La sindrome
Inviato: 10/03/2015, 13:31
La sinistra si divide: è una constatazione che è diventata quasi un luogo comune, che alcuni usano come una costante da ricercare per raccontarne la storia.
La sinistra si divide, e la sinistra ha sempre paura delle divisioni: qual è la causa e quale la conseguenza?
C'è una risposta che sembra padossale: la sinistra si divide perché ha paura delle divisioni, o meglio, perché tende ad avere un'ortodossia che ha paura del dissenso. E i suoi partiti hanno una nomenklatura che non sa gestire il dissenso, che viene subito considerato un nemico: il che induce i dissidenti, prima o poi, ad allontanarsi e separarsi.
Chiunque abbia fatto un minimo di vita di partito sa che una delle parole più ricorrenti nelle discussioni della sinistra è "spaccatura", coniugato spesso nella frase "rischio di spaccatura".
Una parola e una frase che prelude quasi sempre alle peggiori nefandezze intellettuali e politiche.
Per "evitare il rischio di spaccature" si sono votate mozioni congressuali non condivise. Si sono accettati personaggi e situazioni che nessuno apprezzava realmente, e anzi spesso disprezzava nella propria coscienza. Si sono cercati compromessi ad ogni costo, che portavano all'immobilismo, o peggio. Si è soffocato un dibattito interno che sarebbe stato prezioso. Si è di fatto rinunciato all'apporto di personaggi di valore, che avevano il solo torto di "dissentire".
L'effetto perverso di questo fattore viene poi potenziato, quando si lega - cosa che avviene frequentemente - con la parola d'ordine del "realismo", che a sua volta si accompagnava con l'ipotesi di un "attacco" nei confronti della nomenklatura, mosso naturalmente da oscure e indistinte motivazioni distruttive.
Renzi, in questo, raccoglie il peggio di questa tradizione, sia pure usando la forma modernizzata di questa paranoia: i "gufi", i "professoroni", i "rosiconi", "coloro che non vogliono il cambiamnto", etc, sono tutte definizioni che servono a delegittimare le critiche e il dissenso, e dimostrano l'incapacità di gestire il dissenso stesso - o forse, nel caso, di Renzi la volontà di non gestirlo ed esasperarlo perché il dissenso aperto da parte della sinistra del PD torna utile al suo progetto.
Nel passato questo genere di problemi aveva una sua dimensione, che lo rendeva fastidioso, ma che non aveva grosse ricadute "culturali". Anzi, ha generato in molti casi scissioni che producevano partitini di grande spessore politico, e suscitavano dibattiti interessanti.
Il degrado comunicativo e di linguaggio di questo ventennio ha invece indotto a una rozzezza che ha svuotato di contenuto ogni discussione, e ha trasformato ogni dissenso o di resistenza al dissenso in una polemica fatta di insulti più che di argomenti: ogni divisione finisce per sembrare una divisione personale, ogni dissenso contingente e suerficiale, pretestuoso.
Naturalmente, ci sono nella storia della sinistra ragioni profonde e ideologiche di divisione, a cominciare dalle due tendenze che si sono articolate nel tempo in varie forme, con nomi diversi, tra riformisti e massimalisti: possiamo definirle "ragioni reali", che proprio in quanto tali svelano in modo ancora più evidente la miseria intellettuale della sindrome della "spaccatura", quando si riflettono nel dibattito interno dei partiti.
La sinistra si divide, e la sinistra ha sempre paura delle divisioni: qual è la causa e quale la conseguenza?
C'è una risposta che sembra padossale: la sinistra si divide perché ha paura delle divisioni, o meglio, perché tende ad avere un'ortodossia che ha paura del dissenso. E i suoi partiti hanno una nomenklatura che non sa gestire il dissenso, che viene subito considerato un nemico: il che induce i dissidenti, prima o poi, ad allontanarsi e separarsi.
Chiunque abbia fatto un minimo di vita di partito sa che una delle parole più ricorrenti nelle discussioni della sinistra è "spaccatura", coniugato spesso nella frase "rischio di spaccatura".
Una parola e una frase che prelude quasi sempre alle peggiori nefandezze intellettuali e politiche.
Per "evitare il rischio di spaccature" si sono votate mozioni congressuali non condivise. Si sono accettati personaggi e situazioni che nessuno apprezzava realmente, e anzi spesso disprezzava nella propria coscienza. Si sono cercati compromessi ad ogni costo, che portavano all'immobilismo, o peggio. Si è soffocato un dibattito interno che sarebbe stato prezioso. Si è di fatto rinunciato all'apporto di personaggi di valore, che avevano il solo torto di "dissentire".
L'effetto perverso di questo fattore viene poi potenziato, quando si lega - cosa che avviene frequentemente - con la parola d'ordine del "realismo", che a sua volta si accompagnava con l'ipotesi di un "attacco" nei confronti della nomenklatura, mosso naturalmente da oscure e indistinte motivazioni distruttive.
Renzi, in questo, raccoglie il peggio di questa tradizione, sia pure usando la forma modernizzata di questa paranoia: i "gufi", i "professoroni", i "rosiconi", "coloro che non vogliono il cambiamnto", etc, sono tutte definizioni che servono a delegittimare le critiche e il dissenso, e dimostrano l'incapacità di gestire il dissenso stesso - o forse, nel caso, di Renzi la volontà di non gestirlo ed esasperarlo perché il dissenso aperto da parte della sinistra del PD torna utile al suo progetto.
Nel passato questo genere di problemi aveva una sua dimensione, che lo rendeva fastidioso, ma che non aveva grosse ricadute "culturali". Anzi, ha generato in molti casi scissioni che producevano partitini di grande spessore politico, e suscitavano dibattiti interessanti.
Il degrado comunicativo e di linguaggio di questo ventennio ha invece indotto a una rozzezza che ha svuotato di contenuto ogni discussione, e ha trasformato ogni dissenso o di resistenza al dissenso in una polemica fatta di insulti più che di argomenti: ogni divisione finisce per sembrare una divisione personale, ogni dissenso contingente e suerficiale, pretestuoso.
Naturalmente, ci sono nella storia della sinistra ragioni profonde e ideologiche di divisione, a cominciare dalle due tendenze che si sono articolate nel tempo in varie forme, con nomi diversi, tra riformisti e massimalisti: possiamo definirle "ragioni reali", che proprio in quanto tali svelano in modo ancora più evidente la miseria intellettuale della sindrome della "spaccatura", quando si riflettono nel dibattito interno dei partiti.