Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
Bancari, ecco il costo del lavoro in Italia e in Europa
di Nicola Borzi24 gennaio 2012-Il sole 24 ore
Il più remunerato del paniere, cioè un bancario di Deutsche Bank, nel 2010, costava in media 166mila 450 euro circa: cioè il 133% in più della media del campione. Il meno costoso era l'addetto dello spagnolo Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (Bbva): appena 45.700 euro circa l'anno, cioè oltre un terzo meno della media. La più generosa delle banche italiane analizzate era la Popolare di Milano, con 81.400 euro medi l'anno, il 15,5% in più della media continentale (ma il 37% circa oltre la media nazionale di 56.300 euro circa), che la spingevano addirittura al terzo posto nel campione analizzato, alle spalle di Db e dell'inglese Barclays (95.100 euro medi l'anno, il 35% in più della media). Sorpresa? No, visti i rilievi di Banca d'Italia contro le interferenze nelle politiche di remunerazione e promozioni (a pioggia) dell'associazione dei dipendenti soci Amici.
In Europa svettavano anche Credem (quarta, con 75.500 euro circa, il 27% in più del dato medio italiano) e le due grandi Popolari del Nord Italia: Banco Popolare (quinta, 74.800 euro, 26% oltre la media italiana) e Ubi (settima, 73.200 euro, 23% in più del bancario italiano). Appena sotto la media continentale, ma il 16% sopra quella nazionale, il Monte dei Paschi di Siena con un costo medio unitario per addetto nel 2010 di poco meno di 68.900 euro. Molto lontani invece, a fondo classifica, i due campioni nazionali: UniCredit era quint'ultima, con meno di 56.300 euro procapite, il 20% sotto la media del campione e il 5,4% meno di quella italiana; infine Intesa Sanpaolo, con 53.415 euro per addetto, era la penultima del campione con un distacco del 24% dalla media del campione e di oltre il 10% da quella degli istituti italiani analizzati.
Mi sembra che in confronto alla media dei redditi dei lavoratori dipendenti diplomati o laureati, pubblici o privati, quelli dei dipendenti delle banche siano comunque ad un livello superiore non di poco, per non parlare della differenza degli alti menager ,pubblici e privati, rispetto a quelli del resto d'Europa.
Detto questo mi sembra che ,prima di reclamare in Europa per sforare il fatidico 3%, dobbiamo mettere a posto gli squilibri che ci sono nel nostro paese in cui la differenza tra ricchi e poveri è superiore che negli altri paesi
di Nicola Borzi24 gennaio 2012-Il sole 24 ore
Il più remunerato del paniere, cioè un bancario di Deutsche Bank, nel 2010, costava in media 166mila 450 euro circa: cioè il 133% in più della media del campione. Il meno costoso era l'addetto dello spagnolo Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (Bbva): appena 45.700 euro circa l'anno, cioè oltre un terzo meno della media. La più generosa delle banche italiane analizzate era la Popolare di Milano, con 81.400 euro medi l'anno, il 15,5% in più della media continentale (ma il 37% circa oltre la media nazionale di 56.300 euro circa), che la spingevano addirittura al terzo posto nel campione analizzato, alle spalle di Db e dell'inglese Barclays (95.100 euro medi l'anno, il 35% in più della media). Sorpresa? No, visti i rilievi di Banca d'Italia contro le interferenze nelle politiche di remunerazione e promozioni (a pioggia) dell'associazione dei dipendenti soci Amici.
In Europa svettavano anche Credem (quarta, con 75.500 euro circa, il 27% in più del dato medio italiano) e le due grandi Popolari del Nord Italia: Banco Popolare (quinta, 74.800 euro, 26% oltre la media italiana) e Ubi (settima, 73.200 euro, 23% in più del bancario italiano). Appena sotto la media continentale, ma il 16% sopra quella nazionale, il Monte dei Paschi di Siena con un costo medio unitario per addetto nel 2010 di poco meno di 68.900 euro. Molto lontani invece, a fondo classifica, i due campioni nazionali: UniCredit era quint'ultima, con meno di 56.300 euro procapite, il 20% sotto la media del campione e il 5,4% meno di quella italiana; infine Intesa Sanpaolo, con 53.415 euro per addetto, era la penultima del campione con un distacco del 24% dalla media del campione e di oltre il 10% da quella degli istituti italiani analizzati.
Mi sembra che in confronto alla media dei redditi dei lavoratori dipendenti diplomati o laureati, pubblici o privati, quelli dei dipendenti delle banche siano comunque ad un livello superiore non di poco, per non parlare della differenza degli alti menager ,pubblici e privati, rispetto a quelli del resto d'Europa.
Detto questo mi sembra che ,prima di reclamare in Europa per sforare il fatidico 3%, dobbiamo mettere a posto gli squilibri che ci sono nel nostro paese in cui la differenza tra ricchi e poveri è superiore che negli altri paesi
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
La lezione americana sulla crisi dell'auto
di BARBARA SPINELLI
Quando le crisi sono devastanti non si può fare a meno dello Stato, perché solo quest'ultimo è in grado di metter fine alla devastazione, solo il pubblico sa scommettere sul futuro senza pretendere l'immediato profitto cercato da cerchie sempre più ristrette di privati. Parlando con Ezio Mauro, nell'intervista del 10 gennaio, Sergio Marchionne dice questo, in sostanza, e l'ammissione è importante. Lo dice raccontando una storia di successo - la fusione tra Fiat e Chrysler - e tutte le fiabe sul mercato che guarisce senza Stato si sbriciolano.
Senza quasi accorgersene, l'amministratore delegato ridipinge anche l'immagine di se stesso: la figura thatcheriana dell'imprenditore che sfianca i sindacati più resistenti, promettendo un capitalismo che distruggendo crea, e poco importa se la società si disintegra. Si sbriciola anche quest'illusione, se c'è stata. Le Grandi Depressioni non sono redentrici; la Fabbrica Italia su cui giurò nell'estate 2012 è fallita.
La frase chiave nella narrazione di Marchionne mi è parsa la seguente: "La nostra fortuna è stata di poter trattare direttamente con il Tesoro (americano), con la task force del Presidente Obama: non con i creditori di Chrysler, come voleva la vecchia logica. Se no, oggi non saremmo qui". L'idea era di far rinascere Fiat "in forma completamente diversa", e solo lo Stato federale Usa poteva
fronteggiare - mettendoci la faccia, e i soldi - una crisi depressiva che Marchionne definisce "spaventosa" ("I manager uscivano per strada con gli scatoloni perché le aziende chiudevano (...) non so se mi spiego"). In ogni grande svolta, specialmente quando spavento e cupidigia divorano i mercati, solo la forza pubblica possiede lo sguardo lungo, il dovere solidale, la temerarietà, di cui son sprovviste le vecchie logiche.
L'amministratore delegato non lo dice espressamente ma la vecchia logica è quella, tuttora spadroneggiante, del mercato che crolla e si rialza come Lazzaro, senza però che nessuno lo richiami in vita. Si rialza spontaneamente, come Marchionne forse immaginò per un certo tempo: tagliando i costi del lavoro, secernendo guerre tra poveri, e tra poveri e sindacati. La redenzione è mancata: non poteva venire dagli investitori, né dal "sistema digestivo delle banche che si era bloccato".
La crisi iniziata nel 2007-2008 ha mostrato quel che pure era evidente, dopo i disastri degli ultimi secoli e in particolare dopo la Depressione del '29. Il dogma del laissez-faire, dell'economia lasciata libera di farsi e disfarsi senza obblighi speciali, dello Stato che deve sottomettersi a questa benevola legge naturale e restringere al massimo la sua presenza, regolarmente s'è infranto contro il muro, smentito dai fatti. Obama ha "creduto" al progetto Fiat, e a un certo punto ha scavalcato gli spiriti animali del mercato (creditori, banche), incapaci di credere e digerire alcunché. Dice Marchionne che gli americani, a differenza degli europei e degli italiani, hanno una propensione, "quasi naturale", a incoraggiare i cambiamenti, la voglia di ripartire: ad "aprirsi al mondo e non chiudersi in casa, soprattutto quando intorno c'è tempesta".
Proprio la sua narrazione tuttavia cela una verità più profonda: questa propensione non è affatto naturale. Si risveglia quando la forza pubblica programma le mutazioni, dedica loro risorse. Quel che Baudelaire scrive a proposito del bello e della ragione vale anche per l'economia: tutte le azioni e i desideri del puro uomo naturale sono mortifere; tutto quel che è nobile e bello nasce dalla ragione e dal calcolo, dalla filosofia, dalle religioni e dall'artificio. Dal maquillage: da trucchi e belletti.
Così avvenne dopo la Grande Depressione, quando Roosevelt lanciò il suo New Deal, il patto contro la paura e la povertà. Il vecchio continente non fu da meno, e in fondo è ingiusto dire che noi europei, per cultura e storia, "siamo condizionati dal passato, e l'idea di chiuderlo per far nascere una cosa nuova ci spaventa". Fu cosa nuova pensare, nel mezzo dell'ultima guerra, due cose simultaneamente: l'unità economica e politica dell'Europa, e lo scudo contro povertà e depressioni che è il Welfare. William Beveridge, che del Welfare fu l'artefice, si batté per ambedue gli obiettivi.
L'Europa non è geneticamente meno innovativa degli Stati Uniti. Se ha perso questa capacità, se come un Politburo s'aggrappa alla linea dell'austerità quasi fosse una linea di partito, se lo Stato italiano è un motore che ingoia le ricette recessive senza muoversi, non vuol dire che ereditariamente siamo inadatti. Significa che non possediamo l'ambizione politica - dunque la corporatura geografica - su cui può contare Obama, che non a caso si richiama più volte a Roosevelt. Non dimentichiamo che l'assistenza sanitaria universale è invenzione europea. Che Obama non sa come imporla a una destra enormemente sospettosa verso lo Stato. Chiudere il passato è difficile per lui come per noi. Anche lì capita che "porti un'idea nuova e trovi subito dieci obiezioni", come Marchionne dice dell'Italia.
Non so cosa pensi Marchionne della crisi nata nel 2007, ma qui importa il suo racconto e il racconto conferma che all'origine del male c'è l'assoggettamento dei poteri pubblici alle forze spontanee del mercato, al "puro uomo naturale". Un assoggettamento che continua a dispetto dei traumi subiti, come se il rimedio all'intossicazione fosse il veleno stesso che l'ha causata.
Questo perché l'economia del laissez-faire resta un'ideologia, proprio come ai tempi in cui John Maynard Keynes ne denunciò le insidie, le menzogne. Il suo saggio del 1926 sulla "Fine del laissez-faire" andrebbe riletto ogni giorno dai Politburo europei e nazionali. Il liberismo del lasciar-fare è a suo parere un idolo appannato, un mostro letargico: sopravvive grazie all'inclinazione - perversa, comoda - a semplificare le complessità, a occultare le smentite. È una teoria darwinista, che seleziona il più forte e distrugge tutto quel che sta intorno: società, persone, Stati, democrazia. Chi vince, scrive Keynes, sono solo le giraffe col loro collo lunghissimo, che riescono a mangiare le ultime foglie rimaste in cima all'albero: gli animali col collo corto muoiono di fame. Il mercato lasciato a se stesso è quell'albero. Produce misantropia diffusa e diseguaglianze esiziali.
L'intervista di Marchionne è significativa perché avvalora la triste parabola delle giraffe: la recessione è alle spalle, ci dicono, la cima dell'albero è di nuovo piena di foglie, ma il prezzo è la sopravvivenza del più adatto. Anche la disuguaglianza è spaventosa, e spiega certe convergenze fra ideologi delusi del laissez-faire e i loro contestatori. Non è raro, ad esempio che il liberista Brunetta si dica d'accordo con Landini della Fiom, ancor ieri un eretico.
Non è detto che la svolta sia vicina. Non sappiamo se Marchionne ambisca sul serio a "dare forma e significato alla società del futuro". Se abbia ricordo del Piano Marshall da lui invocato nel giugno 2013: che creò coesione nazionale e stabilità, ma grazie a immensi investimenti pubblici in Europa. Se il "sogno di cooperazione industriale a livello mondiale" favorirà davvero la reintegrazione ("sempre che il mercato non crolli un'altra volta") di tutti i cassaintegrati Fiat.
Quel che resta, leggendo l'intervista, è l'amarezza per l'incapacità europea e italiana di attivarsi come Washington. L'Unione è divenuta una setta che riconosce i fatti solo se combaciano con le sue profezie e ideologie, scrive l'economista greco Yanis Varoufakis. Logica vorrebbe che fosse lei, per prima, a scommettere sulla "società del futuro". Dovrebbe metterci la faccia e i soldi, come Obama. Dovrebbe divenire una Federazione. Con la storia che ha potrebbe perfino riuscire meglio di Obama, prigioniero spesso delle destre antistataliste.
(15 gennaio 2014)
UNA CHIARA LEZIONE PER L'EUROPA
di BARBARA SPINELLI
Quando le crisi sono devastanti non si può fare a meno dello Stato, perché solo quest'ultimo è in grado di metter fine alla devastazione, solo il pubblico sa scommettere sul futuro senza pretendere l'immediato profitto cercato da cerchie sempre più ristrette di privati. Parlando con Ezio Mauro, nell'intervista del 10 gennaio, Sergio Marchionne dice questo, in sostanza, e l'ammissione è importante. Lo dice raccontando una storia di successo - la fusione tra Fiat e Chrysler - e tutte le fiabe sul mercato che guarisce senza Stato si sbriciolano.
Senza quasi accorgersene, l'amministratore delegato ridipinge anche l'immagine di se stesso: la figura thatcheriana dell'imprenditore che sfianca i sindacati più resistenti, promettendo un capitalismo che distruggendo crea, e poco importa se la società si disintegra. Si sbriciola anche quest'illusione, se c'è stata. Le Grandi Depressioni non sono redentrici; la Fabbrica Italia su cui giurò nell'estate 2012 è fallita.
La frase chiave nella narrazione di Marchionne mi è parsa la seguente: "La nostra fortuna è stata di poter trattare direttamente con il Tesoro (americano), con la task force del Presidente Obama: non con i creditori di Chrysler, come voleva la vecchia logica. Se no, oggi non saremmo qui". L'idea era di far rinascere Fiat "in forma completamente diversa", e solo lo Stato federale Usa poteva
fronteggiare - mettendoci la faccia, e i soldi - una crisi depressiva che Marchionne definisce "spaventosa" ("I manager uscivano per strada con gli scatoloni perché le aziende chiudevano (...) non so se mi spiego"). In ogni grande svolta, specialmente quando spavento e cupidigia divorano i mercati, solo la forza pubblica possiede lo sguardo lungo, il dovere solidale, la temerarietà, di cui son sprovviste le vecchie logiche.
L'amministratore delegato non lo dice espressamente ma la vecchia logica è quella, tuttora spadroneggiante, del mercato che crolla e si rialza come Lazzaro, senza però che nessuno lo richiami in vita. Si rialza spontaneamente, come Marchionne forse immaginò per un certo tempo: tagliando i costi del lavoro, secernendo guerre tra poveri, e tra poveri e sindacati. La redenzione è mancata: non poteva venire dagli investitori, né dal "sistema digestivo delle banche che si era bloccato".
La crisi iniziata nel 2007-2008 ha mostrato quel che pure era evidente, dopo i disastri degli ultimi secoli e in particolare dopo la Depressione del '29. Il dogma del laissez-faire, dell'economia lasciata libera di farsi e disfarsi senza obblighi speciali, dello Stato che deve sottomettersi a questa benevola legge naturale e restringere al massimo la sua presenza, regolarmente s'è infranto contro il muro, smentito dai fatti. Obama ha "creduto" al progetto Fiat, e a un certo punto ha scavalcato gli spiriti animali del mercato (creditori, banche), incapaci di credere e digerire alcunché. Dice Marchionne che gli americani, a differenza degli europei e degli italiani, hanno una propensione, "quasi naturale", a incoraggiare i cambiamenti, la voglia di ripartire: ad "aprirsi al mondo e non chiudersi in casa, soprattutto quando intorno c'è tempesta".
Proprio la sua narrazione tuttavia cela una verità più profonda: questa propensione non è affatto naturale. Si risveglia quando la forza pubblica programma le mutazioni, dedica loro risorse. Quel che Baudelaire scrive a proposito del bello e della ragione vale anche per l'economia: tutte le azioni e i desideri del puro uomo naturale sono mortifere; tutto quel che è nobile e bello nasce dalla ragione e dal calcolo, dalla filosofia, dalle religioni e dall'artificio. Dal maquillage: da trucchi e belletti.
Così avvenne dopo la Grande Depressione, quando Roosevelt lanciò il suo New Deal, il patto contro la paura e la povertà. Il vecchio continente non fu da meno, e in fondo è ingiusto dire che noi europei, per cultura e storia, "siamo condizionati dal passato, e l'idea di chiuderlo per far nascere una cosa nuova ci spaventa". Fu cosa nuova pensare, nel mezzo dell'ultima guerra, due cose simultaneamente: l'unità economica e politica dell'Europa, e lo scudo contro povertà e depressioni che è il Welfare. William Beveridge, che del Welfare fu l'artefice, si batté per ambedue gli obiettivi.
L'Europa non è geneticamente meno innovativa degli Stati Uniti. Se ha perso questa capacità, se come un Politburo s'aggrappa alla linea dell'austerità quasi fosse una linea di partito, se lo Stato italiano è un motore che ingoia le ricette recessive senza muoversi, non vuol dire che ereditariamente siamo inadatti. Significa che non possediamo l'ambizione politica - dunque la corporatura geografica - su cui può contare Obama, che non a caso si richiama più volte a Roosevelt. Non dimentichiamo che l'assistenza sanitaria universale è invenzione europea. Che Obama non sa come imporla a una destra enormemente sospettosa verso lo Stato. Chiudere il passato è difficile per lui come per noi. Anche lì capita che "porti un'idea nuova e trovi subito dieci obiezioni", come Marchionne dice dell'Italia.
Non so cosa pensi Marchionne della crisi nata nel 2007, ma qui importa il suo racconto e il racconto conferma che all'origine del male c'è l'assoggettamento dei poteri pubblici alle forze spontanee del mercato, al "puro uomo naturale". Un assoggettamento che continua a dispetto dei traumi subiti, come se il rimedio all'intossicazione fosse il veleno stesso che l'ha causata.
Questo perché l'economia del laissez-faire resta un'ideologia, proprio come ai tempi in cui John Maynard Keynes ne denunciò le insidie, le menzogne. Il suo saggio del 1926 sulla "Fine del laissez-faire" andrebbe riletto ogni giorno dai Politburo europei e nazionali. Il liberismo del lasciar-fare è a suo parere un idolo appannato, un mostro letargico: sopravvive grazie all'inclinazione - perversa, comoda - a semplificare le complessità, a occultare le smentite. È una teoria darwinista, che seleziona il più forte e distrugge tutto quel che sta intorno: società, persone, Stati, democrazia. Chi vince, scrive Keynes, sono solo le giraffe col loro collo lunghissimo, che riescono a mangiare le ultime foglie rimaste in cima all'albero: gli animali col collo corto muoiono di fame. Il mercato lasciato a se stesso è quell'albero. Produce misantropia diffusa e diseguaglianze esiziali.
L'intervista di Marchionne è significativa perché avvalora la triste parabola delle giraffe: la recessione è alle spalle, ci dicono, la cima dell'albero è di nuovo piena di foglie, ma il prezzo è la sopravvivenza del più adatto. Anche la disuguaglianza è spaventosa, e spiega certe convergenze fra ideologi delusi del laissez-faire e i loro contestatori. Non è raro, ad esempio che il liberista Brunetta si dica d'accordo con Landini della Fiom, ancor ieri un eretico.
Non è detto che la svolta sia vicina. Non sappiamo se Marchionne ambisca sul serio a "dare forma e significato alla società del futuro". Se abbia ricordo del Piano Marshall da lui invocato nel giugno 2013: che creò coesione nazionale e stabilità, ma grazie a immensi investimenti pubblici in Europa. Se il "sogno di cooperazione industriale a livello mondiale" favorirà davvero la reintegrazione ("sempre che il mercato non crolli un'altra volta") di tutti i cassaintegrati Fiat.
Quel che resta, leggendo l'intervista, è l'amarezza per l'incapacità europea e italiana di attivarsi come Washington. L'Unione è divenuta una setta che riconosce i fatti solo se combaciano con le sue profezie e ideologie, scrive l'economista greco Yanis Varoufakis. Logica vorrebbe che fosse lei, per prima, a scommettere sulla "società del futuro". Dovrebbe metterci la faccia e i soldi, come Obama. Dovrebbe divenire una Federazione. Con la storia che ha potrebbe perfino riuscire meglio di Obama, prigioniero spesso delle destre antistataliste.
(15 gennaio 2014)
UNA CHIARA LEZIONE PER L'EUROPA
Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
Proprio questa mattina, dopo aver trovato le farmacie intorno casa regolarmente chiuse, mi sono chiesto che fine hanno fatto i provvedimenti di "liberalizzazione" di Monti http://www.arealavoro.org/riforma-monti ... rmacie.htm
Inutile che il governo prenda decisioni se poi non vengono applicate
La macchina pubblica è un freno alla ripresa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 19 gennaio 2014
Ogni giorno abbiamo qualche medico che si avvicina al letto del paziente Italia con rigorose diagnosi, infauste prognosi e improbabili terapie.
Venerdì scorso abbiamo avuto addirittura due consulti di illustri primari: la Banca d’Italia e l’ormai onnipresente commissario europeo Olli Rehn. Sostanzialmente nulla di nuovo nella diagnosi: siamo ancora zoppi e camminiamo quindi più adagio degli altri, non solo degli extraeuropei, che corrono, ma anche dei paesi europei che, pur faticosamente, si sono rimessi in cammino.
Sulla prognosi si ribadisce che la guarigione sarà molto lenta (sostanzialmente al di sotto dell’uno per cento per i prossimi due anni) e che sarà quindi necessario un lungo periodo di riabilitazione. La Banca d’Italia ci ricorda inoltre che, nonostante questa timidissima ripresa, la disoccupazione tenderà ancora ad aumentare, date le evoluzioni delle nuove tecnologie e i mutamenti dei sistemi produttivi. Completamente d’accordo su quanto scritto, anche se bisognerà ritornare in modo specifico sulle cattive prospettive dell’occupazione, perché la rivoluzione in corso è più profonda rispetto a quanto non si prevedeva in precedenza.
In complesso sono un po’ triste ma non certo sorpreso per queste diagnosi. Certamente, se si fosse stati un po’ più prudenti nel dichiarare, fin da prima dell’estate, che eravamo in piena ripresa, oggi saremo meno delusi.
Il problema vero nasce dall’esame delle terapie. Si continua ad insistere sul controllo della spesa e sulle dismissioni (cioè le privatizzazioni e la vendita del patrimonio pubblico).
Nulla da obiettare sul controllo della spesa perché siamo di fronte a evoluzioni sostanzialmente inspiegabili, tenendo conto che essa è continuata ad aumentare pur in presenza di ben trecentomila addetti in meno nel settore pubblico. E’ vero che gli stipendi dei vertici dei funzionari pubblici sono arrivati a livelli superiori a quelli degli altri paesi ed è altrettanto vero che i “costi della politica” e l’aumento dei tassi di interesse del debito hanno contribuito ad appesantire il deficit. Il povero responsabile della “spending review” si trova perciò di fronte al difficilissimo compito di riesaminare da zero le spese del governo centrale e, soprattutto, quelle delle regioni e degli altri enti locali.
Sulla raccomandazione delle privatizzazioni bisogna invece essere ben chiari. L’Italia ha privatizzato il suo sistema produttivo più degli altri paesi europei e, anche se qualche piccola quota può essere messa in vendita, non possiamo certo pensare di alienare il pacchetto di comando di ENI, Enel, Finmeccanica o la quota di comproprietà col governo francese dell’STMicroelectronics, unica impresa di componenti elettronici avanzati che possediamo.
Nemmeno possiamo illudere noi stessi e gli altri di ricavare cospicue somme dalla vendita degli immobili pubblici. Non perché non ve ne sia un gran numero da alienare ma perché, realisticamente, queste operazioni non si mettono in atto quando il mercato immobiliare è a livelli così depressi come oggi in Italia. Sarebbe semplicemente una svendita, anche se condotta tramite i più sofisticati strumenti finanziari.
Vi è certo uno spazio maggiore per le alienazioni delle numerosissime aziende pubbliche locali, riguardo alle quali è necessario apprestare un progetto organico, accompagnato da una idonea strategia industriale ed organizzativa. Occorrono cioè direttive di politica industriale, sulle quali non ci si è ancora misurati.
Nelle terapie è stata, per fortuna, messa in secondo piano la diminuzione dei salari. Essa si è trasformata in un invito alla riduzione del cuneo fiscale, invito non certo facile da mettere in pratica, data la rigidità imposta ai nostri conti pubblici.
I sapienti medici europei, a partire dal primario Olli Rehn, sembrano tuttavia continuare a ignorare che il problema della mancata ripresa italiana deriva dalla crisi della domanda interna.
Occorre quindi una strategia volta a rivitalizzare la domanda interna.
Questa strategia passa prima di tutto attraverso la ripresa del credito alle famiglie e alle imprese. Negli ultimi mesi la provvista di credito ha continuato a calare, nonostante la minore tensione dei mercati finanziari. Tutte le ipotesi di intervento (a cominciare dalla Bad Bank) sono state lasciate nel cassetto.
Continuiamo quindi a vivere nella situazione paradossale in cui tutte le nostre strutture economiche, a cominciare dalle banche, sono sottocapitalizzate, pur in presenza di una liquidità senza precedenti.
Il governo ha opportunamente deciso di accelerare il pagamento dei debiti nei confronti delle imprese creditrici ma i pagamenti effettivi continuano a procedere con incredibile lentezza.
A questo punto arriviamo al nocciolo del problema, che è il funzionamento della macchina pubblica.
I provvedimenti del governo e del parlamento vengono presi e annunciati con grande solennità ma non vengono poi messi in atto, con tutte le conseguenze del caso.
Può essere solo un fatto folcloristico ricordare che, pochi mesi fa, erano ancora mancanti alcuni passaggi burocratici necessari per mettere in atto alcune liberalizzazioni decise dal ministro Bersani durante il mio governo, ma desta più preoccupazione notare che oltre la metà dei provvedimenti attuativi delle decisioni del governo Monti e una maggioranza bulgara di quelle del governo Letta debbono ancora essere scritti.
E’ inutile continuare a elencare l’importanza delle decisioni prese, se poi queste decisioni non hanno effetti concreti.
Questa non è però una cura che ci può essere imposta da Bruxelles perché i medici comunitari si fermano anch’essi a giudicare le decisioni formali e non la loro effettiva applicazione.
Inutile che il governo prenda decisioni se poi non vengono applicate
La macchina pubblica è un freno alla ripresa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 19 gennaio 2014
Ogni giorno abbiamo qualche medico che si avvicina al letto del paziente Italia con rigorose diagnosi, infauste prognosi e improbabili terapie.
Venerdì scorso abbiamo avuto addirittura due consulti di illustri primari: la Banca d’Italia e l’ormai onnipresente commissario europeo Olli Rehn. Sostanzialmente nulla di nuovo nella diagnosi: siamo ancora zoppi e camminiamo quindi più adagio degli altri, non solo degli extraeuropei, che corrono, ma anche dei paesi europei che, pur faticosamente, si sono rimessi in cammino.
Sulla prognosi si ribadisce che la guarigione sarà molto lenta (sostanzialmente al di sotto dell’uno per cento per i prossimi due anni) e che sarà quindi necessario un lungo periodo di riabilitazione. La Banca d’Italia ci ricorda inoltre che, nonostante questa timidissima ripresa, la disoccupazione tenderà ancora ad aumentare, date le evoluzioni delle nuove tecnologie e i mutamenti dei sistemi produttivi. Completamente d’accordo su quanto scritto, anche se bisognerà ritornare in modo specifico sulle cattive prospettive dell’occupazione, perché la rivoluzione in corso è più profonda rispetto a quanto non si prevedeva in precedenza.
In complesso sono un po’ triste ma non certo sorpreso per queste diagnosi. Certamente, se si fosse stati un po’ più prudenti nel dichiarare, fin da prima dell’estate, che eravamo in piena ripresa, oggi saremo meno delusi.
Il problema vero nasce dall’esame delle terapie. Si continua ad insistere sul controllo della spesa e sulle dismissioni (cioè le privatizzazioni e la vendita del patrimonio pubblico).
Nulla da obiettare sul controllo della spesa perché siamo di fronte a evoluzioni sostanzialmente inspiegabili, tenendo conto che essa è continuata ad aumentare pur in presenza di ben trecentomila addetti in meno nel settore pubblico. E’ vero che gli stipendi dei vertici dei funzionari pubblici sono arrivati a livelli superiori a quelli degli altri paesi ed è altrettanto vero che i “costi della politica” e l’aumento dei tassi di interesse del debito hanno contribuito ad appesantire il deficit. Il povero responsabile della “spending review” si trova perciò di fronte al difficilissimo compito di riesaminare da zero le spese del governo centrale e, soprattutto, quelle delle regioni e degli altri enti locali.
Sulla raccomandazione delle privatizzazioni bisogna invece essere ben chiari. L’Italia ha privatizzato il suo sistema produttivo più degli altri paesi europei e, anche se qualche piccola quota può essere messa in vendita, non possiamo certo pensare di alienare il pacchetto di comando di ENI, Enel, Finmeccanica o la quota di comproprietà col governo francese dell’STMicroelectronics, unica impresa di componenti elettronici avanzati che possediamo.
Nemmeno possiamo illudere noi stessi e gli altri di ricavare cospicue somme dalla vendita degli immobili pubblici. Non perché non ve ne sia un gran numero da alienare ma perché, realisticamente, queste operazioni non si mettono in atto quando il mercato immobiliare è a livelli così depressi come oggi in Italia. Sarebbe semplicemente una svendita, anche se condotta tramite i più sofisticati strumenti finanziari.
Vi è certo uno spazio maggiore per le alienazioni delle numerosissime aziende pubbliche locali, riguardo alle quali è necessario apprestare un progetto organico, accompagnato da una idonea strategia industriale ed organizzativa. Occorrono cioè direttive di politica industriale, sulle quali non ci si è ancora misurati.
Nelle terapie è stata, per fortuna, messa in secondo piano la diminuzione dei salari. Essa si è trasformata in un invito alla riduzione del cuneo fiscale, invito non certo facile da mettere in pratica, data la rigidità imposta ai nostri conti pubblici.
I sapienti medici europei, a partire dal primario Olli Rehn, sembrano tuttavia continuare a ignorare che il problema della mancata ripresa italiana deriva dalla crisi della domanda interna.
Occorre quindi una strategia volta a rivitalizzare la domanda interna.
Questa strategia passa prima di tutto attraverso la ripresa del credito alle famiglie e alle imprese. Negli ultimi mesi la provvista di credito ha continuato a calare, nonostante la minore tensione dei mercati finanziari. Tutte le ipotesi di intervento (a cominciare dalla Bad Bank) sono state lasciate nel cassetto.
Continuiamo quindi a vivere nella situazione paradossale in cui tutte le nostre strutture economiche, a cominciare dalle banche, sono sottocapitalizzate, pur in presenza di una liquidità senza precedenti.
Il governo ha opportunamente deciso di accelerare il pagamento dei debiti nei confronti delle imprese creditrici ma i pagamenti effettivi continuano a procedere con incredibile lentezza.
A questo punto arriviamo al nocciolo del problema, che è il funzionamento della macchina pubblica.
I provvedimenti del governo e del parlamento vengono presi e annunciati con grande solennità ma non vengono poi messi in atto, con tutte le conseguenze del caso.
Può essere solo un fatto folcloristico ricordare che, pochi mesi fa, erano ancora mancanti alcuni passaggi burocratici necessari per mettere in atto alcune liberalizzazioni decise dal ministro Bersani durante il mio governo, ma desta più preoccupazione notare che oltre la metà dei provvedimenti attuativi delle decisioni del governo Monti e una maggioranza bulgara di quelle del governo Letta debbono ancora essere scritti.
E’ inutile continuare a elencare l’importanza delle decisioni prese, se poi queste decisioni non hanno effetti concreti.
Questa non è però una cura che ci può essere imposta da Bruxelles perché i medici comunitari si fermano anch’essi a giudicare le decisioni formali e non la loro effettiva applicazione.
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
PAOLO LEON : Disobbedire L' Europa
http://www.syloslabini.info/online/disu ... alleuropa/
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
-----------------------------aaaa42 ha scritto:PAOLO LEON : Disobbedire L' Europa
http://www.syloslabini.info/online/disu ... alleuropa/
Molti comiciano a capite che una europa così non può andare avanti con quei vincoli.
O si cambia o si lascia.
Ciao
Paolo11
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
paolo11 ha scritto:-----------------------------aaaa42 ha scritto:PAOLO LEON : Disobbedire L' Europa
http://www.syloslabini.info/online/disu ... alleuropa/
Molti cominciano a capire che una europa così non può andare avanti con quei vincoli.
O si cambia o si lascia.
Ciao
Paolo11
Che un'Europa solo delle banche e della finanza non abbia molto senso è scontato......Ma....
Cambiare,.....come???
Lasciare???? Prima abbiamo bisogno di un calcolo di previsione a dieci anni. Uscire dall'euro comporta una svalutazione immediata compresa tra il 40 e il 60 %.
Siamo in mezzo alle macerie. Possiamo dal punto di vista sociale ed economico sopportare questo dimezzamento patrimoniale?
Si avvantaggeranno solo le aziende che esportano, ma non certo più di tanto i loro dipendenti.
Pagheremo il petrolio e le materie prime d'importazione quasi il doppio.
Quando lo Stato dovrà restituire il debito estero dovrà farlo in euro o dollari.
Saremo in grado di sostenere questo peso economico?
Di solito lo Stato scarica i suoi problemi economici sui sudditi.
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
argomento molto complicato
per l italia è prioritaria la PIENA OCCUPAZIONE e REDDITO MINIMO GARANTITO
la moneta viene dopo
a allentamento vincoli europei no pareggio di bilancio
b doppia moneta
c moneta locale
d stabilizzatore automatico importazioni esportazioni
d emissioni titoli banche centrali singoli paesi
i nostri problemi monetari li ha avuti prima di noi gli usa ma per noi che non siamo uno stato e molto piu complicato
la svalutazione euro la proposta prodi ma risolve solo in parte il problema
non lo risolve in europa ma lo risolve verso i mercati extraeuropei
comunque si sta pensando alla scala mobile se crolla euro dipende da elezioni europee
per l italia è prioritaria la PIENA OCCUPAZIONE e REDDITO MINIMO GARANTITO
la moneta viene dopo
a allentamento vincoli europei no pareggio di bilancio
b doppia moneta
c moneta locale
d stabilizzatore automatico importazioni esportazioni
d emissioni titoli banche centrali singoli paesi
i nostri problemi monetari li ha avuti prima di noi gli usa ma per noi che non siamo uno stato e molto piu complicato
la svalutazione euro la proposta prodi ma risolve solo in parte il problema
non lo risolve in europa ma lo risolve verso i mercati extraeuropei
comunque si sta pensando alla scala mobile se crolla euro dipende da elezioni europee
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
io direi evitiamo l' ideologismo da curva nord
questo saggio di Giorgio La Malfa analizza la situazione
e la sitiauzione Euro è questa : scritto da un repubblicano borghese.
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http://www.giorgiolamalfa.it/nuovo/gior ... elleuropa/
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
Intervista al prof. Brancaccio Governo renzi ; dall' austerità espansiva alla precarietà espansiva.
http://espresso.repubblica.it/palazzo/2 ... o-1.157665
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Re: Europa e recessione-Dove sta' il vero problema?
Senatrice M5S diffonde le spese di Palazzo Madama
Laura Bottici, senatrice dell'MoVimento Cinque Stelle con incarico di questore di Palazzo Madama (cioé con il compito, tra gli altri, di sovrintendere al buon andamento dell'amministrazione e al bilancio del Senato), ha reso pubbliche le cifre delle spese nel 2012 relative alle donazioni. Oltre 80mila euro al Circolo dei Senatori e oltre un milione utilizzato a titolo di elargizioni benefiche. Ma a scuole e ospedali solo le 'briciole'.
"Il Consiglio di Presidenza e il Collegio dei Questori hanno la possibilità, tramite delibere interne e a loro insindacabile giudizio - ha raccontato- di elargire fondi provenienti dal bilancio del Senato a soggetti pubblici e privati."
Ecco cosa ha versato in primis il Senato nel 2012:
http://mediaset.vitv.it/veconomia/roma- ... 87401?ref= veconomia
ROMA: Casta: i furbetti del Senato
Alcuni dipendenti del Senato timbrano e subito dopo escono per farsi gli affari propri.
Ciao
Paolo11
Laura Bottici, senatrice dell'MoVimento Cinque Stelle con incarico di questore di Palazzo Madama (cioé con il compito, tra gli altri, di sovrintendere al buon andamento dell'amministrazione e al bilancio del Senato), ha reso pubbliche le cifre delle spese nel 2012 relative alle donazioni. Oltre 80mila euro al Circolo dei Senatori e oltre un milione utilizzato a titolo di elargizioni benefiche. Ma a scuole e ospedali solo le 'briciole'.
"Il Consiglio di Presidenza e il Collegio dei Questori hanno la possibilità, tramite delibere interne e a loro insindacabile giudizio - ha raccontato- di elargire fondi provenienti dal bilancio del Senato a soggetti pubblici e privati."
Ecco cosa ha versato in primis il Senato nel 2012:
http://mediaset.vitv.it/veconomia/roma- ... 87401?ref= veconomia
ROMA: Casta: i furbetti del Senato
Alcuni dipendenti del Senato timbrano e subito dopo escono per farsi gli affari propri.
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