La degenerazione di un mestiere non facile
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La degenerazione di un mestiere non facile
Negli ultimi anni le forme di degenerazione delle forze dell'ordine stanno lasciando il segno nella società italiana.
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Legato mani e piedi foto shock per la polizia
(Michele Serra).
07/06/2014 di triskel182
C’È una zona di confine, in ogni società, nella quale vivono a stretto contatto quelli che sbagliano (per dolo o per debolezza) e quelli che devono fare rispettare le regole.
Se anche quelli che devono fare rispettare le regole a loro volta le infrangono, passando nel campo di quelli che sbagliano, è inevitabile e giusto che si sollevi scandalo.
UNA parte delle forze dell’ordine (vedi l’indecoroso e indimenticabile applauso del sindacato Sap ai quattro agenti responsabili della morte di Aldrovandi) è convinta, per cieco corporativismo oppure — ed è peggio — perché di cultura politica manesca, che questo scandalo sia ingiusto e pretestuoso; e sia sollevato contro le persone che lavorano in uniforme per screditarle e per indebolirne l’autorevolezza e il ruolo.
Un’altra parte, fortunatamente, ha oramai capito non solamente che lo scandalo è sacrosanto, perché riguarda il rispetto dei diritti dei cittadini e l’esercizio dell’autorità in una democrazia; ha anche capito che è uno scandalo utile proprio alle forze dell’ordine, e almeno per due ragioni: perché richiama al significato (alto) del proprio ruolo gli agenti e i militari che lavorano in difesa della comunità e delle sue leggi; e perché fa capire le condizioni di precarietà e di difficoltà nelle quali questo lavoro non di rado si svolge.
La scarsità dei mezzi e delle strutture, i salari rachitici, gli organici perennemente inadeguati sono sicuramente altrettante concause del nervosismo a volte deragliante dei protagonisti in uniforme dei tanti, troppi episodi di violenza incontrollata contro soggetti che si rivelano, sempre più spesso, ragazzi in difficoltà o poveri cristi bisognosi di soccorso. Si immagina che “ridurre alla ragione” queste persone sia la molla che fa scattare quel vero e proprio abuso di potere che alimenta le botte, e in alcuni casi le vere e proprie torture, salite alla ribalta della cronaca (nera) degli ultimi anni. Con tumefazioni e ferite, anche mortali, su corpi presi in consegna da uomini dello Stato e dunque doppiamente inaccettabili, perché la profanazione della persona avviene per mano di chi avrebbe il compito di proteggerla (anche dalle proprie azioni).
Per esempio, e senza avere la presunzione di poter mettere a fuoco nei dettagli la storia che questa brutta fotografia racconta, è immaginabile che se un commissariato o caserma avesse a disposizione una camera di sicurezza, agli agenti che lì operano non verrebbe in mente di legare mani e piedi uno sconosciuto seminudo e buttato in terra. È come per la questione delle carceri: la penuria e la decrepitezza delle strutture, sovraffollate fino all’inverosimile, favorisce l’incanaglirsi dei rapporti, la violenza etero e auto inflitta, l’umiliazione della persona fino alla sua cancellazione. Allo stesso modo lavorare male e lavorare in pochi sul fronte, certamente difficile, dell’ordine pubblico, se non autorizza un così scadente autocontrollo certo non favorisce lucidità e senso della misura.
È importante, dunque, che la denuncia di quanto accade — anche quando “mette in cattiva luce” chi indossa un’uniforme — cominci a provenire anche dai commissariati e dalle caserme. Che siano i lavoratori interessati, gli uomini dello Stato e i loro sindacati a considerare vitale, per il loro futuro professionale e la loro dignità di cittadini, questa difficile discussione. Anche quando è dolorosa. L’omertà, per altro, è una regola tipica del crimine e/o di una concezione tribale o castale dei diritti e dei doveri. Una polizia che cominci a discutere seriamente dei suoi casi spinosi, specialmente di tragedie emblematiche come quelle di Aldrovandi, Uva, Cucchi, Mogherini, non può che diventare una polizia migliore.
Da La Repubblica del 07/06/2014.
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Legato mani e piedi foto shock per la polizia
(Michele Serra).
07/06/2014 di triskel182
C’È una zona di confine, in ogni società, nella quale vivono a stretto contatto quelli che sbagliano (per dolo o per debolezza) e quelli che devono fare rispettare le regole.
Se anche quelli che devono fare rispettare le regole a loro volta le infrangono, passando nel campo di quelli che sbagliano, è inevitabile e giusto che si sollevi scandalo.
UNA parte delle forze dell’ordine (vedi l’indecoroso e indimenticabile applauso del sindacato Sap ai quattro agenti responsabili della morte di Aldrovandi) è convinta, per cieco corporativismo oppure — ed è peggio — perché di cultura politica manesca, che questo scandalo sia ingiusto e pretestuoso; e sia sollevato contro le persone che lavorano in uniforme per screditarle e per indebolirne l’autorevolezza e il ruolo.
Un’altra parte, fortunatamente, ha oramai capito non solamente che lo scandalo è sacrosanto, perché riguarda il rispetto dei diritti dei cittadini e l’esercizio dell’autorità in una democrazia; ha anche capito che è uno scandalo utile proprio alle forze dell’ordine, e almeno per due ragioni: perché richiama al significato (alto) del proprio ruolo gli agenti e i militari che lavorano in difesa della comunità e delle sue leggi; e perché fa capire le condizioni di precarietà e di difficoltà nelle quali questo lavoro non di rado si svolge.
La scarsità dei mezzi e delle strutture, i salari rachitici, gli organici perennemente inadeguati sono sicuramente altrettante concause del nervosismo a volte deragliante dei protagonisti in uniforme dei tanti, troppi episodi di violenza incontrollata contro soggetti che si rivelano, sempre più spesso, ragazzi in difficoltà o poveri cristi bisognosi di soccorso. Si immagina che “ridurre alla ragione” queste persone sia la molla che fa scattare quel vero e proprio abuso di potere che alimenta le botte, e in alcuni casi le vere e proprie torture, salite alla ribalta della cronaca (nera) degli ultimi anni. Con tumefazioni e ferite, anche mortali, su corpi presi in consegna da uomini dello Stato e dunque doppiamente inaccettabili, perché la profanazione della persona avviene per mano di chi avrebbe il compito di proteggerla (anche dalle proprie azioni).
Per esempio, e senza avere la presunzione di poter mettere a fuoco nei dettagli la storia che questa brutta fotografia racconta, è immaginabile che se un commissariato o caserma avesse a disposizione una camera di sicurezza, agli agenti che lì operano non verrebbe in mente di legare mani e piedi uno sconosciuto seminudo e buttato in terra. È come per la questione delle carceri: la penuria e la decrepitezza delle strutture, sovraffollate fino all’inverosimile, favorisce l’incanaglirsi dei rapporti, la violenza etero e auto inflitta, l’umiliazione della persona fino alla sua cancellazione. Allo stesso modo lavorare male e lavorare in pochi sul fronte, certamente difficile, dell’ordine pubblico, se non autorizza un così scadente autocontrollo certo non favorisce lucidità e senso della misura.
È importante, dunque, che la denuncia di quanto accade — anche quando “mette in cattiva luce” chi indossa un’uniforme — cominci a provenire anche dai commissariati e dalle caserme. Che siano i lavoratori interessati, gli uomini dello Stato e i loro sindacati a considerare vitale, per il loro futuro professionale e la loro dignità di cittadini, questa difficile discussione. Anche quando è dolorosa. L’omertà, per altro, è una regola tipica del crimine e/o di una concezione tribale o castale dei diritti e dei doveri. Una polizia che cominci a discutere seriamente dei suoi casi spinosi, specialmente di tragedie emblematiche come quelle di Aldrovandi, Uva, Cucchi, Mogherini, non può che diventare una polizia migliore.
Da La Repubblica del 07/06/2014.
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