Fuori la mafia dallo stato

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Fuori la mafia dallo stato

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paolo11
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erding
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Formigoni, sequestrati conti bancari
e villa in Sardegna per un totale di 49 milioni.
Lui: ho conto in rosso


La procura di Milano ha disposto il sequestro dei conti bancari di Roberto Formigoni nell'ambito dell'inchiesta sulla fondazione Maugeri. Sequestrata anche la villa ad Arzachena, in Sardegna. E ancora, una serie di immobili a Lecco e San Remo di cui il senatore risulterebbe comproprietario e tre auto. Il sequestro è stato effettuato dalla Guardia di Finanza di Milano su richiesta della Procura, dopo la firma del gip Paolo Guidi.

Sequestri per un valore di 49 milioni

Il sequestro preventivo di tutti i conti, meno uno, di Formigoni viene motivato dal gip col recupero del profitto dei reati contestati a Formigoni nel rinvio a giudizio di un mese fa nell'ambito dell'indagine San Raffaele - Maugeri. Il "Celeste" è indagato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e appropriazione indebita. Il sequestro ammonta a 49 milioni di euro che vengono trasferiti sul Fondo Unico Giustizia. La villa sequestrata venne acquistata a un prezzo ritenuto di favore dagli inquirenti, da Alberto Perego, amico di Formigoni. Lo splendido immobile, incastonato nel granito smeraldino, era stato venduto dalla "Limes srl" di Erika Daccò, una delle figlie dell'imprenditore Pierangelo Daccò.

L'inchiesta sulla Fondazione Maugeri

Roberto Formigoni, per 17 anni presidente della Regione Lombardia, senatore del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano ed esponente di spicco di Comunione e Liberazione, sarà processato per corruzione e associazione per delinquere insieme ad altri nove imputati nell'inchiesta sulle tangenti pagate dalla Fondazione Maugeri di Pavia per ottenere i rimborsi sanitari della Regione Lombardia. La decisione del gup di Milano, Paolo Guidi, è arrivata lo scorso 4 marzo dopo cinque ore di camera di consiglio e dopo numerose udienze preliminari nelle quali sono state analizzate le prove raccolte dai sostituti procuratori Laura Pedio e Antonio Pastore (e prima ancora dal pm Luigi Orsi) in oltre due anni di indagini.

Processo al via il 6 maggio

Il processo si aprirà il 6 maggio davanti alla Decima sezione penale del Tribunale di Milano. Con Formigoni saranno imputati, a vario titolo, di associazione per delinquere, corruzione e riciclaggio, anche il faccendiere Paolo Daccò (che sta già scontando dieci anni di reclusione per la bancarotta dell'Ospedale San Raffaele), l'ex assessore regionale Antonio Simone, l'ex direttore amministrativo della Fondazione Maugeri, Costantino Passerino, l'ex direttore generale della Sanità della Regione Lombardia, Carlo Lucchina, l'ex segretario della Regione, Nicola Maria Sanese, l'amico e convivente di Formigoni nella residenza milanese dei Memores Domini, Alberto Perego, e altre tre persone.

I finaziamenti alla Maugeri


Secondo le accuse della procura, Formigoni avrebbe garantito una «protezione globale per la Maugeri, a fronte di illecite remunerazioni» e si sarebbe prodigato «affinché fossero adottati da parte della Giunta» della Regione Lombardia provvedimenti ad hoc violando i doveri di «esclusivo perseguimento dell'interesse pubblico». Formigoni ha sempre negato di aver favorito i rimborsi alla Fondazione Maugeri e di aver intascato soldi o «altre utilità» in cambio del trattamento di favore. Ma secondo i magistrati di Milano non è così. L'ex governatore della Lombardia avrebbe garantito alla Fondazione di Pavia finanziamenti per circa 200 milioni di euro. In cambio dei quali Formigoni avrebbe ottenuto «utilità economiche» per circa otto milioni di euro: vacanze ai Caraibi pagate, affitto di una villa ad Antigua, viaggi aerei per oltre 18mila euro, uso esclusivo di uno yacht dal giugno 2007 a ottobre 2011, un mega sconto di circa quattro milioni di euro per l'acquisto di una villa ad Arzachena, in Sardegna.

I sequestri


Già nei mesi scorsi erano stati eseguiti sequestri (per il reato di associazione per delinquere) per un valore di circa 53 milioni di euro a carico del faccendiere Daccò, dell'ex assessore lombardo Antonio Simone e dell'ex direttore amministrativo della struttura sanitaria, Costantino Passerino. Oggi, invece, sono arrivati i sequestri da 49 milioni che corrispondono all'ammontare della presunta corruzione che il giudice addebita all'ex Governatore e a Perego, ma in parte anche a Daccò, Simone e Passerino. Di questi 49 milioni di euro, in particolare, 39 milioni sarebbero la presunta corruzione legata alla vicenda Maugeri e 7,6 milioni sarebbero, invece, le presunte mazzette per il caso San Raffaele. Nella presunta corruzione da 49 milioni di euro, da quanto è emerso, il gip individua sia quegli 8 milioni di euro circa che l'allora Governatore avrebbe ricevuto sotto forma di benefit di lusso, come yacht e vacanze, che parte dei soldi distratti dalle casse della Maugeri e finiti agli intermediari, che quelli utilizzati per mantenere la rete di società all'estero servite per creare "fondi neri".

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... id=ABpxmr9
erding
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Re: Fuori la mafia dallo stato

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UNA BELLA DOMANDA...


49.000.000 Di euro

"Sequestrati beni per 49 milioni di euro a Roberto Formigoni.
La domanda sorge spontanea e precede qualsiasi vicenda giudiziaria:
come fa una persona che nella sua vita ha fatto solo politica
ad avere beni per 49 milioni di euro?
Così, per sapere."
Civati
camillobenso
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Re: Fuori la mafia dallo stato

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Questo Paese è fatto così


Marcello Dell'Utri era il referente della Mafia SpA al Nord. Berlusconi, ha fatto "la testa di legno" per conto della Mafia nella costruzione di Milano 1 e Milano 2. In casa ad Hardcore, Silvietto si teneva lo stalliere Mangano, capomandamento della Mafia di Palermo. Dell'Utri lo definirà un eroe(un eroe per non ha spifferato i segreti della Mafia).
Violante, a capo dell'Antimafia non potava non saperlo.

Ora, i due fondatori di Forza Italia, il partito della Mafia SpA venuta allo scoperto nel 1994, sono, una condannato con una pena restrittiva da far ridere i polli (per Berlusconi l'America è qui), e l'altro se ne è ito.




L’EX SENATORE PDL
Ordine d’arresto per Dell’Utri,
ma lui è latitante in Libano

Martedì è attesa la sentenza definitiva in Cassazione nel processo in cui è stato condannato a 7 anni in secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa
di Redazione Online


E’ latitante in Libano, per evitare una condanna e il carcere: Marcello Dell’Utri, colpito da un ordine di custodia cautelare da parte della terza sezione della Corte di appello di Palermo, risulta irreperibile. L’ex senatore del Pdl, condannato a sette anni per mafia, era in attesa della sentenza definitiva, prevista per martedì prossimo. Ma probabilmente non sarà in aula ad ascoltarla. La notizia è stata rivelata dalla Stampa. Secondo gli investigatori, che hanno cercato invano di eseguire la misura e da settimane monitorano le sue mosse, l’ex senatore avrebbe due passaporti diplomatici e dal Libano sarebbe pronto a spostarsi.
Il divieto di espatrio negato
Già due anni fa, quando la Cassazione doveva decidere sulla sua sorte, l’ex senatore si rifugiò nella Repubblica Dominicana. Poi ritornò quando venne a sapere che la condanna era stata annullata con rinvio. Stavolta la Procura generale ci aveva provato, a chiedere il divieto di espatrio, considerando il fatto che Dell’Utri ha più passaporti diplomatici di Paesi stranieri e che dalle intercettazioni ambientali gli inquirenti avevano intuito che esisteva il rischio di fuga. Ma la Corte di appello, che aveva già negato la richiesta di arresto nel marzo dello scorso anno, aveva rigettato la richiesta.
Guinea o Libano?
L’ordinanza di custodia cautelare a carico dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri è stata emessa martedì dai giudici della terza sezione della corte d’appello di Palermo, presieduta da Raimondo Lo Forti, che a marzo dell’anno scorso confermarono la condanna del politico a 7 anni per concorso in associazione mafiosa. La corte ha motivato l’ordine di arresto con il pericolo di fuga. Tre settimane fa la procura generale, sulla base di un’intercettazione di una conversazione del fratello di Dell’Utri, da cui si potevano dedurre le intenzioni dell’ex manager di Publitalia di lasciare il Paese, e degli accertamenti della Dia che da tempo tenevano sotto controllo l’imputato, aveva chiesto il divieto di espatrio con sequestro del passaporto. Ma l’istanza venne rigettata dalla corte in quanto per i reati di criminalità organizzata l’unica misura cautelare ipotizzabile è la custodia in carcere. La Procura generale ha fatto ricorso contro il rigetto al tribunale del riesame che ha confermato l’orientamento dei giudici di appello. Da qui la nuova richiesta, questa volta di arresto, che risale a lunedì sera scorso. I giudici l’hanno accolta e depositato il provvedimento martedì.Ma ormai era troppo tardi: l’imputato non è stato trovato in casa.
11 aprile 2014 | 08:13
© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/cronache/14_apri ... 09b6.shtml
camillobenso
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Marcello Dell’Utri, ordine di cattura per l’ex senatore: ma è latitante in Libano
La Squadra mobile di Milano non ha potuto eseguire l'ordine di custodia cautelare emesso dalla Corte d'appello di Palermo perché da giovedì sera l'ex senatore è irreperibile. Il 15 aprile è fissata la sentenza definitiva in Cassazione sul concorso esterno in associazione mafiosa, reato per il quale è stato condannato a sette anni di carcere

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 11 aprile 2014


Marcello Dell’Utri è latitante in Libano. Ufficialmente dalla sera di giovedì 10 aprile. La terza sezione della Corte d’Appello di Palermo, presieduta da Raimondo Lo Forti, ha emesso un ordine di custodia cautelare per pericolo di fuga nei suoi confronti, ma la Squadra mobile di Milano non ha potuto eseguirlo, perché non riesce a trovarlo.

La notizia arriva a pochi giorni dalla sentenza definitiva in Cassazione sul concorso esterno in associazione mafiosa – fissata per martedì 15 aprile – reato per il quale è stato condannato a sette anni di carcere (leggi le motivazioni della sentenza). E in vista dell’udienza ha lasciato l’Italia. Secondo gli investigatori, che hanno cercato invano di eseguire la misura e da settimane monitorano le sue mosse, l’ex senatore dal Libano, dove in passato ha intrattenuto rapporti d’affari e ha diversi contatti, sarebbe pronto a spostarsi. L’ex senatore Pdl, amico personale di Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia e già numero uno di Publitalia, allo stato sembra introvabile. Sparito proprio nei giorni in cui l’ex premier attende la decisione sull’affidamento ai servizi sociali.

Secondo La Stampa e Il Giornale di Sicilia, Dell’Utri poteva essere in Guinea Bissau, Libano o Repubblica dominicana, Paesi di cui ha il passaporto. E proprio nell’ultimo Stato, ricorda il quotidiano torinese, “si era rifugiato due anni fa, in circostanze analoghe, quando sparì nei giorni in cui la Cassazione doveva decidere la sua sorte”. Polizia e carabinieri però, scrive l’Ansa, smentiscono la notizia del tentativo fallito di recapitare l’ordinanza. ”Non siamo andati a notificare nulla all’ex senatore Dell’Utri”, dicono. Secondo indiscrezioni, tuttavia, gli investigatori milanesi inviati al domicilio di dell’Utri non lo avrebbero effettivamente trovato in casa. Sulla circostanza, però, viene mantenuto il massimo riserbo.

Nei mesi scorsi la Corte d’appello di Palermo aveva respinto per due volte consecutive la richiesta di divieto d’espatrio avanzata dal pg Luigi Patronaggio. Due giorni fa invece la svolta. Accolta la richiesta di arresto per il pericolo di fuga all’estero. All’origine della decisione, oltre agli accertamenti della Dia che da tempo tenevano sotto controllo l’imputato, una intercettazione che risale a novembre, in cui il fratello di Dell’Utri, Alberto, parlando col proprietario del ristorante Assunta Madre di Roma Vincenzo Mancuso, dice di “accelerare i tempi” e fa riferimento alla Guinea che “concede facilmente i passaporti diplomatici”.

A eseguire l’intercettazione ambientale che aveva allertato gli inquirenti era stata la Procura di Roma, “nell’ambito di una inchiesta per riciclaggio su un’imprenditore calabrese, Gianni Micalusi, l’8 novembre scorso, ed era stata subito trasmessa all’estero”. In risposta Mancuso chiede al fratello dell’ex senatore se non ha mai pensato “di farsi nominare ambasciatore della Guinea”. Un’ipotesi a cui Alberto Dell’Utri rispondeva facendo riferimento a un “retroscena” che aveva a che fare con “un personaggio che ha sposato la figlia del presidente africano”. E sull’ipotesi del Libano spiegava che l’ex parlamentare aveva cenato ” a Roma con un politico importante del Libano, che si candida presidente”.

Destini incrociati quelli dell’ex senatore e dell’ex Cavaliere, che ha sempre difeso l’amico, oggi come ieri. Nelle 447 pagine della condanna di appello dello scorso 5 settembre proprio la terza corte d’appello di Palermo, presieduta da Lo Forti, si mette nero sul bianco come quei destini si fossero anche intrecciati con la mafia: un vero e proprio patto che ha visto sedersi allo stesso tavolo due contraenti d’eccezione: da una parte Silvio Berlusconi, dall’altra parte Cosa Nostra. Mediatore dell’accordo era Marcello Dell’Utri. Secondo i giudici l’ex premier elargiva somme di denaro ai boss, che in cambio gli avevano assicurato protezione totale, grazie a Vittorio Mangano, non solo lo stalliere di Arcore appassionato di cavalli che divenne eroe di Berlusconi e Dell’Utri, ma soprattutto boss di Porta Nuova spedito a Villa San Martino per fare da bodyguard all’allora imprenditore su mandato della Piovra: “La genesi del rapporto che ha legato l’imprenditore e la mafia con la mediazione di Dell’Utri” scriveva è rappresentata “nell’incontro avvenuto a maggio 1974, cui erano presenti Gaetano Cinà, Dell’Utri, Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Berlusconi”. Un vis-a-vis raccontato per la prima volta dal pentito Francesco Di Carlo, ritenuto provato già in primo grado, e che era stato ritenuto provato anche dai giudici d’appello che lo collocano tra il 16 e il 29 maggio del 1974.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04 ... no/947701/
camillobenso
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Mafia, i giudici: “Dell’Utri mediatore del patto tra Berlusconi e Cosa nostra”
Depositate le motivazioni della condanna in appello dell'ex senatore Pdl. "Condotta illecita andata avanti per un ventennio, nessun imbarazzo nei rapporti con i mafiosi". E il futuro premier "abbandonò il proposito di farsi proteggere con rimedi istituzionali". La Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza chiedendo di motivare meglio la colpevolezza per gli anni tra il 1977 e il 1992

di Giuseppe Pipitone | 5 settembre 2013Commenti (725)
Marcello dell'Utri


Un vero e proprio patto che ha visto sedersi allo stesso tavolo due contraenti d’eccezione: da una parte Silvio Berlusconi, dall’altra parte Cosa Nostra. Mediatore dell’accordo era Marcello Dell’Utri. L’ex premier elargiva somme di denaro ai boss, che in cambio gli avevano assicurato protezione totale, grazie a Vittorio Mangano, non solo lo stalliere di Arcore appassionato di cavalli che divenne eroe di B e Dell’Utri, ma soprattutto boss di Porta Nuova spedito a Villa San Martino per fare da bodyguard all’allora imprenditore meneghino su mandato della Piovra.

Nelle 447 pagine che costituiscono le motivazioni della sentenza che ha condannato l’ex senatore del Pdl a sette anni di carcere, la terza corte d’appello di Palermo mette nero su bianco le modalità che hanno avvicinato Berlusconi a Cosa Nostra tramite lo stesso Dell’Utri. “La genesi del rapporto che ha legato l’imprenditore e la mafia con la mediazione di Dell’Utri” scrive la corte presieduta da Raimondo Lo Forti, è rappresentata “nell’incontro avvenuto a maggio 1974, cui erano presenti Gaetano Cinà, Dell’Utri, Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Berlusconi”. Un vis-a-vis raccontato per la prima volta dal pentito Francesco Di Carlo, ritenuto provato già in primo grado, e che adesso viene ritenuto provato anche dai giudici d’appello che lo collocano tra il 16 e il 29 maggio del 1974: quel giorno Dell’Utri si trova nel suo ufficio di Milano, per incontrare alcune persone.

“Un incontro – spiegano i giudici – organizzato da lui stesso e Cina’ a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell’Utri, Gaetano Cina’, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l’assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi”. È quello il primo contatto tra B e i boss di Cosa Nostra. Un incontro che i magistrati definiscono come un vero e proprio contratto, con tanto di parti e mediatore. “In virtù di tale patto i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra) e il mediatore contrattuale (Marcello Dell’Utri), legati tra loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile, costituito dalla garanzia della protezione personale dell’imprenditore mediante l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Marcello Dell’Utri che, mediando i termini dell’accordo, ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante l’ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro”.

Sono i primi anni ’70, gli imprenditori rampanti in Lombardia vengono rapiti, e il giovane Silvio Berlusconi ha paura. Quell’incontro però cambia la sua vita, personale e professionale. Per sempre. “E’ da questo incontro -scrive infatti la corte- che l’imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito (da cui non è parso, invero, mai sfiorato) di farsi proteggere dai rimedi istituzionali, è rientrato sotto l’ombrello della protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione”. Una protezione molto onerosa, inaugurata pochi giorni dopo quell’incontro del 1974 con il pagamento di circa 100 milioni di lire al boss Cinà. In questo do ut des Dell’Utri era il tramite, l’uomo cerniera che teneva i contatti tra Palermo e Milano. Contatti consapevoli, “andati avanti nell’arco di un ventennio, tutt’altro che episodici, oltre che estremamente gravi e profondamente lesivi di interessi di rilevanza costituzionale”.

Dell’Utri insomma non ha paura dei boss, non è una loro vittima, come si è giustificato a più riprese. “Non è possibile affermare che Marcello Dell’Utri sia stato una vittima associata in tale destino all’amico Berlusconi. Né può sostenersi – proseguono i giudici – che Dell’Utri, dopo avere intrattenuto così a lungo rapporti personali con boss mafiosi del calibro di Bontade, non sia stato consapevole delle finalità perseguite dall’associazione mafiosa. L’imputato aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da Cosa nostra che l’efficacia causale della sua attività per il mantenimento e il rafforzamento di Cosa nostra”.

I giudizi messi nero su bianco dalla corte sono durissimi: “La personalità dell’imputato – scrivono i della terza sezione d’appello di Palermo- appare connotata da una naturale propensione a entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo”.

L’ex senatore del Pdl insomma è il vero e proprio trait d’union che aggancia Berlusconi per conto di Cosa Nostra: prima in nome dei palermitani di Stefano Bontade, poi – dopo la seconda guerra di mafia – per conto dei corleonesi di Riina. I giudici infatti individuano nella condotta di Dell’Utri “rapporti di assoluta confidenza e mai condizionati dal timore evocato dall’imputati, l’atteggiamento di mediazione sperimentato con Totò Riina nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e fino al 1992, sono del tutto incompatibili con il rapporto che lega l’estortore alla vittima. Del resto, Dell’Utri non ha mai dimostrato di temere i contatti con i boss mafiosi e di concludere accordi con loro”. Per i giudici insomma l’ex senatore del Pdl “ha ritenuto di agire in sinergia con l’associazione”. Una triangolazione, quello tra l’ex senatore, Cosa Nostra e Berlusconi, che si riproduce almeno per un lungo ventennio.

Scrivono i giudici: “In tutto il periodo di tempo oggetto della contestazione, cioè dal 1974 al 1992, ha con pervicacia ritenuto di agire in sinergia attiva con l’associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l’anti-Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell’imprenditore milanese e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell’associazione”. Nel marzo del 2012 la Corte di Cassazione aveva ordinato un nuovo processo d’appello per l’ex senatore del Pdl, chiedendo che venisse provata la continuità del reato di concorso esterno anche tra il 1977 e il 1982, quando Dell’Utri si allontana da Arcore, per andare a lavorare da un altro imprenditore, Filippo Alberto Rapisarda.

“Non sussiste dubbio alcuno – spiegano questa volta i giudici del secondo processo d’appello – sulla prosecuzione dei pagamenti da parte di Berlusconi a Cosa nostra sulla base dell’accordo siglato nel 1974. Berlusconi ha sempre accordato una personale preferenza al pagamento di somme come metodo di risoluzione preventiva dei problemi posti dalla criminalità”. E anche durante i suoi trascorsi agli ordini di Rapisarda, Dell’Utri non interrompe i contatti con Arcore, “pronto a intervenire per tutelare le ragioni di Berlusconi che in un certo periodo si sentiva tartassato o per mediare, in seguito, le pretese di Riina che aveva imposto il raddoppio della somma”.

Rapisarda avrebbe assunto Dell’Utri su richiesta sempre dello stesso Cinà, che aveva fatto i nomi di Bontade e Teresi. Ed è proprio a Bontade e Teresi che l’ex senatore chiedere “20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5”. Fattispecie che porta i giudici a scrivere come l’ex senatore non abbia “mai provato nessun imbarazzo o indignazione nell’intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo. Dell’Utri, pur non essendo intraneo all’associazione mafiosa ha voluto consapevolmente interagire sinergicamente con soggetti acclaratamente mafiosi, rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un’attività di sostegno all’associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento”.

Adesso la Corte di Cassazione ha tempo fino all’estate prossima per decidere sulla la sorte di quello che viene descritto dai giudici come un vero e proprio ambasciatore delle cosche di stanza ad Arcore: dopo scatterà la prescrizione.

Twitter: @pipitone87

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Re: Fuori la mafia dallo stato

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Dell’Utri, per i giudici fu l’”uomo cerniera” con Cosa nostra. Fino al 1992
La condanna a sette anni per concorso esterno nel nuovo processo d'appello arriva dopo vent'anni di inchiesta. La Corte d'appello di Palermo riconosce l'ex senatore Pdl colpevole fino agli anni che precedono la nascita di Forza Italia. La reazione: "Mi accusano solo perché ho conosciuto Mangano e Cinà"

di Giuseppe Pipitone | 25 marzo 2013Commenti (68)


Otto mesi di udienze, due processi di appello, un’inchiesta lunga vent’anni e appena sei ore di camera di consiglio per decretare che Marcello Dell’Utri è stato effettivamente l’uomo cerniera tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. I giudici della terza sezione della corte d’appello di Palermo hanno dato ragione al sostituto procuratore generale Luigi Patronaggio, condannando l’ex senatore del Pdl a sette anni di carcere. “La corte conferma la sentenza del primo processo d’appello” ha detto il presidente Raimondo Lo Forti, leggendo la sentenza in pochi minuti. A pochi metri da lui l’ex senatore del Pdl incassava il colpo non tradendo la minima emozione. “E pigliamoci pure questa – è stato il commento a caldo di Dell’Utri che si è rapidamente allontanato tra la pioggia – posso essere accusato di concorso esterno solo perché ho conosciuto Mangano e Cinà? Negli anni ’70 era normale conoscere persone che poi si sarebbero rivelate mafiose. Anzi era un’ambizione”.

Ma non si tratta soltanto di Vittorio Mangano. Anche per i giudici del secondo processo d’appello Dell’Utri ha agevolato tutta Cosa Nostra dopo il 1977. ”Cu mancia fa muddichi (chi mangia fa briciole). Io ho voluto volare alto e per questo sono incappato in questi processi favola. Se ti stai fermo non ti sporchi” era stato il commento di Dell’Utri poco prima che i giudici uscissero dalla camera di consiglio.

Le indagini sull’ex senatore del Pdl erano cominciate nel 1994. Dopo una condanna a nove anni in primo grado, nel 2010 Dell’Utri era stato condannato a sette anni di carcere nel primo processo di appello. Nel marzo scorso però la Cassazione aveva sancito che non erano stati sufficientemente provati i rapporti tra Dell’Utri e Cosa Nostra tra il 1977 e il 1982: è il periodo in cui l’ex senatore si allontana da Berlusconi per andare a lavorare dal finanziere palermitano Filippo Alberto Rapisarda. È proprio per colmare quel buco investigativo che gli ermellini avevano ordinato un secondo processo d’appello.

Erano stati già provati oltre ogni ragionevole dubbio invece i rapporti tra Cosa Nostra e Dell’Utri fino al 1977. Sono gli anni in cui il futuro fondatore di Forza Italia conduce da Berlusconi le richieste estorsive di Cosa Nostra che negli affari milanesi avrebbe investito cospicue somme di denaro, come rivelato da collaboratori di giustizia del calibro di Domenico Di Carlo, Antonino Giuffrè e Gaetano Grado. E per “blindare” il rapporto con B, Cosa Nostra inviò ad Arcore un pezzo da novanta: Vittorio Mangano, eroico stalliere per l’ex premier e per l’ex senatore, boss di rango nella storia di Cosa Nostra.

Ma i rapporti tra la Piovra e il futuro presidente del consiglio continuarono almeno fino al 1992, con Berlusconi parte lesa e Dell’Utri mediatore e garante degli interessi di Cosa Nostra sul ras di Arcore. Interessi che per gli ermellini si sono fermati però proprio all’alba della nuova avventura politica, che con Forza Italia, il nuovo partito targato Dell’Utri, lancia B alla guida del Paese. Un periodo in cui i contatti di Dell’Utri con Cosa Nostra, nel processo per concorso esterno, non sono stati sufficientemente provati.

Del periodo post ’92 si occuperanno i giudici del processo sulla Trattativa tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra, che inizierà a maggio e dove Dell’Utri è imputato per violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. I contatti precedenti tra l’ex senatore e la mafia hanno invece incassato il secondo bollo di conferma in appello. Adesso è corsa contro il tempo per la prescrizione, che scatterà nel giugno del 2014. Se la suprema corte dovesse confermare la sentenza di condanna a sette anni entro quella data per Dell’Utri si aprirebbero le porte del carcere. In caso l’ex senatore sarebbe un condannato in via definìtiva per concorso esterno a Cosa Nostra, ma prescritto. “Diceva Andreotti che la prescrizione è meglio di niente” ha commentato il diretto interessato.

“Dell’Utri è un manager intellettuale o un uomo che nel male ha vissuto inquinando la vita politica e imprenditoriale di questo Paese agevolando gli interessi di Cosa Nostra?” si era chiesto il pg Patronaggio nella sua requisitoria. Oggi i giudici gli hanno fornito una risposta optando per la seconda ipotesi.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03 ... 92/542050/
paolo11
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Re: Fuori la mafia dallo stato

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Dell’Utri è espatriato.Berlusconi per ora rimane qui a scontare la pena.Poi quando arriveranno le sentenze Rubi, e quella di aver comprato dei senatori.Forse tagliera la corda pure lui.
Ciao
Paolo11
paolo11
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Re: Fuori la mafia dallo stato

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Vergognosa tagliola al Senato sul 416/ter. Pd, Forza Italia, Nuovo Centro Destra, Scelta Civica hanno imposto la fine del dibattito generale, tappando così la bocca a 27 rappresentanti del Movimento 5 Stelle iscritti a parlare. Zanda (Pd), Susta (Scelta Civica), Ghedini (Pd), Cirinnà (Pd), Sacconi (Nuovo Centro Destra), Palma (Forza Italia), Romani (Forza Italia), ecco i nomi degli antidemocratici che hanno tolto la parola ai rappresentanti del Movimento 5 Stelle. Faceva male alle loro orecchie sentire in continuazione la nostra denuncia sulla vergognosa riduzione di pene per chi fa scambio politico-mafioso decisa alla Camera con l'accordo Pd-Forza Italia-Ncd, che ha distrutto quanto di buono costruito nei mesi scorsi al Senato con il contributo del Movimento 5 Stelle. Il Movimento 5 Stelle ora lotterà in aula con gli emendamenti chiedendo di ripristinare il testo licenziato a gennaio al Senato. Testo che prevede le pene di 7 e 12 anni, la sole che assicurerebbero il carcere e l'interdizione a vita dai pubblici uffici per i politici collusi con le mafie. Pene che vergognosamente Pd e Forza Italia hanno ridotto del 40%".
Maurizio Buccarella, M5S Senato
http://www.beppegrillo.it/2014/04/ghigliottina_co.html
Ciao
Paolo11
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