Grecia, gli errori della troika. “Assunzioni sbagliate e impatto su pil sottovalutato”
Economia
Due rapporti del Fondo monetario e uno studio commissionato dal Parlamento europeo evidenziano che il programma predisposto per Atene è stato un insuccesso. La ristrutturazione del debito avrebbe dovuto essere decisa fin dal 2010 per ridurre il peso dell'aggiustamento e rendere meno drammatico l'impatto sull'economia reale, ma l'opzione fu bocciata per motivi politici
di F. Q. | 16 febbraio 2015 COMMENTI
Disoccupazione, Fondo Monetario Internazionale, Grecia, Pil, Troika
Previsioni troppo ottimistiche su crescita e tasso di disoccupazione. Sottovalutazione dell’impatto dell’austerity sul Pil e sui conti pubblici. Sopravvalutazione dell’efficienza della macchina governativa di Atene. E un programma intrinsecamente “fragile“, viziato dal fatto che resistenze e veti politici non permisero di includere tra le misure previste una ristrutturazione del debito. Sono gli errori compiuti in Grecia dalla troika, l’ormai famigerato trio costituito dai rappresentanti di Bce, Commissione europea e Fondo monetario internazionale. Diventato simbolo dell’austerità cieca e bersaglio da Atene a Roma a Lisbona, di manifestazioni e cortei di protesta dei cittadini che ne hanno pagato le conseguenze. A evidenziare tutti gli sbagli commessi sono rapporti e relazioni firmati dagli stessi creditori che tra 2010 e 2013 hanno concesso al Paese 240 miliardi di euro, pari al 130% del suo Pil. Il più grande pacchetto di assistenza finanziaria della storia, sfociato però in un disastro sociale e, dopo l’insediamento del nuovo governo di Alexis Tsipras, in un’impasse politica ed economica che rende l’uscita del Paese dall’Eurozona un’ipotesi concreta.
Il primo mea culpa del Fondo monetario è arrivato già nel 2013, quando un working paper firmato dal capo economista Olivier Blanchard ha messo in luce che i cosiddetti “moltiplicatori fiscali“, cioè il rapporto tra la politica fiscale e l’andamento del Pil, erano stati sottostimati di almeno un terzo. In pratica l’istituzione di Washington ha agito supponendo che il rigore di bilancio imposto alla Grecia nell’ambito del memorandum avrebbe provocato, per ogni euro di aumento delle tasse e riduzione della spesa, un calo del prodotto di 0,5 euro. Ma i fatti hanno dimostrato che il valore reale, in un’economia già in recessione, è di almeno 1,5. Il che spiega – magra consolazione – perché la ricchezza prodotta dal Paese è crollata dal 2010 del 25% contro il 3% messo in conto dalla troika. Con l’effetto collaterale che la disoccupazione è salita oltre il 25%, mentre, secondo i funzionari europei e del Fondo, il tasso avrebbe dovuto limitarsi a salire al 13 per cento.
La troika stimava che ogni euro di aumento delle tasse avrebbe fatto calare il prodotto di 0,5. Invece è crollato di tre volte tanto
Di conseguenza, la spirale dell’indebitamento anziché recedere si è aggravata. Portando il debito, che stando alle ottimistiche aspettative della troika non avrebbe mai superato il 154% del Pil, al 175 per cento. Nonostante l”haircut“, cioè il taglio del valore nominale debito nelle mani dei privati, resosi alla fine inevitabile del 2012. Una strada che, come messo nero su bianco dallo stesso Fondo nel country report sulla Grecia diffuso a giugno 2013, avrebbe dovuto essere intrapresa due anni prima per “ridurre il peso dell’aggiustamento” e rendere “meno drammatica” la contrazione del prodotto. Invece, per evitare scontri politici negli Stati (Germania in primis) che devono ottenere il via libera del Parlamento prima di concedere aiuti finanziari, l’opzione fu bocciata. Con il risultato, si legge nel rapporto, di “fornire ai creditori privati una finestra per ridurre le proprie esposizioni e spostare il debito nelle mani dei creditori ufficiali”.
Ma c’è di peggio: come emerge dal resoconto del meeting del consiglio direttivo del Fondo monetario del 9 maggio 2010, reso noto dal Wall Street Journal, molte di queste perplessità furono espresse fin dall’inizio dai membri sudamericani del board. Per esempio l’argentino Pablo Andrés Pereira previde che la Grecia “sarebbe stata peggio dopo aver implementato il programma” e “la strategia avrebbe avuto un impatto solo marginale sui suoi problemi di solvibilità”. Mentre il brasiliano Paulo Nogueira Batista sottolineò che quello in discussione non era “un salvataggio della Grecia ma dei debitori privati del Paese”. E in effetti è stato proprio così: come Tsipras, alle prese con un debito che ha raggiunto quota 315 miliardi, ha sottolineato più volte, di fatto solo una minima parte dei prestiti ricevuti da Atene sono finiti all’economia reale. Venti miliardi, per la precisione, contro i 48,2 andati a ricapitalizzare le banche e i 149 (tra capitale e interessi) serviti per pagare i creditori. L'”haircut”, realizzato riacquistando i titoli a un prezzo di circa un terzo rispetto al valore nominale ed emettendo nuovi bond a scadenza più lunga, è poi costato circa 45 miliardi.
Uno studio commissionato dal Parlamento europeo sentenzia che “le assunzioni del programma della troika si sono rivelate ampiamente errate”
Una “confessione” ancora più esplicita è contenuta poi nello studio The Troika and financial assistance in the euro area: successes and failure, commissionato l’anno scorso dal comitato per gli Affari economici e monetari del Parlamento europeo. Ottantotto pagine che esaminano nel dettaglio gli esiti dei programmi messi in atto in Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro giungendo alla conclusione che “a questo stadio non si può ritenere” che quello disegnato per Atene “abbia avuto successo” visto che “la competitività è ben lungi dall’essere stata ripristinata”, “l’accesso ai mercati finanziari molto probabilmente non sarà recuperato nel vicino futuro”, “le riforme strutturali stanno procedendo a un ritmo lento” e “le assunzioni del programma della troika si sono ampiamente rivelate errate“.
Non è un caso, quindi, se mentre Tsipras e il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis si giocano tutto a Bruxelles la troika sembra arrivata al capolinea. Il presidente dell’esecutivo Ue Jean Claude Juncker si è più volte detto favorevole alla sua abolizione e la Bce di Mario Draghi dovrà per forza chiamarsene fuori perché glielo impone la sentenza della Corte di giustizia europea sul programma di acquisto di bond governativi, in base alla quale l’Eurotower deve astenersi dal partecipare al monitoraggio dei programmi di assistenza. Il Fondo, dal canto suo, preferisce sfilarsi e fare da sé, recuperando una visuale “globale” e non limitata al continente europeo. Il fatto che, nelle trattative ora in corso sul programma di aiuti, si sia deciso di usare un più neutro “istituzioni” al posto dell’odiata parola a sei lettere, non dipende solo dal niet di Varoufakis, che con la troika si rifiuta di trattare. Ma dimostra che gli uomini in abito scuro saranno anche un capro espiatorio, ma hanno fatto troppi errori per poter restare in campo.
di F. Q. | 16 febbraio 2015
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