La sindrome
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La sindrome
La sinistra si divide: è una constatazione che è diventata quasi un luogo comune, che alcuni usano come una costante da ricercare per raccontarne la storia.
La sinistra si divide, e la sinistra ha sempre paura delle divisioni: qual è la causa e quale la conseguenza?
C'è una risposta che sembra padossale: la sinistra si divide perché ha paura delle divisioni, o meglio, perché tende ad avere un'ortodossia che ha paura del dissenso. E i suoi partiti hanno una nomenklatura che non sa gestire il dissenso, che viene subito considerato un nemico: il che induce i dissidenti, prima o poi, ad allontanarsi e separarsi.
Chiunque abbia fatto un minimo di vita di partito sa che una delle parole più ricorrenti nelle discussioni della sinistra è "spaccatura", coniugato spesso nella frase "rischio di spaccatura".
Una parola e una frase che prelude quasi sempre alle peggiori nefandezze intellettuali e politiche.
Per "evitare il rischio di spaccature" si sono votate mozioni congressuali non condivise. Si sono accettati personaggi e situazioni che nessuno apprezzava realmente, e anzi spesso disprezzava nella propria coscienza. Si sono cercati compromessi ad ogni costo, che portavano all'immobilismo, o peggio. Si è soffocato un dibattito interno che sarebbe stato prezioso. Si è di fatto rinunciato all'apporto di personaggi di valore, che avevano il solo torto di "dissentire".
L'effetto perverso di questo fattore viene poi potenziato, quando si lega - cosa che avviene frequentemente - con la parola d'ordine del "realismo", che a sua volta si accompagnava con l'ipotesi di un "attacco" nei confronti della nomenklatura, mosso naturalmente da oscure e indistinte motivazioni distruttive.
Renzi, in questo, raccoglie il peggio di questa tradizione, sia pure usando la forma modernizzata di questa paranoia: i "gufi", i "professoroni", i "rosiconi", "coloro che non vogliono il cambiamnto", etc, sono tutte definizioni che servono a delegittimare le critiche e il dissenso, e dimostrano l'incapacità di gestire il dissenso stesso - o forse, nel caso, di Renzi la volontà di non gestirlo ed esasperarlo perché il dissenso aperto da parte della sinistra del PD torna utile al suo progetto.
Nel passato questo genere di problemi aveva una sua dimensione, che lo rendeva fastidioso, ma che non aveva grosse ricadute "culturali". Anzi, ha generato in molti casi scissioni che producevano partitini di grande spessore politico, e suscitavano dibattiti interessanti.
Il degrado comunicativo e di linguaggio di questo ventennio ha invece indotto a una rozzezza che ha svuotato di contenuto ogni discussione, e ha trasformato ogni dissenso o di resistenza al dissenso in una polemica fatta di insulti più che di argomenti: ogni divisione finisce per sembrare una divisione personale, ogni dissenso contingente e suerficiale, pretestuoso.
Naturalmente, ci sono nella storia della sinistra ragioni profonde e ideologiche di divisione, a cominciare dalle due tendenze che si sono articolate nel tempo in varie forme, con nomi diversi, tra riformisti e massimalisti: possiamo definirle "ragioni reali", che proprio in quanto tali svelano in modo ancora più evidente la miseria intellettuale della sindrome della "spaccatura", quando si riflettono nel dibattito interno dei partiti.
La sinistra si divide, e la sinistra ha sempre paura delle divisioni: qual è la causa e quale la conseguenza?
C'è una risposta che sembra padossale: la sinistra si divide perché ha paura delle divisioni, o meglio, perché tende ad avere un'ortodossia che ha paura del dissenso. E i suoi partiti hanno una nomenklatura che non sa gestire il dissenso, che viene subito considerato un nemico: il che induce i dissidenti, prima o poi, ad allontanarsi e separarsi.
Chiunque abbia fatto un minimo di vita di partito sa che una delle parole più ricorrenti nelle discussioni della sinistra è "spaccatura", coniugato spesso nella frase "rischio di spaccatura".
Una parola e una frase che prelude quasi sempre alle peggiori nefandezze intellettuali e politiche.
Per "evitare il rischio di spaccature" si sono votate mozioni congressuali non condivise. Si sono accettati personaggi e situazioni che nessuno apprezzava realmente, e anzi spesso disprezzava nella propria coscienza. Si sono cercati compromessi ad ogni costo, che portavano all'immobilismo, o peggio. Si è soffocato un dibattito interno che sarebbe stato prezioso. Si è di fatto rinunciato all'apporto di personaggi di valore, che avevano il solo torto di "dissentire".
L'effetto perverso di questo fattore viene poi potenziato, quando si lega - cosa che avviene frequentemente - con la parola d'ordine del "realismo", che a sua volta si accompagnava con l'ipotesi di un "attacco" nei confronti della nomenklatura, mosso naturalmente da oscure e indistinte motivazioni distruttive.
Renzi, in questo, raccoglie il peggio di questa tradizione, sia pure usando la forma modernizzata di questa paranoia: i "gufi", i "professoroni", i "rosiconi", "coloro che non vogliono il cambiamnto", etc, sono tutte definizioni che servono a delegittimare le critiche e il dissenso, e dimostrano l'incapacità di gestire il dissenso stesso - o forse, nel caso, di Renzi la volontà di non gestirlo ed esasperarlo perché il dissenso aperto da parte della sinistra del PD torna utile al suo progetto.
Nel passato questo genere di problemi aveva una sua dimensione, che lo rendeva fastidioso, ma che non aveva grosse ricadute "culturali". Anzi, ha generato in molti casi scissioni che producevano partitini di grande spessore politico, e suscitavano dibattiti interessanti.
Il degrado comunicativo e di linguaggio di questo ventennio ha invece indotto a una rozzezza che ha svuotato di contenuto ogni discussione, e ha trasformato ogni dissenso o di resistenza al dissenso in una polemica fatta di insulti più che di argomenti: ogni divisione finisce per sembrare una divisione personale, ogni dissenso contingente e suerficiale, pretestuoso.
Naturalmente, ci sono nella storia della sinistra ragioni profonde e ideologiche di divisione, a cominciare dalle due tendenze che si sono articolate nel tempo in varie forme, con nomi diversi, tra riformisti e massimalisti: possiamo definirle "ragioni reali", che proprio in quanto tali svelano in modo ancora più evidente la miseria intellettuale della sindrome della "spaccatura", quando si riflettono nel dibattito interno dei partiti.
Eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Eravamo bandiere rosse. E avevamo ragione.
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Re: La sindrome
La spaccatura, dagli anni Novanta in poi, ha avuto un beneficiario diretto: Berlusconi. Per questo è stata favorita ed enfatizzata in ogni modo, soprattutto quando la sinistra-sinistra tirava fuori argomenti legati all'assurdità della guerra (in Afghanistan, in Iraq) mentre "er mejo governo" riformista doveva assolutamente accreditarsi presso la Nato e lo zio Tom.
Più che di spaccatura si è trattato di un movimento espulsivo verso le istanze sostanziali della sinistra, che ha agito in due modi: o spingendo / buttando fuori le persone che non rinunciavano al ruolo di esponenti di queste idee, o spingendo fuori le idee stesse, martellandone i portatori come alieni, antimoderni, residuati sessantottini, fino ai gufi di oggigiorno. Il più attraverso sensi di colpa: "è irresponsabile far cadere il *nostro* governo, si fa un favore a Berlusconi" e via di questo andante.
Il processo renziano però è diverso: mentre gli anni del berlusconismo rampante danzavano al ritmo del "mostriamoci liberali" se no i voti vanno (o tornano) al Cavaliere (ex), la borghesia si spaventa, Mediaset è una risorsa, etc. etc. (e intanto il Cav si alleava con i fascisti!), l'età di Renzi vede un ritorno in auge di correnti, spifferi e correntine, della politica dei "due forni" (magari anche tre o quattro con la minoranza interna e M5S), dell'aperta ipocrisia (vendiamo le auto blu, tanto io me ne vado in elicottero), della nuova legge truffa, dei tentativi di smarcare CISL e UIL dalla CGIL: in poche parole una perfetta resurrezione democristiana mascherata da rottamazione.
Più che di spaccatura si è trattato di un movimento espulsivo verso le istanze sostanziali della sinistra, che ha agito in due modi: o spingendo / buttando fuori le persone che non rinunciavano al ruolo di esponenti di queste idee, o spingendo fuori le idee stesse, martellandone i portatori come alieni, antimoderni, residuati sessantottini, fino ai gufi di oggigiorno. Il più attraverso sensi di colpa: "è irresponsabile far cadere il *nostro* governo, si fa un favore a Berlusconi" e via di questo andante.
Il processo renziano però è diverso: mentre gli anni del berlusconismo rampante danzavano al ritmo del "mostriamoci liberali" se no i voti vanno (o tornano) al Cavaliere (ex), la borghesia si spaventa, Mediaset è una risorsa, etc. etc. (e intanto il Cav si alleava con i fascisti!), l'età di Renzi vede un ritorno in auge di correnti, spifferi e correntine, della politica dei "due forni" (magari anche tre o quattro con la minoranza interna e M5S), dell'aperta ipocrisia (vendiamo le auto blu, tanto io me ne vado in elicottero), della nuova legge truffa, dei tentativi di smarcare CISL e UIL dalla CGIL: in poche parole una perfetta resurrezione democristiana mascherata da rottamazione.
Renzi elenca i successi del governo. “Sarò breve”.
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Re: La sindrome
in poche parole una perfetta resurrezione democristiana mascherata da rottamazione.
flaviomod
Fosse solo questa la finalità non sarebbe così allarmante la resurrezione della Dc, già avvenuta tra l’altro nel 2007. Franco Cardini, storico fiorentino, stamani ad Agorà, ha precisato che quanto sta avvenendo ricorda il 1924. Dopo più di un anno sono solo poche le voci che si alzano per denunciare la transizione in corso. Non solo a sinistra (sinistra intellettuale), ma anche nell’area liberale di destra.
Non a caso questa fase viene definita DEMOCRATURA.
La crisi che si accentua nel 2008, per cause esterne, necessitava di una guida per l’Italia con caratteristiche similari a quelle di Einaudi e De Gasperi, invece ci ritroviamo con Berlusconi che nulla a che vedere con la politica italiana, salvo salvaguardare le sue aziende ed il suo percorso giudiziario.
Quando la crisi italiana si aggrava, i poteri forti (non italiani) chiedono la sostituzione del premier. Ma né Monti e né Letta avevano in partenza le capacità per affrontare l’intera gamma delle problematiche italiane.
In piena crisi economica, quando Renzi arriva, si preoccupa di modificare la Costituzione secondo i dettami gelliani. E quando mette mano ai problemi economici, si limita solo a castrare il mondo del lavoro, trascurando completamente ogni possibilità di ripresa.
Preme per una legge elettorale che faccia vincere solo il suo partito. Quindi sè stesso. E contemporaneamente si vuole impossessare della Tv di Stato. Che negli anni 2000, sostituisce egregiamente l’olio di ricino ed il santo manganello di antica memoria.
Tutto questo non ti dice niente?
flaviomod
Fosse solo questa la finalità non sarebbe così allarmante la resurrezione della Dc, già avvenuta tra l’altro nel 2007. Franco Cardini, storico fiorentino, stamani ad Agorà, ha precisato che quanto sta avvenendo ricorda il 1924. Dopo più di un anno sono solo poche le voci che si alzano per denunciare la transizione in corso. Non solo a sinistra (sinistra intellettuale), ma anche nell’area liberale di destra.
Non a caso questa fase viene definita DEMOCRATURA.
La crisi che si accentua nel 2008, per cause esterne, necessitava di una guida per l’Italia con caratteristiche similari a quelle di Einaudi e De Gasperi, invece ci ritroviamo con Berlusconi che nulla a che vedere con la politica italiana, salvo salvaguardare le sue aziende ed il suo percorso giudiziario.
Quando la crisi italiana si aggrava, i poteri forti (non italiani) chiedono la sostituzione del premier. Ma né Monti e né Letta avevano in partenza le capacità per affrontare l’intera gamma delle problematiche italiane.
In piena crisi economica, quando Renzi arriva, si preoccupa di modificare la Costituzione secondo i dettami gelliani. E quando mette mano ai problemi economici, si limita solo a castrare il mondo del lavoro, trascurando completamente ogni possibilità di ripresa.
Preme per una legge elettorale che faccia vincere solo il suo partito. Quindi sè stesso. E contemporaneamente si vuole impossessare della Tv di Stato. Che negli anni 2000, sostituisce egregiamente l’olio di ricino ed il santo manganello di antica memoria.
Tutto questo non ti dice niente?
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Re: La sindrome
Il '24, a ben vedere, ha il suo principale punto di contatto con l'attualità per l'emergere di movimenti di destra apparentemente trascurabili nelle loro dimensioni: ma nei contenuti politici erano movimenti preoccupanti da un lato per le tesi xenofobe e antiparlamentari, dall'altro in sintonia col malessere popolare verso il resto dell'Europa, che viene avvertita come "nemica", il che torna utilissimo all'istanza nazionalistica germanica.camillobenso ha scritto:in poche parole una perfetta resurrezione democristiana mascherata da rottamazione.
Fosse solo questa la finalità non sarebbe così allarmante la resurrezione della Dc, già avvenuta tra l’altro nel 2007. Franco Cardini, storico fiorentino, stamani ad Agorà, ha precisato che quanto sta avvenendo ricorda il 1924.
Il '24, per altro, è una data cruciale della storia del '900: muore Lenin, viene imprigionato Hitler, che in carcere scrive il Mein Kampf, e muore Kafka, colui cioè che con il suo Processo anticipa profeticamnte l'essenza dei totalitarismi che stanno per caratterizzare la prima metà del XX secolo.
Il '24 per l'emergente partito nazionalsocialista non sembra essere un momento fortunato, come per altro non appaiono neanche gli anni immediatamnte successivi, in una Germania in cui è assai forte la presenza e la consistenza elettorale della sinistra.
Le differenze con l'attualità stanno proprio in questo: oggi non c'è nemmeno più una sinistra forte, o almeno energeticamnte effervescente, come quella degli anni '20, e non c'è un Kafka che interpreti i tempi. In quella Germania c'era perfino troppo pathos. Oggi il pathos è quasi assente. E' assente la cultura, sono assenti - o marcano visita - gli intellettuali.
L'opposizione è affidata o comunque mescolata con lo spettacolo, e finisce per confondersi con lo show business, coerentemente con una democrazia nella quale tutto è business e tutto è spettacolo, perfino cose che non sono né l'uno né l'altro.
Curiosamente, però, ancora una volta, la storia dell'occidente e dell'Europa oggi passa per Berlino, come nel '33, come nel '61 e nell'89.
Ma, oggi, con i toni, i suoni e la sceneggiatura della commedia, o della conferenza tecnocratica.
Eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Eravamo bandiere rosse. E avevamo ragione.
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Re: La sindrome
La Stampa 10.2.15
Rileggere Gramsci come antidoto all’indifferenza
di Claudio Gallo
Antonio Gramsci, chi è costui? Abbandonando l’imperfetto della citazione manzoniana, Diego Fusaro spiega in un agile testo di Feltrinelli (Antonio Gramsci, pp 175, €14) perché il pensatore sardo merita di essere riletto al presente.
Fusaro accoglie amorevolmente Gramsci nel proprio orizzonte di pensiero. Ne nasce una visione stimolante, che farà balzare dalla sedia i più tradizionalisti. La questione del rapporto dell’autore dei Quaderni dal carcere con il Partito comunista di Palmiro Togliatti, periferica alle intenzioni dell’opera, è appena affrontata. Abbastanza, però, per capire che l’autore si schiera con chi ritiene il Pci colpevole di aver volontariamente lasciato languire Gramsci in prigione, per liberarsi di un critico scomodo. Salvo poi innalzarlo agli onori museali, tra gli dei oziosi del comunismo italiano.
Perché, allora, rileggere l’Ordine Nuovo o i Quaderni? Nel discorso che dialetticamente si compone attraverso quelle opere, Fusaro vede un potente antidoto al Pensiero Unico, la società imbalsamata nel presente, senza possibilità di alternative future, che il filosofo torinese ha più volte tratteggiato come l’ideologia (totalitaria) del capitalismo avanzato. Fin dall’editoriale del numero unico della rivista La città futura, dell’11 febbraio 1917, intitolato Odio gli indifferenti, Gramsci si schiera appassionatamente contro chi cede al fatalismo e al cinismo di fronte a una realtà percepita come ingiusta, per disperazione o convenienza. Scrive Fusaro: «Se come Gramsci ama ripetere in questo scritto del ‘17 (e si tratta di un modus operandi a cui sempre resterà fedele) “vivere vuol dire essere partigiani”, allora non può esservi spazio per passioni tristi come l’indifferenza e la rassegnazione, il cinismo e il disincanto: amore e odio e “fantasia concreta’” devono diventare le tonalità emotive dominanti dell’essere al mondo dell’uomo».
Parole che acquistano il loro senso forte in questa epoca anestetizzata e impotente, senza speranze al di fuori del cerchio angusto dell’individualità. Senza alternative soprattutto. Se si torna più indietro però, tutto diventa più complicato: è stata proprio l’alternativa amico/nemico infatti a insanguinare il Novecento. Ma questo è un altro discorso.
Secondo Fusaro, la genialità ancora attuale di Gramsci sta nell’aver corretto con la sua filosofia della prassi, in grande anticipo sulla storia, le interpretazioni positivistiche e deterministiche di Marx. Sintesi di volontarismo e dialettica storica, la praxis gramsciana, permette una sorprendente equazione: Hegel sta a Marx, come Gentile sta a Gramsci. In questa linea di pensiero, che lascerà a bocca aperta i marxisti classici per l’accostamento dei «due grandi italiani», sta la maggiore originalità del saggio.
Rileggere Gramsci come antidoto all’indifferenza
di Claudio Gallo
Antonio Gramsci, chi è costui? Abbandonando l’imperfetto della citazione manzoniana, Diego Fusaro spiega in un agile testo di Feltrinelli (Antonio Gramsci, pp 175, €14) perché il pensatore sardo merita di essere riletto al presente.
Fusaro accoglie amorevolmente Gramsci nel proprio orizzonte di pensiero. Ne nasce una visione stimolante, che farà balzare dalla sedia i più tradizionalisti. La questione del rapporto dell’autore dei Quaderni dal carcere con il Partito comunista di Palmiro Togliatti, periferica alle intenzioni dell’opera, è appena affrontata. Abbastanza, però, per capire che l’autore si schiera con chi ritiene il Pci colpevole di aver volontariamente lasciato languire Gramsci in prigione, per liberarsi di un critico scomodo. Salvo poi innalzarlo agli onori museali, tra gli dei oziosi del comunismo italiano.
Perché, allora, rileggere l’Ordine Nuovo o i Quaderni? Nel discorso che dialetticamente si compone attraverso quelle opere, Fusaro vede un potente antidoto al Pensiero Unico, la società imbalsamata nel presente, senza possibilità di alternative future, che il filosofo torinese ha più volte tratteggiato come l’ideologia (totalitaria) del capitalismo avanzato. Fin dall’editoriale del numero unico della rivista La città futura, dell’11 febbraio 1917, intitolato Odio gli indifferenti, Gramsci si schiera appassionatamente contro chi cede al fatalismo e al cinismo di fronte a una realtà percepita come ingiusta, per disperazione o convenienza. Scrive Fusaro: «Se come Gramsci ama ripetere in questo scritto del ‘17 (e si tratta di un modus operandi a cui sempre resterà fedele) “vivere vuol dire essere partigiani”, allora non può esservi spazio per passioni tristi come l’indifferenza e la rassegnazione, il cinismo e il disincanto: amore e odio e “fantasia concreta’” devono diventare le tonalità emotive dominanti dell’essere al mondo dell’uomo».
Parole che acquistano il loro senso forte in questa epoca anestetizzata e impotente, senza speranze al di fuori del cerchio angusto dell’individualità. Senza alternative soprattutto. Se si torna più indietro però, tutto diventa più complicato: è stata proprio l’alternativa amico/nemico infatti a insanguinare il Novecento. Ma questo è un altro discorso.
Secondo Fusaro, la genialità ancora attuale di Gramsci sta nell’aver corretto con la sua filosofia della prassi, in grande anticipo sulla storia, le interpretazioni positivistiche e deterministiche di Marx. Sintesi di volontarismo e dialettica storica, la praxis gramsciana, permette una sorprendente equazione: Hegel sta a Marx, come Gentile sta a Gramsci. In questa linea di pensiero, che lascerà a bocca aperta i marxisti classici per l’accostamento dei «due grandi italiani», sta la maggiore originalità del saggio.
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