Cuori in poltrona
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Cuori in poltrona
Mi piace inaugurare un thread, nel quale parlare dei film che vediamo, o abbiamo visto in altri tempi.
Per quanto mi riguarda, si tratta di un cinema che è soprattutto televisione, adesso, dato che ho perso l'abitudine di andare nelle sale da quando hanno vietato il fumo. Un peccato, dato che ho dovuto rinunciare alla magia del buio in sala, del brivido di aspettativa che si prova sprofondando in polrona e di quel grande schermo bianco che non può pienamnte essere sosttuito dal monitor ultrapiatto e ad alta definizione del televisore a Led.
Lo inauguro, per altro, con un filmetto che sarebbe difficile immaginare meno epico e carico di suggestioni, appena visto ieri sera su Canale 5: Immaturi, la storia di un gruppo di quasi quarantenni chiamati a rifare l'esame di maturità, e dunque a riunirsi dopo circa vent'anni, con qualche ruga in più, ma in fondo sempre uguali - così come uguali sono i loro rapporti reciproci, come al tempo della scuola, nonostante le vicende di vita occorse negli anni.
Il film è una commediola, niente di più, ma neanche niente di meno, che tutto sommato si fa vedere senza rimorsi, specialmnte in una serata che non offre niente di meglio.
Quello che più mi ha fatto pensare, di questo film, è la sceneggiatura, che mi sembra rispecchiare un fenomeno che si ritrova anche in altre situazioni del nostro tempo.
Il film , infatti, mostra una vicenda che si svolge in questi anni duemila, con personaggi che tornano a una gioventù che appartiene alla fine degli anni '80: ma è una gioventù e un clima scolastico, un clima familiare, che ha la forma e il linguaggio, il sapore degli anni '60/70, che deriva certamente dagli sceneggiatori.
Ora, può essere che questa dislocazione temporale e questa commistione corrisponda a un limite, un equivoco della sceneggiatura, fatta da ex ragazzi del '68, che nel film proiettano i loro personali ricordi.
Ma è più probabile che sia una conseguenza dei cinepanettoni dei Vanzina, che hanno creato una serie di luoghi comuni, per cui l'età scolastica è rimasta ferma agli anni di Sapore di sale e al Giulio Cesare di Venditti, che per altro si ritrova anche in certe pellicole di Nanni Moretti e in generale in quasi tutta la cinematografia di questi anni, che non riesce a rappresentare in modo diverso la realtà attuale: a meno che si tratti di vicende che hanno i toni del dramma o della tragedia.
Visto sotto la specie del marketing comunicativo, insomma, gli anni '60 forniscono tutto un repertorio che serve a rappresentare immediatamente e riconoscibilmente la gioventù e l'età scolastica, con una paradossale indifferenza verso certe stridenti contraddizioni e verso un'insistente sensazione di irrealtà - un irrealismo che contribuisce a sottrarre valore al senso della storia, alla percezione del trascorrere del tempo, e mentre sembra celebrare il trionfo della memoria, in realtà la riduce da fattore di coscienza a pura iconografia.
Invece, a noi viene da chiederci: cos'è successo, o forse cosa non è successo, perché certi momenti d'antan sembrano essere una materia più viva - più fruibilmente viva - della vita stessa che stiamo vivendo ora?
Per quanto mi riguarda, si tratta di un cinema che è soprattutto televisione, adesso, dato che ho perso l'abitudine di andare nelle sale da quando hanno vietato il fumo. Un peccato, dato che ho dovuto rinunciare alla magia del buio in sala, del brivido di aspettativa che si prova sprofondando in polrona e di quel grande schermo bianco che non può pienamnte essere sosttuito dal monitor ultrapiatto e ad alta definizione del televisore a Led.
Lo inauguro, per altro, con un filmetto che sarebbe difficile immaginare meno epico e carico di suggestioni, appena visto ieri sera su Canale 5: Immaturi, la storia di un gruppo di quasi quarantenni chiamati a rifare l'esame di maturità, e dunque a riunirsi dopo circa vent'anni, con qualche ruga in più, ma in fondo sempre uguali - così come uguali sono i loro rapporti reciproci, come al tempo della scuola, nonostante le vicende di vita occorse negli anni.
Il film è una commediola, niente di più, ma neanche niente di meno, che tutto sommato si fa vedere senza rimorsi, specialmnte in una serata che non offre niente di meglio.
Quello che più mi ha fatto pensare, di questo film, è la sceneggiatura, che mi sembra rispecchiare un fenomeno che si ritrova anche in altre situazioni del nostro tempo.
Il film , infatti, mostra una vicenda che si svolge in questi anni duemila, con personaggi che tornano a una gioventù che appartiene alla fine degli anni '80: ma è una gioventù e un clima scolastico, un clima familiare, che ha la forma e il linguaggio, il sapore degli anni '60/70, che deriva certamente dagli sceneggiatori.
Ora, può essere che questa dislocazione temporale e questa commistione corrisponda a un limite, un equivoco della sceneggiatura, fatta da ex ragazzi del '68, che nel film proiettano i loro personali ricordi.
Ma è più probabile che sia una conseguenza dei cinepanettoni dei Vanzina, che hanno creato una serie di luoghi comuni, per cui l'età scolastica è rimasta ferma agli anni di Sapore di sale e al Giulio Cesare di Venditti, che per altro si ritrova anche in certe pellicole di Nanni Moretti e in generale in quasi tutta la cinematografia di questi anni, che non riesce a rappresentare in modo diverso la realtà attuale: a meno che si tratti di vicende che hanno i toni del dramma o della tragedia.
Visto sotto la specie del marketing comunicativo, insomma, gli anni '60 forniscono tutto un repertorio che serve a rappresentare immediatamente e riconoscibilmente la gioventù e l'età scolastica, con una paradossale indifferenza verso certe stridenti contraddizioni e verso un'insistente sensazione di irrealtà - un irrealismo che contribuisce a sottrarre valore al senso della storia, alla percezione del trascorrere del tempo, e mentre sembra celebrare il trionfo della memoria, in realtà la riduce da fattore di coscienza a pura iconografia.
Invece, a noi viene da chiederci: cos'è successo, o forse cosa non è successo, perché certi momenti d'antan sembrano essere una materia più viva - più fruibilmente viva - della vita stessa che stiamo vivendo ora?
Eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Eravamo bandiere rosse. E avevamo ragione.
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Re: Cuori in poltrona
Una sera, circa un mese fa, sono stato attratto dal titolo di un film.
I titoli sono importanti, anche se spesso nella traduzione italiana si privilegia l'effettaccio - sono importanti i titoli, ma in realtà i buoni film sono come il maiale: non si butta via niente.
In tutti gli anni nei quali ho frequentato i cinematografi, il film cominciava, per me, nel momento stesso in cui mi mettevo seduto, scegliendo la poltrona in base all'umore del momento, alla grandezza della sala e alla distribuzione degli spettatori già presenti.
Cominciava poi l'attesa, e la lieve emozione delle luci che si spengono: come attraversare lo specchio di Alice, per entrare nel mondo parallelo delle ombre.
Sprofondato nella poltrona, seguivo i titoli di testa, come un film nel film, accompagnati dagli accordi della colonna sonora, e alcuni li ricordo davvero molto belli, invenzioni grafiche e montaggi suggestivi che solo anni più tardi scoprii essere il prodotto di uno lavoro molto specializzato in fase di post-produzione.
Durante questo antefatto, a un certo momento compare il titolo: non importa se poi, uscendo dalla sala alla fine, si ha l'impressione che il titolo abbia tradito il film, o se invece lo rappresenta meravigliosamente, anzi aggiunge un tocco in più, perfezionandolo. In ogni caso il titolo ha una vita e un posto tutti suoi, nel ricordo e nella percezione complessiva della personale storia del cinema che ciascuno si crea, da spettatore e amante.
Treno di notte per Lisbona, dunque, con un titolo così non poteva essere un brutto film - e poi, accanto al titolo, un nome giusto: Jeremy Irons.
Un maturo professore, che insegna in una scuola di Berna, incrocia per caso la vita di una ragazza e la salva dal suicidio.
La ragazza però dopo poco scompare, lasciando di sé soltanto un soprabito e un libro, scritto da un autore portoghese.
Il professore comincia a leggere il libro e ne rimane preso al punto da decidere di prendere il treno per Lisbona, utilizzando il biglietto che trova tra le pagine, per conoscere l'autore e il suo ambiente.
Arrivato in riva all'oceano, le sue indagini hanno un insperato successo: l'autore è morto, ma conosce la sorella e altre persone che hanno fatto parte della vita del giovane medico che ha scritto quel libro, e a mano a mano si trova proiettato indietro al tempo della dittatura di Salazar, contro la quale il medico e i suoi amici hanno combattuto con poco successo pratico e molte amarezze personali.
Durante le sue indagini, il professore conosce una donna, con la quale stabilisce una speciale simpatia, che, sul punto di riprendere il treno per Berna, si svela essere assai più prossima a un dolcemente malinconico amore.
In realtà, prima ancora di questo momento conclusivo, il suo girovagare per Lisbona lo avvolge di un'atmosfera luminosa, nella quale si riflette il profumo del mare e la scabra bellezza di un paese latino, così diverso dalle scure tonalità del piccolo mondo bernese, fatto di luoghi chiusi e severe boiserie .
Una diversità che però si avverte più come un viaggio nel tempo: un paese latino, ma anche un paese che conserva evidenti le suture imperfette tra passato e presente, tra il moderno e l'arcaico. Seguendo il professore nei suoi colloqui e nelle sue passeggiate, anche noi respiriamo la luce e il profumo dell'oceano, e la sensazione di poter in qualche modo "tornare a casa", cioè a uno stato di equilibrio, tra un passato troppo fosco (com'era stato il tempo di Salazar) e un presente svizzero, europeo, che non riesce più a parlare al cuore.
C'è, in tutto questo, evidente, una soffusa retorica del "lontano ovest", con quella luce dell'oceano che somiglia ai raggi divini che rischiarano il volto dei santi e dei martiri, conferendoli di pace. Ma funziona, anche perché il volto di Irons e quello dei comprimari non ha nulla di ieratico.
I titoli sono importanti, anche se spesso nella traduzione italiana si privilegia l'effettaccio - sono importanti i titoli, ma in realtà i buoni film sono come il maiale: non si butta via niente.
In tutti gli anni nei quali ho frequentato i cinematografi, il film cominciava, per me, nel momento stesso in cui mi mettevo seduto, scegliendo la poltrona in base all'umore del momento, alla grandezza della sala e alla distribuzione degli spettatori già presenti.
Cominciava poi l'attesa, e la lieve emozione delle luci che si spengono: come attraversare lo specchio di Alice, per entrare nel mondo parallelo delle ombre.
Sprofondato nella poltrona, seguivo i titoli di testa, come un film nel film, accompagnati dagli accordi della colonna sonora, e alcuni li ricordo davvero molto belli, invenzioni grafiche e montaggi suggestivi che solo anni più tardi scoprii essere il prodotto di uno lavoro molto specializzato in fase di post-produzione.
Durante questo antefatto, a un certo momento compare il titolo: non importa se poi, uscendo dalla sala alla fine, si ha l'impressione che il titolo abbia tradito il film, o se invece lo rappresenta meravigliosamente, anzi aggiunge un tocco in più, perfezionandolo. In ogni caso il titolo ha una vita e un posto tutti suoi, nel ricordo e nella percezione complessiva della personale storia del cinema che ciascuno si crea, da spettatore e amante.
Treno di notte per Lisbona, dunque, con un titolo così non poteva essere un brutto film - e poi, accanto al titolo, un nome giusto: Jeremy Irons.
Un maturo professore, che insegna in una scuola di Berna, incrocia per caso la vita di una ragazza e la salva dal suicidio.
La ragazza però dopo poco scompare, lasciando di sé soltanto un soprabito e un libro, scritto da un autore portoghese.
Il professore comincia a leggere il libro e ne rimane preso al punto da decidere di prendere il treno per Lisbona, utilizzando il biglietto che trova tra le pagine, per conoscere l'autore e il suo ambiente.
Arrivato in riva all'oceano, le sue indagini hanno un insperato successo: l'autore è morto, ma conosce la sorella e altre persone che hanno fatto parte della vita del giovane medico che ha scritto quel libro, e a mano a mano si trova proiettato indietro al tempo della dittatura di Salazar, contro la quale il medico e i suoi amici hanno combattuto con poco successo pratico e molte amarezze personali.
Durante le sue indagini, il professore conosce una donna, con la quale stabilisce una speciale simpatia, che, sul punto di riprendere il treno per Berna, si svela essere assai più prossima a un dolcemente malinconico amore.
In realtà, prima ancora di questo momento conclusivo, il suo girovagare per Lisbona lo avvolge di un'atmosfera luminosa, nella quale si riflette il profumo del mare e la scabra bellezza di un paese latino, così diverso dalle scure tonalità del piccolo mondo bernese, fatto di luoghi chiusi e severe boiserie .
Una diversità che però si avverte più come un viaggio nel tempo: un paese latino, ma anche un paese che conserva evidenti le suture imperfette tra passato e presente, tra il moderno e l'arcaico. Seguendo il professore nei suoi colloqui e nelle sue passeggiate, anche noi respiriamo la luce e il profumo dell'oceano, e la sensazione di poter in qualche modo "tornare a casa", cioè a uno stato di equilibrio, tra un passato troppo fosco (com'era stato il tempo di Salazar) e un presente svizzero, europeo, che non riesce più a parlare al cuore.
C'è, in tutto questo, evidente, una soffusa retorica del "lontano ovest", con quella luce dell'oceano che somiglia ai raggi divini che rischiarano il volto dei santi e dei martiri, conferendoli di pace. Ma funziona, anche perché il volto di Irons e quello dei comprimari non ha nulla di ieratico.
Eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Eravamo bandiere rosse. E avevamo ragione.
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Re: Cuori in poltrona
Il film che mi ha più colpito è Lisbon Story, di Wim Wenders. Non saprei però come descriverlo, perché è un poetico insieme di immagini e musica lontani da una dimensione razionale, da una scansione di eventi, persino da una trama specifica. E' come un fluire libero e sospeso in una bellezza senza tempo e pochi dialoghi, in cui le percezioni si confondono tra luce ed ombre, suono e silenzio, presenza e (soprattutto) assenza. Anche in questo film il lieve contrasto tra un protagonista mitteleuropeo (ma artista nell'animo) e il Sud lucente.
https://www.youtube.com/watch?v=2bOhxGBRXAU
https://www.youtube.com/watch?v=2bOhxGBRXAU
Renzi elenca i successi del governo. “Sarò breve”.
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Re: Cuori in poltrona
Anch’io ho visto lo stesso film. Ma sono stata colpita non dalla sete di luce e di radiosità mediterranea del professore svizzero, ma dal suo bisogno di metabolizzare una vita altrui.Rom ha scritto:Una sera, circa un mese fa, sono stato attratto dal titolo di un film.
I titoli sono importanti, anche se spesso nella traduzione italiana si privilegia l'effettaccio - sono importanti i titoli, ma in realtà i buoni film sono come il maiale: non si butta via niente.
In tutti gli anni nei quali ho frequentato i cinematografi, il film cominciava, per me, nel momento stesso in cui mi mettevo seduto, scegliendo la poltrona in base all'umore del momento, alla grandezza della sala e alla distribuzione degli spettatori già presenti.
Cominciava poi l'attesa, e la lieve emozione delle luci che si spengono: come attraversare lo specchio di Alice, per entrare nel mondo parallelo delle ombre.
Sprofondato nella poltrona, seguivo i titoli di testa, come un film nel film, accompagnati dagli accordi della colonna sonora, e alcuni li ricordo davvero molto belli, invenzioni grafiche e montaggi suggestivi che solo anni più tardi scoprii essere il prodotto di uno lavoro molto specializzato in fase di post-produzione.
Durante questo antefatto, a un certo momento compare il titolo: non importa se poi, uscendo dalla sala alla fine, si ha l'impressione che il titolo abbia tradito il film, o se invece lo rappresenta meravigliosamente, anzi aggiunge un tocco in più, perfezionandolo. In ogni caso il titolo ha una vita e un posto tutti suoi, nel ricordo e nella percezione complessiva della personale storia del cinema che ciascuno si crea, da spettatore e amante.
Treno di notte per Lisbona, dunque, con un titolo così non poteva essere un brutto film - e poi, accanto al titolo, un nome giusto: Jeremy Irons.
Un maturo professore, che insegna in una scuola di Berna, incrocia per caso la vita di una ragazza e la salva dal suicidio.
La ragazza però dopo poco scompare, lasciando di sé soltanto un soprabito e un libro, scritto da un autore portoghese.
Il professore comincia a leggere il libro e ne rimane preso al punto da decidere di prendere il treno per Lisbona, utilizzando il biglietto che trova tra le pagine, per conoscere l'autore e il suo ambiente.
Arrivato in riva all'oceano, le sue indagini hanno un insperato successo: l'autore è morto, ma conosce la sorella e altre persone che hanno fatto parte della vita del giovane medico che ha scritto quel libro, e a mano a mano si trova proiettato indietro al tempo della dittatura di Salazar, contro la quale il medico e i suoi amici hanno combattuto con poco successo pratico e molte amarezze personali.
Durante le sue indagini, il professore conosce una donna, con la quale stabilisce una speciale simpatia, che, sul punto di riprendere il treno per Berna, si svela essere assai più prossima a un dolcemente malinconico amore.
In realtà, prima ancora di questo momento conclusivo, il suo girovagare per Lisbona lo avvolge di un'atmosfera luminosa, nella quale si riflette il profumo del mare e la scabra bellezza di un paese latino, così diverso dalle scure tonalità del piccolo mondo bernese, fatto di luoghi chiusi e severe boiserie .
Una diversità che però si avverte più come un viaggio nel tempo: un paese latino, ma anche un paese che conserva evidenti le suture imperfette tra passato e presente, tra il moderno e l'arcaico. Seguendo il professore nei suoi colloqui e nelle sue passeggiate, anche noi respiriamo la luce e il profumo dell'oceano, e la sensazione di poter in qualche modo "tornare a casa", cioè a uno stato di equilibrio, tra un passato troppo fosco (com'era stato il tempo di Salazar) e un presente svizzero, europeo, che non riesce più a parlare al cuore.
C'è, in tutto questo, evidente, una soffusa retorica del "lontano ovest", con quella luce dell'oceano che somiglia ai raggi divini che rischiarano il volto dei santi e dei martiri, conferendoli di pace. Ma funziona, anche perché il volto di Irons e quello dei comprimari non ha nulla di ieratico.
Quasi un’operazione di cannibalismo, mentre si scopre che la propria vita è insapore ed è corsa via lontano dalle passioni e dalla poesia.
Il professore insegue un morto per sentirsi vivo, per condividere gli amori e i tradimenti nascosti dietro le frasi del libro abbandonato dall’aspirante suicida.
Un disordine che lo scuota dall’ordine del proprio ego acquietato.
L’ultima scena del film lo ritrae presso un treno, mentre la donna che ha conosciuto e lo ha aiutato a Lisbona, gli chiede “Perché non rimane?”
Il film non dà risposta. La soluzione rivoluzionaria, forse, si tramuterebbe col tempo nella stessa quiete insapore di stampo svizzero, oppure risusciterebbe il fuoco postumo di una vita coraggiosa?
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