Brancaccio: “Serve un piano B, la sinistra impari dall’errore di Tsipras”
Per l’economista la debacle greca insegna che bisogna mettere da parte la retorica europeista e globalista e predisporre una visione alternativa, un “nuovo internazionalismo del lavoro”. E sulla Grexit replica al premier ellenico che ha denunciato il mancato aiuto di Stati Uniti, Russia e Cina: “Se vero, significa che i grandi attori del mondo hanno scelto di non interferire più di tanto negli affari europei, lasceranno che l’Unione monetaria imploda per le sue contraddizioni interne”.
intervista a Emiliano Brancaccio di Giacomo Russo Spena
«È inutile negarlo, il governo e il parlamento greco hanno capitolato, gli apologeti dell’austerity hanno vinto anche stavolta. È l’ennesima prova che nella zona euro, purtroppo, le cose vanno come avevamo previsto». I renziani metterebbero anche lui nel girone dei ‘gufi’ ma l’economista Emiliano Brancaccio preferisce un’espressione più raffinata: «In questi anni, nostro malgrado, in tanti abbiamo indossato i panni delle Cassandre che allertano sui guai che verranno ma restano inascoltati». I media in questi giorni hanno ricordato le lettere pubblicate sul Sole 24 Ore nel 2010 e sul Financial Times nel 2013 con cui Brancaccio e altri colleghi segnalavano come le ricette di austerità, flessibilità del lavoro e schiacciamento dei salari avrebbero provocato disastri, aggravando la posizione dei Paesi debitori e rendendo sempre meno sostenibile l’assetto dell’eurozona.
Professore, alla vigilia delle ultime elezioni europee Lei rifiutò una candidatura a capolista dell’Altra Europa con Tsipras. Adesso che il leader ellenico ha accettato l’ultimatum dei creditori, in molti – scendendo repentinamente dal carro del vincitore – sono tornati sulla sua scelta di allora, ritenendola lungimirante. È veramente così?
È un modo malizioso di interpretare quella mia decisione. All’epoca rifiutai la candidatura per ragioni professionali, non politiche. È vero tuttavia che fin dall’inizio dell’ascesa di Tsipras ho criticato l’idea che una vittoria della sinistra in Grecia potesse imprimere una reale svolta agli indirizzi di politica economica dell’Unione. Tsipras ha contribuito ad alimentare questa speranza, e oggi ne paga le conseguenze. Ma dovremmo anche riconoscere che lo stesso sogno velleitario permea da anni larghissima parte della sinistra europea:
prendersela solo con il premier greco sarebbe poco onesto. Il suo tracollo dovrebbe piuttosto avviare una riflessione collettiva sull’assenza, in tutta la sinistra, di una visione sufficientemente realistica degli attuali rapporti di forza tra i Paesi membri dell’Unione e dei conflitti intercapitalistici che esprimono.
C’è qualcosa che Lei imputa specificamente alla condotta di Tsipras degli ultimi giorni?
Credo sia stato sorpreso dalla dimensione della vittoria del “no” al referendum. Nonostante le banche chiuse e il bombardamento mediatico a favore del “sì”, con estrema lucidità la netta maggioranza dei cittadini greci ha respinto l’accordo capestro proposto dai creditori, lasciando al governo il compito di gestire tutte le possibili conseguenze. Ripeto: tutte. Quando Tsipras ha affermato che nemmeno l’esito referendario lo autorizzava a contemplare l’ipotesi di uscita della Grecia dall’euro, francamente mi è parso un giudizio fuori luogo. La verità è che il popolo greco era ormai pronto a tutto. Il governo no.
L’ex ministro delle Finanze Varoufakis, ora l’anti Tsipras all’interno di Syriza, ha dichiarato che a suo avviso bisognava “minacciare la Grexit” nella trattativa con le Istituzioni. Contemporaneamente però ha affermato che un vero “piano B” di uscita non era stato approntato e che sarebbe stato complicato anche organizzare la stampa e la diffusione delle nuove banconote. Che ne pensa?
Stimo Varoufakis come studioso, ma questa idea che un’uscita dall’euro possa esser bloccata da problemi pratici, come la stampa delle banconote, è priva di aderenza ai fatti. Decenni di pratica della politica monetaria indicano che questi aspetti strettamente operativi sono del tutto secondari. Posto che ci si organizzi per assumere un sufficiente controllo della macchina amministrativa e soprattutto della banca centrale, si possono affrontare in un tempo relativamente breve.
Però Lei stesso ha più volte affermato che per la Grecia l’abbandono della moneta unica avrebbe presentato importanti difficoltà.
Certo, ma mi riferivo ai nodi chiave del problema, che sono di ordine macroeconomico. Con altri colleghi abbiamo cercato di spiegare che nella situazione gravissima in cui versa l’economia greca un’uscita dall’euro e una svalutazione, accompagnate presumibilmente da un minimo di politica espansiva, avrebbero comportato, per un periodo non breve, un aumento del valore delle importazioni e quindi dell’indebitamento verso l’estero.
La Grecia, dunque, avrebbe avuto bisogno di un sostegno finanziario esterno di due o tre anni per gestire la transizione dalla vecchia alla nuova moneta.
L’altro giorno, in un’intervista rilasciata alla tv pubblica greca,
Tsipras ha dichiarato di aver incontrato i rappresentanti di Stati Uniti, Russia e Cina, e che nessuno di essi ha garantito un aiuto se la Grecia fosse tornata alla dracma. Se il premier greco ha detto il vero, questo sarebbe uno dei punti cruciali dell’intera vicenda. Significherebbe che i grandi attori del mondo hanno scelto di non interferire più di tanto negli affari europei: lasceranno che l’Unione monetaria imploda per le sue contraddizioni interne.
Ma perché l’Unione dovrebbe implodere? Dopotutto i greci sono stati rimessi in riga. Non è una riprova delle capacità di tenuta politica dell’eurozona?
La tenuta politica del progetto europeo è minata dall’insostenibilità economica dei debiti. Anche il FMI ormai riconosce che il debito di Atene è insostenibile. Ma il problema non si limita alla Grecia. Basti notare che in tutti i paesi debitori i tassi d’interesse eccedono sistematicamente i tassi di crescita del Pil: per il 2015 la differenza attesa è di oltre un punto in Spagna, di due punti in Portogallo, di quasi tre punti in Italia e di oltre tre punti in Grecia. Questo significa che il rapporto tra debito e Pil è destinato a crescere in tutto il Sud Europa. E’ il risultato di una politica della Bce che non riduce abbastanza i tassi d’interesse, e di una politica di bilancio che resta ancorata alla dottrina dell’austerity e continua pertanto a deprimere la crescita della produzione. Di questo passo le contraddizioni tra creditori e debitori sono destinate a crescere ulteriormente, fino a esplodere.
Proprio il FMI insiste con la necessità di tagliare il debito della Grecia e l’Italia e la Francia gli si accodano. La Germania e gli altri creditori però si oppongono. È realistica la prospettiva di una rinegoziazione del debito greco?
Finché i Paesi del Sud Europa restano nell’euro, ai creditori non conviene avviare una rinegoziazione. Le cose cambiano però se un paese decide di uscire. Prendiamo ad esempio la bozza dell’Eurogruppo che riportava la proposta di Schauble di favorire un’uscita della Grecia dall’euro. Il ministro tedesco ha voluto inserire nel documento un passo in apparenza sorprendente, in cui si affermava che se i greci fossero tornati alla dracma sarebbe stato possibile avviare una rinegoziazione del debito. Cioè proprio la rinegoziazione che la Germania vuole negare ai paesi che restano nell’euro.
Come si spiega questa apertura?
Schauble e i creditori temono che, una volta abbandonata l’eurozona, un Paese possa decidere di denominare nella nuova moneta svalutata anche i debiti, incurante della legislazione sotto cui siano stati emessi. La lunga storia dei default sovrani ci dice che questa eventualità è più probabile di quanto alcuni analisti che oggi vanno per la maggiore siano capaci di riconoscere. Agitando la carota della rinegoziazione Schauble vorrebbe convincere i paesi che abbandonassero l’Unione a mantenere i debiti in euro. Ma non è detto che ci riesca. Con quella postilla Schauble ha rivelato uno dei punti deboli dei creditori: il rischio di trovarsi con debiti fortemente svalutati se l’eurozona salta per aria.
Lei ha più volte evocato il pericolo che un eventuale tracollo del progetto europeo trovi le sinistre impreparate e dia la stura a una nuova stagione politica di ultradestra. La parabola di Tsipras rischia di creare un grande disorientamento nella sinistra europea, da Podemos in Spagna, allo Sinn Fein in Irlanda fino alla nascente “coalizione sociale” in Italia. Quale insegnamento politico si può trarre dalle vicende della sinistra greca?
Che se davvero si vuol governare in questi tempi durissimi bisogna metter da parte la retorica europeista e globalista e occorre predisporre almeno un “
piano B”. Servirebbe una nuova visione, io lo chiamo “
nuovo internazionalismo del lavoro”, che favorisca i rapporti economici tra paesi che rispettino determinati standard sociali e introduca invece qualche limite agli scambi con quei paesi che pur di accumulare surplus verso l’estero insistono con una perniciosa politica deflazionista, fatta di schiacciamento dei salari e depressione della domanda interna. Si tratta di un lavoro complesso, non so dire se ci siano le condizioni oggettive per avviarlo.
Credo tuttavia che sarebbe uno dei tasselli necessari per arginare l’onda montante di una nuova miscela di destra, fatta di liberismo e xenofobia, che mieterà sempre più consensi con l’inasprirsi delle contraddizioni interne all’Unione.
http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... %E2%80%9D/
(16 luglio 2015)
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Tutto questo mette proprio in evidenza la mancanza di una sinistra europea vera che definisca la proprie linee politiche da contrapporre alle attuali liberiste.
Fino a che' non sara' in grado di farlo, queste scellerate decisioni si ripresenteranno ancora e puo' succedere che possano essere anche peggiori.
Un'internazionalismo europeo sul lavoro deve assolutamente essere nelle agende di queste sinistra se non vogliono capitolare di fronte ad una una nuova ondata xenofoba, nazionalista e di estrema destra.
un salutone