Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la SX?
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Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la SX?
Come possiamo contribuire a far nascere un partito per la SX?
Un tema interessante per chi ha questi obiettivi.
Vediamo come possiamo contribuire partendo da questo forum.
A tale proposito comincio con questo articolo che mi sembra interessante e sul quale possiamo iniziare la ns,discussione.
Un tema che scotta visto che ora piu' che mai si ha timore parlare di sinistra.
Cmq cominciamo questo senza risparmiarci dalle critiche e dalle obiezioni ma inserendo nello stesso momento le ns. idee qualora ce le avessimo.
Un partito per la sinistra
di: Franco Astengo
marzo - 31 - 2012
“Benecomunismo”:sabato 28 gennaio, a Napoli, si è svolto il Forum dei Comuni per i Beni Comuni. Amministratori locali, attivisti di movimenti sociali, protagonisti di lotte a difesa dei beni comuni e dei diritti lavoratori, hanno poi pubblicato, giovedì 29 Marzo, sulle colonne del “Manifesto” un documento sulla base del quale reclamare la formazione di un nuovo soggetto politico
Autorevoli e illustri firme della sinistra italiana hanno pubblicato, giovedì 29 Marzo, sulle colonne del “Manifesto” (la cui redazione pare averne accolto le istanze, intenzionata a portarle avanti), un documento sulla base del quale reclamare la formazione di un nuovo soggetto politico, capace di raccogliere la realtà dei più importanti movimenti sociali sviluppatisi, nel corso di questi anni, nel nostro Paese attorno ai temi della democrazia partecipata e dei cosiddetti “beni comuni” (da cui il neologismo “benecomunismo”, che pare rappresentare la sintesi più efficace per indicare il retroterra teorico di questo futuribile nuovo soggetto).
I firmatari sono stati, in buona parte, nel passato protagonisti di quella che fu la stagione dei cosiddetti “girotondi” e, successivamente, in tempi più recenti, della vittoriosa campagna referendaria avverso la privatizzazione dell’acqua e dell’elezione dei sindaci definiti “arancioni” in alcune importanti città, come Napoli e Milano.
Il documento si sofferma, con particolare attenzione, alla ricerca di nuove forme dell’agire politico indicando la necessità di “rompere una visione ristretta della politica, tutta concentrata sul parlamento e i partiti”. L’idea è quella di lavorare “per un nuovo spazio pubblico allargato, dove la democrazia rappresentativa e quella partecipata lavorano insieme, dove la società civile e i bisogni dei cittadini sono accolti e rispettati”.
Inoltre “si riconosce l’importanza della sfera dei comportamenti e delle passioni”.
Non sfugge, a un osservatore sufficientemente aduso al linguaggio della politica, una visione tutto sommato figlia di forme di tipo individualistico, fortemente soggettive, nella concezione dell’agire politico, un tentativo di sistematizzazione di quella che definiamo per convenzione “antipolitica” all’interno di un nuovo recinto “blandamente” organizzativo, di collegamento – nel complesso- di sostanziale continuità con quel meccanismo di personalizzazione che appare ancora, il tratto dominante, della scena politica attuale in Italia, introdotto dalla spettacolare mutazione del 1994, poi imitata su più versanti e sulla quale si è concentrato tutto un “per” o un “anti” che ha caratterizzato questa lunghissima fase di transizione, fino all’esito, assolutamente mortificante per i soggetti politici ancora attivi nel nostro Paese, della formazione dell’attuale governo, definibile, senza alcuna difficoltà o tema di smentite di “destra tecnocratica”, una destra dura, chiaramente antipopolare.
Risulta evidente, tuttavia, che da altri settori della sinistra (in realtà il termine “storico” della collocazione tradizionale dei partiti del movimento operaio non viene mai utilizzato nel documento) risulti necessaria una forte interlocuzione con quanto, sul piano della proposta politica concreta, potrà emergere dall’azione conseguente ai contenuti di questo documento.
Potrebbe essere possibile, infatti, sviluppare un forte confronto a tutto campo nel Paese, a diversi livelli, tentando così di ricoinvolgere migliaia di quadri militanti in una discussione pubblica ben finalizzata all’idea di una ricerca comune di soggettività collettiva.
Una discussione pubblica che potrebbe consentire anche di affrontare in campo aperto i limiti delle attuali formazioni politiche e, in particolare, l’obliquo personalismo sul quale si regge SeL che rappresenta, a mio giudizio (espresso da tempo) un vero e proprio “tappo” per lo sviluppo di un’adeguata presenza della sinistra sulla scena politica italiana.
Uso appositamente il termine sinistra, perché è su questa base che si può rivolgere il primo quesito, del tutto propedeutico alla successiva discussione, agli estensori del documento di cui si sta scrivendo: è possibile, dal vostro punto di vista mantenere questo tipo collocazione politica? Oppure, il documento colloca già il possibile nuovo soggetto in un ambito, per così dire, di “trasversalità”?
Non basta, a mio giudizio, affermare che i contenuti sulla base dei quali si pensa di affrontare determinate tematiche risultano già oggettivamente “collocati”: serve, anche e soprattutto, una definizione di “spazio” che tutto deve significare meno che una “recinzione”.
Serve un partito di “sinistra”: uso volutamente i due termini messi così chiaramente in discussione, in questo caso; “partito” e “sinistra”.
Un partito di sinistra che faccia i conti con alcune questioni:
1) La storia del movimento operaio italiano, le sue radici, le sue contraddizioni, ricercando -appunto – sul terreno delle diversità accumulate nel tempo una sintesi superiore adeguata all’oggi, in tempo di complessità delle contraddizioni;
2) L’idea dell’Europa politica. Un’idea fortemente in crisi che deve, invece, essere rilanciata con forza a partire dalla necessità di combattere, proprio al livello della dimensione europea, la battaglia avverso il soggiacere dell’economia rispetto alla finanza e della politica rispetto alla stessa economia (ho semplificato al massimo, ma credo di essermi fatto intendere). Terreni principali di questa battaglia la programmazione economica e l’idea universalista del “welfare state”;
3) La fedeltà alla Costituzione formale, ingaggiando un duro scontro contro i fautori di una Costituzione materiale neo-presidenzialista e includendo, in questo scontro, anche l’idea del sistema elettorale proporzionale come elemento fondativo di un necessario ritorno al concetto di “rappresentatività” in luogo di quello di “governabilità”;
4) La centralità di quella che un tempo avevamo definito “contraddizione principale” tra capitale e lavoro. Accennavo già alla complessità delle contraddizioni dell’oggi (incluso uno spostamento nella relazione classica tra struttura e sovrastruttura sulla quale non mi soffermo per ragioni di economia del discorso): esse però vanno intrecciate strettamente al tema della condizione di classe, ponendo il tema del lavoro al centro dell’azione politica del nuovo soggetto;
5) La “forma-partito” certamente da adeguare alle grandi novità che sul piano comunicativo e delle possibilità relazionali sono venute avanti negli anni ma, al riguardo della quale, non possono essere sviluppate concessioni verso improbabili leaderismi da un lato, e assemblearismi dall’altro. Si tratta di aprire, anche in questo caso, una riflessione sulla forma classica del partito di massa, abbandonata precipitosamente senza che si fosse sviluppata un’analisi sufficientemente approfondita.
Da qualche parte era stata avanzata l’idea di utilizzare la scadenza dei 120 anni ricorrenti dalla fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani (nel 1993 trasformato poi in Partito Socialista) per sviluppare un’idea di “ricominciamo da capo”.
Penso che quell’ipotesi vada perseguita, concretizzata in una riflessione sicuramente molto più compiuta di quella assolutamente abborracciata che ho tentato di sviluppare in questa sede e sviluppata in un apposito documento da porre attraverso una serie di assemblee comuni organizzate, prima di tutto in sede periferica (sfuggendo al concetto di “passerella”) a confronto con il documento di cui ho cercato malamente di occuparmi in questa sede (sciolti ovviamente in nodi di fondo circa la collocazione politica).
Una proposta che mi permetto di sottoporre all’attenzione di alcuni qualificati interlocutori auspicandone un rilancio a tutti i livelli.
http://www.paneacqua.info/2012/03/un-pa ... -sinistra/
un salutone da Juan
Un tema interessante per chi ha questi obiettivi.
Vediamo come possiamo contribuire partendo da questo forum.
A tale proposito comincio con questo articolo che mi sembra interessante e sul quale possiamo iniziare la ns,discussione.
Un tema che scotta visto che ora piu' che mai si ha timore parlare di sinistra.
Cmq cominciamo questo senza risparmiarci dalle critiche e dalle obiezioni ma inserendo nello stesso momento le ns. idee qualora ce le avessimo.
Un partito per la sinistra
di: Franco Astengo
marzo - 31 - 2012
“Benecomunismo”:sabato 28 gennaio, a Napoli, si è svolto il Forum dei Comuni per i Beni Comuni. Amministratori locali, attivisti di movimenti sociali, protagonisti di lotte a difesa dei beni comuni e dei diritti lavoratori, hanno poi pubblicato, giovedì 29 Marzo, sulle colonne del “Manifesto” un documento sulla base del quale reclamare la formazione di un nuovo soggetto politico
Autorevoli e illustri firme della sinistra italiana hanno pubblicato, giovedì 29 Marzo, sulle colonne del “Manifesto” (la cui redazione pare averne accolto le istanze, intenzionata a portarle avanti), un documento sulla base del quale reclamare la formazione di un nuovo soggetto politico, capace di raccogliere la realtà dei più importanti movimenti sociali sviluppatisi, nel corso di questi anni, nel nostro Paese attorno ai temi della democrazia partecipata e dei cosiddetti “beni comuni” (da cui il neologismo “benecomunismo”, che pare rappresentare la sintesi più efficace per indicare il retroterra teorico di questo futuribile nuovo soggetto).
I firmatari sono stati, in buona parte, nel passato protagonisti di quella che fu la stagione dei cosiddetti “girotondi” e, successivamente, in tempi più recenti, della vittoriosa campagna referendaria avverso la privatizzazione dell’acqua e dell’elezione dei sindaci definiti “arancioni” in alcune importanti città, come Napoli e Milano.
Il documento si sofferma, con particolare attenzione, alla ricerca di nuove forme dell’agire politico indicando la necessità di “rompere una visione ristretta della politica, tutta concentrata sul parlamento e i partiti”. L’idea è quella di lavorare “per un nuovo spazio pubblico allargato, dove la democrazia rappresentativa e quella partecipata lavorano insieme, dove la società civile e i bisogni dei cittadini sono accolti e rispettati”.
Inoltre “si riconosce l’importanza della sfera dei comportamenti e delle passioni”.
Non sfugge, a un osservatore sufficientemente aduso al linguaggio della politica, una visione tutto sommato figlia di forme di tipo individualistico, fortemente soggettive, nella concezione dell’agire politico, un tentativo di sistematizzazione di quella che definiamo per convenzione “antipolitica” all’interno di un nuovo recinto “blandamente” organizzativo, di collegamento – nel complesso- di sostanziale continuità con quel meccanismo di personalizzazione che appare ancora, il tratto dominante, della scena politica attuale in Italia, introdotto dalla spettacolare mutazione del 1994, poi imitata su più versanti e sulla quale si è concentrato tutto un “per” o un “anti” che ha caratterizzato questa lunghissima fase di transizione, fino all’esito, assolutamente mortificante per i soggetti politici ancora attivi nel nostro Paese, della formazione dell’attuale governo, definibile, senza alcuna difficoltà o tema di smentite di “destra tecnocratica”, una destra dura, chiaramente antipopolare.
Risulta evidente, tuttavia, che da altri settori della sinistra (in realtà il termine “storico” della collocazione tradizionale dei partiti del movimento operaio non viene mai utilizzato nel documento) risulti necessaria una forte interlocuzione con quanto, sul piano della proposta politica concreta, potrà emergere dall’azione conseguente ai contenuti di questo documento.
Potrebbe essere possibile, infatti, sviluppare un forte confronto a tutto campo nel Paese, a diversi livelli, tentando così di ricoinvolgere migliaia di quadri militanti in una discussione pubblica ben finalizzata all’idea di una ricerca comune di soggettività collettiva.
Una discussione pubblica che potrebbe consentire anche di affrontare in campo aperto i limiti delle attuali formazioni politiche e, in particolare, l’obliquo personalismo sul quale si regge SeL che rappresenta, a mio giudizio (espresso da tempo) un vero e proprio “tappo” per lo sviluppo di un’adeguata presenza della sinistra sulla scena politica italiana.
Uso appositamente il termine sinistra, perché è su questa base che si può rivolgere il primo quesito, del tutto propedeutico alla successiva discussione, agli estensori del documento di cui si sta scrivendo: è possibile, dal vostro punto di vista mantenere questo tipo collocazione politica? Oppure, il documento colloca già il possibile nuovo soggetto in un ambito, per così dire, di “trasversalità”?
Non basta, a mio giudizio, affermare che i contenuti sulla base dei quali si pensa di affrontare determinate tematiche risultano già oggettivamente “collocati”: serve, anche e soprattutto, una definizione di “spazio” che tutto deve significare meno che una “recinzione”.
Serve un partito di “sinistra”: uso volutamente i due termini messi così chiaramente in discussione, in questo caso; “partito” e “sinistra”.
Un partito di sinistra che faccia i conti con alcune questioni:
1) La storia del movimento operaio italiano, le sue radici, le sue contraddizioni, ricercando -appunto – sul terreno delle diversità accumulate nel tempo una sintesi superiore adeguata all’oggi, in tempo di complessità delle contraddizioni;
2) L’idea dell’Europa politica. Un’idea fortemente in crisi che deve, invece, essere rilanciata con forza a partire dalla necessità di combattere, proprio al livello della dimensione europea, la battaglia avverso il soggiacere dell’economia rispetto alla finanza e della politica rispetto alla stessa economia (ho semplificato al massimo, ma credo di essermi fatto intendere). Terreni principali di questa battaglia la programmazione economica e l’idea universalista del “welfare state”;
3) La fedeltà alla Costituzione formale, ingaggiando un duro scontro contro i fautori di una Costituzione materiale neo-presidenzialista e includendo, in questo scontro, anche l’idea del sistema elettorale proporzionale come elemento fondativo di un necessario ritorno al concetto di “rappresentatività” in luogo di quello di “governabilità”;
4) La centralità di quella che un tempo avevamo definito “contraddizione principale” tra capitale e lavoro. Accennavo già alla complessità delle contraddizioni dell’oggi (incluso uno spostamento nella relazione classica tra struttura e sovrastruttura sulla quale non mi soffermo per ragioni di economia del discorso): esse però vanno intrecciate strettamente al tema della condizione di classe, ponendo il tema del lavoro al centro dell’azione politica del nuovo soggetto;
5) La “forma-partito” certamente da adeguare alle grandi novità che sul piano comunicativo e delle possibilità relazionali sono venute avanti negli anni ma, al riguardo della quale, non possono essere sviluppate concessioni verso improbabili leaderismi da un lato, e assemblearismi dall’altro. Si tratta di aprire, anche in questo caso, una riflessione sulla forma classica del partito di massa, abbandonata precipitosamente senza che si fosse sviluppata un’analisi sufficientemente approfondita.
Da qualche parte era stata avanzata l’idea di utilizzare la scadenza dei 120 anni ricorrenti dalla fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani (nel 1993 trasformato poi in Partito Socialista) per sviluppare un’idea di “ricominciamo da capo”.
Penso che quell’ipotesi vada perseguita, concretizzata in una riflessione sicuramente molto più compiuta di quella assolutamente abborracciata che ho tentato di sviluppare in questa sede e sviluppata in un apposito documento da porre attraverso una serie di assemblee comuni organizzate, prima di tutto in sede periferica (sfuggendo al concetto di “passerella”) a confronto con il documento di cui ho cercato malamente di occuparmi in questa sede (sciolti ovviamente in nodi di fondo circa la collocazione politica).
Una proposta che mi permetto di sottoporre all’attenzione di alcuni qualificati interlocutori auspicandone un rilancio a tutti i livelli.
http://www.paneacqua.info/2012/03/un-pa ... -sinistra/
un salutone da Juan
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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- Iscritto il: 08/03/2012, 23:18
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito per S
il mio pensierino sul manifesto lo ho già espresso.
io sono favorevole a tutti i submovimenti, ma va sviluppata una analisi programmatica molto più precisa e a mio avviso anche selettiva.
i compagni hanno inserito il comunicato in versione se ho capito definitiva.
io direi indipendetentemente dai giudizi , utilizziamolo per fare conoscere il forum.
se dopo 15 o 20 giorni vediamo che il ritorno non è positivo allora ne prepariamo uno più....futurista.
è stato inserito nel forum sel e socialismo e sinistra.
se cè qualcuno che vuol spedire il cominicato con inserito il link del forum si faccia avanti.
inoltre se potrebbe aprire dei link con alcuni siti che sono vicini o in sintonia con il forum
io sono favorevole a tutti i submovimenti, ma va sviluppata una analisi programmatica molto più precisa e a mio avviso anche selettiva.
i compagni hanno inserito il comunicato in versione se ho capito definitiva.
io direi indipendetentemente dai giudizi , utilizziamolo per fare conoscere il forum.
se dopo 15 o 20 giorni vediamo che il ritorno non è positivo allora ne prepariamo uno più....futurista.
è stato inserito nel forum sel e socialismo e sinistra.
se cè qualcuno che vuol spedire il cominicato con inserito il link del forum si faccia avanti.
inoltre se potrebbe aprire dei link con alcuni siti che sono vicini o in sintonia con il forum
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- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito per S
Un partito di sinistra che faccia i conti con alcune questioni:
1) La storia del movimento operaio italiano, le sue radici, le sue contraddizioni, ricercando -appunto – sul terreno delle diversità accumulate nel tempo una sintesi superiore adeguata all’oggi, in tempo di complessità delle contraddizioni;
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Io questo non l'ho capito
1) La storia del movimento operaio italiano, le sue radici, le sue contraddizioni, ricercando -appunto – sul terreno delle diversità accumulate nel tempo una sintesi superiore adeguata all’oggi, in tempo di complessità delle contraddizioni;
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Io questo non l'ho capito
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- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito per S
2) L’idea dell’Europa politica. Un’idea fortemente in crisi che deve, invece, essere rilanciata con forza a partire dalla necessità di combattere, proprio al livello della dimensione europea, la battaglia avverso il soggiacere dell’economia rispetto alla finanza e della politica rispetto alla stessa economia (ho semplificato al massimo, ma credo di essermi fatto intendere). Terreni principali di questa battaglia la programmazione economica e l’idea universalista del “welfare state”;
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Anche il secondo punto non lo capisco.
Io sono europeista, ma mi chiedo perché oggi ci sia al governo dappertutto la destra. La sinistra è stata maggioranza in Europa e di conseguenza mi chiedo perché gli hanno preferito la destra.
In altre parole, ...la sinistra ha diffusamente poco convinto quando ha operato che gli hanno preferito la destra.
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Anche il secondo punto non lo capisco.
Io sono europeista, ma mi chiedo perché oggi ci sia al governo dappertutto la destra. La sinistra è stata maggioranza in Europa e di conseguenza mi chiedo perché gli hanno preferito la destra.
In altre parole, ...la sinistra ha diffusamente poco convinto quando ha operato che gli hanno preferito la destra.
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- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito per S
............anche l’idea del sistema elettorale proporzionale come elemento fondativo di un necessario ritorno al concetto di “rappresentatività” in luogo di quello di “governabilità”;
*****
Questo mi fa venire i brividi perché è quello che vuole Casini per rendere solido il disegno della nuova Democrazia cristiana.
Un ritorno al passato di cui non ho la minima nostalgia.
Poi con il proporzionale si ritorna a fare l'ammucchiata del Pentapartito per poter sopravvivere in eterno?
Dobbiamo veramente morire democristiani? Io non ci tengo affatto.
*****
Questo mi fa venire i brividi perché è quello che vuole Casini per rendere solido il disegno della nuova Democrazia cristiana.
Un ritorno al passato di cui non ho la minima nostalgia.
Poi con il proporzionale si ritorna a fare l'ammucchiata del Pentapartito per poter sopravvivere in eterno?
Dobbiamo veramente morire democristiani? Io non ci tengo affatto.
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- Iscritto il: 21/02/2012, 22:08
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito per S
Anch'io sono d'accordo con camillobenso che è con spirito europeistico che tutti insieme possiamo creare un Welfare State che ci possa far uscire da un europa ragioneristica per concorrere a fare l'unione politica dell'europa, una "vera banca centrale" con possibilità di agire sulla politica di cambio, ed una politica di crescita comune, senza guardare gli USA, che non hanno niente da insegnarci.
Neanch'io voglio morire democristiano ma come si fa a dire con Veltroni "non vogliamo lasciare Monti alla destra".
Un dirigente di un vero partito di sinistra o progressista non può dire questo, altrimenti se ne vada con CASINI.
Potremmo partire dal Welfare State del futuro, come punto di partenza di una nuova visione che una forza progressista e di sinistra deve avere ed esporre ai potenziali elettori.
Un altro tema forse da discutere subito è se un sistema democratico debba essere necessariamente "rappresentativo" con "libero mandato dell'eletto versi gli elettori che l'hanno eletto".
Siamo sicuri che non esistono altre forme? E' possibile una democrazia diretta?
e quando quella minima forma di D.D. viene stoppata dalla consulta, oppure quando le leggi di natura popolare vengono "deliberatamente ignorate dal parlamento" ed il PdR non fa alcun richiamo al parlamento?
Sono tutte cose importanti da discutere e subito!
un saluto
Neanch'io voglio morire democristiano ma come si fa a dire con Veltroni "non vogliamo lasciare Monti alla destra".
Un dirigente di un vero partito di sinistra o progressista non può dire questo, altrimenti se ne vada con CASINI.
Potremmo partire dal Welfare State del futuro, come punto di partenza di una nuova visione che una forza progressista e di sinistra deve avere ed esporre ai potenziali elettori.
Un altro tema forse da discutere subito è se un sistema democratico debba essere necessariamente "rappresentativo" con "libero mandato dell'eletto versi gli elettori che l'hanno eletto".
Siamo sicuri che non esistono altre forme? E' possibile una democrazia diretta?
e quando quella minima forma di D.D. viene stoppata dalla consulta, oppure quando le leggi di natura popolare vengono "deliberatamente ignorate dal parlamento" ed il PdR non fa alcun richiamo al parlamento?
Sono tutte cose importanti da discutere e subito!
un saluto
Toro Seduto (Ta-Tanka I-Yo-Tanka)
‘‘Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo’’. C.L. Montesquieu
‘‘Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo’’. C.L. Montesquieu
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito per S
Credo che la nascita di una nuova sinistra sia un'esigenza fondamentale.4) La centralità di quella che un tempo avevamo definito “contraddizione principale” tra capitale e lavoro. Accennavo già alla complessità delle contraddizioni dell’oggi (incluso uno spostamento nella relazione classica tra struttura e sovrastruttura sulla quale non mi soffermo per ragioni di economia del discorso): esse però vanno intrecciate strettamente al tema della condizione di classe, ponendo il tema del lavoro al centro dell’azione politica del nuovo soggetto;
Ma non riesco mai a vedere qualcosa di nuovo, mi sembrano sempre gli stessi concetti (anche condivisibili) ma girati e rigirati con stancante ripetitività.
Fare i conti con "La centralità di quella che un tempo avevamo definito “contraddizione principale” tra capitale e lavoro".
Che significa?
E' inutile venirci a rispiegare le contraddizioni del sistema capitalistico. Con l'attuale crisi solo i ciechi non riescono a vederle.
Quello che occorrerebbe cominciare a spiegare è perché oltre un secolo di storia della sinistra non sia riuscita a sciogliere questo nodo. Perché dopo varie esperienze e fallimenti, l'ideologia capitalista è l'unica rimasta in campo ed è più egemone che mai.
Perché, come giustamente osserva camillobenso, in Europa le destre sono in schiacciante maggioranza.
Vorrei che qualcuno si facesse finalmente carico di questa storia non proprio esaltante e cominciasse a fare una seria e reale autocritica, non di facciata.
La politica degli slogan e delle parole d'ordine (l'ultima invenzione del "benecomunismo" mi sembra francamente esilarante) sono andate bene a Berlusconi ed oggi persino lui si sta ponendo il problema di inventarsi qualcosa di nuovo.
Noi dovremmo essere gente seria e parlare in parole semplici di cosa proponiamo di fare. Anche il linguaggio è sostanza.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito per S
IL MODELLO TEDESCO. LA MITBESTIMMUNG.
Author: a cura di R.C.Gatti
Il modello tedesco per la democrazia economica
Grazie alla cogestione, nel modello tedesco le aziende non sono valutate solo per il loro valore speculativo sul mercato finanziario. Il risultato è che la Germania è uno dei paesi con minori tassi di disoccupazione, maggiore protezione sociale, e maggiori salari e redditi per i lavoratori delle famiglie. Un esempio al quale dovrebbe guardare anche l’Italia.
di Enrico Grazzini da MicroMega on line
Si parla molto del “modello tedesco come riferimento di successo ed esemplare per uscire dalla crisi: lo si invoca… perfino per modificare l’articolo 18! Ma si nasconde quasi sempre che uno degli elementi fondativi di questo modello è la co-determinazione: infatti in Germania i rappresentanti dei lavoratori – eletti da tutti i lavoratori, iscritti o meno al sindacato – partecipano al board delle grandi e medie imprese, in posizione (quasi) paritaria con gli azionisti, gli shareholders.
In questo articolo vogliamo illustrare due studi che dimostrano i vantaggi strategici – per i lavoratori e per stesse aziende, e per l’economia nel suo complesso – di questo modello. Ci pare infatti opportuno aprire un dibattito, che oggi in Italia è molto carente, sulla opportunità di introdurre un sistema analogo anche nel nostro paese.
Recentemente Colin Crouch nel “Potere dei giganti” ha denunciato il pericolo costituito dalle corporations sia per la democrazia che per una vera competizione di mercato; e ha auspicato come antidoto all’involuzione post-democratica la reazione della società civile [1]. Luciano Gallino nel suo “Finanzcapitalismo” propone di contrastare la speculazione finanziaria anche grazie ad un’azione mirata e socialmente responsabile dei fondi pensioni [2].
Questo contributo vuole focalizzare l’attenzione sull’ipotesi che, per uscire in maniera equa e duratura dalla crisi, sia innanzitutto indispensabile cominciare a introdurre forme di democrazia nelle aziende. Altrimenti rischiano di diventare generiche o illusorie le altre soluzioni, magari ultrasindacaliste – e quindi basate sempre e solo sulla lotta sindacale più o meno antagonista – o iperpoliticiste – cioè fondate sulla sopravvalutazione della possibilità che politiche industriali illuminate, keynesiane, verdi e di sinistra, possano modificare dall’alto la realtà delle imprese e dell’economia, senza partecipazione dei lavoratori nelle aziende.
Il nostro assunto di partenza è invece che la democrazia dal basso sia essenziale non solo in politica ma soprattutto nell’economia: senza un potere reale, anche se necessariamente parziale, dei lavoratori sulle strategie delle imprese sarà difficile difendere l’occupazione e modificare l’economia, e quindi anche la politica e la società. Di più: senza che gli utenti e i lavoratori partecipino direttamente negli organi direttivi degli enti di servizio pubblico è impossibile che gli interessi del pubblico stesso siano effettivamente rappresentati.
Pochi sanno che la Mitbestimmung è stata introdotta in Germania nel 1951 grazie a un referendum indetto dal potente sindacato DGB da cui risultò che oltre il 95% dei lavoratori del settore siderurgico e minerario era disposto a scioperare per ottenere i diritti di cogestione. Il cattolico Konrad Adenauer fu quindi costretto ad accettare la Mitbestimmung, che pure la confindustria tedesca ha fin dall’inizio, e poi sempre, duramente avversato, fino a chiedere (ma inutilmente) alla Corte Costituzionale tedesca di abrogarlo in quanto contrario al diritto costituzionale della proprietà privata. Nel 1951 iniziava così la politica di codecisione (quasi) paritaria, che nel 1976 è stata estesa dal governo socialdemocratico di Willy Brandt alle aziende nazionali ed estere di tutti i settori industriali con più di 2000 addetti (sotto i 2000 i lavoratori possono eleggere un terzo dei rappresentanti nei consigli di sorveglianza). Così in Germania per legge dello stato il lavoro come tale (cioè senza che i lavoratori siano obbligati a partecipare al capitale e agli utili aziendali) è rappresentato nei consigli di sorveglianza che definiscono le strategie delle imprese, nominano i manager e controllano il loro operato.
50 anni dopo la fatidica data del 1951, in Italia, l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne – alfiere del capitalismo anglosassone per cui le imprese devono soddisfare solo gli interessi e gli appetiti degli shareholder, senza curarsi delle ricadute sociali e ambientali delle attività aziendali – indiceva (e riusciva a vincere) un altro referendum a Mirafiori. I dipendenti sono stati posti di fronti all’alternativa se continuare (forse) a lavorare senza diritti e senza rappresentanze sindacali scelte da loro stessi, o se invece rimanere disoccupati perché le produzioni venivano spostate all’estero. A (stretta) maggioranza i lavoratori italiani – purtroppo senza alcuna voce e rappresentanza negli organi direttivi della Fiat – hanno dovuto chinare il capo e accettare di continuare a lavorare senza diritti. Il modello tedesco di co-determinazione (Mitbestimmung) ci sembra importante soprattutto alla luce dell’attuale debolezza dell’azione sindacale che, per quanto sacrosanta e indispensabile, risulta purtroppo assai poco efficace e incisiva nelle fasi di crisi dell’economia – e quando le multinazionali come la Fiat possono spostare le loro unità produttive (e anche la sede!!) dove e come vogliono. Comunque, Italia a parte, la partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese si è diffusa anche fuori dalla Germania, e cioè in 12 paesi dell’Unione Europea, come vedremo.
Si discute molto su quali siano gli effetti della Mitbestimmung sulle attività delle imprese e sull’economia in generale. Noi esporremo qui molto sinteticamente i risultati di due interessanti ricerche. La prima è intitolata “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards” ed è stata condotta sulle aziende tedesche quotate in borsa [3]. La seconda è uno studio comparativo dell’ETUI, European Trade Union Institute, sulle performance dei diversi paesi europei con o senza democrazia industriale [4].
La prima ricerca indica chiaramente che le aziende cogestite non solo non soffrono a causa della gestione congiunta e del potere duale, ma che anzi guadagnano in competitività rispetto a quelle governate secondo il modello proprietario e gerarchico tradizionale. La condizione del successo è però che non siano (solo) i sindacati a decidere chi siederà nel board aziendali ma i lavoratori stessi.
“La rappresentanza dei lavoratori nel board delle imprese apporta competenze molto preziose nel processo decisionale delle aziende, e fornisce un potente strumento per monitorare le decisioni degli azionisti e il comportamento del management. Inoltre maggiore è il bisogno di coordinamento aziendale, maggiore è anche l’efficacia della rappresentanza del lavoro. Però questi vantaggi non si verificano quando la rappresentanza è nominata dai sindacati (e non eletta dai lavoratori)” [5].
Lo studio comparativo dell’ETUI analizza invece le performance dei paesi che hanno adottato forme avanzate di cogestione rispetto ai paesi più arretrati. I 27 Paesi UE sono divisi in due gruppi: il primo include 12 paesi che garantiscono diritti “forti” di partecipazione (in termini di diritti all’informazione, alla consultazione e alla partecipazione) – Austria, Czech Republic, Denmark, Finland, France, Germany, Luxembourg, the Netherlands, Slovakia, Slovenia, Spain e Sweden -; e l’altro gruppo di 15 paesi che invece concede scarsi o nulli diritti di rappresentanza – Belgium, Bulgaria, Cyprus, Estonia, Greece, Hungary, Ireland, Italy, Latvia, Lithuania, Malta, Poland, Portugal, Romania e United Kingdom.
Ognuno dei due gruppi conta per circa la metà del PIL della UE. Hanno quindi uguale importanza in termini economici. I due gruppi sono stati confrontati sugli otto indicatori utilizzati da Eurostat per misurare il progresso in confronto ai cinque principali obiettivi Europa 2020, che sono:
percentuale del 75% di occupati sulla popolazione dai 20 ai 64 anni
spese per ricerche sviluppo pari a 3% del Pil
raggiungimento dei traguardi europei 20-20-20 (20% di tagli alle emissioni di gas inquinanti; 20% di energie rinnovabili sul totale e 20% di riduzione dei consumi di energia)
la percentuale di uscita dalla scuola primaria sotto al 10% e almeno il 40% della popolazione dai 30 ai 34 anni con una laurea
almeno 20 milioni di persone fuori dal rischio di povertà e di esclusione
I risultati sono evidenti ed espliciti: rispetto a tutti i cinque gli indicatori del programma Europa 2020 senza alcuna eccezione i paesi che hanno adottato legislazioni più favorevoli alla cogestione sono molto più performanti degli altri. Questo significa che se si vogliono raggiungere gli obiettivi del programma europeo occorre incentivare la partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese.
[table-5]
Risultati analoghi sono stati rilevati in uno studio precedente (dati 2006) che metteva a confronto i due gruppi di paesi rispetto agli obiettivi fissati dal trattato di Lisbona.
[table-3]
Correlation does not imply causation. Ma questi studi dimostrano in modo inequivocabile almeno due cose:
la cogestione certamente non danneggia le aziende e l’economia, come invece vorrebbero i neoliberisti accecati dall’ideologia antisindacale e antisocialista e a favore del potere monocratico di azionisti e manager
la cogestione può dare un contributo essenziale all’occupazione e allo sviluppo economico sostenibile delle economie più avanzate.
In Germania, nei paesi scandinavi e del nord Europa si è affermato un modello di condivisione per la gestione strategica delle imprese grazie al quale i lavoratori e i sindacati da una parte collaborano per lo sviluppo dell’impresa, e dall’altra esercitano però una forma effettiva di controllo e di contro-potere verso gli azionisti e i top manager. I lavoratori e i sindacati hanno un potere limitato e minoritario rispetto a quello della proprietà: tuttavia possono affermare un vero controllo dal basso in termini di informazione e di consultazione: e il loro diritto di veto – per esempio nel caso importantissimo delle localizzazioni all’estero, delle chiusure di impianti, delle fusioni e delle acquisizioni aziendali – è sostanziale e non puramente nominale. La cogestione non comporta però la fine dei conflitti e la subordinazione sindacale, anzi: il conflitto sindacale è regolamentato ma è un diritto riconosciuto e ampiamente esercitato.
Grazie alla cogestione, nel modello tedesco le aziende non sono valutate solo per il loro valore speculativo sul mercato finanziario, come invece avviene nel sistema anglosassone dominante in Europa. Il risultato è che la Germania è uno dei paesi con minor tassi di disoccupazione, maggiore protezione sociale, e maggiori salari e redditi per i lavoratori delle famiglie. La confindustria tedesca tenta costantemente di restringere la co-determinazione, affermando che frena la competizione: ma anche grazie all’introduzione della Mitbestimmung la Germania è diventata la principale potenza manifatturiera – e quindi finanziaria e politica – in Europa.
Per questi motivi anche in Italia ci sembra indispensabile cominciare a discutere non solo del “modello tedesco” di articolo 18… ma anche dei meriti della Mitbestimmung e della crisi del modello anglosassone di corporate governance.
La Mitbestimmung offre dei vantaggi che ci sembrano ampiamente dimostrati; ovviamente è però anche criticabile e – come tutte le cose – non è certamente priva di rischi. Sul piano giuridico in Italia la co-determinazione sembra possibile grazie all’articolo 46 della Costituzione (quello forse meno applicato) per cui “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”. Sul piano politico occorrerebbe considerare che la questione della democrazia economica potrebbe interessare tutta l’opinione pubblica democratica – la sinistra ma anche ampi settori cattolici e perfino i liberali più radicali –, e non solo i lavoratori delle fabbriche e i sindacati. Come l’acqua e il nucleare – su cui sono già stati vinti i referendum – il problema della democrazia nell’economia è infatti trasversale e riguarda tutti i cittadini. Perché allora la sinistra italiana sembra avere paura di discutere apertamente e a fondo questa questione strategica di democrazia?
Ovviamente è molto difficile introdurre forme di Mitbestimmung nel nostro paese: le resistenze confindustriali sono molto forti. Questo però non è un motivo sufficiente per scartare a priori una discussione approfondita, teorica e politica, sulla democrazia industriale.
NOTE
[1] Il potere dei giganti, Colin Crouch, Laterza, 2012,
[2] Finanzcapitalismo, Luciano Gallino, Einaudi, 2011
[3] “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards”, Journal of Financial Economics, 2006, Larry Fauver e Michael E. Fuerst
[4] The European Partecipation Index: a tool for Cross National quantitative comparison, Sigurt Vitols, European Trade Union Institute, Ottobre 2010.
[5] “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards”, già citato.
( da socialismo e sinistra )
Author: a cura di R.C.Gatti
Il modello tedesco per la democrazia economica
Grazie alla cogestione, nel modello tedesco le aziende non sono valutate solo per il loro valore speculativo sul mercato finanziario. Il risultato è che la Germania è uno dei paesi con minori tassi di disoccupazione, maggiore protezione sociale, e maggiori salari e redditi per i lavoratori delle famiglie. Un esempio al quale dovrebbe guardare anche l’Italia.
di Enrico Grazzini da MicroMega on line
Si parla molto del “modello tedesco come riferimento di successo ed esemplare per uscire dalla crisi: lo si invoca… perfino per modificare l’articolo 18! Ma si nasconde quasi sempre che uno degli elementi fondativi di questo modello è la co-determinazione: infatti in Germania i rappresentanti dei lavoratori – eletti da tutti i lavoratori, iscritti o meno al sindacato – partecipano al board delle grandi e medie imprese, in posizione (quasi) paritaria con gli azionisti, gli shareholders.
In questo articolo vogliamo illustrare due studi che dimostrano i vantaggi strategici – per i lavoratori e per stesse aziende, e per l’economia nel suo complesso – di questo modello. Ci pare infatti opportuno aprire un dibattito, che oggi in Italia è molto carente, sulla opportunità di introdurre un sistema analogo anche nel nostro paese.
Recentemente Colin Crouch nel “Potere dei giganti” ha denunciato il pericolo costituito dalle corporations sia per la democrazia che per una vera competizione di mercato; e ha auspicato come antidoto all’involuzione post-democratica la reazione della società civile [1]. Luciano Gallino nel suo “Finanzcapitalismo” propone di contrastare la speculazione finanziaria anche grazie ad un’azione mirata e socialmente responsabile dei fondi pensioni [2].
Questo contributo vuole focalizzare l’attenzione sull’ipotesi che, per uscire in maniera equa e duratura dalla crisi, sia innanzitutto indispensabile cominciare a introdurre forme di democrazia nelle aziende. Altrimenti rischiano di diventare generiche o illusorie le altre soluzioni, magari ultrasindacaliste – e quindi basate sempre e solo sulla lotta sindacale più o meno antagonista – o iperpoliticiste – cioè fondate sulla sopravvalutazione della possibilità che politiche industriali illuminate, keynesiane, verdi e di sinistra, possano modificare dall’alto la realtà delle imprese e dell’economia, senza partecipazione dei lavoratori nelle aziende.
Il nostro assunto di partenza è invece che la democrazia dal basso sia essenziale non solo in politica ma soprattutto nell’economia: senza un potere reale, anche se necessariamente parziale, dei lavoratori sulle strategie delle imprese sarà difficile difendere l’occupazione e modificare l’economia, e quindi anche la politica e la società. Di più: senza che gli utenti e i lavoratori partecipino direttamente negli organi direttivi degli enti di servizio pubblico è impossibile che gli interessi del pubblico stesso siano effettivamente rappresentati.
Pochi sanno che la Mitbestimmung è stata introdotta in Germania nel 1951 grazie a un referendum indetto dal potente sindacato DGB da cui risultò che oltre il 95% dei lavoratori del settore siderurgico e minerario era disposto a scioperare per ottenere i diritti di cogestione. Il cattolico Konrad Adenauer fu quindi costretto ad accettare la Mitbestimmung, che pure la confindustria tedesca ha fin dall’inizio, e poi sempre, duramente avversato, fino a chiedere (ma inutilmente) alla Corte Costituzionale tedesca di abrogarlo in quanto contrario al diritto costituzionale della proprietà privata. Nel 1951 iniziava così la politica di codecisione (quasi) paritaria, che nel 1976 è stata estesa dal governo socialdemocratico di Willy Brandt alle aziende nazionali ed estere di tutti i settori industriali con più di 2000 addetti (sotto i 2000 i lavoratori possono eleggere un terzo dei rappresentanti nei consigli di sorveglianza). Così in Germania per legge dello stato il lavoro come tale (cioè senza che i lavoratori siano obbligati a partecipare al capitale e agli utili aziendali) è rappresentato nei consigli di sorveglianza che definiscono le strategie delle imprese, nominano i manager e controllano il loro operato.
50 anni dopo la fatidica data del 1951, in Italia, l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne – alfiere del capitalismo anglosassone per cui le imprese devono soddisfare solo gli interessi e gli appetiti degli shareholder, senza curarsi delle ricadute sociali e ambientali delle attività aziendali – indiceva (e riusciva a vincere) un altro referendum a Mirafiori. I dipendenti sono stati posti di fronti all’alternativa se continuare (forse) a lavorare senza diritti e senza rappresentanze sindacali scelte da loro stessi, o se invece rimanere disoccupati perché le produzioni venivano spostate all’estero. A (stretta) maggioranza i lavoratori italiani – purtroppo senza alcuna voce e rappresentanza negli organi direttivi della Fiat – hanno dovuto chinare il capo e accettare di continuare a lavorare senza diritti. Il modello tedesco di co-determinazione (Mitbestimmung) ci sembra importante soprattutto alla luce dell’attuale debolezza dell’azione sindacale che, per quanto sacrosanta e indispensabile, risulta purtroppo assai poco efficace e incisiva nelle fasi di crisi dell’economia – e quando le multinazionali come la Fiat possono spostare le loro unità produttive (e anche la sede!!) dove e come vogliono. Comunque, Italia a parte, la partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese si è diffusa anche fuori dalla Germania, e cioè in 12 paesi dell’Unione Europea, come vedremo.
Si discute molto su quali siano gli effetti della Mitbestimmung sulle attività delle imprese e sull’economia in generale. Noi esporremo qui molto sinteticamente i risultati di due interessanti ricerche. La prima è intitolata “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards” ed è stata condotta sulle aziende tedesche quotate in borsa [3]. La seconda è uno studio comparativo dell’ETUI, European Trade Union Institute, sulle performance dei diversi paesi europei con o senza democrazia industriale [4].
La prima ricerca indica chiaramente che le aziende cogestite non solo non soffrono a causa della gestione congiunta e del potere duale, ma che anzi guadagnano in competitività rispetto a quelle governate secondo il modello proprietario e gerarchico tradizionale. La condizione del successo è però che non siano (solo) i sindacati a decidere chi siederà nel board aziendali ma i lavoratori stessi.
“La rappresentanza dei lavoratori nel board delle imprese apporta competenze molto preziose nel processo decisionale delle aziende, e fornisce un potente strumento per monitorare le decisioni degli azionisti e il comportamento del management. Inoltre maggiore è il bisogno di coordinamento aziendale, maggiore è anche l’efficacia della rappresentanza del lavoro. Però questi vantaggi non si verificano quando la rappresentanza è nominata dai sindacati (e non eletta dai lavoratori)” [5].
Lo studio comparativo dell’ETUI analizza invece le performance dei paesi che hanno adottato forme avanzate di cogestione rispetto ai paesi più arretrati. I 27 Paesi UE sono divisi in due gruppi: il primo include 12 paesi che garantiscono diritti “forti” di partecipazione (in termini di diritti all’informazione, alla consultazione e alla partecipazione) – Austria, Czech Republic, Denmark, Finland, France, Germany, Luxembourg, the Netherlands, Slovakia, Slovenia, Spain e Sweden -; e l’altro gruppo di 15 paesi che invece concede scarsi o nulli diritti di rappresentanza – Belgium, Bulgaria, Cyprus, Estonia, Greece, Hungary, Ireland, Italy, Latvia, Lithuania, Malta, Poland, Portugal, Romania e United Kingdom.
Ognuno dei due gruppi conta per circa la metà del PIL della UE. Hanno quindi uguale importanza in termini economici. I due gruppi sono stati confrontati sugli otto indicatori utilizzati da Eurostat per misurare il progresso in confronto ai cinque principali obiettivi Europa 2020, che sono:
percentuale del 75% di occupati sulla popolazione dai 20 ai 64 anni
spese per ricerche sviluppo pari a 3% del Pil
raggiungimento dei traguardi europei 20-20-20 (20% di tagli alle emissioni di gas inquinanti; 20% di energie rinnovabili sul totale e 20% di riduzione dei consumi di energia)
la percentuale di uscita dalla scuola primaria sotto al 10% e almeno il 40% della popolazione dai 30 ai 34 anni con una laurea
almeno 20 milioni di persone fuori dal rischio di povertà e di esclusione
I risultati sono evidenti ed espliciti: rispetto a tutti i cinque gli indicatori del programma Europa 2020 senza alcuna eccezione i paesi che hanno adottato legislazioni più favorevoli alla cogestione sono molto più performanti degli altri. Questo significa che se si vogliono raggiungere gli obiettivi del programma europeo occorre incentivare la partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese.
[table-5]
Risultati analoghi sono stati rilevati in uno studio precedente (dati 2006) che metteva a confronto i due gruppi di paesi rispetto agli obiettivi fissati dal trattato di Lisbona.
[table-3]
Correlation does not imply causation. Ma questi studi dimostrano in modo inequivocabile almeno due cose:
la cogestione certamente non danneggia le aziende e l’economia, come invece vorrebbero i neoliberisti accecati dall’ideologia antisindacale e antisocialista e a favore del potere monocratico di azionisti e manager
la cogestione può dare un contributo essenziale all’occupazione e allo sviluppo economico sostenibile delle economie più avanzate.
In Germania, nei paesi scandinavi e del nord Europa si è affermato un modello di condivisione per la gestione strategica delle imprese grazie al quale i lavoratori e i sindacati da una parte collaborano per lo sviluppo dell’impresa, e dall’altra esercitano però una forma effettiva di controllo e di contro-potere verso gli azionisti e i top manager. I lavoratori e i sindacati hanno un potere limitato e minoritario rispetto a quello della proprietà: tuttavia possono affermare un vero controllo dal basso in termini di informazione e di consultazione: e il loro diritto di veto – per esempio nel caso importantissimo delle localizzazioni all’estero, delle chiusure di impianti, delle fusioni e delle acquisizioni aziendali – è sostanziale e non puramente nominale. La cogestione non comporta però la fine dei conflitti e la subordinazione sindacale, anzi: il conflitto sindacale è regolamentato ma è un diritto riconosciuto e ampiamente esercitato.
Grazie alla cogestione, nel modello tedesco le aziende non sono valutate solo per il loro valore speculativo sul mercato finanziario, come invece avviene nel sistema anglosassone dominante in Europa. Il risultato è che la Germania è uno dei paesi con minor tassi di disoccupazione, maggiore protezione sociale, e maggiori salari e redditi per i lavoratori delle famiglie. La confindustria tedesca tenta costantemente di restringere la co-determinazione, affermando che frena la competizione: ma anche grazie all’introduzione della Mitbestimmung la Germania è diventata la principale potenza manifatturiera – e quindi finanziaria e politica – in Europa.
Per questi motivi anche in Italia ci sembra indispensabile cominciare a discutere non solo del “modello tedesco” di articolo 18… ma anche dei meriti della Mitbestimmung e della crisi del modello anglosassone di corporate governance.
La Mitbestimmung offre dei vantaggi che ci sembrano ampiamente dimostrati; ovviamente è però anche criticabile e – come tutte le cose – non è certamente priva di rischi. Sul piano giuridico in Italia la co-determinazione sembra possibile grazie all’articolo 46 della Costituzione (quello forse meno applicato) per cui “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”. Sul piano politico occorrerebbe considerare che la questione della democrazia economica potrebbe interessare tutta l’opinione pubblica democratica – la sinistra ma anche ampi settori cattolici e perfino i liberali più radicali –, e non solo i lavoratori delle fabbriche e i sindacati. Come l’acqua e il nucleare – su cui sono già stati vinti i referendum – il problema della democrazia nell’economia è infatti trasversale e riguarda tutti i cittadini. Perché allora la sinistra italiana sembra avere paura di discutere apertamente e a fondo questa questione strategica di democrazia?
Ovviamente è molto difficile introdurre forme di Mitbestimmung nel nostro paese: le resistenze confindustriali sono molto forti. Questo però non è un motivo sufficiente per scartare a priori una discussione approfondita, teorica e politica, sulla democrazia industriale.
NOTE
[1] Il potere dei giganti, Colin Crouch, Laterza, 2012,
[2] Finanzcapitalismo, Luciano Gallino, Einaudi, 2011
[3] “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards”, Journal of Financial Economics, 2006, Larry Fauver e Michael E. Fuerst
[4] The European Partecipation Index: a tool for Cross National quantitative comparison, Sigurt Vitols, European Trade Union Institute, Ottobre 2010.
[5] “Does good corporate governance include employee representation? Evidence from German corporate boards”, già citato.
( da socialismo e sinistra )
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- Iscritto il: 21/02/2012, 22:08
Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito per S
@mariok
D'accordo, non dobbiamo cadere in questo errore.
Parliamo con parole semplici per farci capire da tutti.
un saluto
La politica degli slogan e delle parole d'ordine (l'ultima invenzione del "benecomunismo" mi sembra francamente esilarante) sono andate bene a Berlusconi ed oggi persino lui si sta ponendo il problema di inventarsi qualcosa di nuovo.
Noi dovremmo essere gente seria e parlare in parole semplici di cosa proponiamo di fare. Anche il linguaggio è sostanza.
D'accordo, non dobbiamo cadere in questo errore.
Parliamo con parole semplici per farci capire da tutti.
un saluto
Ultima modifica di Joblack il 22/04/2012, 11:01, modificato 1 volta in totale.
Toro Seduto (Ta-Tanka I-Yo-Tanka)
‘‘Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo’’. C.L. Montesquieu
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito per S
Certamente non pochi sono i punti un po' fuori dalla realta, mio parere personale, ma non per questo potevo evitarlo visto che dalle critiche dobbiamo per forza passare alle idee, sempre se ne abbiamo, altrimenti rimarrebbe una critica sterile. E che senso avrebbe averla scomodata per cusi' nulla?camillobenso ha scritto:Un partito di sinistra che faccia i conti con alcune questioni:
1) La storia del movimento operaio italiano, le sue radici, le sue contraddizioni, ricercando -appunto – sul terreno delle diversità accumulate nel tempo una sintesi superiore adeguata all’oggi, in tempo di complessità delle contraddizioni;
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Io questo non l'ho capito
juan
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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