Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo
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Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo
Federico Rampini, corrispondente dagli Usa di Repubblica, ha pubblicato nel mese di ottobre il libro:
Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo
Una pubblicazione definita dall’autore come:
Manifesto generazionale per non rinunciare al futuro.
Il tempo è dalla mia parte, si che lo è.
ROLLING STONES, 1964
Quando invecchierò
E perderò i capelli
Quando avrò 64 anni
Tra molti anni
Avrai bisogno di me?
THE BEATLES, 1967
Introduzione
Capita ogni volta che torno per qualche giorno in Italia: Mi sento ingombrante.
A 56 anni ho l’età sbagliata? Sento parlare di quelli come me solo in due modi, tutt’e due negativi.
Per i governi, per le imprese, per i cosiddetti esperti noi siamo <<il costo>> per eccellenza.
Guadagniamo troppo, godiamo di tutele anacronistiche (il posto fisso), e quando andremo in pensione faremo sballare definitivamente tutti gli equilibri finanziari della previdenza, affondando lo Stato italiano nei debiti.
Per i trentenni e i ventenni siamo <<il tappo>>. Ci aggrappiamo ai nostri posti di lavoro, alle nostre (per alcuni) posizioni di potere, non facciamo spazio a loro.
Non importa se ci sentiamo ancora in forma, siamo già bollati come <<gerontocrazia>>. E’ tutta colpa nostra se questa società è così immobile, sclerotizzata, avversa al cambiamento.
Non è andata meglio a certi coetanei solo di poco più anziani di me,quelli che fra i 58 e 62 anni hanno dovuto accettare al volo uno <<scivolo>> verso il prepensionamento, prendere o lasciare.
Quei posti di lavoro che loro hanno liberato sono scomparsi, non sono affatto andati ai giovani. E ora loro sentono addosso un velato rimprovero, qualcuno li considera fortunati, per aver acchiappato l’ultima uscita di sicurezza verso una pensione <<piena>> prima dell’Apocalisse –Austerity.
Nessuno ha ancora trovato una soluzione a questa crisi, ma molti sembrano d’accordo nell’individuare il problema: siamo noi.
<<Noi>>, siamo i baby boomer. Siamo nati nell’ultima Età dell’Oro, il periodo della ricostruzione postbellica (1945-1965). Che coincise con un prolungato boom economico in tutto l’Occidente ed ebbe un effetto collaterale forse perfino più importante: l’esplosione delle nascite.
Quella combinazione di ottimismo dei nostri padri, fiducia nel futuro e fecondità delle nostre mamme, ha fatto di noi una generazione unica nella storia umana. Unica per il suo peso percentuale sulla popolazione, ingigantito dal fatto che noi di figli ne abbiamo fatti meno. Dopo il baby boom arrivò la denatalità. Dietro di noi ci sono le generazioni sottili.
Benedetti dall’aumento della longevità, abbiamo un privilegio singolare. Grazie a noi, l’umanità ha disposizione centinaia di milioni di anni di vita in più (è la speranza di vita <<allungata>> di ciascuno moltiplicata per il numero di noi della leva ’45-65).
E di tutta questa vita l’umanità non sa bene che farsene. Non è preparata. Non eravamo previsti. Si parla di questa nostra inusitata sopravvivenza quasi come di una sciagura annunciata, un disastro al rallentatore. Possibile?
E’ curioso davvero. Un evento che individualmente è così positivo – vivere di più – può trasformarsi in una calamità nell’immaginazione collettiva?
Ecco una citazione, dall’editoriale apparso in prima pagina sul <<Corriere della Sera>> il 23 settembre 2012, a firma di due stimati economisti come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. <<In quarant’anni, dall’inizio degli anni Settanta a oggi, l’aspettativa di vita alla nascita si è fortunatamente allungata, in Italia, di dieci anni.: da 69 a 79 per gli uomini, da 75 a 85 per le donne.>>
Ma quel <<fortunatamente>> sta appeso lì un po’ per caso, senza conseguenze. Tutto il resto dell’articolo è funesto, illustra solo il peso dell’invecchiamento demografico sui conti pubblici.
I due autorevoli economisti quasi quasi stigmatizzano il fatto che abbiamo l’ardire di non morire abbastanza presto dopo la pensione.
Il titolo: C’era una volta lo Stato sociale.
Alesina e Giavanni rappresentano perfettamente il mood, il sentimento prevalente in Italia di questi tempi. E’ un curioso sdoppiamento della visione. Ciò che ci sembrava ovvio a livello individuale è vissuto in modo opposto quando ne parliamo come di un fenomeno collettivo.
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Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo
Una pubblicazione definita dall’autore come:
Manifesto generazionale per non rinunciare al futuro.
Il tempo è dalla mia parte, si che lo è.
ROLLING STONES, 1964
Quando invecchierò
E perderò i capelli
Quando avrò 64 anni
Tra molti anni
Avrai bisogno di me?
THE BEATLES, 1967
Introduzione
Capita ogni volta che torno per qualche giorno in Italia: Mi sento ingombrante.
A 56 anni ho l’età sbagliata? Sento parlare di quelli come me solo in due modi, tutt’e due negativi.
Per i governi, per le imprese, per i cosiddetti esperti noi siamo <<il costo>> per eccellenza.
Guadagniamo troppo, godiamo di tutele anacronistiche (il posto fisso), e quando andremo in pensione faremo sballare definitivamente tutti gli equilibri finanziari della previdenza, affondando lo Stato italiano nei debiti.
Per i trentenni e i ventenni siamo <<il tappo>>. Ci aggrappiamo ai nostri posti di lavoro, alle nostre (per alcuni) posizioni di potere, non facciamo spazio a loro.
Non importa se ci sentiamo ancora in forma, siamo già bollati come <<gerontocrazia>>. E’ tutta colpa nostra se questa società è così immobile, sclerotizzata, avversa al cambiamento.
Non è andata meglio a certi coetanei solo di poco più anziani di me,quelli che fra i 58 e 62 anni hanno dovuto accettare al volo uno <<scivolo>> verso il prepensionamento, prendere o lasciare.
Quei posti di lavoro che loro hanno liberato sono scomparsi, non sono affatto andati ai giovani. E ora loro sentono addosso un velato rimprovero, qualcuno li considera fortunati, per aver acchiappato l’ultima uscita di sicurezza verso una pensione <<piena>> prima dell’Apocalisse –Austerity.
Nessuno ha ancora trovato una soluzione a questa crisi, ma molti sembrano d’accordo nell’individuare il problema: siamo noi.
<<Noi>>, siamo i baby boomer. Siamo nati nell’ultima Età dell’Oro, il periodo della ricostruzione postbellica (1945-1965). Che coincise con un prolungato boom economico in tutto l’Occidente ed ebbe un effetto collaterale forse perfino più importante: l’esplosione delle nascite.
Quella combinazione di ottimismo dei nostri padri, fiducia nel futuro e fecondità delle nostre mamme, ha fatto di noi una generazione unica nella storia umana. Unica per il suo peso percentuale sulla popolazione, ingigantito dal fatto che noi di figli ne abbiamo fatti meno. Dopo il baby boom arrivò la denatalità. Dietro di noi ci sono le generazioni sottili.
Benedetti dall’aumento della longevità, abbiamo un privilegio singolare. Grazie a noi, l’umanità ha disposizione centinaia di milioni di anni di vita in più (è la speranza di vita <<allungata>> di ciascuno moltiplicata per il numero di noi della leva ’45-65).
E di tutta questa vita l’umanità non sa bene che farsene. Non è preparata. Non eravamo previsti. Si parla di questa nostra inusitata sopravvivenza quasi come di una sciagura annunciata, un disastro al rallentatore. Possibile?
E’ curioso davvero. Un evento che individualmente è così positivo – vivere di più – può trasformarsi in una calamità nell’immaginazione collettiva?
Ecco una citazione, dall’editoriale apparso in prima pagina sul <<Corriere della Sera>> il 23 settembre 2012, a firma di due stimati economisti come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. <<In quarant’anni, dall’inizio degli anni Settanta a oggi, l’aspettativa di vita alla nascita si è fortunatamente allungata, in Italia, di dieci anni.: da 69 a 79 per gli uomini, da 75 a 85 per le donne.>>
Ma quel <<fortunatamente>> sta appeso lì un po’ per caso, senza conseguenze. Tutto il resto dell’articolo è funesto, illustra solo il peso dell’invecchiamento demografico sui conti pubblici.
I due autorevoli economisti quasi quasi stigmatizzano il fatto che abbiamo l’ardire di non morire abbastanza presto dopo la pensione.
Il titolo: C’era una volta lo Stato sociale.
Alesina e Giavanni rappresentano perfettamente il mood, il sentimento prevalente in Italia di questi tempi. E’ un curioso sdoppiamento della visione. Ciò che ci sembrava ovvio a livello individuale è vissuto in modo opposto quando ne parliamo come di un fenomeno collettivo.
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