Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Inviato: 10/09/2014, 21:27
da camillobenso
INTERVISTA A MAURO ZANI, COMPAGNO CONTRO: “RICHETTI E BONACCINI? SONO GENTUCOLA, NON MI STUPISCO”
IL SEGRETARIO REGIONALE DEL PCI IN EMILIA MAI ENTRATO NEL PD: “VALGONO ZERO”
Un comunista d’altri tempi, Secondo Zani, detto Mauro. Classe 1949, è stato segretario regionale del Partito comunista in Emilia Romagna, ha aderito al Pds e poi ai Ds.
Si fermò alla nascita del Pd. Mai entrato. “Perché non era neanche lontano parente di quelli che noi eravamo stati. Così me ne andai. Fu traumatico, perché ero cresciuto in sezione, non lasciavo solo compagni di partito, ma i fratelli di una storia mia, della mia famiglia, della mia città, Bologna”.
Uno di quei nomi, quello di Zani, che giocavano nell’ombra, ma che aveva un’importanza vitale per il partitone, nei rapporti col territorio, con le imprese cooperative e, soprattutto, come anello di congiunzione tra Bologna, la città più rossa d’Italia, e Roma
Partiamo dalla fine
Sì, dalla fine della sinistra. Che coincide con la nascita del Pd.
Perché?
In quell’atto costitutivo veniva citato più volte Alcide De Gasperi e mai la parola sinistra. Per questo me ne sono andato.
E non le dispiace vedere il Pd in queste condizioni?
Non saprei. Ma a cosa si riferisce? A Matteo Renzi, a quel Matteo Richetti o all’altro, come si chiama? Stefano Bonaccini.
Oggi la notizia sono Richetti e Bonaccini.
Per la questione dei rimborsi, immagino. Non ho ancora ben capito, ma non riesco a stupirmi. Forse non mi stupisco perché il partito è senza classe dirigente, dunque può accadere di tutto. Anche quella cosa immorale dei rimborsi.
Li conosce?
No, e non vedo perché dovrei farlo adesso. Sono gentucola, niente altro che gentucola.
Neanche Bonaccini? È stato suo successore.
No, chiese di incontrarmi poi sparì. Però non direi mio successore, lui è stato segretario regionale del Pd, io nel Pd non ho mai messo piede.
Siete politicamente parenti, in qualche modo.
No, neanche alla lontana.
Ma di chi è la responsabilità: tutta di Renzi ?
Figuriamoci, Renzi porta a compimento un disegno che era iniziato con Veltroni. Ed è quello che si conclude con il patto del Nazareno
Lei ha capito su cosa si basa quel patto?
Anche uno stupido lo capirebbe: è il progetto di un partito unico nazionale. Con Berlusconi.
Anche D’Alema ci ha messo lo zampino, dunque?
Certo, anche lui.
E Bersani?
Poveretto, a un certo punto l’aveva capito. E si era inventato il riformismo. Che non voleva dire nulla.
(Difficile dare torto a Zani. Il riformismo tanto sbandierato è solo propaganda per merli doc. - ndt)
Lei sembra pieno di risentimento.
Come non potrei. Ma sono amareggiato, soprattutto. Tuttavia non dispero. Questi con la controriforma costituzionale e la legge elettorale cercano di farci fare un salto indietro di cento anni. Se non l’abbiamo capito, è grave. E Renzi, o il Pd, dipende, rappresentano il 20 per cento degli italiani. Io me ne frego se sbandierano il 40. Quale 40? Sono il venti.
Durerà la generazione dei Renzi, Bonaccini e Richetti?
Vabbè, Bonaccini e Richetti non li calcolo. valgono zero. Per Renzi avevo previsto 20 anni. Visto come si muove mi sono ricreduto: non arriva a primavera.
Emiliano Liuzzi
(da “il Fatto Quotidiano“)
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Inviato: 11/09/2014, 19:18
da erding
Orologeria renziana
—
Norma Rangeri, 10.9.2014
L'Emilia rotta. Sta avvenendo qualcosa di profondamente distorto nella politica e nella cultura del Paese.
Ma il primo a capirlo dovrebbe essere lo stesso premier: cambiare a sinistra si può e si deve.
Cambiare invece rinnovando il berlusconismo che ha ammalato l’Italia, non si può e non si deve.
imprevisto si è materializzato nella casamatta del crescente potere renziano, investendo gli «uomini nuovi» che già si preparavano a guidare l’amministrazione di un territorio simbolo della sapienza amministrativa che fu. Un brutto colpo all’immagine di una squadra costruita per mostrare i cavalieri e le dame della tavola rotonda votati al servizio del Paese.
Governo, partito e leadership nazionale sono stati colpiti dall’effetto domino dell’inchiesta sulle «spese pazze» degli amministratori dell’Emilia Romagna. Si vedrà se le accuse dei giudici (che riguardano tutti i gruppi emiliani, generosi in profumi, gioielli, cene e forni a micronde), troveranno riscontri processuali. Intanto però l’evidenza di un malaffare, o quantomeno di un malcostume, che ha già travolto il ventre molle della maggior parte dei consigli regionali, non ha alcun bisogno di conferme.
E a proposito di conferme, ancora una volta (e nonostante il tanto sventolato rinnovamento del partito, frutto di una costante e colpevole costruzione mediatica), quelli saliti sul carro del vincitore reagiscono alla bufera giudiziaria che li riguarda nel modo peggiore. Strillando contro «la giustizia a orologeria». Rinnovando ai politici indagati la fiducia del Pd. Tutto secondo il collaudato stile del «complotto delle toghe» contro i «rappresentanti del popolo». È penoso assistere a questo spettacolo che ormai va in scena da oltre vent’anni, secondo le solite modalità. Ed è penoso vedere che il renzismo, osannato da quasi tutti i media, soffre della stessa fobia anti-giudici.
Eppure lo scontro tra magistrati e politici, che in questo momento tornano a incrociare le spade anche sulla riforma della giustizia, non è certo l’unico terreno comune tra il presidente del consiglio e il suo più forte sostenitore — il pregiudicato — provvisoriamente ai domiciliari e politicamente collocato tra i banchi dell’opposizione.
Sulle riforme istituzionali, come su quelle del mercato del lavoro, la scintilla della profonda sintonia ha avuto modo di accendersi emanando tutta la sua forza incendiaria, durante questi primi sei mesi di renzismo onnivoro. Però molto fumo e poco arrosto. I cantori del nuovo corso plaudono alla ripresa di ruolo della politica contro le odiate burocrazie che «gufano e rosicano», mentre sentiamo dire che non rinnovare i contratti e iniettare massicce dosi di precarietà nelle deboli vene del mercato del lavoro sarebbe la rivoluzione di sinistra e non, purtroppo, la replica (in peggio) dell’agenda Monti. E poi tagli di 20 miliardi alla spesa pubblica e applicazione forzata dei Trattati europei (da ieri sorvegliati dal finlandese Katainen, quello che voleva scambiare i prestiti alla Grecia avendo in pegno il Partenone).
Per farsi un’idea della scena — triste — bastava osservare il teatrino televisivo di Vespa che, insieme a miss Italia, inaugura da vent’anni il rito del rientro dalle vacanze. Non si era mai visto Sallusti, il direttore del giornale di Arcore, alternare sorrisi a sguardi ammirati verso il giovane premier, che ritornava sui soliti refrain («ma se uno si mette a leggere i giornali che dicono che tutto va male…»), che si gongolava (
«l’altra sera al vertice europeo è venuto fuori il Renzi che è in me…»).
Basterebbe questa battuta per far capire, soprattutto agli elettori del Pd, che sta avvenendo
qualcosa di profondamente distorto nella politica e nella cultura del Paese.
Ma il primo a capirlo dovrebbe essere lo stesso premier: cambiare a sinistra si può e si deve.
Cambiare invece rinnovando il berlusconismo che ha ammalato l’Italia, non si può e non si deve.
http://ilmanifesto.info/orologeria-renziana/
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Inviato: 12/09/2014, 0:54
da camillobenso
Corriere 11.9.14
La crisi irreversibile del vecchio apparato e c’è il terrore dei gazebo deserti
di Marco Imarisio
BOLOGNA — «Siamo sempre qui, a metà strada tra camicia bianca e colbacco». La signora Marisa del ristorante Bertoldo è un’anima divisa tra fornelli e disincanto, con prevalenza della seconda. I volontari della Festa dell’Unità sono abituati alla loro funzione di termometro, in qualche modo sono ormai una categoria dello spirito, l’incarnazione degli umori della sempre citata e poco ascoltata base democratica. «Meglio stare a casa, così le primarie non servono a nulla. Ci vuole un partito che decide». Alla fine la presunta giustizia a orologeria potrebbe diventare il grande alibi. Tana libera tutti, dalle colpe di un pasticcio che è sabbia in un motore che vale il 12 per cento del Pil nazionale e maneggia più fondi europei di qualunque altra Regione. La crisi politica è arrivata ben prima di quella giudiziaria. Il Pd emiliano è un corpaccione che ha compiuto la sua transizione attraverso le varie sigle, in assoluta continuità di uomini e idee. Le dimissioni di Vasco Errani e la chiusura forzata di un’epoca hanno proiettato il pezzo di Pd più immobile e pesante d’Italia nell’era di Renzi e del suo cambiare verso con gli uomini di sempre, fino a quel momento abbracciati in un matrimonio di convenienza.
La mutazione non è ancora compiuta. L’addio di Errani ha reso inevitabile la resa dei conti. Ancora pochi giorni fa, tra gli stand del Parco Nord, uno degli amministratori locali più in vista aveva avvisato il premier. «Matteo, se lasci fare a noi qui succede un casino epocale». Come non detto. Qui le primarie sono sempre state una liturgia molto partecipata ma senza sorprese. Ma ora l’anomalia di una superiorità senza concorrenti rischia di diventare un’arma a doppio taglio. «Qualcuno vorrebbe far credere che sono le primarie la causa della divisione, quando invece sono soltanto l’unica soluzione». Arturo Parisi, ex ministro, ma soprattutto inventore delle primarie, vede fortemente a rischio la sua creatura. «Questo è un Pd strano», dice. «Il solido primato del quale ha goduto nella società emiliana, lo obbliga a trasferire al suo interno sia la funzione di governo che quella di opposizione. Una dialettica compressa, se non occultata. Ma senza primarie, è destinata a tramutarsi in conflitto permanente».
L’infermeria della politica emiliana è piena di feriti sul campo di questa battaglia a bassa intensità. Non è passato il candidato degli amministratori locali, quel Daniele Manca sindaco di Imola stimato da tutti ma troppo bersaniano per passare senza lasciare il segno di una vittoria netta del vecchio apparato della ditta. All’ultimo chilometro prima del traguardo è caduto anche Matteo Richetti, per le stesse ragioni di cui sopra, il suo renzismo spinto e il profilo ipercattolico erano boccone indigeribile per una classe dirigente figlia del vecchio partito. L’unico prodotto di una sintesi precaria tra l’anima di un Pd che si sente ancora Pds e un renzismo solo di facciata era il placido Stefano Bonaccini, il segretario regionale nato come uomo della ditta e divenuto sostenitore dell’attuale premier dopo i rovesci del 2013. Alla fine doveva rimanere soltanto lui, ultimo Highlander sotto mentite spoglie della centralità di una classe dirigente che si sente in via d’estinzione. La selezione non è stata indolore. Ne sono prova i molti silenzi dei parlamentari d’area e le poche parole di Virginio Merola, sindaco di una Bologna sempre più marginale nel potere locale e vano sponsor della candidatura di Manca. «È possibile risolvere la situazione solo se c’è una volontà vera. Quel che avevo da dire, l’ho già detto a chi di dovere».
Matteo Renzi ha preso nota ma forse non ha capito che quell’Emilia Romagna a lui quasi sconosciuta, poteva diventare la prima, vera grana della sua carriera da segretario nazionale. «Da queste parti» dice Paolo Pombeni, politologo e docente universitario, ex socialista, «permane ancora il vecchio riflesso condizionato della perpetuazione della specie a scapito delle infiltrazioni esterne». La prova vivente della teoria sarebbe Roberto Balzani, l’ex sindaco di Forlì che combatte una battaglia tutta sua contro il presunto consociativismo eletto a sistema di Errani e al momento rimane l’unico candidato senza ammaccature evidenti di questa corsa surreale. «Non gli perdonano il fatto di essere contro l’apparato».
Anche Gianfranco Pasquino, politologo di area Mulino, si associa ai timori. «Le primarie si devono fare, perché un partito che vuole essere democratico non deve mai stravolgere le sue regole a scapito di un candidato indesiderato come Balzani. Tutto il resto è vecchia politica e bruttissima politica». A questo porta il vicolo cieco emiliano. A primarie da salvaguardare come Panda ma che rischiano di avere così poca gente da sembrare ridicole. La logica e il sapere degli studiosi della politica, che a Bologna non sono mai mancati, spinge per il salvataggio della «creatura». Il nostro sondaggio personale alla Festa dell’Unità si conclude con dodici volontari su 12 intenzionati a disertare gli eventuali gazebo.
Corriere 11.9.14
Il Pd stretto fra indagini e garantismo
tra Indagini e Garantismo Pd Prigioniero di Se stesso
di Antonio Polito
Forse, col senno di poi, sarebbe stato meglio per Renzi se i magistrati di Bologna avessero fatto qualche giorno di ferie in più. Invece «la Procura ha lavorato anche in agosto», ha spiegato implacabile il vicecapo dell’ufficio. Risultato: primarie emiliane nel caos, direzione del partito rinviata, festa dell’Unità rovinata. Per quanto di modesta entità giudiziaria, l’inchiesta di Bologna è una bella tegola per il Pd renziano. Innanzitutto perché ricorda che il nuovo gruppo dirigente non è così vergine da non avere un passato, in cui viaggiò in auto blu e fu esposto agli incerti del mestiere (soprattutto nei consigli regionali con «nota spese selvaggia»); né è così fraternamente unito da non conoscere le notti dei lunghi coltelli, come quella che si sta consumando nella roccaforte emiliana e che solo i nuovi cremlinologi del renzismo sanno spiegare.
Una macchia fastidiosa, insomma, per la generazione Dash, con la camicia bianca che più bianco non si può.
Ma la cosa peggiore è che ripiomba il partito nuovo in una questione antica, tipica dell’era che sperava di essersi ormai gettata alle spalle: come dotarsi di una moderna cultura garantista dopo una così lunga pedagogia moralista e, dunque, che fare quando uno dei tuoi è sotto inchiesta.
Al momento, la situazione è kafkiana. Richetti si è ritirato dalle primarie perché è indagato, ma senza averlo detto. Bonaccini l’ha detto ma non si è ritirato, confida come al solito di dimostrare ecc. ecc. (ma già deve sfuggire ai militanti inferociti sul suo blog: quanto potrà resistere?). Il terzo candidato, che non è indagato, rischia invece di essere eliminato se saltano le primarie. Il problema è che il governatore che sono chiamati a sostituire, Errani, si era dimesso dopo una sentenza di primo grado nonostante Renzi gliel’avesse sconsigliato, poiché viene dal Pci e sta ancora elaborando il lutto della diversità come perfezione morale; mentre Enrico Rossi, anche lui ex Pci, si ricandida a governatore della Toscana nonostante sia indagato. Nel frattempo nessuno obietta che in Campania Vincenzo De Luca, due volte rinviato a giudizio, si prepari a correre per le primarie regionali. Né che al governo ci siano quattro sottosegretari a loro volta indagati, ma confermati.
Così il nuovo Pd si trova tra due fuochi. Se dice, come in molti sussurrano, che l’indagine è una vendetta della magistratura per le ferie tagliate, dà ragione in un solo colpo a vent’anni di agitazione berlusconiana contro le toghe rosse e la giustizia a orologeria. Se dice, come molti vorrebbero, che lascerà decidere ai suoi elettori e non alle Procure chi deve essere candidato e chi no, dà torto in un colpo solo a vent’anni di antiberlusconismo, che ha fatto strame di molti principi di garanzia e che è stato a lungo usato come un surrogato della politica per cibare il popolo di sinistra.
Bisognerebbe che il nuovo partito-guida avviasse dunque una riflessione: su come essere più severi, prima che arrivino le Procure, con chi sale sul taxi solo per arricchirsi, e meno bigotti con chi viene fatto scendere ogni volta che fischia un pm. Bisognerebbe che Renzi ci pensasse e ne parlasse, visto che è anche il segretario del partito e non ha mai pensato neanche per un nanosecondo di lasciare la carica. Ma Renzi, per altro loquace, per ora ne tace.
Il Sole 11.9.14
Viaggio nella Regione rossa
Il modello-Emilia tramonta con la sconfitta Pd del 2013
di Lina Palmerini
«Erano gli anni '80, in consiglio regionale si fece un dibattito dal titolo "Afferrare Proteo", dove Proteo rappresentava il mercato. C'era tutto il Pci regionale e c'ero anch'io, ero segretario della Dc, e mi ricordo le conclusioni di quella giornata riassunte in una frase illuminante di Turci. Lui disse: "Se Proteo non fosse per definizione inafferrabile, noi potremmo dire di averlo afferrato"». Pierluigi Castagnetti ripensa a quegli anni vissuti da «albino», un estraneo in un mondo tutto declinato in rosso. E quella frase, in effetti, rappresenta bene quello che era il modello emiliano: un Pci che afferrava tutto, anche l'inafferabile, anche il mercato. Questo era quello che era l'Emilia e che Fausto Anderlini, sociologo bolognese con una lunga militanza nel partito, chiama modello «integrativo», cioè «un partito luogo delle decisioni che poi fa da cerniera verso le istituzioni, enti locali, forze sociali, imprese». Spiega di aver preso la definizione da un libro di Patrizia Messina che contrappone il modello bianco del Veneto – «aggregativo» – a quello rosso emiliano «integrativo», appunto. Ma è un passato che non ritorna anche se qualcuno ha provato a rianimarlo.
«Pierluigi Bersani, nel 2013, fa l'estremo tentativo – dice Anderlini – di far rivivere una storia. L'unica volta in cui gli "emiliani" hanno tentato la scalata nazionale, una prova di sopravvivenza. Con lui c'erano Errani, Migliavacca, Fiammenghi. Hanno perso, lo sappiamo. E quel tentativo fallito ha conclamato il declino di un modello e di quel ceto politico». Un tentativo tardivo quando ormai la presa sulla società non era più così stretta, quando il rapporto del partito con le coop o con i sindacati funzionava ormai al al rovescio, quando il mercato aveva cambiato la vita delle imprese e quando i militanti erano ormai solo anziani. Insomma, un tentativo fatto quando Proteo era diventato inafferrabile davvero.
È subito dopo, nelle ore brucianti della sconfitta, che gran parte di quel ceto politico si sposta sull'opzione B e si converte a Matteo Renzi che in Emilia stravince alle primarie n.2 contro Cuperlo e stravince alle europee contro Grillo. «Gli effetti del renzismo applicati all'Emilia li vediamo, però, con questa vicenda delle primarie. Sia chiaro – dice Anderlini – l'inchiesta della magistratura è ai limiti del colpo di Stato ma il partito ha reagito con una crisi di nervi perché non ha più sicurezza di sé. Perché le primarie lo hanno trasformato in un comitato elettorale, un luogo senza discussioni, perché il partito rinuncia alla funzione di selezione di classe dirigente e dunque diventa fragile, in balia di eventi anche piccoli». Questa è la profezia di Anderlini, di un ceto politico che tenta la via di salvezza con Renzi ma che incontrerà la sua definitiva fine. Ma è una tesi. L'altra è che a un modello che si è esaurito, che non ha più presa sulla società, va fatto un innesto nuovo.
Spiega Salvatore Vassallo politologo dell'università di Bologna e già deputato Pd nel 2008. «Il residuo di quella storia è in organismi politici invecchiati, in militanti ormai solo anziani, in una partecipazione inaridita. Con questa realtà, oggi, ci si deve confrontare e le elezioni del 2013 hanno dimostrato che la politica della nostalgia non porta da nessuna parte. Dunque serve un nuovo innesto che sia piantato sul corpo invecchiato ma resistente dell'Emilia, un'operazione di riqualificazione della classe dirigente e della partecipazione. Un'operazione che non deve partire da zero ma che ha come unica via le primarie». E quel modello che Anderlini chiama integrativo ma che è stato anche una cappa di potere nella società e nell'economia, ormai offre un'eredità debole ma pur sempre presente. «È un tessuto di classe politica che connette in modo informale persone di partito, amministrazione, imprese cooperative e partecipate: una eredità che ha del buono e del cattivo, dell'onesto e del discutibile. Il pro è una maggiore capacità di coordinamento; il contro è un minor grado di apertura e contendibilità».
E di quel declino un segno è stata anche la nascita del grillismo, proprio in Emilia. «Nasce sul declino della partecipazione nel partito ma sta dentro quella cultura emiliana partecipativa e infatti nasce qui, come movimento critico». Una storia che comincia con le comunali 2009 quando Favia raccoglie un 3%, poi alle regionali 2010 triplica i consensi fino al take off delle amministrative 2012, quando Grillo arriva al 20% e conquista Parma. Il tentativo di Bersani è dell'anno successivo e Grillo gli sbarra la strada: la storia ha qualcosa da insegnare anche alle primarie di oggi.
Il Sole 11.9.14
A Bologna in gioco la trasparenza del renzismo e il destino delle primarie
di Stefano Folli
Un groviglio di difficile soluzione richiede scelte tempestive al segretario-premier
A Bologna il Partito Democratico di Renzi si gioca gran parte della sua credibilità. Per meglio dire, è la filosofia politica del premier (il "renzismo") a essere sfidata sul terreno della coerenza. La ragione è intuitiva. In nessun altro posto come in Emilia Romagna il Pd ha bisogno di coniugare la novità "renziana" con la continuità di un sistema di potere ramificato e ancora possente. Un sistema cruciale nella storia e nel destino della sinistra italiana.
Questo significa che oggi Renzi e l'Emilia Romagna hanno bisogno uno dell'altra. Senza la spinta dinamica del segretario-premier la regione rossa rischia di chiudersi in una crisi involutiva. D'altra parte senza l'Emilia Romagna il presidente del Consiglio sarebbe privato di quelle radici piantate nel territorio e nella peculiarità storica italiana che sono ancora, nonostante tutto, irrinunciabili. Come dimostra l'aver tenuto la festa del Pd proprio a Bologna, con l'idea di rinverdire qualcosa delle vecchie tradizioni. In altri termini, il passato e il futuro s'incrociano in forme che richiedono un'attenta alchimia. Tuttavia il tentativo di trovare un successore a Errani in modo indolore non è riuscito. Lo scandalo che ha tagliato le gambe ai due candidati principali non è gravissimo nei numeri (le "spese pazze" consisterebbero in poco meno di diecimila euro totali contestati nell'arco di una ventina di mesi), ma lo è sotto il profilo morale. Fortuna per il Pd che i Cinque Stelle in crisi non sembrano in grado di intercettare lo sconcerto che si respira.
Difficile a questo punto pensare che il rebus si risolva mandando avanti Bonaccini, cioè il candidato che non si è ritirato benché sotto inchiesta, e affidandosi alla clemenza dell'opinione pubblica. È plausibile che il Renzi prima maniera, non ancora segretario-premier, sarebbe stato impietoso nel denunciare un gruppo dirigente che difende il candidato indagato. Viceversa il Renzi di Palazzo Chigi, attento non commettere passi falsi, cerca di guadagnare tempo per uscire dal pasticcio con il minor danno. Certo il rischio è molto alto. Il presidente del Consiglio tradisce in qualche misura se stesso se viene meno al principio della massima trasparenza. E oggi a Bologna la trasparenza è parecchio minacciata.
C'è un punto in particolare che non può essere sottovalutato. Le regole prevedono le "primarie" per scegliere il candidato alla regione. E la scadenza per presentare le firme è adesso. Stando alla normativa interna, non ci sarebbe tempo e spazio per introdurre altri candidati decisi a Roma (Del Rio, Poletti). Proprio Renzi, che ha fatto delle "primarie" lo sgabello del suo trionfo, non dovrebbe annacquarne lo spirito e i regolamenti. Ma questo vuol dire lasciar correre, accanto a Bonaccini, Roberto Balzani, l'ex sindaco di Forlì che sta diventando l'uomo nuovo della contesa, l'unico a non essere compromesso con gli assetti di potere oggi sotto l'occhio della magistratura.
Per Renzi è la scelta più ardua. Rinnegare un po' se stesso e la propria storia? Incrinare il legame con l'Emilia Romagna? Riportare sulla scena un esponente della vecchia guardia come garante (si è parlato di Bersani)? Qualunque sia la decisione, il caso peserà sul futuro del "renzismo". Sarebbe bizzarro se l'uomo che ha vinto nel Pd (e prima a Firenze) grazie alle "primarie", smontasse ora il meccanismo di selezione dal basso.
Repubblica 11.9.14
La nuova ferita al cuore rosso
Un tempo chi non era all’altezza veniva sostituito. Tanto il materiale umano non mancava
Ora però qualcosa si è inceppato
di Piero Ignazi
PRIMA il sindaco di Bologna Delbono, poi il presidente di regione Errani, e ora il segretario regionale Bonaccini e il presidente del consiglio regionale Richetti: tutti investiti da inchieste della magistratura. Il cuore rosso della sinistra è in affanno.
QUELLO che era il forziere degli iscritti, dei voti e dei finanziamenti per il vecchio partito comunista e per i suoi eredi, oggi perde terreno sia in forza di attrazione che in immagine. Spetta ora alla Toscana la palma della regione più rossa: alle europee è volata al 56% dei voti contro il 53% raccolto in Emilia Romagna. E anche quando si votò alle primarie, il conflitto tra Bersani e Renzi dimostrò la maggiore capacità di mobilitazione dello sfidante nella propria regione. Già allora si intravedevano i segni del cambio di egemonia all’interno del Pd. Poi, la caduta rovinosa di Bersani e la marcia trionfale di Renzi hanno fatto il resto. Alla guida del partito, al di là del giglio magico, è (era) rimasto solo il modenese Stefano Bonaccini.
In realtà, nella storia della sinistra comunista e anche post-comunista, fino a Bersani non ci sono mai stati dirigenti di primo piano che provenissero dall’Emilia Romagna. La divisione dei compiti era molto precisa: a Roma si faceva la grande politica (rivoluzionaria, ai tempi di Togliatti), ai compagni emiliani il compito di mostrare la vetrina del socialismo (municipale) realizzato. Per questo i dirigenti locali dovevano essere i migliori, i più efficienti e specchiati, oltre che fedelissimi alla linea. Il serbatoio di reclutamento dell’Emilia Romagna era abbondantissimo con una densità organizzativa che sfiorava un iscritto al Pci ogni 10 abitanti. Non solo l’organizzazione partitica sfornava nuove leve a ripetizione ma il gioco di scambio e di interazione con quelle che all’epoca venivano chiamate le organizzazioni di massa (sindacati, cooperative, e associazioni varie legate al partito) era fitto e continuo. Chi non era all’altezza e seguiva un comportamento non in linea con l’ortodossia politica e comportamentale era emarginato e sostituito. Tanto, il materiale umano non mancava.
Da tempo, però, qualcosa si è era inceppato in questo circolo, per certi aspetti virtuoso, per altri terribilmente soffocante e oppressivo (pensiamo al movimento del ’77). La caduta di Bologna nel 1999 quando il candidato civico sorretto dal centrodestra, Giorgio Guazzaloca, sconfisse la candidata del Pd (scelta con le primarie per la prima volta nella storia del partito) dava la misura della scollatura tra amministrazione rossa e cittadini. In quegli anni lo stesso valeva per altre roccaforti cadute, a Parma, a Piacenza e in altri centri minori. Reggeva la regione nel suo complesso, affidata alle mani sicure di Vasco Errani fin dal 2000. Ma l’esaurimento della spinta propulsiva della classe politica locale era palpabile. Le cronache politico-giudiziarie di questi giorni lo attestano.
Al di là delle inchieste della magistratura è stata la corsa per la candidatura alla presidenza di regione ad aver lasciato il segno, con quella vaudeville di candidati che entravano ed uscivano dalla scena uno dopo l’altro, come in una commedia degli equivoci di Fayedeau. C’era chi si candidava perché voleva essere “unitario”, chi voleva rappresentare una alternativa, chi offriva una diversa opzione “interna” alla corrente renziana, chi infine pensava a competizioni future. Tutte posizioni lecitissime, salvo che hanno poi dato vita ad un balletto del cisto e noncisto sulla base delle indicazioni, mai esplicitate all’esterno peraltro, del “centro”. Se le primarie, come ha scritto più volte Ilvo Diamanti, sono un aspetto addirittura identitario del partito, in cui il metodo fa aggio sul contenuto, allora tutta questa ricerca di unzione dal segretario nazionale non ha alcun senso. Le primarie non sono fatte per misurare il gradimento del designato: sono fatte per lasciare sul campo un vincitore soltanto, dopo che i contendenti se lo sono date di santa ragione per meritare la nomina. Per un partito che le vive come un elemento identitario fare ora finta di niente ed imporre da Roma un candidato “forte e autorevole” qualche problema lo crea. Soprattutto quando questo si cala in una regione in crisi di identità, incalzata nella sua storica primazia e, sostanzialmente, affaticata dal lungo governo della regione; affaticata perché il rinnovamento generazionale, che pure è incominciato da molti anni, non si è fortificato in confronti-scontri duri e a viso aperto. Il riflesso “governativo” di questa regione, cioè lo stare sempre con il segretario, come ai tempi della Bolognina di Occhetto e del passaggio al Pds, ha portato a una adesione massiccia e quasi automatica a Renzi. In fondo il leitmotiv era: vogliamo vincere e quindi adesso stiamo con chi ci dà maggiore garanzie di farcela. Certo, le dimissioni di Vasco Errani hanno destabilizzato la classe politica regionale e costretto i potenziali candidati a muoversi in un terreno nuovo, privi del viatico dell’ex governatore; e così hanno cercato “consiglio” a Roma, con tanto di imprimatur e benedizioni. La fragilità psicologica e politica di cui sta dando prova la classe politica emilianoromagnola (salvo scatti d’orgoglio dell’ultima ora) spiana le ultime, velleitarie, resistenze all’egemonia renziana: resistenze non politiche, sia ben chiaro, ma semplicemente in termini di difesa di autonomia locale. Un candidato imposto da Roma significa un commissariamento di fatto. Quindi, ai compagni della pianura spetta il compito di fare tanti iscritti e organizzare belle feste dell’Unità. Ma in politica non mettano più becco. Dura lex sed lex.
il Fatto 11.9.14
La Ditta in Emilia
Pd, guai a chi tocca la cassaforte rossa
Legami decennali, ruoli che non mutano: cooperative, appalti, sindacati e partitone
Ecco perché i nuovi arrivati renziani vengono tenuti lontani dalla cassa
di Marco Franchi
Bologna La cassaforte è sempre più vuota. O almeno meno piena. Ma proprio per questo si fa di tutto per tenerci le mani sopra. Così nella rinuncia di Matteo Richetti a correre per la presidenza dell’Emilia c’è anche la volontà del “vecchio Pd” di non dare a un ultimo arrivato la combinazione di quasi 70 anni di storia, voti, appalti, accordi. Con Matteo Renzi che per spartizione da codice Cencelli e per quieto vivere si accorda con i capi dell’ex Pci. Da Vasco Errani, dimessosi dalla presidenza della Regione dopo la condanna per falso ideologico e a cui domenica Renzi ha dedicato un lungo peana, fino a Pier Luigi Bersani e magari con la benedizione del referente Massimo D’Alema. Senza dimenticare che ministro del Lavoro è Giuliano Po-letti da Imola, ex n. 1 nazionale delle coop rosse e pure di quelle bianche.
ED ECCO LE PRESSIONI su Richetti perché molli lasciando libero campo a Stefano Bonaccini, che sarà pure lui renziano, ma viene dal Pci, è stato dalemian-bersaniano, è cresciuto nella macchina del partito e ne conosce e protegge tutti i fili, i legami, i misteri. La cassaforte, appunto. E amen se è indagato per peculato come Richetti. Uno resta, l’altro va. Per una storia che bolliva da mesi e che fino ad ora non aveva preoccupato il Pd. L’alleanza Lega Coop-Confcooperative bianche significa 43 mila imprese, un milione e 200 mila occupati, 12 milioni di soci, 140 miliardi di euro di fatturato, un valore sul Pil dell’8%, a cui si aggiunge la raccolta delle banche di credito cooperativo, che è di 157 miliardi (13,4% degli sportelli del Paese). E ancora: il 34% della distribuzione e del consumo al dettaglio, il 35% della produzione agroalimentare, il 90% della cooperazione impegnata nel welfare, con servizi a circa sette milioni di italiani. È la dote che Giuliano Poletti ha portato al governo. La capitale è Bologna, con i palazzi bianchi e rossi gli uni accanto agli altri. Con vista sulla Regione. Il Pd in Emilia-Romagna è Pci-Pds-Ds, con undici fondazioni per ognuna della federazioni e che fanno capo alla Fondazione Ds di Ugo Sposetti, ultimo tesoriere Ds, l’uomo di tutti i segreti economici dell’ex partito.
Simboli per raccontare una realtà. A Bologna da est si entra in via Stalingrado, strada superstite al crollo dell’Urss. A riceverti è la Porta d’Europa, enorme fortino che copre tutti e due i lati, ci devi passare sotto, inchinarti metaforicamente. È la sede dell’Unipol, la madre di tutte le cooperative. Tanto che alla Festa nazionale dell’Unità hanno ben pensato di scegliere un logo dove le Due Torri medievali sono cancellate da una nuova torre, appena costruita dall’Unipol.
BENVENUTI nella cassaforte. Di tutto. Siriana Suprani, moglie di Pierluigi Stefanini, presidente Unipol, arrivato nelle coop nel 1990 da dirigente Pci, è la signora dell’Istituto Gramsci, diretto dal politologo onorevole bersaniano Carlo Galli e che raccoglie la cultura e la memoria rossa.
Non si cambia, non si corrono rischi nemmeno con il post-dc Richetti, nel Ppi con Enrico Letta e poi renziano della prima ora. Bonaccini è l’ultimo referente di quella che un tempo si chiamava l’Emilia rossa. Aperte nelle esportazioni, chiusa nelle logica di potere. Le coop sono dappertutto, nelle banche, all’università, nella fiera, nelle librerie, hanno uomini nei Comuni, persino in Nomisma, il centro di ricerche fondato da Romano Prodi.
SONO STATE LORO a coinvolgere privati affogati dalla crisi nell’ultimo business, quello di Eataly world, il colossale parco del cibo che sorgerà a Bologna in pool con Oscar Farinetti, gourmet d’affari renziano. Loro hanno messo le mani su un affare da 40 milioni che gli da ossigeno, hanno spartito qualcosa con i padroni privati, salvati e riconoscenti.
La continuità è questo consociativismo, la rete che va protetta. Non solo per il 52,5% dei voti alle Europee, undici punti in più della media nazionale. Il renzismo in Emilia-Romagna è ancor più gattopardesco. Tutti renziani in parata, poi nulla cambia nella realtà.
Una forza che si regge su 80 mila iscritti, 700 circoli Pd, 400 mila persone alle Feste dell’Unità. Bonaccini è stato scelto per portare nel Pd di Renzi una regione strategica e una tradizione storica. La novità si può fermare davanti a considerazioni di interesse, con buona pace del giovane Richetti.
Il sistema blinda se stesso anche nel rapporto con Comunione e Liberazione, che ha sempre amato Bersani ed Errani per la loro politica sulla scuola e con cui le coop sono in affari, dall’ Expo 2015 a Milano con Cccdi Bologna e Cmb di Carpi, al tunnel della Tav Torino-Lione con la Cmc di Ravenna. Una rete da proteggere, tanto più in tempi di magra. Con la Manuntencoop indagata per l’Expo, il colosso Ccc che dicono vorrebbe vendere la sua fastosa sede, inaugurata nel 2008 da Massimo D’Alema. Allora ministro degli Esteri.
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Inviato: 22/09/2014, 0:11
da camillobenso
E’ dal:
Inviato: 21/04/2012, 20:35
che tentiamo di capire come si potrebbe mettere in piedi una nuova sinistra. Non ci siamo riusciti.
Paolo11, in altro 3D oggi ha scritto:
Vedo in lontananza.Il PD si sfascia e Renzi passa con il centrodestra magari in sostituzione di Berlusconi con la sua benedizione.
Ciao
Paolo11
Il Pd era fallito 6 mesi dopo la sua fondazione. La chiamavano la fusione fredda. Ma la pappatoia democristiana ha fatto chiudere gli occhi agli ex Ds e a chi li votava nel Pd.
Quello che vede Paolo, me lo auspico pure io. Renzi vada a fare il capo della destra che verrà accolto a braccia aperte. Oggi Berlusconi ha dichiarato per l'ennesima volta che le riforme di Renzi sono le sue.
Sarebbe auspicabile che ognuno avesse il coraggio di tornare indietro per ripartire. La destra faccia la destra e la sinistra faccia la sinistra.
Questo mischiume è fallito.
Questa potrebbe essere l’ultima chiamata.
Marco Palombi su IFQ oggi ha scritto l’articolo sotto riportato.
Domanda:
Secondo voi sarebbe opportuna una spaccatura del Pd e ricominciare da capo???
il Fatto 21.9.14
Che fai, li cacci?
Il premier aizza la base contro Bersani & C. “Basta vecchia guardia. Non tornerete”
Dopo il video anti-Cgil, lettera agli iscritti per attaccare la sinistra
Guerra aperta nel Pd sull’art. 18 in vista del voto parlamentare di questa settimana
Bonanni (Cisl) sull’attenti si sfila dalla Cgil e dalla Fiom
Le aree anti-renziane si riuniscono martedì sera per coordinarsi
Insieme valgono il 30% del partito, di più nei gruppi parlamentari
di Marco Palombi
L’equivoco del Pd forse sta per sciogliersi. L’equivoco umano, politico, ideologico per così dire. Le minoranze interne - dopo lo schiaffone del congresso e il pugno allo stomaco del 40,8% raccolto dal one man show di Matteo Renzi alle Europee - si stanno svegliando e il premier non ha intenzione di lasciargli il tempo di organizzarsi. Se martedì le varie anime anti-renziane del partito hanno convocato una riunione per darsi una qualche forma di coordinamento, ieri Renzi ha reso pubblica una lettera agli iscritti che è quasi un avviso di sfratto: “Il 29 settembre presenterò in direzione nazionale il Jobs Act... Chi oggi difende il sistema vigente difende un modello di disuguaglianze dove i diritti dipendono dalla provenienza o dall’età... Ci hanno detto che siamo di destra per questo. Ci hanno paragonato ai leader della destra liberista anglosassone degli anni Ottanta”.
CONCLUSIONE: “Anche nel nostro partito c’ è chi vuole cogliere la palla al balzo per tornare agli scontri ideologici e magari riportare il Pd del 25%. Noi no. Noi siamo qui per cambiare l’Italia e non accetteremo mai di fare le foglie di fico alla vecchia guardia che a volte ritorna. O almeno ci prova”. Traduzione: se proprio non siete convinti di tutto, gentili iscritti, ricordatevi che con me si vince e con quelli no. Non torneranno, no pasaran. Lo scontro tra Renzi e i rimasugli della “ditta” (copyright Bersani) era inevitabile, che il terreno principale su cui si eserciterà sia la riforma del mercato del lavoro è solo un felice piegarsi delle cose alla gioia del simbolismo. Finora il premier ha avuto vita facile: le minoranze interne sono state divise e spesso tendenti all’appeasement col capo: è il caso, in particolare, del capogruppo alla Camera Roberto Speranza e dell’attuale presidente del partito Matteo Orfini, che hanno rispettivamente spaccato le componenti - all’ingrosso - bersaniana e dalemiana scegliendo sostanzialmente di “entrare in maggioranza” col segretario e Dario Franceschini. È uno degli equivoci di cui si parlava e la riunione di martedì servirà a scioglierlo: Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Pippo Civati, Cesare Damiano pezzi di partito che fanno capo alle vecchie aree di Rosy Bindi ed Enrico Letta (è stato invitato anche il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, che non ha ancora risposto) tentano di darsi una strategia e una voce comune. “L’insieme di tutti questi pezzi vale il 30-35% del partito, di più se si parla dei soli gruppi parlamentari: è chiaro che Renzi senta il bisogno di attaccarli”, spiega una fonte democratica. Sono loro la “vecchia guardia”, anche nel caso che abbiano cominciato a fare politica dopo il premier, che l’ha sempre fatta. Uno dei campi di battaglia sarà sicuramente la commissione Lavoro della Camera: il Jobs Act, infatti, passerà quasi sicuramente in carrozza in Senato (la discussione comincia in Aula la prossima settimana), mentre il fuoco di sbarramento della minoranza Pd ha bisogno di un luogo favorevole alle imboscate. L’XI commissione di Montecitorio è perfetta: il presidente è l’ex Cgil Cesare Damiano e i sindacalisti vi abbondano come neanche in fabbrica (a spanne se ne contano una decina su 46 membri), come pure la sinistra Pd.
COME PROCEDERE non è così difficile. Il primo obiettivo è rendere la legge delega del governo meno ambigua: per com’è scritta adesso è così generica da consentire al governo di fare praticamente quel che vuole coi decreti attuativi (il cosiddetto “eccesso di delega” potrebbe in realtà anche essere motivo di incostituzionalità, ma inutile illudersi). Un esempio. Nessuno - nemmeno la Cgil - contesta il “contratto a tutele crescenti”: se si limitasse ai primi tre anni e servisse a sfoltire la giungla dei contratti precari non ci sarebbero problemi, ma il governo questo non lo dice e preferisce usare formule tipo “andare oltre i tabù” (Delrio). D’altronde si tenterà di intervenire anche su altri contenuti del Jobs Act: la possibilità di demansionare i dipendenti, ad esempio, o quella di applicare i contratti di solidarietà (riduzioni di orario/stipendio) in cambio di assunzioni; la restrizione della possibilità di accedere alla Cassa integrazione senza che sia chiaro come e quando potrà essere applicato il futuro “sussidio di disoccupazione universale” (i due miliardi che Renzi ha promesso non bastano affatto).
Il governo, però, ieri ha almeno ottenuto un risultato: il fronte sindacale è già rotto. Ai distinguo di Luigi Angeletti (Uil) di venerdì, infatti, ieri s’è aggiunta la defezione di Raffaele Bonanni (Cisl): “Il casino di questi giorni tra il Pd e la Cgil è solamente una faccenda di partito, che attiene a quelli là. L’articolo 18 è ormai diventato un’ossessione”. Pieno schema degli anni berlusconiani, anche se all’epoca non portò benissimo al governo e nemmeno ai sindacati.