la grande lezione dei patrioti risorgimentali), i tedeschi si innamorano di dogmi fideistici in modo assoluto e ne deducono una serie di comportamenti scellerati, almeno fino a quando qualche shock traumatico non li ridesta alla ragione e allo spirito critico», scrive “Grande Oriente Democratico”, ricordando che negli anni ‘30 «la crescita economica e militare della Germania hitleriana fu finanziata anche da ingenti capitali provenienti da determinati ambienti finanziari massonici inglesi e statunitensi (di matrice conservatrice e reazionaria)». Ambienti «simpatizzanti con l’esperimento nazionalsocialista tedesco e con quello fascista italiano». E tutto questo «proprio mentre, con spregiudicata mistificazione manipolatrice per le solite masse di gonzi, fascisti e nazisti imprecavano contro le consorterie demo-pluto-giudaico-massoniche». In realtà, «i massoni progressisti furono ovunque perseguitati, nell’Europa a dominazione nazi-fascista», e la massoneria in quanto istituzione ufficiale fu messa fuori legge. L’altra massoneria, quella reazionaria, era invece pienamente in sella.
«La regia economica dell’Italia fu affidata da Mussolini al massone (ed ex socialista) Alberto Beneduce», continua il sito curato da Magaldi, osservando che, nel contempo, il Gran Consiglio del Fascismo «era quasi completamente composto di ex massoni reazionari». E in parallelo, la direzione dell’economia della Germania nazista fu coordinata dal massone Hjalmar Schacht. Intendendiamoci: «Non c’è dubbio che il popolo tedesco, esasperato dalle dissennate politiche vessatorie propugnate dagli anglo-francesi dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e ancor più dal ritiro dei capitali statunitensi a seguito della Grande Crisi del 1929, fu abilmente condotto ad affidarsi alle cure del nazionalsocialismo». Il partito di Hitler «fu finanziato originariamente dalla più influente, cosmopolita e massonica (di inclinazione reazionaria) industria e alta finanza tedesca, significativamente collegata con ambienti “fraterni” della City di Londra e di Wall Street, i quali a loro volta intervennero a far ri-affluire capitali in Germania dopo che Hitler fu salito al potere».
L’esperimento tedesco avrebbe letteralmente seppellito la democrazia in Europa, se non fosse stato bloccato da forze determinanti. “Grande Oriente Democratico” sottolinea «l’intervento provvidenziale (e in extremis) dei massoni progressisti euro-atlantici (a partire dalla cerchia di Roosevelt e con l’apporto dei massoni conservatori riuniti attorno a Winston Churchill, “guariti” dalla simpatia per il fascismo, pur in presenza di certa aristocrazia massonica britannica legata a filo doppio con il regime nazista». Senza l’intervento statunitense del 1941, ovviamente, «l’Europa sarebbe divenuta un continente egemonizzato da un’oligarchia sovranazionale che aveva nella Germania hitleriana la sua formidabile e parzialmente dissimulata testa di ponte». E ora, «a distanza di molti decenni e in uno scenario altrettanto complesso di dissimulazioni e mistificazioni mediatico-politiche», ecco che «il veleno della manipolazione del popolo teutonico» è stato nuovamente «cosparso a piene mani», da quando nel 2005 Angela Merkel ha iniziato la sua esperienza di governo alla guida dei tedeschi riunificati. Corsi e ricorsi: così come la congiura anti-germanica dopo la Prima Guerra Mondiale spinse i tedeschi tra le braccia di Hitler (e dei suoi sostenitori occulti), analogamente – con qualche eccezione – la coscienza collettiva tedesca «è stata plasmata negli ultimi anni per concordare e convergere su un progetto egemonico neo-nazionalista, che è anche sostanzialmente anti-europeista».
Il sito curato da Magaldi accusa la Germania odierna di «perseguire sfacciatamente un disegno di destrutturazione degli Stati europei più fragili, al fine di realizzare una odiosa forma di egemonia cinica e predatoria», peraltro – come già negli anni ‘30 – anche oggi «guidata da fili che riconducono a burattinai sovra-nazionali, globali e cosmopoliti, indifferenti ai destini dei popoli europei nello stesso grado in cui lo sono della manovalanza cinese, asiatica, africana o sudamericana». Di nuovo, «la popolazione della Germania è stata irretita e manipolata». Il miraggio è quello di «una straordinaria egemonia continentale esattamente come lo fu ieri, negli anni del regime hitleriano». Non a caso, «le politiche di austerità, rigore, suicidio e de-crescita del resto d’Europa sono il fondamento su cui il governo della Merkel sta edificando un luciferino e cinico benessere per larghe fasce (anche se non tutte) della sua nazione. E intanto altri soggetti hanno realizzato e realizzeranno colossali profitti speculando sul balletto degli spread che coinvolge i bond di tutte le nazioni europee che non siano la Germania».
Se la Germania riuscirà a completare, con le legislazioni del rigore, «quella egemonia razzista e nazionalista che non fu raggiunta dal regime hitleriano» a suon di bombe e stragim, i veri burattinai di tutta l’operazione anti-europea in corso «si godranno i dividendi economici, con l’acquisizione e sostituzione a prezzi stracciati di industrie private dei paesi schiacciati dalla crisi, nonché mediante il business colossale della privatizzazione dei servizi locali di pubblica utilità e della dismissione di beni e industrie statali». Magaldi include anche i dividendi “politici” di quella che definisce «una involuzione tecnocratica ed oligarchica del Vecchio Continente». Corsi e ricorsi, anche nel bene? Magaldi, che è presidente del Movimento Roosevelt (metapolitico e trasversale, per il “risveglio” democratico dei partiti) si augura che «salti fuori un nuovo gruppo di combattenti come quello che permise al “fratello” Franklin Delano Roosevelt (e poi ai “fratelli” Truman e Marshall) di ristabilire libertà, democrazia e benessere per l’Europa e per l’Occidente».
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Traviare la Germania? Ci riescono sempre, e sono guai
Scritto il 19/1/17 • nella Categoria: idee Condividi
Così seria, rigorosa, diligente. E così facile da manipolare. Per questo la Germania finisce per essere il problema numero uno dell’Europa: lo fu con Hitler, lo è oggi con la Merkel e il suo rigore devastante. Lo afferma “Grande Oriente Democratico”, sito curato da Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che svela il ruolo fondamentale, a livello internazionale, di 36 Ur-Lodges che rappresentano il vertice occulto, apolide e massonico, del supremo potere mondiale, decisivo nella storia del ‘900 e nell’attualità dei nostri giorni. «A fronte delle giuste considerazioni sui vantaggi (cinici) conseguiti dal sistema-Germania grazie alle attuali politiche suicide della Ue – premette il post – bisogna tuttavia rifuggire da qualsivoglia demonizzazione del popolo tedesco», composto da «grandi filosofi, artisti, intellettuali di spessore», ma anche da «una genia piuttosto facile da manipolare». Ovvero: «Non è colpa loro e non è un problema razziale-biologico, quanto piuttosto socio-culturale». In altre parole: a scadenze fisse, l’Europa (che non è “innocente”) paga il prezzo, tremendo, della grande fragilità psicologica della Germania.
«Per le stesse ragioni per le quali la cultura clerical-fascista e poi comunista e democristiana ha reso larghe fasce di italiani ipocriti, corrotti, doppiogiochisti e vili (dimenticando la grande lezione dei patrioti risorgimentali), i tedeschi si innamorano di dogmi fideistici in modo assoluto e ne deducono una serie di comportamenti scellerati, almeno fino a quando qualche shock traumatico non li ridesta alla ragione e allo spirito critico», scrive “Grande Oriente Democratico”, ricordando che negli anni ‘30 «la crescita economica e militare della Germania hitleriana fu finanziata anche da ingenti capitali provenienti da determinati ambienti finanziari massonici inglesi e statunitensi (di matrice conservatrice e reazionaria)». Ambienti «simpatizzanti con l’esperimento nazionalsocialista tedesco e con quello fascista italiano». E tutto questo «proprio mentre, con spregiudicata mistificazione manipolatrice per le solite masse di gonzi, fascisti e nazisti imprecavano contro le consorterie demo-pluto-giudaico-massoniche». In realtà, «i massoni progressisti furono ovunque perseguitati, nell’Europa a dominazione nazi-fascista», e la massoneria in quanto istituzione ufficiale fu messa fuori legge. L’altra massoneria, quella reazionaria, era invece pienamente in sella.
«La regia economica dell’Italia fu affidata da Mussolini al massone (ed ex socialista) Alberto Beneduce», continua il sito curato da Magaldi, osservando che, nel contempo, il Gran Consiglio del Fascismo «era quasi completamente composto di ex massoni reazionari». E in parallelo, la direzione dell’economia della Germania nazista fu coordinata dal massone Hjalmar Schacht. Intendendiamoci: «Non c’è dubbio che il popolo tedesco, esasperato dalle dissennate politiche vessatorie propugnate dagli anglo-francesi dopo la fine della Prima Guerra Mondiale e ancor più dal ritiro dei capitali statunitensi a seguito della Grande Crisi del 1929, fu abilmente condotto ad affidarsi alle cure del nazionalsocialismo». Il partito di Hitler «fu finanziato originariamente dalla più influente, cosmopolita e massonica (di inclinazione reazionaria) industria e alta finanza tedesca, significativamente collegata con ambienti “fraterni” della City di Londra e di Wall Street, i quali a loro volta intervennero a far ri-affluire capitali in Germania dopo che Hitler fu salito al potere».
L’esperimento tedesco avrebbe letteralmente seppellito la democrazia in Europa, se non fosse stato bloccato da forze determinanti. “Grande Oriente Democratico” sottolinea «l’intervento provvidenziale (e in extremis) dei massoni progressisti euro-atlantici (a partire dalla cerchia di Roosevelt e con l’apporto dei massoni conservatori riuniti attorno a Winston Churchill, “guariti” dalla simpatia per il fascismo, pur in presenza di certa aristocrazia massonica britannica legata a filo doppio con il regime nazista». Senza l’intervento statunitense del 1941, ovviamente, «l’Europa sarebbe divenuta un continente egemonizzato da un’oligarchia sovranazionale che aveva nella Germania hitleriana la sua formidabile e parzialmente dissimulata testa di ponte». E ora, «a distanza di molti decenni e in uno scenario altrettanto complesso di dissimulazioni e mistificazioni mediatico-politiche», ecco che «il veleno della manipolazione del popolo teutonico» è stato nuovamente «cosparso a piene mani», da quando nel 2005 Angela Merkel ha iniziato la sua esperienza di governo alla guida dei tedeschi riunificati. Corsi e ricorsi: così come la congiura anti-germanica dopo la Prima Guerra Mondiale spinse i tedeschi tra le braccia di Hitler (e dei suoi sostenitori occulti), analogamente – con qualche eccezione – la coscienza collettiva tedesca «è stata plasmata negli ultimi anni per concordare e convergere su un progetto egemonico neo-nazionalista, che è anche sostanzialmente anti-europeista».
Il sito curato da Magaldi accusa la Germania odierna di «perseguire sfacciatamente un disegno di destrutturazione degli Stati europei più fragili, al fine di realizzare una odiosa forma di egemonia cinica e predatoria», peraltro – come già negli anni ‘30 – anche oggi «guidata da fili che riconducono a burattinai sovra-nazionali, globali e cosmopoliti, indifferenti ai destini dei popoli europei nello stesso grado in cui lo sono della manovalanza cinese, asiatica, africana o sudamericana». Di nuovo, «la popolazione della Germania è stata irretita e manipolata». Il miraggio è quello di «una straordinaria egemonia continentale esattamente come lo fu ieri, negli anni del regime hitleriano». Non a caso, «le politiche di austerità, rigore, suicidio e de-crescita del resto d’Europa sono il fondamento su cui il governo della Merkel sta edificando un luciferino e cinico benessere per larghe fasce (anche se non tutte) della sua nazione. E intanto altri soggetti hanno realizzato e realizzeranno colossali profitti speculando sul balletto degli spread che coinvolge i bond di tutte le nazioni europee che non siano la Germania».
Se la Germania riuscirà a completare, con le legislazioni del rigore, «quella egemonia razzista e nazionalista che non fu raggiunta dal regime hitleriano» a suon di bombe e stragim, i veri burattinai di tutta l’operazione anti-europea in corso «si godranno i dividendi economici, con l’acquisizione e sostituzione a prezzi stracciati di industrie private dei paesi schiacciati dalla crisi, nonché mediante il business colossale della privatizzazione dei servizi locali di pubblica utilità e della dismissione di beni e industrie statali». Magaldi include anche i dividendi “politici” di quella che definisce «una involuzione tecnocratica ed oligarchica del Vecchio Continente». Corsi e ricorsi, anche nel bene? Magaldi, che è presidente del Movimento Roosevelt (metapolitico e trasversale, per il “risveglio” democratico dei partiti) si augura che «salti fuori un nuovo gruppo di combattenti come quello che permise al “fratello” Franklin Delano Roosevelt (e poi ai “fratelli” Truman e Marshall) di ristabilire libertà, democrazia e benessere per l’Europa e per l’Occidente».
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Re: La crisi dell'Europa
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L’Italia nell’Ue finirà all’inferno: così parlò Craxi, 20 anni fa
Scritto il 22/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Unione Europea uguale: declino, per l’Italia, la prima vittima dell’euro, grazie a un certo Romano Prodi. E il contesto è chiaro: si scrive globalizzazione, ma si legge impoverimento della società e perdita di sovranità e indipendenza. Sono alcune delle “perle profetiche” di quello che Vincenzo Bellisario definisce «l’ultimo statista italiano», ovvero il vutuperato Bettino Craxi, spentosi 17 anni fa nel suo esilio di Hammamet. Un uomo che «bisognava eliminare a tutti i costi», scrive Bellisario, sul blog del “Movimento Roosevelt”, ricordando alcuni punti-chiave del vero lascito politico del leader socialista, eliminato da Mani Pulite alla vigilia dell’ingresso italiano nella sciagurata “camicia di forza” di Bruxelles, i cui esiti si possono misurare ogni giorno: disoccupazione dilagante e crollo delle aziende, con il governo costretto a elemosinare deroghe di spesa per poter far fronte a emergenze catastrofiche come il terremoto. «C’è da chiedersi perché si continua a magnificare l’entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del paradiso terrestre», scriveva Craxi oltre vent’anni fa. Con questi vincoli Ue, «l’Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all’inferno».
«Ciò che si profila, ormai – profetizzava Craxi – è un’Europa in preda alla disoccupazione e alla conflittualità sociale, mentre le riserve, le preoccupazioni, le prese d’atto realistiche, si stanno levando in diversi paesi che si apprestano a prendere le distanze da un progetto congeniato in modo non corrispondente alla concreta realtà delle economie e agli equilibri sociali che non possono essere facilmente calpestati». Il governo italiano, visto l’andazzo, «avrebbe dovuto, per primo, essendo l’Italia, tra i maggiori paesi, la più interessata, porre con forza nel concerto europeo il problema della rinegoziazione di un Trattato che nei suoi termini è divenuto obsoleto e financo pericoloso». Rinegoziare Maastricht? Nemmeno per idea: «Non lo ha fatto il governo italiano. Non lo fa l’opposizione, che rotola anch’essa nella demagogia europeistica. Lo faranno altri, e lo determineranno soprattutto gli scontri sociali che si annunciano e che saranno duri come le pietre». A tener banco, ancora, saranno «i declamatori retorici dell’Europa», ovvero «il delirio europeistico che non tiene conto della realtà». Sbatteremo contro «la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione», un disastro che – secondo il “profeta” Craxi – è stato quindi accuratamente programmato.
L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Già, il mondo globalizzato: «La globalizzazione non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subita in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Questo mortificante mutamento, aggiunge Craxi, si colloca «in un quadro internazionale, europeo, mediterraneo, mondiale, che ha visto l’Italia perdere, una dopo l’altra, note altamente significative che erano espressione di prestigio, di autorevolezza, di forza politica e morale». Non è certo amica della pace questa «spericolata globalizzazione forzata», in cui ogni nazione perde la sua identità, la consapevolezza della sua storia, il proprio ruolo geopolitico.
«Cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione, aggiunge Craxi, si avverte «il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare», opportunamente “accolti” da politici perfettamente adatti a questo nuovo ruolo di maggiordomi. Un nome? Romano Prodi. «Nel vecchio sistema – scrive Craxi – il signor Prodi era il classico sughero che galleggiava tra i gruppi pubblici e i gruppi privati con una certa preferenza per quest’ultimi ed una annoiata ma non disinteressata partecipazione ai palazzi dei primi». Come presidente dell’Iri non era nient’altro che «una costola staccata dal sistema correntizio democristiano» e, lungo il cammino, si era dimostrato «poco più di un fiumiciattolo che rispondeva sempre, sulle cose essenziali, alla sua sorgente originaria». Il “signor Prodi”, come leader politico? «Nient’altro che il classico bidone». Infatti se ne sono accorti tutti. Vent’anni dopo.
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L’Italia nell’Ue finirà all’inferno: così parlò Craxi, 20 anni fa
Scritto il 22/1/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Unione Europea uguale: declino, per l’Italia, la prima vittima dell’euro, grazie a un certo Romano Prodi. E il contesto è chiaro: si scrive globalizzazione, ma si legge impoverimento della società e perdita di sovranità e indipendenza. Sono alcune delle “perle profetiche” di quello che Vincenzo Bellisario definisce «l’ultimo statista italiano», ovvero il vutuperato Bettino Craxi, spentosi 17 anni fa nel suo esilio di Hammamet. Un uomo che «bisognava eliminare a tutti i costi», scrive Bellisario, sul blog del “Movimento Roosevelt”, ricordando alcuni punti-chiave del vero lascito politico del leader socialista, eliminato da Mani Pulite alla vigilia dell’ingresso italiano nella sciagurata “camicia di forza” di Bruxelles, i cui esiti si possono misurare ogni giorno: disoccupazione dilagante e crollo delle aziende, con il governo costretto a elemosinare deroghe di spesa per poter far fronte a emergenze catastrofiche come il terremoto. «C’è da chiedersi perché si continua a magnificare l’entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del paradiso terrestre», scriveva Craxi oltre vent’anni fa. Con questi vincoli Ue, «l’Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all’inferno».
«Ciò che si profila, ormai – profetizzava Craxi – è un’Europa in preda alla disoccupazione e alla conflittualità sociale, mentre le riserve, le preoccupazioni, le prese d’atto realistiche, si stanno levando in diversi paesi che si apprestano a prendere le distanze da un progetto congeniato in modo non corrispondente alla concreta realtà delle economie e agli equilibri sociali che non possono essere facilmente calpestati». Il governo italiano, visto l’andazzo, «avrebbe dovuto, per primo, essendo l’Italia, tra i maggiori paesi, la più interessata, porre con forza nel concerto europeo il problema della rinegoziazione di un Trattato che nei suoi termini è divenuto obsoleto e financo pericoloso». Rinegoziare Maastricht? Nemmeno per idea: «Non lo ha fatto il governo italiano. Non lo fa l’opposizione, che rotola anch’essa nella demagogia europeistica. Lo faranno altri, e lo determineranno soprattutto gli scontri sociali che si annunciano e che saranno duri come le pietre». A tener banco, ancora, saranno «i declamatori retorici dell’Europa», ovvero «il delirio europeistico che non tiene conto della realtà». Sbatteremo contro «la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione», un disastro che – secondo il “profeta” Craxi – è stato quindi accuratamente programmato.
L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Già, il mondo globalizzato: «La globalizzazione non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subita in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Questo mortificante mutamento, aggiunge Craxi, si colloca «in un quadro internazionale, europeo, mediterraneo, mondiale, che ha visto l’Italia perdere, una dopo l’altra, note altamente significative che erano espressione di prestigio, di autorevolezza, di forza politica e morale». Non è certo amica della pace questa «spericolata globalizzazione forzata», in cui ogni nazione perde la sua identità, la consapevolezza della sua storia, il proprio ruolo geopolitico.
«Cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione, aggiunge Craxi, si avverte «il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare», opportunamente “accolti” da politici perfettamente adatti a questo nuovo ruolo di maggiordomi. Un nome? Romano Prodi. «Nel vecchio sistema – scrive Craxi – il signor Prodi era il classico sughero che galleggiava tra i gruppi pubblici e i gruppi privati con una certa preferenza per quest’ultimi ed una annoiata ma non disinteressata partecipazione ai palazzi dei primi». Come presidente dell’Iri non era nient’altro che «una costola staccata dal sistema correntizio democristiano» e, lungo il cammino, si era dimostrato «poco più di un fiumiciattolo che rispondeva sempre, sulle cose essenziali, alla sua sorgente originaria». Il “signor Prodi”, come leader politico? «Nient’altro che il classico bidone». Infatti se ne sono accorti tutti. Vent’anni dopo.
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Re: La crisi dell'Europa
12 minuti fa
"In Italia problemi strutturali
i vari terremoti lo dimostrano"
Ennesima bordata dall'Europa
Raffaello Binelli
^^^^^^^^
Terremoto e flessibilità Ue, Moscovici: "C'è un qualche aspetto strutturale"
Il commissario agli Affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, assicura che l'Europa farà tutto il possibile per venire incontro all'Italia, per quanto riguarda la flessibilità dei conti. Ma con una frase gela tutti
Raffaello Binelli - Lun, 23/01/2017 - 16:38
commenta
Il terremoto comporta dei costi pesanti per il nostro Paese. Costi rispetto ai quali giustamente il governo ha chiesto all'Europa di tenere conto, nel senso che queste spese non possono e non devono essere inserite nel computo della spesa pubblica.
Va da sé che queste spese impreviste non possono essere considerate uno spreco né tantomeno un irresponsabile sfizio. Per rassicurare l'Italia oggi è intervenuto il commissario per gli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici: "C’è piena disponibilità della Commissione europea" a considerare gli effetti del terremoto negli sforzi e nelle misure che l’Italia dovrà sostenere. Lo ha detto il commissario per gli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, a margine della conferenza "il pilastro europeo dei diritti sociali".
A precisa domanda ("ci sono altri margini di flessibilità per le spese del terremoto?") Moscovici ha evitato di entrare nel merito del dibattito in corso con il governo sui conti pubblici e le modifiche richieste alla legge di bilancio, ma ha assicura che "per il terremoto stiamo facendo tutto quello che possiamo". A livello collegiale "siamo in piena solidarietà con il popolo italiano e le popolazioni colpite" dal terremoto.
Poi una frase che lascia intendere le reali intenzioni della Commissione Ue: "La ripetizione dei terremoti dimostra che c'è un qualche aspetto strutturale lì". Una frase secca, che lascia intendere un giudizio negativo sulle modalità con cui l'Italia gestisce il territorio e regolamenta a livelo urbanistico. Poi però cambia subito discorso: "Non parliamo di questo o di quel dato oggi, siamo davvero pienamente solidali con il popolo italiano, che ha sofferto per queste catastrofi, e anche per le valanghe. Tutti ci sentiamo italiani".
"In Italia problemi strutturali
i vari terremoti lo dimostrano"
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Terremoto e flessibilità Ue, Moscovici: "C'è un qualche aspetto strutturale"
Il commissario agli Affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, assicura che l'Europa farà tutto il possibile per venire incontro all'Italia, per quanto riguarda la flessibilità dei conti. Ma con una frase gela tutti
Raffaello Binelli - Lun, 23/01/2017 - 16:38
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Il terremoto comporta dei costi pesanti per il nostro Paese. Costi rispetto ai quali giustamente il governo ha chiesto all'Europa di tenere conto, nel senso che queste spese non possono e non devono essere inserite nel computo della spesa pubblica.
Va da sé che queste spese impreviste non possono essere considerate uno spreco né tantomeno un irresponsabile sfizio. Per rassicurare l'Italia oggi è intervenuto il commissario per gli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici: "C’è piena disponibilità della Commissione europea" a considerare gli effetti del terremoto negli sforzi e nelle misure che l’Italia dovrà sostenere. Lo ha detto il commissario per gli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, a margine della conferenza "il pilastro europeo dei diritti sociali".
A precisa domanda ("ci sono altri margini di flessibilità per le spese del terremoto?") Moscovici ha evitato di entrare nel merito del dibattito in corso con il governo sui conti pubblici e le modifiche richieste alla legge di bilancio, ma ha assicura che "per il terremoto stiamo facendo tutto quello che possiamo". A livello collegiale "siamo in piena solidarietà con il popolo italiano e le popolazioni colpite" dal terremoto.
Poi una frase che lascia intendere le reali intenzioni della Commissione Ue: "La ripetizione dei terremoti dimostra che c'è un qualche aspetto strutturale lì". Una frase secca, che lascia intendere un giudizio negativo sulle modalità con cui l'Italia gestisce il territorio e regolamenta a livelo urbanistico. Poi però cambia subito discorso: "Non parliamo di questo o di quel dato oggi, siamo davvero pienamente solidali con il popolo italiano, che ha sofferto per queste catastrofi, e anche per le valanghe. Tutti ci sentiamo italiani".
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Re: La crisi dell'Europa
Manovre preoccupanti della Bce:
"Si rischia il collasso economico"
Michele Crudelini
3 ore fa
^^^^^^^
ALTRIMENTI, CHE ANNO DELLA SFIGA SAREBBE???????????
"Si rischia il collasso economico"
Michele Crudelini
3 ore fa
^^^^^^^
ALTRIMENTI, CHE ANNO DELLA SFIGA SAREBBE???????????
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Re: La crisi dell'Europa
LEGGERE, ED INTERPRETARE I QUOTIDIANI E' SEMPRE PIU' DIFFICILE. SOPRATTUTTO QUELLI LEGATI AL CENTRODESTRA.
BISOGNA SEMPRE STABILIRE DOVE STA IL CONFINE TRA LA PROPAGANDA E LA NOTIZIA.
IL GIORNALE HA SEMPRE IL DENTINO AVVELENATO CON LA UE. DANNO L'IMPRESSIONE CHE LA DEFENESTRAZIONE DEL BERLUSCONE NEL 2011 NON SIA STATA ANCORA DIGERITA.
MA, PREMESSO QUANTO SOPRA, MI SEMBRA CHE QUESTA NOTIZIA POSSA ESSERE SUFFRAGATA DA UN MINIMO DI FONDAMENTO.
La Troika obbliga i greci
a mendicare per le strade
Ad Atene la crisi triplica il numero dei senzatetto. Un quinto della popolazione non accede a riscaldamento né telefono
di Giovanni Masini
1 ora fa
156
BISOGNA SEMPRE STABILIRE DOVE STA IL CONFINE TRA LA PROPAGANDA E LA NOTIZIA.
IL GIORNALE HA SEMPRE IL DENTINO AVVELENATO CON LA UE. DANNO L'IMPRESSIONE CHE LA DEFENESTRAZIONE DEL BERLUSCONE NEL 2011 NON SIA STATA ANCORA DIGERITA.
MA, PREMESSO QUANTO SOPRA, MI SEMBRA CHE QUESTA NOTIZIA POSSA ESSERE SUFFRAGATA DA UN MINIMO DI FONDAMENTO.
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Ad Atene la crisi triplica il numero dei senzatetto. Un quinto della popolazione non accede a riscaldamento né telefono
di Giovanni Masini
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Re: La crisi dell'Europa
UncleTom ha scritto:LEGGERE, ED INTERPRETARE I QUOTIDIANI E' SEMPRE PIU' DIFFICILE. SOPRATTUTTO QUELLI LEGATI AL CENTRODESTRA.
BISOGNA SEMPRE STABILIRE DOVE STA IL CONFINE TRA LA PROPAGANDA E LA NOTIZIA.
IL GIORNALE HA SEMPRE IL DENTINO AVVELENATO CON LA UE. DANNO L'IMPRESSIONE CHE LA DEFENESTRAZIONE DEL BERLUSCONE NEL 2011 NON SIA STATA ANCORA DIGERITA.
MA, PREMESSO QUANTO SOPRA, MI SEMBRA CHE QUESTA NOTIZIA POSSA ESSERE SUFFRAGATA DA UN MINIMO DI FONDAMENTO.
La Troika obbliga i greci
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Ad Atene la crisi triplica il numero dei senzatetto. Un quinto della popolazione non accede a riscaldamento né telefono
di Giovanni Masini
1 ora fa
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Ab d Atene la crisi ha triplicato il numero dei senzatetto
Gen 26, 2017
16 Commenti
Europa,Grecia,In evidenza
Giovanni Masini
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Da Atene
Margarita strabuzza gli occhi senza vedere, poi allunga la mano nel gesto automatico di tutti i mendicanti del mondo. Quando sente la moneta che rimbalza nel bicchiere, apre la bocca senza denti in un ringraziamento muto.
Da anni vive per strada nei dintorni di piazza Omonoia, una delle zone più degradate del centro di Atene.
Con lei sono altri mille e settecento i senzatetto che si trascinano, giorno e notte, per le vie della capitale greca. Ad essi vanno aggiunti gli altri settemila che vivono negli alloggi occupati ma non possiedono una casa né affittano un appartamento. All’inizio della crisi, nel 2010, i senzatetto non erano più di cinquecento.
Basta percorrere una delle arterie principali della città, la via Stadiou, per rendersi conto delle dimensioni del fenomeno. Da piazza Syntagma a piazza Omonoia, i portici che fiancheggiano la strada sono un dormitorio a cielo aperto.
Quasi tutti greci, lasciati senza lavoro dalla crisi e precipitati nella miseria per la mancanza di qualsiasi servizio sociale degno di questo nome.
Vassilis ha cinquant’anni e la barba bianca, chiede la carità nei pressi della prestigiosa via Ermou.
Era impiegato presso la società di trasporto pubblico di Atene, poi ha perso il lavoro ed è finito a vivere per la strada. Cinque o sei anni fa: la data che ricorre nei racconti di tutti.
A partire dal 2011, la crisi ha gettato fuori di casa migliaia di Greci. Ma la defenestrazione è doppia: quasi sempre, chi viene lasciato fuori dalla propria abitazione risulta escluso anche dalla vita civile, con pochissime possibilità di rientrarvi.
Certo, i senza fissa dimora non se la passavano bene nemmeno prima dell’inizio della bufera, ma una ricchezza più diffusa faceva sì che le relazioni sociali supplissero alle mancanze dello Stato. Chi perdeva il lavoro poteva sempre contare su un amico o un parente pronto ad aprire la porta. Ora che la disoccupazione è arrivata al 23% (sono dati ufficiali, ma c’è da temere che le cifre reali siano molto più alte, ndr), anche gli aiuti fra conoscenti sono più difficili.
E per chi scende dalla giostra la vita si fa veramente dura: i senzatetto non possono contare su alcuna struttura pubblica efficiente per trovare una casa o un pasto caldo.
Il Financial Times calcola che un quinto della popolazione non abbia accesso a servizi di base come la linea telefonica o il riscaldamento: la percentuale di popolazione in stato di povertà assoluta, che nel 2009 era del 2%, in appena sei anni è schizzata al 15%. Il sistema sanitario di base, che pure il governo Tsipras ha reso accessibile anche a chi è sprovvisto di assicurazione, stenta.
L’impossibilità di assumere medici e infermieri ha ingolfato gli ospedali e per chi vive sulla strada non c’è alcuna assistenza.
I barboni – clochard si direbbe, nel tentativo di ingentilire una parola così cruda – possono sperare solo nelle associazioni di volontari.
Incontriamo i ragazzi di Steps, che ogni notte organizzano unità di strada per aiutare persone come Margarita e Vassilis.
A guidarli è un assistente sociale quarantenne che ama definirsi “lavoratore della strada”. Occhiali da aviatore inforcati sul naso e borsello a tracolla, Tassos Smetopoulos si aggira per il centro di Atene con la familiarità di chi si muove in un ambiente familiare. Dinoccolato e segaligno, saluta i fagotti di vestiti ammassati sul marciapiede come fossero amici di una vita.
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Re: La crisi dell'Europa
UncleTom ha scritto:Manovre preoccupanti della Bce:
"Si rischia il collasso economico"
Michele Crudelini
3 ore fa
^^^^^^^
ALTRIMENTI, CHE ANNO DELLA SFIGA SAREBBE???????????
Bce non fa gli interessi degli europei
Gen 26, 2017/
18 Commenti/
Punti di vista /
Michele Crudelini
245
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La BCE potrebbe aver attuato una politica economica contraria agli interessi della popolazione europea. Il portale Bloomberg riporta oggi quest’insolita notizia. Ovvero gli europei non sarebbero stati avvantaggiati dalla politica dei bassi tassi d’interesse attuata dalla Banca di Mario Draghi. Un’indagine condotta dal gruppo bancario ING testimonia come due terzi degli europei non abbiano sfruttato i bassi tassi d’interesse per pagare vecchi debiti contratti o assumerne di nuovi (più convenienti visto il tasso più basso). Il costo dell’euro, ovvero il suo tasso d’interesse, è ad oggi molto basso e questo dovrebbe agevolare appunto una maggiore circolazione della moneta.
Il piano fallimentare della BCE
La BCE si aspettava nuovi crediti e nuovi debiti contratti dagli europei. Il tutto in concomitanza del Quantitative Easing, ovvero dell’iniezione di denaro da parte della stessa BCE nell’economia europea. Eppure l’indagine dimostra che solo l’11% degli europei che hanno deciso di ritirare i soldi dalla banca (visti i bassi tassi), li hanno poi riutilizzati per ripagare debiti. In sostanza è stato un fallimento. Perché? La stessa indagine ha dimostrato come i risparmi degli europei si siano in realtà ridotti di molto. Un terzo degli intervistati non possiede proprio un fondo di risparmi. Mentre il 36% arriva a meno di tre mensilità sul proprio conto. Una parte degli europei non ha dunque materialmente i soldi per onorare i debiti contratti. Questo è il risultato di otto anni di crisi economica e delle politiche dettate da Bruxelles e adottate alla lettera dagli Stati europei.
Il rialzo dell’inflazione tedesca
Purtroppo però questo collasso dei risparmi potrebbe avere delle conseguenze drammatiche. È infatti in atto una forte spinta inflazionistica in Europa centrale. In particolare in Germania che in questo mese potrebbe vedere il tasso d’inflazione al 2%. In sostanza sarebbe stato raggiunto lo scopo della Bce e del Quantitative Easing. Ovvero uscire dalla spirale deflattiva con lo stimolo monetario. C’è un ma. La Germania ha ancora l’incubo di Weimar e dell’iperinflazione. I principali economisti tedeschi, il governatore della Bundesbank Jens Weidmann e il Ministro dell’Economia Schauble in primis, sono terrorizzati dall’idea di una possibile instabilità dei prezzi. Dunque se l’inflazione tedesca accelerasse troppo in questi prossimi mesi, la Germania metterebbe notevole pressione a Mario Draghi perché interrompa il QE subito. Si arriverebbe così al punto 0. Ovvero la chiusura totale dei rubinetti della Bce. Quello che viene chiamato “tapering”, assottigliamento.
Il rischio di “tapering”
Questo momento era già stato paventato da Mario Draghi stesso lo scorso autunno. In realtà, allora, negli ambienti della Bce si era abbastanza convinti che il Quantitative Easing sarebbe dovuto durare almeno fino a marzo 2018, considerato l’andamento molto incerto delle economie del Sud Europa. L’improvvisa impennata inflattiva tedesca potrebbe scombussolare i piani di Draghi. “Avviare il “tapering” adesso, però, sarebbe una sciagura per il Sud Europa, che a malapena riesca a tenere a galla i bilanci, nonostante il costo di rifinanziamento del debito pubblico sia stato azzerato dal QE”, così si legge sul portale investireoggi.it. C’è in effetti molto panico rispetto alla possibilità del tapering, considerato che la Bce sta garantendo l’acquisto di titoli di Stato e privati che altrimenti sarebbero venduti a prezzi stracciati e con tassi d’interesse alle stelle.
Per farsi un’idea, la fine del QE potrebbe portare molti titoli di Stato di paesi europei nella condizione di quelli italiani registrati nell’estate 2011. In questo caso però oltre all’Italia, ci sarebbero la Spagna, il Portogallo, la Grecia e forse anche la Francia. Il rischio di collasso economico di tutta l’eurozona sarebbe molto alto. Sopratutto se sommato alla scarsa quantità di risparmi con cui gli europei dovrebbero far fronte alla nuova crisi. Mario Draghi ha dunque il difficile compito di ignorare le pressioni tedesche.
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Re: La crisi dell'Europa
...OLE'......VAMOS.....BUNGA-BUNGA SIEMPRE...
Draghi spiega come si esce dall’euro: servono 312 miliardi subito
Pubblicato da keynesblog il 23 gennaio 2017 in Economia, Europa, Italia
Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 18-12-2013 Roma Politica Camera - legge stabilita' Nella foto: Stefano Fassina, viceministro economia Photo Mauro Scrobogna /LaPresse 18-12-2013 Rome Politics Chamber of Deputies - budget bill In the picture: Stefano Fassina, vice minister of economy
Vi sono due tipi di noeuro: quelli che vogliono uscire dall’euro il venerdì notte con un piano segreto, causando una “Lehman Brothers al quadrato”, e di cui ci siamo già occupati in passato. E poi ci sono quelli apparentemente più ragionevoli, i quali, coscienti dell’effetto domino che un’uscita solitaria potrebbe determinare, propongono un’ “uscita concordata”.
Ad esempio Stefano Fassina parla di un “superamento in via cooperativa, assistito dalla Bce”. A rispondergli, indirettamente, è stato proprio il presidente della BCE Mario Draghi che, nella replica ad una interrogazione dei Cinque Stelle, ha spiegato che nel caso un paese lasci l’euro, la sua banca centrale deve prima pagare tutti i debiti con la stessa BCE: “If a country were to leave the Eurosystem, its national central bank’s claims on or liabilities to the ECB would need to be settled in full.”
Di quanto si parla? La frase di Draghi è in fondo ad una lettera in cui si spiegava perché l’Italia è fortemente indebitata con la BCE attraverso il sistema di pagamenti del Target 2 (un effetto indiretto del Quantitative Easing). Il debito con l’eurosistema della nostra banca centrale (come si ricava dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia a dicembre 2016) è al momento pari a circa 356,5 miliardi di euro a cui vanno sottratti i crediti, per un indebitamento netto pari a 312 miliardi. Si tratta di quasi il 20% del nostro PIL.
Questo debito non può in alcun modo essere ridenominato in lire perché non è sotto diritto nazionale. Inoltre dovrà essere estinto prima dell’uscita, perché le banche centrali non partecipanti all’euro (come sarebbe la Banca d’Italia dopo l’Italexit) non possono avere posizioni debitorie verso il sistema.
Ma non finisce qui… se parliamo di uscita “concordata” o “cooperativa”, parliamo evidentemente di una trattativa in cui gli altri paesi europei chiederebbero che, dopo l’uscita, il nostro paese onori i sui debiti esteri nella valuta in cui sono denominati oggi (l’euro), al fine di evitare l’effetto contagio di una ridenominazione in valuta debole (la lira). Questa, infatti, rappresenterebbe un credit event per i mercati e innescherebbe il domino finanziario. In cambio l’Italia chiederebbe un’assistenza finanziaria per sostenere la nuova valuta e i conti del nostro paese.
E qui le cose si mettono molto male. Un terzo del debito pubblico italiano è posseduto da soggetti esteri (ma una parte è in via di assorbimento grazie dal QE). In una trattativa per un’uscita “concordata”, l’Italia potrebbe essere costretta ad accettare la non ridenominazione di questi titoli di debito. Questi non andrebbero pagati subito, ma a scadenza. Il Tesoro, che dopo l’uscita tasserebbe i soggetti residenti in lire, dovrebbe quindi procurarsi euro in qualche modo, vedendo così aumentare il peso del debito per l’effetto della svalutazione che, peraltro, aumenterebbe ancora se si decidesse di stampare lire per comprare euro, da usare per rimborsare i debiti (è quello che fece la Repubblica di Weimar, per intenderci). Il rischio è quindi che col deprezzamento della valuta, aumentando il peso ed il rischio del debito, il Tesoro sia costretto a indebitarsi a tassi sempre più alti con la stessa BCE o con grandi banche estere. Lo stesso principio, al fine di contenere l’effetto contagio, potrebbe essere applicato anche ai debiti dei privati in mano a soggetti esteri, aumentando l’onere debitorio anche dei soggetti privati.
Insomma, se l’uscita notturna sarebbe un disastro europeo e probabilmente globale, l’uscita “concordata”, volta ad evitare un default di fatto e il conseguente domino finanziario, sarebbe un disastro sicuramente per l’Italia. Pur supponendo che gli altri paesi europei ci concedano di dilazionare questa montagna di debiti, lo farebbero solo sotto pesantissime condizionalità. Ecco quindi che l’uscita dall’euro “assistita dalla BCE” si tramuterebbe nell’ingresso nei programmi della Troika. L’unica speranza sarebbe un improbabile giubileo straordinario dei nostri debiti. Vale a dire un livello di solidarietà molto maggiore rispetto a quello che sarebbe necessario ad aggiustare l’euro in corsa.
Abbiamo sempre detto che l’euro è un marchingegno monetario nel quale avremmo fatto bene a non entrare. Ma i costi di uscita sono talmente impraticabili che l’unica strada sensata è quella di aggiustarlo in corsa. Ogni altra soluzione non è una soluzione, ma un problema molto più grande. Non si tratta di cedere alla logica thatcheriana del There Is No Alternative (TINA), ma di creare le condizioni per alternative che non siano peggiori della situazione attuale.
Ringraziamo Francesco Lenzi per i preziosi suggerimenti
Per tabelle:
https://keynesblog.com/2017/01/23/dragh ... di-subito/
Draghi spiega come si esce dall’euro: servono 312 miliardi subito
Pubblicato da keynesblog il 23 gennaio 2017 in Economia, Europa, Italia
Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 18-12-2013 Roma Politica Camera - legge stabilita' Nella foto: Stefano Fassina, viceministro economia Photo Mauro Scrobogna /LaPresse 18-12-2013 Rome Politics Chamber of Deputies - budget bill In the picture: Stefano Fassina, vice minister of economy
Vi sono due tipi di noeuro: quelli che vogliono uscire dall’euro il venerdì notte con un piano segreto, causando una “Lehman Brothers al quadrato”, e di cui ci siamo già occupati in passato. E poi ci sono quelli apparentemente più ragionevoli, i quali, coscienti dell’effetto domino che un’uscita solitaria potrebbe determinare, propongono un’ “uscita concordata”.
Ad esempio Stefano Fassina parla di un “superamento in via cooperativa, assistito dalla Bce”. A rispondergli, indirettamente, è stato proprio il presidente della BCE Mario Draghi che, nella replica ad una interrogazione dei Cinque Stelle, ha spiegato che nel caso un paese lasci l’euro, la sua banca centrale deve prima pagare tutti i debiti con la stessa BCE: “If a country were to leave the Eurosystem, its national central bank’s claims on or liabilities to the ECB would need to be settled in full.”
Di quanto si parla? La frase di Draghi è in fondo ad una lettera in cui si spiegava perché l’Italia è fortemente indebitata con la BCE attraverso il sistema di pagamenti del Target 2 (un effetto indiretto del Quantitative Easing). Il debito con l’eurosistema della nostra banca centrale (come si ricava dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia a dicembre 2016) è al momento pari a circa 356,5 miliardi di euro a cui vanno sottratti i crediti, per un indebitamento netto pari a 312 miliardi. Si tratta di quasi il 20% del nostro PIL.
Questo debito non può in alcun modo essere ridenominato in lire perché non è sotto diritto nazionale. Inoltre dovrà essere estinto prima dell’uscita, perché le banche centrali non partecipanti all’euro (come sarebbe la Banca d’Italia dopo l’Italexit) non possono avere posizioni debitorie verso il sistema.
Ma non finisce qui… se parliamo di uscita “concordata” o “cooperativa”, parliamo evidentemente di una trattativa in cui gli altri paesi europei chiederebbero che, dopo l’uscita, il nostro paese onori i sui debiti esteri nella valuta in cui sono denominati oggi (l’euro), al fine di evitare l’effetto contagio di una ridenominazione in valuta debole (la lira). Questa, infatti, rappresenterebbe un credit event per i mercati e innescherebbe il domino finanziario. In cambio l’Italia chiederebbe un’assistenza finanziaria per sostenere la nuova valuta e i conti del nostro paese.
E qui le cose si mettono molto male. Un terzo del debito pubblico italiano è posseduto da soggetti esteri (ma una parte è in via di assorbimento grazie dal QE). In una trattativa per un’uscita “concordata”, l’Italia potrebbe essere costretta ad accettare la non ridenominazione di questi titoli di debito. Questi non andrebbero pagati subito, ma a scadenza. Il Tesoro, che dopo l’uscita tasserebbe i soggetti residenti in lire, dovrebbe quindi procurarsi euro in qualche modo, vedendo così aumentare il peso del debito per l’effetto della svalutazione che, peraltro, aumenterebbe ancora se si decidesse di stampare lire per comprare euro, da usare per rimborsare i debiti (è quello che fece la Repubblica di Weimar, per intenderci). Il rischio è quindi che col deprezzamento della valuta, aumentando il peso ed il rischio del debito, il Tesoro sia costretto a indebitarsi a tassi sempre più alti con la stessa BCE o con grandi banche estere. Lo stesso principio, al fine di contenere l’effetto contagio, potrebbe essere applicato anche ai debiti dei privati in mano a soggetti esteri, aumentando l’onere debitorio anche dei soggetti privati.
Insomma, se l’uscita notturna sarebbe un disastro europeo e probabilmente globale, l’uscita “concordata”, volta ad evitare un default di fatto e il conseguente domino finanziario, sarebbe un disastro sicuramente per l’Italia. Pur supponendo che gli altri paesi europei ci concedano di dilazionare questa montagna di debiti, lo farebbero solo sotto pesantissime condizionalità. Ecco quindi che l’uscita dall’euro “assistita dalla BCE” si tramuterebbe nell’ingresso nei programmi della Troika. L’unica speranza sarebbe un improbabile giubileo straordinario dei nostri debiti. Vale a dire un livello di solidarietà molto maggiore rispetto a quello che sarebbe necessario ad aggiustare l’euro in corsa.
Abbiamo sempre detto che l’euro è un marchingegno monetario nel quale avremmo fatto bene a non entrare. Ma i costi di uscita sono talmente impraticabili che l’unica strada sensata è quella di aggiustarlo in corsa. Ogni altra soluzione non è una soluzione, ma un problema molto più grande. Non si tratta di cedere alla logica thatcheriana del There Is No Alternative (TINA), ma di creare le condizioni per alternative che non siano peggiori della situazione attuale.
Ringraziamo Francesco Lenzi per i preziosi suggerimenti
Per tabelle:
https://keynesblog.com/2017/01/23/dragh ... di-subito/
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Re: La crisi dell'Europa
...OLE'......VAMOS.....BUNGA-BUNGA SIEMPRE...
FOTTERE, FOTTERE, FOTTERE, QUESTI GIORNALISTI NON SANNO FARE ALTRO CHE FOTTERE I LETTORI.
NICOLA PORRO SI GUARDA BENE DAL METTERE AL CORRENTE I SUOI ELETTORI
DA QUANTO PRECISATO DA DRAGHI IL 23 GENNAIO U.S.
PER USCIRE DALL'EURO SERVONO 312 MILIARDI SUBITO
Commenti:
17
Col Paese fuori dall'euro si risparmiano 8 miliardi
Lo studio riservato di Mediobanca: i vantaggi dell'uscita dalla moneta unica vanno colti subito
Nicola Porro - Ven, 27/01/2017 - 08:04
commenta
È uno di quegli studi delicati. Il team di Mediobanca lo ha riservato ai suoi clientoni. Uno di loro ce lo ha fatto vedere. Ogni copia è marcata con nome e cognome. Si tratta di roba che non dovrebbe finire alla stampa, almeno non subito. Il titolo potrebbe trarre in inganno, ma il succo è di quelli buoni: Il rischio di una ridenominazione in lire del nostro debito pubblico scende con il passare del tempo.
Quando un profano lo legge, capisce subito una cosa. La finanza si prepara a ItalExit, o almeno tiene in forte considerazione l'uscita del nostro Paese dall'euro. Mentre la politica ha confinato a movimenti politici che vengono definiti populisti, la questione dell'uscita dall'euro, nei salotti che contano si fanno già le simulazioni su quanto ci verrebbe a costare. Lo studio di Mediobanca è molto rigoroso e si limita a mettere in fila i costi e i vantaggi del ritorno alla lira. Una cosa è certa, più il tempo passa, sostengono gli analisti, e più costerà abbandonare la moneta unica. È la sintesi dei loro calcoli.
NON È PER SALVINI CHE USCIAMO DALL'EURO
Lo studio di Mediobanca, che pure considera cruciali le elezioni prima in Francia e poi in Olanda e prevede quelle italiane a fine legislatura, affida la sua analisi sui costi dell'uscita dall'euro, essenzialmente a ragioni di tipo economico. La prima questione è che la moneta conta. Eccome, quando si parla di produttività italiana. Il nostro differenziale con la Germania e la Francia è del 20 per cento. Una roba da pazzi: è come correre una gara con Bolt, e per di più azzoppati. Tre momenti storici hanno determinato questo stato di cose. Nel 1979 quando siamo entrati nel serpente monetario con una banda di oscillazione del sei per cento, poi nel 1989 quando la forchetta l'abbiamo abbassata al 2,25 per cento e infine nel 1996 quando abbiamo addirittura rivalutato la lira dell'8 per cento per riuscire ad agganciare il nascente euro.
Da quel momento in poi è stato un tracollo. Negli ultimi quindici anni la ricchezza italiana (il Pil) non è cresciuta di un euro. Dal 2008 ad oggi il Pil è sceso di sette punti percentuali. Le conseguenze si vedono nei portafogli delle banche pieni zeppi crediti inesigibili.
SENZA PIL IL DEBITO NON REGGE
Senza crescita non solo siamo più poveri, ma non riusciamo a ripagare il debito. Eppure Mediobanca nota come negli ultimi quindici anni (escluso il 2009) abbiamo sempre avuto il maggior avanzo primario d'Europa. La facciamo semplice: lo Stato ha incassato dalle nostre tasse più di quanto abbia speso. Alla fine i conti pubblici finiscono comunque in rosso, poiché il ragioniere dello Stato ha dovuto pagare gli interessi sul debito: ma senza questo costo (l'avanzo primario, appunto) abbiamo fatto meglio di tutti. Ciò però vuol dire che negli ultimi quindici anni lo Stato ha drenato risorse dal settore privato. Ha preteso, molto più di quanto ha dato. Nonostante ciò il debito è cresciuto. È fuori controllo. Siamo in trappola: i privati sono massacrati, producono di meno, sono poco produttivi, hanno un cambio rivalutato, ma il debito non scende. Come possiamo pensare di ridurre la montagna di debito?
I TASSI DI INTERESSE SALIRANNO
In questo scenario negli ultimi anni siamo stati relativamente aiutati dal basso livello dei tassi di interesse. Abbiamo un grande debito, ma tassi bassi. Ora la festa rischia di essere finita. Per tre motivi. Il primo è l'andamento generale dell'economia nel mondo. Mentre in Italia, ad esempio, i prezzi sono calati dello 0,1 per cento, in Europa sono mediamente cresciuti dell'1,1 per cento. Le pressioni affinché la Bce molli la sua politica di tassi zero sono forti. In America è già partito il processo di rialzo dei tassi. Oggi paghiamo 69 miliardi di euro di interessi all'anno su un debito di 2.173 miliardi. Fate un po' voi i conti su cosa accadrebbe sui nostri conti con un rialzo di un solo punticino dei tassi. Un secondo motivo deriva dal fatto che Mario Draghi non può continuare all'infinito a comprare i nostri Btp, comprimendone così il prezzo. Fino ad ora ne ha acquistati 210 miliardi (13 per cento dell'intero ammontare del nostro debito), ma ha già promesso di rallentare lo shopping. Terzo fattore: le nostre banche. Sono gli acquirenti storici e più fedeli dei Btp. Ma i nuovi regolamenti europei, le obbligheranno ad alleggerire i propri portafogli di carta pubblica italiana, per ridurre la concentrazione del rischio su un solo emittente. Il combinato disposto di queste tre situazioni comporterà un aumento dei tassi di interesse sul nostro debito. E saranno guai. Nel solo 2017 dovremmo rinnovare più di 200 miliardi di prestiti e gli attuali tassi all'1,5 per cento per Mediobanca rischiano di essere un sogno.
L'OPZIONE DI RINEGOZIARE IL DEBITO
Il prodotto che non cresce schiacciato dall'austerità e dalla moneta unica rivalutata e il debito che sale «potrebbe prima o poi - scrive lo studio Mediobanca portare il Paese a considerare una ri-profilazione del debito». Una delle soluzioni, la più realistica per Mediobanca, potrebbe passare per un allungamento della durata delle scadenze, una riduzione delle cedole (quello che in Grecia hanno chiamato hair cut) o una combinazione delle due misure. A questa ipotesi lo studio dedica al massimo una ventina di righe. Non di più. Quando si toccano le regole dei titoli di Stato, aggiungiamo noi, si diffonde il panico sui mercati. Le regole si applicano a tutti. E dunque, verrebbe da dire, se si vuole fare casino, tanto vale portarsi a casa un bel malloppo.
ITALEXIT, L'USCITA DALL'EURO
È il cuore dello studio. La ridenominazione del debito pubblico in lire (cioè l'abbandono dell'euro) e il conseguente deprezzamento della lira «possono supportare scrive Mediobanca una sostanziale decurtazione del debito e, insieme a una politica monetaria ritornata sovrana, possono creare le condizioni per un genuino rilancio dell'economia italiana». Peraltro il mercato lo ha capito. C'è un indice che misura la possibilità che l'Italia lasci entro un anno Bruxelles, che è schizzato. Il Sentix (basato sulle opinioni degli operatori qualificati) a maggio dava lo 0,8 per cento di possibilità che ritornasse la lira, a giugno cresceva al 5%, per poi impennarsi al 19% di novembre e scendere al 16% di oggi.
GUADAGNIAMO OTTO MILIARDI
Nello scenario di Mediobanca che si concentra su cosa succede al nostro debito, si fanno delle ipotesi stringenti. La prima prevede che non si cambi la valuta (cioè i rimborsi continuino a essere fatti in euro) per circa 900 miliardi del nostro debito pubblico, che è stato emesso recentemente e che è vincolato a degli accordi europei chiamati Cac. Insomma in circolazione è come se ci fossero due tipi di titoli di Stato italiano: quelli nuovi non si toccano, i vecchi si rimborserebbero in lire. La seconda ipotesi, scontata, è che la Banca d'Italia si riprenda la sua sovranità. E la terza ipotesi è che la lira si svaluti del 30 per cento, e proprio per questo motivo renda più conveniente il rimborso del debito. Il conto finale è che il passaggio dall'euro alla lira ci farebbe subito avere un risparmio di 8 miliardi. Ma attenzione, dicono a Mediobanca, più passa il tempo e più si devono emettere nuovi titoli del debito pubblico (soggetti ai Cac) che non si potranno convertire in lire, e dunque ogni mese si erode il vantaggio di convertire il debito da euro in lire. Se questa operazione l'avessimo fatta nel 2013 avremmo avuto un vantaggio finanziario di 285 miliardi, oggi solo otto, nel 2017 saremmo in perdita.
CONCLUSIONI
Cosa dice lo studio di Mediobanca? Il debito rischia di andare fuori controllo per il prossimo aumento dei tassi e la nostra incapacità a crescere. Una soluzione di cui il mercato parla sempre di più è ridenominare il debito in lire, cioè uscire dall'euro. Ma Mediobanca (d'altronde è pur sempre una banca) prevede un meccanismo di uscita concordato, in accordo. Insomma ritiene che una parte del debito sia pagata ancora in euro, per sottostare a certi impegni da noi contrattualmente presi. Ma come i banchieri ben sanno: se io devo alla banca un euro è un mio problema, ma se alla banca devo un miliardo è un suo problema. Dunque l'ipotesi che Mediobanca esclude, ma che è pur sempre sul tappetto, è che il nostro debito in una parte ben superiore a quella che prevedono a piazzetta Cuccia venga ridenominato in lire. Svalutate. E in queste condizioni, i conti cambiano.
FOTTERE, FOTTERE, FOTTERE, QUESTI GIORNALISTI NON SANNO FARE ALTRO CHE FOTTERE I LETTORI.
NICOLA PORRO SI GUARDA BENE DAL METTERE AL CORRENTE I SUOI ELETTORI
DA QUANTO PRECISATO DA DRAGHI IL 23 GENNAIO U.S.
PER USCIRE DALL'EURO SERVONO 312 MILIARDI SUBITO
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17
Col Paese fuori dall'euro si risparmiano 8 miliardi
Lo studio riservato di Mediobanca: i vantaggi dell'uscita dalla moneta unica vanno colti subito
Nicola Porro - Ven, 27/01/2017 - 08:04
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È uno di quegli studi delicati. Il team di Mediobanca lo ha riservato ai suoi clientoni. Uno di loro ce lo ha fatto vedere. Ogni copia è marcata con nome e cognome. Si tratta di roba che non dovrebbe finire alla stampa, almeno non subito. Il titolo potrebbe trarre in inganno, ma il succo è di quelli buoni: Il rischio di una ridenominazione in lire del nostro debito pubblico scende con il passare del tempo.
Quando un profano lo legge, capisce subito una cosa. La finanza si prepara a ItalExit, o almeno tiene in forte considerazione l'uscita del nostro Paese dall'euro. Mentre la politica ha confinato a movimenti politici che vengono definiti populisti, la questione dell'uscita dall'euro, nei salotti che contano si fanno già le simulazioni su quanto ci verrebbe a costare. Lo studio di Mediobanca è molto rigoroso e si limita a mettere in fila i costi e i vantaggi del ritorno alla lira. Una cosa è certa, più il tempo passa, sostengono gli analisti, e più costerà abbandonare la moneta unica. È la sintesi dei loro calcoli.
NON È PER SALVINI CHE USCIAMO DALL'EURO
Lo studio di Mediobanca, che pure considera cruciali le elezioni prima in Francia e poi in Olanda e prevede quelle italiane a fine legislatura, affida la sua analisi sui costi dell'uscita dall'euro, essenzialmente a ragioni di tipo economico. La prima questione è che la moneta conta. Eccome, quando si parla di produttività italiana. Il nostro differenziale con la Germania e la Francia è del 20 per cento. Una roba da pazzi: è come correre una gara con Bolt, e per di più azzoppati. Tre momenti storici hanno determinato questo stato di cose. Nel 1979 quando siamo entrati nel serpente monetario con una banda di oscillazione del sei per cento, poi nel 1989 quando la forchetta l'abbiamo abbassata al 2,25 per cento e infine nel 1996 quando abbiamo addirittura rivalutato la lira dell'8 per cento per riuscire ad agganciare il nascente euro.
Da quel momento in poi è stato un tracollo. Negli ultimi quindici anni la ricchezza italiana (il Pil) non è cresciuta di un euro. Dal 2008 ad oggi il Pil è sceso di sette punti percentuali. Le conseguenze si vedono nei portafogli delle banche pieni zeppi crediti inesigibili.
SENZA PIL IL DEBITO NON REGGE
Senza crescita non solo siamo più poveri, ma non riusciamo a ripagare il debito. Eppure Mediobanca nota come negli ultimi quindici anni (escluso il 2009) abbiamo sempre avuto il maggior avanzo primario d'Europa. La facciamo semplice: lo Stato ha incassato dalle nostre tasse più di quanto abbia speso. Alla fine i conti pubblici finiscono comunque in rosso, poiché il ragioniere dello Stato ha dovuto pagare gli interessi sul debito: ma senza questo costo (l'avanzo primario, appunto) abbiamo fatto meglio di tutti. Ciò però vuol dire che negli ultimi quindici anni lo Stato ha drenato risorse dal settore privato. Ha preteso, molto più di quanto ha dato. Nonostante ciò il debito è cresciuto. È fuori controllo. Siamo in trappola: i privati sono massacrati, producono di meno, sono poco produttivi, hanno un cambio rivalutato, ma il debito non scende. Come possiamo pensare di ridurre la montagna di debito?
I TASSI DI INTERESSE SALIRANNO
In questo scenario negli ultimi anni siamo stati relativamente aiutati dal basso livello dei tassi di interesse. Abbiamo un grande debito, ma tassi bassi. Ora la festa rischia di essere finita. Per tre motivi. Il primo è l'andamento generale dell'economia nel mondo. Mentre in Italia, ad esempio, i prezzi sono calati dello 0,1 per cento, in Europa sono mediamente cresciuti dell'1,1 per cento. Le pressioni affinché la Bce molli la sua politica di tassi zero sono forti. In America è già partito il processo di rialzo dei tassi. Oggi paghiamo 69 miliardi di euro di interessi all'anno su un debito di 2.173 miliardi. Fate un po' voi i conti su cosa accadrebbe sui nostri conti con un rialzo di un solo punticino dei tassi. Un secondo motivo deriva dal fatto che Mario Draghi non può continuare all'infinito a comprare i nostri Btp, comprimendone così il prezzo. Fino ad ora ne ha acquistati 210 miliardi (13 per cento dell'intero ammontare del nostro debito), ma ha già promesso di rallentare lo shopping. Terzo fattore: le nostre banche. Sono gli acquirenti storici e più fedeli dei Btp. Ma i nuovi regolamenti europei, le obbligheranno ad alleggerire i propri portafogli di carta pubblica italiana, per ridurre la concentrazione del rischio su un solo emittente. Il combinato disposto di queste tre situazioni comporterà un aumento dei tassi di interesse sul nostro debito. E saranno guai. Nel solo 2017 dovremmo rinnovare più di 200 miliardi di prestiti e gli attuali tassi all'1,5 per cento per Mediobanca rischiano di essere un sogno.
L'OPZIONE DI RINEGOZIARE IL DEBITO
Il prodotto che non cresce schiacciato dall'austerità e dalla moneta unica rivalutata e il debito che sale «potrebbe prima o poi - scrive lo studio Mediobanca portare il Paese a considerare una ri-profilazione del debito». Una delle soluzioni, la più realistica per Mediobanca, potrebbe passare per un allungamento della durata delle scadenze, una riduzione delle cedole (quello che in Grecia hanno chiamato hair cut) o una combinazione delle due misure. A questa ipotesi lo studio dedica al massimo una ventina di righe. Non di più. Quando si toccano le regole dei titoli di Stato, aggiungiamo noi, si diffonde il panico sui mercati. Le regole si applicano a tutti. E dunque, verrebbe da dire, se si vuole fare casino, tanto vale portarsi a casa un bel malloppo.
ITALEXIT, L'USCITA DALL'EURO
È il cuore dello studio. La ridenominazione del debito pubblico in lire (cioè l'abbandono dell'euro) e il conseguente deprezzamento della lira «possono supportare scrive Mediobanca una sostanziale decurtazione del debito e, insieme a una politica monetaria ritornata sovrana, possono creare le condizioni per un genuino rilancio dell'economia italiana». Peraltro il mercato lo ha capito. C'è un indice che misura la possibilità che l'Italia lasci entro un anno Bruxelles, che è schizzato. Il Sentix (basato sulle opinioni degli operatori qualificati) a maggio dava lo 0,8 per cento di possibilità che ritornasse la lira, a giugno cresceva al 5%, per poi impennarsi al 19% di novembre e scendere al 16% di oggi.
GUADAGNIAMO OTTO MILIARDI
Nello scenario di Mediobanca che si concentra su cosa succede al nostro debito, si fanno delle ipotesi stringenti. La prima prevede che non si cambi la valuta (cioè i rimborsi continuino a essere fatti in euro) per circa 900 miliardi del nostro debito pubblico, che è stato emesso recentemente e che è vincolato a degli accordi europei chiamati Cac. Insomma in circolazione è come se ci fossero due tipi di titoli di Stato italiano: quelli nuovi non si toccano, i vecchi si rimborserebbero in lire. La seconda ipotesi, scontata, è che la Banca d'Italia si riprenda la sua sovranità. E la terza ipotesi è che la lira si svaluti del 30 per cento, e proprio per questo motivo renda più conveniente il rimborso del debito. Il conto finale è che il passaggio dall'euro alla lira ci farebbe subito avere un risparmio di 8 miliardi. Ma attenzione, dicono a Mediobanca, più passa il tempo e più si devono emettere nuovi titoli del debito pubblico (soggetti ai Cac) che non si potranno convertire in lire, e dunque ogni mese si erode il vantaggio di convertire il debito da euro in lire. Se questa operazione l'avessimo fatta nel 2013 avremmo avuto un vantaggio finanziario di 285 miliardi, oggi solo otto, nel 2017 saremmo in perdita.
CONCLUSIONI
Cosa dice lo studio di Mediobanca? Il debito rischia di andare fuori controllo per il prossimo aumento dei tassi e la nostra incapacità a crescere. Una soluzione di cui il mercato parla sempre di più è ridenominare il debito in lire, cioè uscire dall'euro. Ma Mediobanca (d'altronde è pur sempre una banca) prevede un meccanismo di uscita concordato, in accordo. Insomma ritiene che una parte del debito sia pagata ancora in euro, per sottostare a certi impegni da noi contrattualmente presi. Ma come i banchieri ben sanno: se io devo alla banca un euro è un mio problema, ma se alla banca devo un miliardo è un suo problema. Dunque l'ipotesi che Mediobanca esclude, ma che è pur sempre sul tappetto, è che il nostro debito in una parte ben superiore a quella che prevedono a piazzetta Cuccia venga ridenominato in lire. Svalutate. E in queste condizioni, i conti cambiano.
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