Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la SX?
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Gb, Jeremy Corbyn: se in gran parte d’Europa vincesse la nuova sinistra?
Jeremy Corbyn è il nuovo segretario del partito laburista britannico. A eleggerlo è stata la base del partito e non i parlamentari, che invece hanno mostrato di preferire gli altri candidati. Non bisogna sorprendersi, Corbyn minaccia di rivoluzionare il partito e di cancellare i segni di New Labour.
Ad ascoltare uno dei più agguerriti oppositori della politica di austerità nel Regno Unito e nel resto dell’Europa, tornano in mente i discorsi di Zapatero prima della sua elezione a segretario del partito socialista spagnolo. Anche Zapatero piaceva alla base del partito perché era una faccia pulita, un leader idealista, un puro, che ancora credeva nei valori di uguaglianza del socialismo, e quindi distante anni luce dal New Labour di Tony Blair che dagli anni Novanta imperversava in Europa. Sicuramente Corbyn piace perché è genuino, pieno delle idee giuste.
E come Zapatero non ha nulla in comune con Tony Blair che ha dichiarato che se il cuore del partito è con Corbyn allora c’è urgente bisogno di un trapianto. L’antipatia è reciproca, perché il nuovo leader pare sia pronto a rivisitare il capitolo più oscuro della storia britannica degli ultimi vent’anni: le menzogne fabbricate per invadere l’Iraq. A quel punto il partito laburista potrebbe chiedere scusa agli iracheni e al mondo per quanto è successo.
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Riuscirà Corbyn dove Zapatero ha fallito? Riuscirà a far rinascere un sano dualismo politico in Gran Bretagna riportando il dibattito politico dentro l’arena delle idee, lontano dai compromessi finanziari, dalle lobby economiche e dai voleri e capricci di Bruxelles? La crisi del debito sovrano, quella scoppiata nel 2010, ha tarpato le ali a Zapatero. A decidere le sorti della Spagna è stata la signora Merkel, i leader europei che pendono dalle sue labbra e gli euroburocrati di Bruxelles che non aspettavano altro; Zapatero come Tsipras non era uno di loro quindi bisognava epurarlo.
Non dimentichiamoci che dal 2010 al 2012 l’unico leader europeo che si rifiutò di imporre una politica di austerità demenziale fu Zapatero, e uno dei motivi per i quali la Spagna non e finita come la Grecia è perché Zapatero ha resistito alle pressioni di Bruxelles per due lunghi anni. Naturalmente la ricompensa fu l’isolamento all’interno del Consiglio d’Europa.
Jeremy Corbyn si trova in una situazione diversa, non ha vinto ‘per motivi eccezionali’ le elezioni e quindi è all’opposizione e non deve fare i conti tutti i giorni con Bruxelles e con la Merkel. Ma è un leader che ha rispolverato alcuni principi del socialismo in una paese dove il tasso di crescita del Pil nel 2015 potrebbe superare il 3 per cento, quindi non sarà facile attaccare la politica economica dei Tory.
Per capire se al contrario di Zapatero la spunterà bisognerà vedere come giocherà i suoi due jolly: le profonde diseguaglianze ormai visibili in tutto il Regno Unito e la crisi dei profughi. Due temi più volte menzionati durante la campagna per l’elezione a leader del partito.
Tra i cavalli di battaglia di Corbyn, dunque, c’è il tema delle diseguaglianze economiche. Anche Zapatero ne parlava spesso e oggi Podemos e Syriza non hanno paura a pronunciare frasi come ‘abbiamo bisogno di una redistribuzione dei redditi’, una frase impensabile dai tempi di Ronald Reagan, quando il mantra di tutti i partiti politici era ‘non alzeremo le tasse’.
In questo continente preso d’assalto da chi sta ancora peggio di noi ormai tutti sono perfettamente consapevoli che non siamo poveri, siamo solo diseguali proprio a causa di quell’assurdo mantra fiscale. La ricchezza c’è, i soldi ci sono ma da quando si è saldata “l’alleanza del potere” tra grande capitale, sistema di informazione e politica, la ricchezza scivola di mano al fisco come fosse un’anguilla.
C’è un terzo elemento da tener presente, il clima politico nel vecchio continente. Corbyn è anche il leader del partito che in un certo senso ha regalato il modello di socialismo politico all’Europa, e non è detto che il vento che dalle fabbriche della Rivoluzione industriale soffiava verso sud oggi non si rialzi. Una voce sicura, forte e determinata a Londra potrebbe aggregare la nuova sinistra europea, sparpagliata in diversi paesi.
Quest’anno, non lo dimentichiamo, si vota in molte nazioni, alle urne andranno popoli che hanno toccato con mano i mali dell’austerità, e nelle liste elettorali compariranno i simboli dei partiti del nuovo socialismo europeo, infinitamente più radicali di quelli vecchi, che negli anni Novanta seguirono l’esempio di Blair e per essere eletti saltarono la staccionata politica da sinistra a destra, diventando i paladini dell’alleanza del potere.
E se in gran parte d’Europa vincesse la nuova sinistra? Una domanda, che solo qualche anno fa sarebbe sembrata assurda, alla quale non possiamo rispondere, ma almeno l’elezione di Corbyn nel Regno Unito oggi ci permette di formularla.
da il F.Q.
Jeremy Corbyn è il nuovo segretario del partito laburista britannico. A eleggerlo è stata la base del partito e non i parlamentari, che invece hanno mostrato di preferire gli altri candidati. Non bisogna sorprendersi, Corbyn minaccia di rivoluzionare il partito e di cancellare i segni di New Labour.
Ad ascoltare uno dei più agguerriti oppositori della politica di austerità nel Regno Unito e nel resto dell’Europa, tornano in mente i discorsi di Zapatero prima della sua elezione a segretario del partito socialista spagnolo. Anche Zapatero piaceva alla base del partito perché era una faccia pulita, un leader idealista, un puro, che ancora credeva nei valori di uguaglianza del socialismo, e quindi distante anni luce dal New Labour di Tony Blair che dagli anni Novanta imperversava in Europa. Sicuramente Corbyn piace perché è genuino, pieno delle idee giuste.
E come Zapatero non ha nulla in comune con Tony Blair che ha dichiarato che se il cuore del partito è con Corbyn allora c’è urgente bisogno di un trapianto. L’antipatia è reciproca, perché il nuovo leader pare sia pronto a rivisitare il capitolo più oscuro della storia britannica degli ultimi vent’anni: le menzogne fabbricate per invadere l’Iraq. A quel punto il partito laburista potrebbe chiedere scusa agli iracheni e al mondo per quanto è successo.
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Riuscirà Corbyn dove Zapatero ha fallito? Riuscirà a far rinascere un sano dualismo politico in Gran Bretagna riportando il dibattito politico dentro l’arena delle idee, lontano dai compromessi finanziari, dalle lobby economiche e dai voleri e capricci di Bruxelles? La crisi del debito sovrano, quella scoppiata nel 2010, ha tarpato le ali a Zapatero. A decidere le sorti della Spagna è stata la signora Merkel, i leader europei che pendono dalle sue labbra e gli euroburocrati di Bruxelles che non aspettavano altro; Zapatero come Tsipras non era uno di loro quindi bisognava epurarlo.
Non dimentichiamoci che dal 2010 al 2012 l’unico leader europeo che si rifiutò di imporre una politica di austerità demenziale fu Zapatero, e uno dei motivi per i quali la Spagna non e finita come la Grecia è perché Zapatero ha resistito alle pressioni di Bruxelles per due lunghi anni. Naturalmente la ricompensa fu l’isolamento all’interno del Consiglio d’Europa.
Jeremy Corbyn si trova in una situazione diversa, non ha vinto ‘per motivi eccezionali’ le elezioni e quindi è all’opposizione e non deve fare i conti tutti i giorni con Bruxelles e con la Merkel. Ma è un leader che ha rispolverato alcuni principi del socialismo in una paese dove il tasso di crescita del Pil nel 2015 potrebbe superare il 3 per cento, quindi non sarà facile attaccare la politica economica dei Tory.
Per capire se al contrario di Zapatero la spunterà bisognerà vedere come giocherà i suoi due jolly: le profonde diseguaglianze ormai visibili in tutto il Regno Unito e la crisi dei profughi. Due temi più volte menzionati durante la campagna per l’elezione a leader del partito.
Tra i cavalli di battaglia di Corbyn, dunque, c’è il tema delle diseguaglianze economiche. Anche Zapatero ne parlava spesso e oggi Podemos e Syriza non hanno paura a pronunciare frasi come ‘abbiamo bisogno di una redistribuzione dei redditi’, una frase impensabile dai tempi di Ronald Reagan, quando il mantra di tutti i partiti politici era ‘non alzeremo le tasse’.
In questo continente preso d’assalto da chi sta ancora peggio di noi ormai tutti sono perfettamente consapevoli che non siamo poveri, siamo solo diseguali proprio a causa di quell’assurdo mantra fiscale. La ricchezza c’è, i soldi ci sono ma da quando si è saldata “l’alleanza del potere” tra grande capitale, sistema di informazione e politica, la ricchezza scivola di mano al fisco come fosse un’anguilla.
C’è un terzo elemento da tener presente, il clima politico nel vecchio continente. Corbyn è anche il leader del partito che in un certo senso ha regalato il modello di socialismo politico all’Europa, e non è detto che il vento che dalle fabbriche della Rivoluzione industriale soffiava verso sud oggi non si rialzi. Una voce sicura, forte e determinata a Londra potrebbe aggregare la nuova sinistra europea, sparpagliata in diversi paesi.
Quest’anno, non lo dimentichiamo, si vota in molte nazioni, alle urne andranno popoli che hanno toccato con mano i mali dell’austerità, e nelle liste elettorali compariranno i simboli dei partiti del nuovo socialismo europeo, infinitamente più radicali di quelli vecchi, che negli anni Novanta seguirono l’esempio di Blair e per essere eletti saltarono la staccionata politica da sinistra a destra, diventando i paladini dell’alleanza del potere.
E se in gran parte d’Europa vincesse la nuova sinistra? Una domanda, che solo qualche anno fa sarebbe sembrata assurda, alla quale non possiamo rispondere, ma almeno l’elezione di Corbyn nel Regno Unito oggi ci permette di formularla.
da il F.Q.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
“A novembre una Costituente della sinistra”: l’annuncio di Ferrero
12 settembre 2015 18:12 Politica e Opinioni
Potrebbe svolgersi nei primi giorni del mese di novembre la prima assemblea nazionale costituente del nuovo soggetto politico di sinistra. A darne notizia il segretario nazionale di Rifondazione comunista – Sinistra Europea, Paolo Ferrero, parlando a margine della festa nazionale del partito a Firenze, dove stasera è in programma un dibattito al quale parteciperanno, con lo stesso Ferrero, Raffaella Bolini, Pippo Civati, e Nicola Fratoianni.
Tutti nomi che, insieme “a Stefano Fassina, stasera assente perché impegnato a Parigi alla festa de L’Humanitè – dice Ferrero – e a molti altri che vogliono dare vita non a una federazione ma un progetto costituente della sinistra aperto a tutti”. Anche a Maurizio Landini? “Certo che sì”, spiega ancora il segretario di Rifondazione: “Anche con Coalizione sociale e Landini noi vogliamo costruire un dialogo e non pensiamo ad alcun tipo di annessione. Vogliamo decidere insieme come fare e i modi per unire una sinistra che nella società italiana è molto larga, ampia”.
Una sinistra che deve però iniziare a correre, “i tempi erano già ieri – prosegue Ferrero – e per questo penso che novembre possa essere una data importante”. Intanto Rifondazione comunista riparte dalla festa nazionale in corso a Firenze che “segna il rilancio dell’azione politica: ripartiamo da 43.183 persone, che ci hanno indicato come destinatati del loro denaro del 2 per mille, nelle ultime dichiarazioni dei redditi”, conclude il segretario.
Fratoianni: “Il progetto non sia solo elettorale”
“Dobbiamo fare presto ma fare bene”. Questo per Nicola Fratoianni (Sel) deve essere l’obiettivo dell’appuntamento che la sinistra vuole organizzare a novembre per “aprire, ma non chiudere, il processo che deve portare a un nuovo soggetto che rimetta in campo una proposta politico-culturale” per tutta la sinistra, “una proposta che serve al Paese”. Parlando prima del suo arrivo a Firenze, per un dibattito sull’unità della sinistra alla Festa di Rifondazione comunista, Fratoianni lancia un monito: “importante è dare vita a qualcosa di concreto, che non sia solo un’alleanza elettorale come è stato in passato. Deve essere anche questo ma non basta”, conclude.
Fonte: ANSA
12 settembre 2015 18:12 Politica e Opinioni
Potrebbe svolgersi nei primi giorni del mese di novembre la prima assemblea nazionale costituente del nuovo soggetto politico di sinistra. A darne notizia il segretario nazionale di Rifondazione comunista – Sinistra Europea, Paolo Ferrero, parlando a margine della festa nazionale del partito a Firenze, dove stasera è in programma un dibattito al quale parteciperanno, con lo stesso Ferrero, Raffaella Bolini, Pippo Civati, e Nicola Fratoianni.
Tutti nomi che, insieme “a Stefano Fassina, stasera assente perché impegnato a Parigi alla festa de L’Humanitè – dice Ferrero – e a molti altri che vogliono dare vita non a una federazione ma un progetto costituente della sinistra aperto a tutti”. Anche a Maurizio Landini? “Certo che sì”, spiega ancora il segretario di Rifondazione: “Anche con Coalizione sociale e Landini noi vogliamo costruire un dialogo e non pensiamo ad alcun tipo di annessione. Vogliamo decidere insieme come fare e i modi per unire una sinistra che nella società italiana è molto larga, ampia”.
Una sinistra che deve però iniziare a correre, “i tempi erano già ieri – prosegue Ferrero – e per questo penso che novembre possa essere una data importante”. Intanto Rifondazione comunista riparte dalla festa nazionale in corso a Firenze che “segna il rilancio dell’azione politica: ripartiamo da 43.183 persone, che ci hanno indicato come destinatati del loro denaro del 2 per mille, nelle ultime dichiarazioni dei redditi”, conclude il segretario.
Fratoianni: “Il progetto non sia solo elettorale”
“Dobbiamo fare presto ma fare bene”. Questo per Nicola Fratoianni (Sel) deve essere l’obiettivo dell’appuntamento che la sinistra vuole organizzare a novembre per “aprire, ma non chiudere, il processo che deve portare a un nuovo soggetto che rimetta in campo una proposta politico-culturale” per tutta la sinistra, “una proposta che serve al Paese”. Parlando prima del suo arrivo a Firenze, per un dibattito sull’unità della sinistra alla Festa di Rifondazione comunista, Fratoianni lancia un monito: “importante è dare vita a qualcosa di concreto, che non sia solo un’alleanza elettorale come è stato in passato. Deve essere anche questo ma non basta”, conclude.
Fonte: ANSA
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Il caso Corby ha attirato l'attenzione dei media italiani.
Corriere 14.9.15
«Il mio New Labour ha smesso di lottare»
di Peter Mandelson
ex consigliere di Tony Blair e ideologo del New Labour
L’intervento dell’ex consigliere di Tony Blair e ideologo del New Labour: «Con Corbyn il dado è tratto. Il partito si era seduto sugli allori: ora dobbiamo lottare per tornare al centro del Paese e del partito. Tutti i modernizzatori del Labour devono prendersi una parte di responsabilità: non ci siamo rinnovati».
Il dado è tratto, Jeremy Corbyn è stato eletto alla guida del partito laburista.
Se da una parte mi felicito con lui, dall’altra è innegabile che il Labour oggi deve affrontare una questione esistenziale: continuare a svolgere il suo ruolo storico nel governo o accontentarsi di agire ai margini della politica.
Il problema non risiede nei valori o nella personalità di Corbyn, quanto nelle sue opinioni e nel suo programma, che si situano all’ala estrema delle posizioni tradizionali laburiste e costituiscono una rivisitazione degli atteggiamenti degli anni Ottanta che consentirono a Margaret Thatcher di mettere a segno una serie di vittorie elettorali.
Era un programma che non poteva funzionare allora e certo non funzionerà tre decenni più tardi.
Il progetto laburista, lanciato all’epoca da Neil Kinnock, capo del partito, fu quello non solo di allontanare le frange militanti più estremiste, ma di elaborare un programma credibile, per migliorare le condizioni di vita di molti, non solo di una parte della popolazione, rafforzando l’economia e costruendo un Paese moderno e tollerante.
Questo comportò una censura delle posizioni più estreme, che Neil paragonò «all’estrazione dei denti».
Il coraggio e la tenacia di Neil la spuntarono e spianarono la strada al successo elettorale di Tony Blair.
Un ritorno alle posizioni di estrema sinistra degli anni Ottanta non ha senso per il Labour oggi, e ci consegnerebbe a un ruolo di protesta anziché di potere; né riuscirebbe a dare risposte realistiche ai problemi con i quali devono misurarsi tanto la Gran Bretagna che il resto del mondo.
Ma come si spiega il salto all’indietro del Labour? Mentre i moderati si adoperavano a sostegno di tre diversi candidati — Yvette Cooper, Andy Burnham e Liz Kendall — la sinistra dura e pura ne ha appoggiato uno solo.
E sono riusciti nell’intento attingendo a maggiori finanziamenti con il sostegno dei sindacati.
Questa è la differenza cruciale rispetto ai tempi di Kinnock: allora i sindacati lo aiutarono a piazzare il partito laburista in area di centrosinistra, stavolta alcuni leader sindacali hanno creato il problema.
La domanda più difficile è perché tanta gente abbia votato per Corbyn, non solo i nuovi sostenitori, ma anche i ranghi storici.
Esiste una profonda delusione verso la politica attuale che non avevamo afferrato appieno.
Tutti i modernizzatori del Labour devono prendersi una parte di responsabilità, assieme ad altri membri del partito.
Siccome il New Labour aveva riscosso un tale successo elettorale, ci siamo seduti sugli allori, mentre avremmo dovuto rinnovare il nostro modo di pensare per rivolgerci alla nuova generazione.
Inoltre, e per troppo a lungo, abbiamo lasciato che altri nel partito definissero falsamente l’operato dei laburisti al governo come «conservatore-light».
Non volevamo sembrare sleali verso la leadership e così abbiamo piegato la testa e siamo rimasti intimoriti dagli sforzi sistematici, di Ed Miliband e di altri, per delegittimare le opinioni del New Labour in seno al partito.
Non sarà possibile riconquistare il grosso centro della politica britannica se non sapremo ricostruirlo all’interno del partito.
Un partito di successo ha bisogno di valori forti, un’identità chiara e un programma che appaia serio e realizzabile.
E il leader deve incarnare queste cose.
Siamo riusciti ad alienare il nord, indebolire la nostra base nel Midlands, girare le spalle al sud e perdere la Scozia.
E non è stata solo colpa di Miliband.
La gente ha visto che il Labour non si sforzava per rinnovarsi.
Dobbiamo capire che una coalizione limitata a raccogliere il settore statale, gli attivisti sindacali, la classe media metropolitana, i giovani idealisti e le minoranze etniche urbane non rappresenterà mai una maggioranza elettorale.
Dobbiamo provare che possiamo creare prosperità e progresso per tutti i cittadini che nutrono aspirazioni, per i lavoratori autonomi, per coloro che partecipano all’economia condivisa, per anziani e giovani, in campagna, periferie e città.
È questa la sfida del partito laburista.
Vecchi membri, giovani reclute, una nuova generazione di leader: tutti noi dobbiamo rimetter ci in gioco nella nostra vita politica.
(Trad. di Rita Baldassarre)
Corriere 14.9.15
«Il mio New Labour ha smesso di lottare»
di Peter Mandelson
ex consigliere di Tony Blair e ideologo del New Labour
L’intervento dell’ex consigliere di Tony Blair e ideologo del New Labour: «Con Corbyn il dado è tratto. Il partito si era seduto sugli allori: ora dobbiamo lottare per tornare al centro del Paese e del partito. Tutti i modernizzatori del Labour devono prendersi una parte di responsabilità: non ci siamo rinnovati».
Il dado è tratto, Jeremy Corbyn è stato eletto alla guida del partito laburista.
Se da una parte mi felicito con lui, dall’altra è innegabile che il Labour oggi deve affrontare una questione esistenziale: continuare a svolgere il suo ruolo storico nel governo o accontentarsi di agire ai margini della politica.
Il problema non risiede nei valori o nella personalità di Corbyn, quanto nelle sue opinioni e nel suo programma, che si situano all’ala estrema delle posizioni tradizionali laburiste e costituiscono una rivisitazione degli atteggiamenti degli anni Ottanta che consentirono a Margaret Thatcher di mettere a segno una serie di vittorie elettorali.
Era un programma che non poteva funzionare allora e certo non funzionerà tre decenni più tardi.
Il progetto laburista, lanciato all’epoca da Neil Kinnock, capo del partito, fu quello non solo di allontanare le frange militanti più estremiste, ma di elaborare un programma credibile, per migliorare le condizioni di vita di molti, non solo di una parte della popolazione, rafforzando l’economia e costruendo un Paese moderno e tollerante.
Questo comportò una censura delle posizioni più estreme, che Neil paragonò «all’estrazione dei denti».
Il coraggio e la tenacia di Neil la spuntarono e spianarono la strada al successo elettorale di Tony Blair.
Un ritorno alle posizioni di estrema sinistra degli anni Ottanta non ha senso per il Labour oggi, e ci consegnerebbe a un ruolo di protesta anziché di potere; né riuscirebbe a dare risposte realistiche ai problemi con i quali devono misurarsi tanto la Gran Bretagna che il resto del mondo.
Ma come si spiega il salto all’indietro del Labour? Mentre i moderati si adoperavano a sostegno di tre diversi candidati — Yvette Cooper, Andy Burnham e Liz Kendall — la sinistra dura e pura ne ha appoggiato uno solo.
E sono riusciti nell’intento attingendo a maggiori finanziamenti con il sostegno dei sindacati.
Questa è la differenza cruciale rispetto ai tempi di Kinnock: allora i sindacati lo aiutarono a piazzare il partito laburista in area di centrosinistra, stavolta alcuni leader sindacali hanno creato il problema.
La domanda più difficile è perché tanta gente abbia votato per Corbyn, non solo i nuovi sostenitori, ma anche i ranghi storici.
Esiste una profonda delusione verso la politica attuale che non avevamo afferrato appieno.
Tutti i modernizzatori del Labour devono prendersi una parte di responsabilità, assieme ad altri membri del partito.
Siccome il New Labour aveva riscosso un tale successo elettorale, ci siamo seduti sugli allori, mentre avremmo dovuto rinnovare il nostro modo di pensare per rivolgerci alla nuova generazione.
Inoltre, e per troppo a lungo, abbiamo lasciato che altri nel partito definissero falsamente l’operato dei laburisti al governo come «conservatore-light».
Non volevamo sembrare sleali verso la leadership e così abbiamo piegato la testa e siamo rimasti intimoriti dagli sforzi sistematici, di Ed Miliband e di altri, per delegittimare le opinioni del New Labour in seno al partito.
Non sarà possibile riconquistare il grosso centro della politica britannica se non sapremo ricostruirlo all’interno del partito.
Un partito di successo ha bisogno di valori forti, un’identità chiara e un programma che appaia serio e realizzabile.
E il leader deve incarnare queste cose.
Siamo riusciti ad alienare il nord, indebolire la nostra base nel Midlands, girare le spalle al sud e perdere la Scozia.
E non è stata solo colpa di Miliband.
La gente ha visto che il Labour non si sforzava per rinnovarsi.
Dobbiamo capire che una coalizione limitata a raccogliere il settore statale, gli attivisti sindacali, la classe media metropolitana, i giovani idealisti e le minoranze etniche urbane non rappresenterà mai una maggioranza elettorale.
Dobbiamo provare che possiamo creare prosperità e progresso per tutti i cittadini che nutrono aspirazioni, per i lavoratori autonomi, per coloro che partecipano all’economia condivisa, per anziani e giovani, in campagna, periferie e città.
È questa la sfida del partito laburista.
Vecchi membri, giovani reclute, una nuova generazione di leader: tutti noi dobbiamo rimetter ci in gioco nella nostra vita politica.
(Trad. di Rita Baldassarre)
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Gb: meglio il rosso di Corbyn che quello di Tsipras
di Stefano Feltri | 14 settembre 2015- Il F.Q.
“Pagare le tasse non è un fardello, è il canone che paghiamo per vivere in una società civilizzata”. La Gran Bretagna non è la Grecia e Jeremy Corbyn non è Alexis Tsipras, anche se l’ostilità intorno al nuovo leader dei laburisti inglesi è simile a quella che ha circondato l’ex premier greco negli otto mesi in cui è stato in carica. Corbyn vuole più welfare State, più salari e più tasse per finanziare la spesa pubblica, ma le sue richieste riguardano un Paese che è fuori dall’euro, che nel 2014 è cresciuto del 2,8 per cento e che ha un deficit sotto controllo, che deve passare dal 4,5 al 3,1 per cento del Pil. Non esattamente le stesse condizioni in cui Tsipras è arrivato al potere in gennaio, quando aveva promesse più generose di quelle di Corbyn ma da applicare in un Paese in default strutturale, privo di accesso ai mercati finanziari e dipendente dagli aiuti internazionali.
Corbyn si è fatto la fama di avere un programma molto vago, in economia. Ma non è così. C’è un documento, “The Economy in 2020”, che risale a luglio ed è abbastanza preciso almeno nel delineare le idee di fondo. In sintesi: Corbyn non appartiene ai teorici della decrescita, non è rassegnato a una Gran Bretagna in declino in cui l’unico compito della sinistra è distribuire equamente i sacrifici (modello Tsipras). “La creazione di ricchezza è una cosa buona: tutti noi vogliamo una maggiore prosperità”, è la prima frase, che evoca quell’ “arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping alle radici del boom cinese di questi decenni.
Il punto è la ricetta. Corbyn non si fida del mercato, sostiene però che la ricetta dei conservatori è sbagliata: non si produce crescita tagliano le tasse ai ricchi e alle imprese affidandosi all’idea che, con i giusti incentivi, il mercato genera innovazione e prosperità. Le sue proposte sono da socialdemocratico, più che da rivoluzionario: contesta al governo Cameron di aver ridotto la tassa di successione per i patrimoni elevati, un intervento da 2,5 miliardi di sterline che va a beneficio solo del 4 per cento della popolazione. Idem per la scelta sulla tassa sul reddito d’impresa: è stata ridotta al 20 per cento, la più bassa del G7, “perfino più bassa del 25 per cento in Cina e la metà del 40 per cento negli Stati Uniti”. Anche qui 2,5 miliardi di gettito in meno.
Corbyn sostiene, e ha i suoi argomenti, che dietro l’ossessione dei conservatori per l’austerità non ci sono conti pubblici insostenibili, ma la vecchia ideologia thatcheriana che più piccolo è lo Stato, meglio funziona l’economia. Se proprio si vuole ridurre il deficit, dice Corbyn, facciamolo alzando le tasse: lo spazio di manovra c’è eccome. Addirittura il leader labour scrive di condividere l’obiettivo del cancelliere dello Scacchiere Osborne di azzerare il deficit nel 2020. Ma in modo diverso, stimolando con investimenti una crescita equa e diffusa invece che con tagli al welfare. Sul Financial Times il capo dei commentatori economici Martin Wolf ha scritto che “non si può avanzare nessun argomento forte per tagliare la quota della spesa pubblica sul Pil ai suoi libelli più bassi in 70 anni entro il 2019-2010, per mantenere un avanzo di bilancio in tempi normali o per abbassare contemporaneamente i benefici per i lavoratori poveri e la tassa di successione. E’ il lavoro della sinistra sfidare queste scelte”.
Un gruppo di economisti, non tutti sostenitori di Corbyn, hanno firmato sul Guardian un appello chiedendo di smetterla di raccontare fandonie sul suo conto: “La sua opposizione all’austerità non è altro che l’economia mainstream, sostenuta perfino dal conservatore Fondo monetario interazionale. Lui vuole spingere la crescita e la prosperità e ha votato contro il vergognoso disegno di legge di 12 miliardi di tagli al welfare”. Tra i firmatari Mariana Mazzucato, economista italiana che insegna in Sussex ed è la principale voce a favore degli investimenti pubblici. La promessa di nuovi investimenti, per la verità, è la parte più scivolosa del programma di Corbyn perché si regge sull’idea di un “quantitative easing per il popolo” invece che per le banche. Secondo quanto si è capito, l’idea del deputato laburista è che la Banca d’Inghilterra usi la sua liquidità e l’espansione del suo bilancio per finanziare investimenti pubblici invece che per comprare titoli sul mercato e dalle banche così da abbassare i costi di finanziamento. Una agenzia degli investimenti emetterebbe bond da usare per finanziare poi opere pubbliche e quel debito sarebbe comprato dalla Bank of England, privata, si suppone, di ogni indipendenza (come? È giuridicamente possibile? Boh). Non è detto che funzioni e che sia politicamente percorribile. Ma non è neppure detto che sia peggio della linea seguita dal governo Cameron: le ultime previsioni economiche della Commissione europea sottolineano – con una velata preoccupazione – la linea di sviluppo scelta dai conservatori. Cioè incentivare gli inglesi a risparmiare per comprarsi una casa. Che in un Paese reduce da una bolla immobiliare non è forse la scelta più saggia.
Discorso diverso sulla parte fiscale, quella che spaventa i giornali conservatori sensibili alle esigenze dei grandi gruppi finanziari. Nella parte sulla “giustizia fiscale”, Corbyn spiega di voler aumentare il prelievo fiscale di 120 miliardi di sterline all’anno. Soprattutto combattendo evasione e elusione fiscale, oltre che migliorando la capacità di riscossione del fisco. Primo passo: aumentare lo staff delle agenzie incaricate di raccogliere le imposte. Poi, certo, vuole anche far pagare più tasse. Ma il grosso delle entrate della Corbynomics derivano dalla scelta di impegnarsi di più a ottenere quanto già dovuto. I ricchi, comunque, dovranno pagare di più: “Il punto principale con cui si deve confrontare la politica britannica è se l’aliquota fiscale più alta (in realtà tax rate, cioè il peso del fisco, ndr) deve essere del 25 o del 50 per cento o invece del 18 o del 20 per cento”. Parole che, è comprensibile, hanno suscitato un certo panico in un Paese che è di fatto un paradiso fiscale al centro dell’Europa.
Le soluzioni di Corbyn sono, insomma, radicali ma di buon senso. Non certo meno radicali di quelle dei conservatori di David Cameron, che stanno smantellando il welfare mentre aiutano le imprese per ragioni ideologiche, non economiche. Sempre Martin Wolf del Financial Times evoca un parallelo tra Corbyn e il primo Tony Blair, a inizio degli anni Novanta: una sinistra che fa una diagnosi del mondo e delle sfide che ha di fronte e propone soluzioni drastiche, invece che limitarsi a piccoli aggiustamenti al margine.
Tutt’altra storia rispetto a Tsipras che ha vinto le elezioni senza avere alcuna possibilità di mantenere le demagogiche promesse della campagna elettorale. E che, con un misto di ingenuità, idealismo e furbizia tattica mista a ottusità strategica, ha congelato i rapporti tra Unione europea e Atene per mesi e mesi.
Tsipras è un leader che non poteva perdere ma che neppure poteva governare. Corbyn, almeno per ora, sembra un leader che non può vincere ma che avrebbe idee molto interessanti da vedere applicate. Troppo presto per immaginare come finirà. Ma il rosso del nuovo capo dei laburisti è decisamente più carico e convinto di quello di Syriza in Grecia.[size=200] E la scommessa della sinistra inglese molto più interessante.
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Certamente la sinistra socialista si è piegata al neoliberismo e si riduce a ben poco, quindi ben vengano idee chiare
e senza compromessi stile Renzi
di Stefano Feltri | 14 settembre 2015- Il F.Q.
“Pagare le tasse non è un fardello, è il canone che paghiamo per vivere in una società civilizzata”. La Gran Bretagna non è la Grecia e Jeremy Corbyn non è Alexis Tsipras, anche se l’ostilità intorno al nuovo leader dei laburisti inglesi è simile a quella che ha circondato l’ex premier greco negli otto mesi in cui è stato in carica. Corbyn vuole più welfare State, più salari e più tasse per finanziare la spesa pubblica, ma le sue richieste riguardano un Paese che è fuori dall’euro, che nel 2014 è cresciuto del 2,8 per cento e che ha un deficit sotto controllo, che deve passare dal 4,5 al 3,1 per cento del Pil. Non esattamente le stesse condizioni in cui Tsipras è arrivato al potere in gennaio, quando aveva promesse più generose di quelle di Corbyn ma da applicare in un Paese in default strutturale, privo di accesso ai mercati finanziari e dipendente dagli aiuti internazionali.
Corbyn si è fatto la fama di avere un programma molto vago, in economia. Ma non è così. C’è un documento, “The Economy in 2020”, che risale a luglio ed è abbastanza preciso almeno nel delineare le idee di fondo. In sintesi: Corbyn non appartiene ai teorici della decrescita, non è rassegnato a una Gran Bretagna in declino in cui l’unico compito della sinistra è distribuire equamente i sacrifici (modello Tsipras). “La creazione di ricchezza è una cosa buona: tutti noi vogliamo una maggiore prosperità”, è la prima frase, che evoca quell’ “arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping alle radici del boom cinese di questi decenni.
Il punto è la ricetta. Corbyn non si fida del mercato, sostiene però che la ricetta dei conservatori è sbagliata: non si produce crescita tagliano le tasse ai ricchi e alle imprese affidandosi all’idea che, con i giusti incentivi, il mercato genera innovazione e prosperità. Le sue proposte sono da socialdemocratico, più che da rivoluzionario: contesta al governo Cameron di aver ridotto la tassa di successione per i patrimoni elevati, un intervento da 2,5 miliardi di sterline che va a beneficio solo del 4 per cento della popolazione. Idem per la scelta sulla tassa sul reddito d’impresa: è stata ridotta al 20 per cento, la più bassa del G7, “perfino più bassa del 25 per cento in Cina e la metà del 40 per cento negli Stati Uniti”. Anche qui 2,5 miliardi di gettito in meno.
Corbyn sostiene, e ha i suoi argomenti, che dietro l’ossessione dei conservatori per l’austerità non ci sono conti pubblici insostenibili, ma la vecchia ideologia thatcheriana che più piccolo è lo Stato, meglio funziona l’economia. Se proprio si vuole ridurre il deficit, dice Corbyn, facciamolo alzando le tasse: lo spazio di manovra c’è eccome. Addirittura il leader labour scrive di condividere l’obiettivo del cancelliere dello Scacchiere Osborne di azzerare il deficit nel 2020. Ma in modo diverso, stimolando con investimenti una crescita equa e diffusa invece che con tagli al welfare. Sul Financial Times il capo dei commentatori economici Martin Wolf ha scritto che “non si può avanzare nessun argomento forte per tagliare la quota della spesa pubblica sul Pil ai suoi libelli più bassi in 70 anni entro il 2019-2010, per mantenere un avanzo di bilancio in tempi normali o per abbassare contemporaneamente i benefici per i lavoratori poveri e la tassa di successione. E’ il lavoro della sinistra sfidare queste scelte”.
Un gruppo di economisti, non tutti sostenitori di Corbyn, hanno firmato sul Guardian un appello chiedendo di smetterla di raccontare fandonie sul suo conto: “La sua opposizione all’austerità non è altro che l’economia mainstream, sostenuta perfino dal conservatore Fondo monetario interazionale. Lui vuole spingere la crescita e la prosperità e ha votato contro il vergognoso disegno di legge di 12 miliardi di tagli al welfare”. Tra i firmatari Mariana Mazzucato, economista italiana che insegna in Sussex ed è la principale voce a favore degli investimenti pubblici. La promessa di nuovi investimenti, per la verità, è la parte più scivolosa del programma di Corbyn perché si regge sull’idea di un “quantitative easing per il popolo” invece che per le banche. Secondo quanto si è capito, l’idea del deputato laburista è che la Banca d’Inghilterra usi la sua liquidità e l’espansione del suo bilancio per finanziare investimenti pubblici invece che per comprare titoli sul mercato e dalle banche così da abbassare i costi di finanziamento. Una agenzia degli investimenti emetterebbe bond da usare per finanziare poi opere pubbliche e quel debito sarebbe comprato dalla Bank of England, privata, si suppone, di ogni indipendenza (come? È giuridicamente possibile? Boh). Non è detto che funzioni e che sia politicamente percorribile. Ma non è neppure detto che sia peggio della linea seguita dal governo Cameron: le ultime previsioni economiche della Commissione europea sottolineano – con una velata preoccupazione – la linea di sviluppo scelta dai conservatori. Cioè incentivare gli inglesi a risparmiare per comprarsi una casa. Che in un Paese reduce da una bolla immobiliare non è forse la scelta più saggia.
Discorso diverso sulla parte fiscale, quella che spaventa i giornali conservatori sensibili alle esigenze dei grandi gruppi finanziari. Nella parte sulla “giustizia fiscale”, Corbyn spiega di voler aumentare il prelievo fiscale di 120 miliardi di sterline all’anno. Soprattutto combattendo evasione e elusione fiscale, oltre che migliorando la capacità di riscossione del fisco. Primo passo: aumentare lo staff delle agenzie incaricate di raccogliere le imposte. Poi, certo, vuole anche far pagare più tasse. Ma il grosso delle entrate della Corbynomics derivano dalla scelta di impegnarsi di più a ottenere quanto già dovuto. I ricchi, comunque, dovranno pagare di più: “Il punto principale con cui si deve confrontare la politica britannica è se l’aliquota fiscale più alta (in realtà tax rate, cioè il peso del fisco, ndr) deve essere del 25 o del 50 per cento o invece del 18 o del 20 per cento”. Parole che, è comprensibile, hanno suscitato un certo panico in un Paese che è di fatto un paradiso fiscale al centro dell’Europa.
Le soluzioni di Corbyn sono, insomma, radicali ma di buon senso. Non certo meno radicali di quelle dei conservatori di David Cameron, che stanno smantellando il welfare mentre aiutano le imprese per ragioni ideologiche, non economiche. Sempre Martin Wolf del Financial Times evoca un parallelo tra Corbyn e il primo Tony Blair, a inizio degli anni Novanta: una sinistra che fa una diagnosi del mondo e delle sfide che ha di fronte e propone soluzioni drastiche, invece che limitarsi a piccoli aggiustamenti al margine.
Tutt’altra storia rispetto a Tsipras che ha vinto le elezioni senza avere alcuna possibilità di mantenere le demagogiche promesse della campagna elettorale. E che, con un misto di ingenuità, idealismo e furbizia tattica mista a ottusità strategica, ha congelato i rapporti tra Unione europea e Atene per mesi e mesi.
Tsipras è un leader che non poteva perdere ma che neppure poteva governare. Corbyn, almeno per ora, sembra un leader che non può vincere ma che avrebbe idee molto interessanti da vedere applicate. Troppo presto per immaginare come finirà. Ma il rosso del nuovo capo dei laburisti è decisamente più carico e convinto di quello di Syriza in Grecia.[size=200] E la scommessa della sinistra inglese molto più interessante.
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Certamente la sinistra socialista si è piegata al neoliberismo e si riduce a ben poco, quindi ben vengano idee chiare
e senza compromessi stile Renzi
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Certamente belle parole e belle idee, ma la domanda se Lauretta fosse presente sul forum è sempre la stessa: COME SI REALIZZANO?
il manifesto 16.9.15
L’attualità dei valori della sinistra
C'è vita a sinistra. Rappresentanza, uguaglianza, europeismo, diritti civili. Sono le buone ragioni dell’unità a sinistra contro l’astensionismo, il nazionalismo, le diseguaglianze
Abbiamo più ragioni di dialogo e di azione comune che non di scontro. Come ci dicono i territori
di Laura Boldrini
Per intervenire nel dibattito assai interessante promosso dal manifesto parto da un dato che mi pare scomparso troppo rapidamente, quasi rimosso, dalla discussione politica degli ultimi mesi: il pesante calo dell’affluenza registrato alle ultime Regionali.
Sono percentuali che devono continuare a tenere in ansia tutti coloro che credono ad una concezione non formalistica della democrazia, ed in particolare la sinistra italiana che dei tassi di partecipazione elettorale tradizionalmente alti ha fatto per decenni, e giustamente, una sua bandiera.
A questo impoverimento della vita pubblica non ci si può rassegnare.
Né convince la spiegazione che vorrebbe spacciarlo come “allineamento alle dinamiche occidentali”.
Serve invece un coinvolgimento pieno dei cittadini, dei corpi intermedi, delle rappresentanze associate.
Credo si debba dare visibilità e rappresentanza politica alle forme di partecipazione vecchie e nuove, compreso quell’attivismo digitale capace di costruire campagne che arrivano a farsi sentire e ad incidere anche nelle stanze delle istituzioni.
Insieme ai dati elettorali, c’è un’altra percentuale che uso come chiave di analisi e di orientamento politico.
E’ quella che ricorda Michele Ainis in un suo libro di qualche mese fa: «In Italia la diseguaglianza fra le classi sociali è cresciuta del 33% dopo gli anni Ottanta, contro una media Ocse del 12%.
Insomma, il triplo».
Una situazione così bloccata che «il 53% degli italiani rimane intrappolato nel suo ceto d’origine».
Vorrei che la sinistra italiana, nelle sue multiformi articolazioni, non dimenticasse mai queste poche cifre, e trovasse in esse una delle ragioni essenziali del necessario impegno comune.
Non ha nulla di novecentesco, il criterio delle diseguaglianze sociali: in forme nuove, mantiene una durissima centralità che la battaglie “anticasta” e “antiburocrazia” non devono offuscare.
Ad una sinistra che sia consapevole dei propri valori e della loro attualità, si offre oggi un campo di azione potenzialmente persino più ampio che in passato.
Un campo di azione che — ormai lo stiamo comprendendo tutti — non può più avere i confini degli Stati nazionali.
Il terreno sul quale la sinistra, anche italiana, deve dimostrare la sua vitalità è sempre più quello europeo.
Negli ultimi mesi ce lo hanno detto due vicende di portata epocale.
Da un lato la crisi greca, dove l’incontrovertibile fallimento dell’austerità messa in atto negli anni scorsi non è tuttavia bastato ad assicurare un’inversione nelle politiche economiche dell’Unione.
L’Europa, questa Europa, non sa ancora assumere come metro di valutazione delle scelte finanziarie il loro impatto sociale, e continua a tenere al laccio di un rigore miope le esperienze nazionali più penalizzate dal modello “troika”.
Dall’altro la questione dei rifugiati, che sui libri di storia ricorderemo un giorno anche attraverso il commovente titolo “Niente asilo” con cui avete reso omaggio al piccolo Aylan.
E’ evidente che nessuno Stato può rispondere da solo: serve una politica comune dei 28 Paesi, tale da consentire un’equa distribuzione di oneri e responsabilità.
Ed è altrettanto chiaro che, sul filo spinato della frontiera ungherese, l’Europa si gioca una parte determinante della sua credibilità come terra dei diritti e delle libertà.
Per questo, alla domanda che fa Norma Rangeri nel “decalogo” che ha avviato questo dibattito — «l’idea degli Stati Uniti d’Europa ha ancora una forza trainante?» — rispondo con il sì più netto.
Se resta così com’è, l’Europa affonda tra la disaffezione dei cittadini e gli assalti propagandistici dei demagoghi. Ma tornare dentro gli Stati nazionali è anacronistico e illusorio.
Serve uno scatto deciso verso l’integrazione, verso un’unione federale di Stati in cui l’economia sia al servizio delle scelte politiche e dove la dimensione sociale assuma indispensabile centralità, se non vogliamo che le nostre democrazie collassino.
Su questi temi, così come sulle questioni della cittadinanza e delle unioni civili, mi pare che le varie anime della sinistra italiana abbiano più ragioni di dialogo e di azione comune che non di scontro.
Resto convinta, come ripeto da inizio legislatura, che sia innaturale la collocazione su fronti opposti di forze che hanno ideali e obiettivi largamente comuni.
Dai territori, dalle esperienze fatte in importanti Comuni — a partire dalla Milano di Giuliano Pisapia, che ha svolto e svolge un ruolo di “ponte” essenziale anche a livello nazionale — viene una lezione che va messa a frutto innanzitutto nelle Amministrative della primavera prossima.
il manifesto 16.9.15
L’attualità dei valori della sinistra
C'è vita a sinistra. Rappresentanza, uguaglianza, europeismo, diritti civili. Sono le buone ragioni dell’unità a sinistra contro l’astensionismo, il nazionalismo, le diseguaglianze
Abbiamo più ragioni di dialogo e di azione comune che non di scontro. Come ci dicono i territori
di Laura Boldrini
Per intervenire nel dibattito assai interessante promosso dal manifesto parto da un dato che mi pare scomparso troppo rapidamente, quasi rimosso, dalla discussione politica degli ultimi mesi: il pesante calo dell’affluenza registrato alle ultime Regionali.
Sono percentuali che devono continuare a tenere in ansia tutti coloro che credono ad una concezione non formalistica della democrazia, ed in particolare la sinistra italiana che dei tassi di partecipazione elettorale tradizionalmente alti ha fatto per decenni, e giustamente, una sua bandiera.
A questo impoverimento della vita pubblica non ci si può rassegnare.
Né convince la spiegazione che vorrebbe spacciarlo come “allineamento alle dinamiche occidentali”.
Serve invece un coinvolgimento pieno dei cittadini, dei corpi intermedi, delle rappresentanze associate.
Credo si debba dare visibilità e rappresentanza politica alle forme di partecipazione vecchie e nuove, compreso quell’attivismo digitale capace di costruire campagne che arrivano a farsi sentire e ad incidere anche nelle stanze delle istituzioni.
Insieme ai dati elettorali, c’è un’altra percentuale che uso come chiave di analisi e di orientamento politico.
E’ quella che ricorda Michele Ainis in un suo libro di qualche mese fa: «In Italia la diseguaglianza fra le classi sociali è cresciuta del 33% dopo gli anni Ottanta, contro una media Ocse del 12%.
Insomma, il triplo».
Una situazione così bloccata che «il 53% degli italiani rimane intrappolato nel suo ceto d’origine».
Vorrei che la sinistra italiana, nelle sue multiformi articolazioni, non dimenticasse mai queste poche cifre, e trovasse in esse una delle ragioni essenziali del necessario impegno comune.
Non ha nulla di novecentesco, il criterio delle diseguaglianze sociali: in forme nuove, mantiene una durissima centralità che la battaglie “anticasta” e “antiburocrazia” non devono offuscare.
Ad una sinistra che sia consapevole dei propri valori e della loro attualità, si offre oggi un campo di azione potenzialmente persino più ampio che in passato.
Un campo di azione che — ormai lo stiamo comprendendo tutti — non può più avere i confini degli Stati nazionali.
Il terreno sul quale la sinistra, anche italiana, deve dimostrare la sua vitalità è sempre più quello europeo.
Negli ultimi mesi ce lo hanno detto due vicende di portata epocale.
Da un lato la crisi greca, dove l’incontrovertibile fallimento dell’austerità messa in atto negli anni scorsi non è tuttavia bastato ad assicurare un’inversione nelle politiche economiche dell’Unione.
L’Europa, questa Europa, non sa ancora assumere come metro di valutazione delle scelte finanziarie il loro impatto sociale, e continua a tenere al laccio di un rigore miope le esperienze nazionali più penalizzate dal modello “troika”.
Dall’altro la questione dei rifugiati, che sui libri di storia ricorderemo un giorno anche attraverso il commovente titolo “Niente asilo” con cui avete reso omaggio al piccolo Aylan.
E’ evidente che nessuno Stato può rispondere da solo: serve una politica comune dei 28 Paesi, tale da consentire un’equa distribuzione di oneri e responsabilità.
Ed è altrettanto chiaro che, sul filo spinato della frontiera ungherese, l’Europa si gioca una parte determinante della sua credibilità come terra dei diritti e delle libertà.
Per questo, alla domanda che fa Norma Rangeri nel “decalogo” che ha avviato questo dibattito — «l’idea degli Stati Uniti d’Europa ha ancora una forza trainante?» — rispondo con il sì più netto.
Se resta così com’è, l’Europa affonda tra la disaffezione dei cittadini e gli assalti propagandistici dei demagoghi. Ma tornare dentro gli Stati nazionali è anacronistico e illusorio.
Serve uno scatto deciso verso l’integrazione, verso un’unione federale di Stati in cui l’economia sia al servizio delle scelte politiche e dove la dimensione sociale assuma indispensabile centralità, se non vogliamo che le nostre democrazie collassino.
Su questi temi, così come sulle questioni della cittadinanza e delle unioni civili, mi pare che le varie anime della sinistra italiana abbiano più ragioni di dialogo e di azione comune che non di scontro.
Resto convinta, come ripeto da inizio legislatura, che sia innaturale la collocazione su fronti opposti di forze che hanno ideali e obiettivi largamente comuni.
Dai territori, dalle esperienze fatte in importanti Comuni — a partire dalla Milano di Giuliano Pisapia, che ha svolto e svolge un ruolo di “ponte” essenziale anche a livello nazionale — viene una lezione che va messa a frutto innanzitutto nelle Amministrative della primavera prossima.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Chi ha seguito ieri Ballarò ha POTUTO SENTIRE DA LANDINI che a Melfi i lavoratori ultimamente hanno votato in maggioranza FIOM.
Il metodo Marchionne sembra che non porti vantaggi né ai lavoratori nè alla Fabbrica, al contrario in Svezia hanno provato con successo la giornata lavorativa di 6 ore a parità di stipendio.
Il metodo Marchionne sembra che non porti vantaggi né ai lavoratori nè alla Fabbrica, al contrario in Svezia hanno provato con successo la giornata lavorativa di 6 ore a parità di stipendio.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Il Sole 18.9.15
Vecchio continente al voto. Dopo la Grecia, Portogallo e Spagna
Le frange della sinistra e le sfide per l’Europa
di Franco Debenedetti
Domenica in Grecia, in Ottobre in Portogallo, in Dicembre in Spagna: tre votazioni in Europa in poco più di tre mesi. Quattro, se contiamo le primarie nel Labour inglese. L’attenzione, oltre che ai risultati in sé, è alle nuove formazioni di sinistra estrema, e a come potranno influire sulla classica contrapposizione popolari-socialisti. In Grecia, le tre ore in televisione tra Alexis Tsipras and Vangelos Meimarakis non hanno dato un chiaro vincitore. Che Tsipras arrivi primo o secondo, comunque il programma originario di Syriza è solo più l’ombra di Banco (Varoufakis lo considera ormai un “falso amico”); comunque sarà obbligato a una coalizione col centro destra; comunque governare equivarrà a eseguire i dettati della Troika, o come adesso si chiama. Se non risultasse primo, più che il fatto sarebbe rilevante la causa del fatto: la sinistra di Unità Popolare che, superando il 4%, entra in Parlamento, sottrae deputati a Syriza e rimette in gioco Nea Demokratia facendone il vero vincitore. In Spagna, Pablo Iglesias leader di Podemos pensa solo a contare i voti che riesce a sottrarre ai socialisti di Pedro Sanchez, con cui peraltro si alleerebbe in caso di vittoria; dando così al popolare Mariano Rajoy buone chance di rimonta. Anche il Portogallo ha i suoi Juntos Podemos. Negano di essere una “franchise” degli spagnoli, dicono di non appartenere né alla destra né alla sinistra e che il bipolarismo è finito; per ora non hanno però i requisiti per presentarsi alle elezioni. Il socialista Antonio Costa incolpa il socialdemocratico (in realtà liberale) Pedro Passos Coelho di avere superato in austerità perfino le richieste della Troika, e questi ribatte accusando l’avversario di promettere miracoli che non potrà mantenere. Quello che batte tutti è lo strepitoso successo di Jeremy Corbyn. Mentre gli altri dovranno fare i conti con i vincoli dei bilanci e il giudizio dei mercati, il laburista ha conquistato la libertà di dire quello che vuole, uscire dalla Nato, smantellare la difesa, nazionalizzare (senza indennizzo, azzarda qualcuno dei suoi), riaprire le miniere di carbone. Ha vinto, ed è sicuro di non governare. Conquistata la maggioranza nei laburisti, si è assicurato di avere la minoranza nel Paese. Alla minoranza del nostro PD, Corbyn può regalare sogni, emozioni, a qualcuno perfino un’illusione.
Nulla a paragone dei brividi di piacere che suscitava Tsipras quando insieme a Varoufakis andava a Bruxelles a dare lezioni di economia a Schaeuble. Ma Tsipras è stato sconfitto alla prova di Governo, ed è Renzi che può portare a casa i margini di flessibilità. Quand’erano maggioranza hanno fatto da sponda al M5S, ora che sono minoranza forse ci pensano ancora (anche loro “una costola della sinistra”?): non capiscono che, più di Renzi, sono quelli i veri avversari. Eppure tutte queste cose, sembrano cose irreali di fronte all’emergenza immigrazione. Emergenza politica, senza di che non c’è speranza di dare risposta al problema umanitario. In pochi giorni Angela Merkel passa dagli applausi alle accuse di avere riportato le frontiere tra gli Stati d’Europa. Paga l’errore di aver confuso un integrale con una derivata, gli stock con i flussi, la differenza tra accogliere 300.000 siriani in un anno nel paese e vederne arrivare 10.000 in un giorno in una città. L’Europa, anzi dell’Occidente, sta pagando l’errore di concentrarsi a soccorrere le emergenze di quelli che arrivano, rifuggendo dall’affrontare i problemi prima che partano. Per farlo, bisognerebbe avere una strategia; non averla, questa è la vera emergenza.
C’era un’Europa del Sud, da anni si parla dei suoi problemi; ora ci si accorge che c’è un’Europa dell'Est, che ne ha di altro tipo. Al centro c’è l’Europa originaria, quella dei firmatari del Trattato di Roma, e mostra un’insospettata solidità. Noi ne siamo parte, ne siamo uno dei fondatori; restarci è la sfida da cui dipende il nostro destino. Per riuscirci dobbiamo solo (solo!) recuperare la produttività che abbiamo perso, la crescita che abbiamo abbandonato. Non basta privatizzare, rivedere la spesa, tagliare enti inutili. Quello che serve si chiama giustizia, scuola, amministrazione. Cose che non hanno nulla a che vedere con le identità, le radici, le ripicche; cose irreali quanto i propositi di Corbyn, senza averne la donchisciottesca grandezza .
Vecchio continente al voto. Dopo la Grecia, Portogallo e Spagna
Le frange della sinistra e le sfide per l’Europa
di Franco Debenedetti
Domenica in Grecia, in Ottobre in Portogallo, in Dicembre in Spagna: tre votazioni in Europa in poco più di tre mesi. Quattro, se contiamo le primarie nel Labour inglese. L’attenzione, oltre che ai risultati in sé, è alle nuove formazioni di sinistra estrema, e a come potranno influire sulla classica contrapposizione popolari-socialisti. In Grecia, le tre ore in televisione tra Alexis Tsipras and Vangelos Meimarakis non hanno dato un chiaro vincitore. Che Tsipras arrivi primo o secondo, comunque il programma originario di Syriza è solo più l’ombra di Banco (Varoufakis lo considera ormai un “falso amico”); comunque sarà obbligato a una coalizione col centro destra; comunque governare equivarrà a eseguire i dettati della Troika, o come adesso si chiama. Se non risultasse primo, più che il fatto sarebbe rilevante la causa del fatto: la sinistra di Unità Popolare che, superando il 4%, entra in Parlamento, sottrae deputati a Syriza e rimette in gioco Nea Demokratia facendone il vero vincitore. In Spagna, Pablo Iglesias leader di Podemos pensa solo a contare i voti che riesce a sottrarre ai socialisti di Pedro Sanchez, con cui peraltro si alleerebbe in caso di vittoria; dando così al popolare Mariano Rajoy buone chance di rimonta. Anche il Portogallo ha i suoi Juntos Podemos. Negano di essere una “franchise” degli spagnoli, dicono di non appartenere né alla destra né alla sinistra e che il bipolarismo è finito; per ora non hanno però i requisiti per presentarsi alle elezioni. Il socialista Antonio Costa incolpa il socialdemocratico (in realtà liberale) Pedro Passos Coelho di avere superato in austerità perfino le richieste della Troika, e questi ribatte accusando l’avversario di promettere miracoli che non potrà mantenere. Quello che batte tutti è lo strepitoso successo di Jeremy Corbyn. Mentre gli altri dovranno fare i conti con i vincoli dei bilanci e il giudizio dei mercati, il laburista ha conquistato la libertà di dire quello che vuole, uscire dalla Nato, smantellare la difesa, nazionalizzare (senza indennizzo, azzarda qualcuno dei suoi), riaprire le miniere di carbone. Ha vinto, ed è sicuro di non governare. Conquistata la maggioranza nei laburisti, si è assicurato di avere la minoranza nel Paese. Alla minoranza del nostro PD, Corbyn può regalare sogni, emozioni, a qualcuno perfino un’illusione.
Nulla a paragone dei brividi di piacere che suscitava Tsipras quando insieme a Varoufakis andava a Bruxelles a dare lezioni di economia a Schaeuble. Ma Tsipras è stato sconfitto alla prova di Governo, ed è Renzi che può portare a casa i margini di flessibilità. Quand’erano maggioranza hanno fatto da sponda al M5S, ora che sono minoranza forse ci pensano ancora (anche loro “una costola della sinistra”?): non capiscono che, più di Renzi, sono quelli i veri avversari. Eppure tutte queste cose, sembrano cose irreali di fronte all’emergenza immigrazione. Emergenza politica, senza di che non c’è speranza di dare risposta al problema umanitario. In pochi giorni Angela Merkel passa dagli applausi alle accuse di avere riportato le frontiere tra gli Stati d’Europa. Paga l’errore di aver confuso un integrale con una derivata, gli stock con i flussi, la differenza tra accogliere 300.000 siriani in un anno nel paese e vederne arrivare 10.000 in un giorno in una città. L’Europa, anzi dell’Occidente, sta pagando l’errore di concentrarsi a soccorrere le emergenze di quelli che arrivano, rifuggendo dall’affrontare i problemi prima che partano. Per farlo, bisognerebbe avere una strategia; non averla, questa è la vera emergenza.
C’era un’Europa del Sud, da anni si parla dei suoi problemi; ora ci si accorge che c’è un’Europa dell'Est, che ne ha di altro tipo. Al centro c’è l’Europa originaria, quella dei firmatari del Trattato di Roma, e mostra un’insospettata solidità. Noi ne siamo parte, ne siamo uno dei fondatori; restarci è la sfida da cui dipende il nostro destino. Per riuscirci dobbiamo solo (solo!) recuperare la produttività che abbiamo perso, la crescita che abbiamo abbandonato. Non basta privatizzare, rivedere la spesa, tagliare enti inutili. Quello che serve si chiama giustizia, scuola, amministrazione. Cose che non hanno nulla a che vedere con le identità, le radici, le ripicche; cose irreali quanto i propositi di Corbyn, senza averne la donchisciottesca grandezza .
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
NON SO VOI, MA IO CONDIVIDO AL CENTO PER CENTO QUESTA STRAORDINARIA CAPACITA' DI NADIA URBINATI DI SAPER DESCRIVERE MAGISTRALMENTE LA REALTA' DI QUANTO STA ACCADENDO.
Repubblica 18.9.15
La democrazia dell’indifferenza
La politica sembra spezzata tra un dentro che decide e un fuori che sente di avere un ruolo irrilevante
di Nadia Urbinati
OSCAR Wilde diceva che «il problema del socialismo è che impegna troppe serate ».
L’accusa di far perdere tempo ai cittadini occupandoli di politica troppi giorni all’anno era ancora più calzante per la democrazia, anche per questo tradizionalmente poco apprezzata.
A giudicare da quel che registriamo nelle nostre società, il problema della panpolitica sembra definitivamente risolto.
La situazione è anzi rovesciata: la democrazia non interessa più così intensamente, e la politica occupa pochissimo del tempo dei cittadini, lasciandoli anzi progressivamente più indifferenti.
La fine della democrazia dei partiti ha completato il ciclo dell’interesse per la politica e sancito l’età del disimpegno.
L’indifferenza verso la politica è oggi l’emozione più popolarmente estesa, ha scritto Peter Mair nel suo ultimo libro, Ruling the Void (“Governare il vuoto”).
La democrazia dei partiti è passata.
I partiti persistono, benché siano sconnessi dalla società larga, protagonisti di battaglie che sempre più spesso mirano a rafforzare il loro potere istituzionale.
La fotografia che ci consegna l’inchiesta recente svolta da Ilvio Diamanti per Repubblica conferma questo stato di cose: «La marcia di Matteo Renzi al governo procede senza scosse e senza accelerazioni particolari. Da tempo non riesce più a sollevare entusiasmo. Le speranze, attorno a lui, si sono raffreddate. Ma, per ora, non sembra in pericolo».
Senza entusiasmo, raffreddamento dell’interesse, ma stabilità.
Continuità per forza di inerzia.
L’indifferenza è la cifra della democrazia odierna.
Impoverita di partecipazione, depotenziata di efficacia a causa della fine della democrazia dei partiti, la cittadinanza è resa ad arte luogo di emotività a sostegno o come contorno di leader, svuotata di effettivo interesse perché depauperata del potere di influenza.
I “partiti cartello” svolgono essenzialmente solo la funzione di cooptazione del personale politico da portare nelle istituzioni, che cercando di adattare più che possono a questa nuova loro identità, sancendo nelle norme la diminuita rilevanza del cittadino come agente di sovranità.
A questa riconfigurazione del partito tutta interna alle istituzioni corrisponde una caduta di interesse dei cittadini per la politica, in larghe fasce di popolazione una vera e propria indifferenza verso la democrazia e le sue regole.
Un termine, questo di “indifferenza”, che non denota necessariamente reazione contro la politica, uno stato emotivo che è tutto sommato espressione di una qualche pulsione mobilitante.
Del resto, gli avvenimenti politici appaiono impermeabili all’influenza dei cittadini e lo stesso voto sembra poco incisivo e di fatto non identificato con la più importante espressione di sovranità.
Fareed Zakaria ha addirittura scritto che il modello occidentale di democrazia potrebbe a questo punto fare a meno anche degli elettori, poiché il suo centro sono gli istituti di controllo più che gli organi elettivi.
Alcuni studiosi parlano infine di una trasformazione della rappresentanza, sempre meno associata alla formazione delle assemblee legislative e al voto e sempre più intesa come rappresentazione simbolica di questioni o rivendicazioni ( claim representation ), mezzo per sollevare problemi più che per convogliarli verso la decisione.
La politica si spezza in due: quella che determina le decisioni che è sempre più un affare dei pochi che i partiti-cartello captano e cooptano; quella che giudica e commenta da fuori con scarsa o alcuna influenza e che è esercitata dai cittadini nei luoghi di opinione non direttamente politici, come le associazioni, i blog o i social network.
Con l’esito che chi decide non ascolta e chi da fuori osserva e giudica non è ascoltato.
È prevedibile che neppure la democrazia dell’audience reggerà alla caduta di interesse.
Poiché assistere a uno spettacolo fatto da altri comporta in fondo interessarsi presumendo che le opinioni del pubblico non siano inermi.
Questa ulteriore trasformazione della democrazia da audience a democrazia indifferente è misurata dagli studiosi in relazione a due fattori: la partecipazione al voto e l’arruolamento nei partiti.
L’astensione elettorale è una piaga generalizzata in tutti i paesi a cosiddetta democrazia matura.
A partire dagli anni Novanta, e senza interruzione, il trend di questo declino ha marcato i comportamenti elettorali dei cittadini di tutti i paesi europei.
Parallelamente, è consolidata l’emorragia degli iscritti ai partiti (l’inversione di tendenza recepita nel Labour in seguito all’elezione di Corbyn conferma questo trend).
L’abbandono dei partiti è stato in alcuni casi esemplari accompagnato dalla creazione di partiti non-partiti, di partiti-movimento.
Questi hanno generano attenzione polemica e mosso l’opinione, ma senza dimostrare di riuscire a ridare efficacia alla cittadinanza, senza riuscire a rompere l’incantesimo della politica spezzata tra un dentro che decide e un fuori che sente di avere un ruolo irrilevante, indifferente all’andamento delle cose politiche.
Repubblica 18.9.15
La democrazia dell’indifferenza
La politica sembra spezzata tra un dentro che decide e un fuori che sente di avere un ruolo irrilevante
di Nadia Urbinati
OSCAR Wilde diceva che «il problema del socialismo è che impegna troppe serate ».
L’accusa di far perdere tempo ai cittadini occupandoli di politica troppi giorni all’anno era ancora più calzante per la democrazia, anche per questo tradizionalmente poco apprezzata.
A giudicare da quel che registriamo nelle nostre società, il problema della panpolitica sembra definitivamente risolto.
La situazione è anzi rovesciata: la democrazia non interessa più così intensamente, e la politica occupa pochissimo del tempo dei cittadini, lasciandoli anzi progressivamente più indifferenti.
La fine della democrazia dei partiti ha completato il ciclo dell’interesse per la politica e sancito l’età del disimpegno.
L’indifferenza verso la politica è oggi l’emozione più popolarmente estesa, ha scritto Peter Mair nel suo ultimo libro, Ruling the Void (“Governare il vuoto”).
La democrazia dei partiti è passata.
I partiti persistono, benché siano sconnessi dalla società larga, protagonisti di battaglie che sempre più spesso mirano a rafforzare il loro potere istituzionale.
La fotografia che ci consegna l’inchiesta recente svolta da Ilvio Diamanti per Repubblica conferma questo stato di cose: «La marcia di Matteo Renzi al governo procede senza scosse e senza accelerazioni particolari. Da tempo non riesce più a sollevare entusiasmo. Le speranze, attorno a lui, si sono raffreddate. Ma, per ora, non sembra in pericolo».
Senza entusiasmo, raffreddamento dell’interesse, ma stabilità.
Continuità per forza di inerzia.
L’indifferenza è la cifra della democrazia odierna.
Impoverita di partecipazione, depotenziata di efficacia a causa della fine della democrazia dei partiti, la cittadinanza è resa ad arte luogo di emotività a sostegno o come contorno di leader, svuotata di effettivo interesse perché depauperata del potere di influenza.
I “partiti cartello” svolgono essenzialmente solo la funzione di cooptazione del personale politico da portare nelle istituzioni, che cercando di adattare più che possono a questa nuova loro identità, sancendo nelle norme la diminuita rilevanza del cittadino come agente di sovranità.
A questa riconfigurazione del partito tutta interna alle istituzioni corrisponde una caduta di interesse dei cittadini per la politica, in larghe fasce di popolazione una vera e propria indifferenza verso la democrazia e le sue regole.
Un termine, questo di “indifferenza”, che non denota necessariamente reazione contro la politica, uno stato emotivo che è tutto sommato espressione di una qualche pulsione mobilitante.
Del resto, gli avvenimenti politici appaiono impermeabili all’influenza dei cittadini e lo stesso voto sembra poco incisivo e di fatto non identificato con la più importante espressione di sovranità.
Fareed Zakaria ha addirittura scritto che il modello occidentale di democrazia potrebbe a questo punto fare a meno anche degli elettori, poiché il suo centro sono gli istituti di controllo più che gli organi elettivi.
Alcuni studiosi parlano infine di una trasformazione della rappresentanza, sempre meno associata alla formazione delle assemblee legislative e al voto e sempre più intesa come rappresentazione simbolica di questioni o rivendicazioni ( claim representation ), mezzo per sollevare problemi più che per convogliarli verso la decisione.
La politica si spezza in due: quella che determina le decisioni che è sempre più un affare dei pochi che i partiti-cartello captano e cooptano; quella che giudica e commenta da fuori con scarsa o alcuna influenza e che è esercitata dai cittadini nei luoghi di opinione non direttamente politici, come le associazioni, i blog o i social network.
Con l’esito che chi decide non ascolta e chi da fuori osserva e giudica non è ascoltato.
È prevedibile che neppure la democrazia dell’audience reggerà alla caduta di interesse.
Poiché assistere a uno spettacolo fatto da altri comporta in fondo interessarsi presumendo che le opinioni del pubblico non siano inermi.
Questa ulteriore trasformazione della democrazia da audience a democrazia indifferente è misurata dagli studiosi in relazione a due fattori: la partecipazione al voto e l’arruolamento nei partiti.
L’astensione elettorale è una piaga generalizzata in tutti i paesi a cosiddetta democrazia matura.
A partire dagli anni Novanta, e senza interruzione, il trend di questo declino ha marcato i comportamenti elettorali dei cittadini di tutti i paesi europei.
Parallelamente, è consolidata l’emorragia degli iscritti ai partiti (l’inversione di tendenza recepita nel Labour in seguito all’elezione di Corbyn conferma questo trend).
L’abbandono dei partiti è stato in alcuni casi esemplari accompagnato dalla creazione di partiti non-partiti, di partiti-movimento.
Questi hanno generano attenzione polemica e mosso l’opinione, ma senza dimostrare di riuscire a ridare efficacia alla cittadinanza, senza riuscire a rompere l’incantesimo della politica spezzata tra un dentro che decide e un fuori che sente di avere un ruolo irrilevante, indifferente all’andamento delle cose politiche.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Vendola che getta le fondamenta di un nuovo partito della sinistra è un ridicolo ossimoro.
La Urbinati farebbe bene a parlare, più che di "democrazia dell'indifferenza", di "tragica farsa".
La Urbinati farebbe bene a parlare, più che di "democrazia dell'indifferenza", di "tragica farsa".
Vendola: “Centrosinistra ucciso da Renzi”
Pubblicato il 6 settembre 2015 da Redazione
“Il centrosinistra? E’ stato ucciso da Renzi che con il patto del Nazareno con Berlusconi, con l’alleanza con pezzi di centrodestra, con la sua azione di governo e la nascita del Partito della nazione, ha costruito un percorso antitetico rispetto all’Ulivo di Prodi o al tentativo di Italia bene comune di Bersani. Prendo atto della realtà”. Nichi Vendola, in un’intervista a Repubblica certifica la morte del centrosinistra. Per questo motivo, spiega sempre Vendola, bisogna ricostruirlo. “In autunno si gettano le fondamenta del nuovo partito della sinistra. Alle amministrative del 2016 non faremo l’errore delle regionali passate, di presentarci con sette nomi e simboli diversi”.
Missione difficile, vista la riottosità di alcuni soggetti ad unire le forze, da Possibile di Civati alla Coalizione Sociale di Landini che più volte ha espresso la sua contrarietà a dar vita a nuovi esperimenti di sinistra. Per questo l’alleanza con il Pd diventa centrale, sempre che il Pd ritorni ad essere quello delle origini e non quello tendente al Partito della Nazione pensato da Renzi. “L’alleanza con il Pd non è il nostro destino. Ma è la nostra possibilità. L’alleanza – spiega Vendola – si fa ovunque sia possibile su una traccia di programma che corrisponda ai bisogni reali di porzioni impoverite di cittadinanza. Noi dobbiamo partire da una giudizio sulle esperienze di governo locale. Giuliano Pisapia è stato uno dei migliori sindaci della storia d’Italia, perchè è figlio di quelle primarie che hanno travolto il centrosinistra del potere e degli affari e ha sollecitato quel municipalismo delle virtù civiche declinandolo in tre parole: città, comunità, modernità”.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Caro Mario, da qualsiasi parte la si voglia vedere, dobbiamo essere realisti.
Con questa sinistra non si va molto avanti se non si hanno degli obiettivi chiari e condivisi tenendo conto che siamo in un secolo molto difficile in cui la globalizzazione ci ha posto davanti problemi che per molto tempo erano stati messi nel dimenticatoio della politica per dare precedenze a quelli nazionali.
Ora i problemi sono assai molto più importanti e difficili da raggiungere e questo lo potremo fare solo con chi ne e' consapevole indipendentemente dalle etichette in cui ora sono rinchiusi.
Detto questo, non vuol dire buttare nel letamaio quelle conquiste che ci hanno contraddistinto fin'ora dagli altri.
Che poi le analisi di Giachetti siano vere te ne do atto ma non per questo possono considerarsi in linea col mio pensiero politico. Scopre solo l'acqua calda che da anni perseguita la sinistra.
Quindi, se riusciamo in questa impresa di riunire tutte le anime della sinistra avremo fatto un grosso dono al paese ma deve essere chiaro che dovranno sparire tutti i personalismi ed accettare le piccole distinzioni che ci contraddistinguono.
Queste possono essere la linfa per per poterci appropriare delle discussioni per tanto tempo trascurate.
Certo Giachetti soltanto quello che tutti noi vediamo da molto tempo. Almeno gran parte di noi critici verso il PD e tutte queste frange che si definiscono di sinistra ma che possono essere soltanto delle idee che provengono dai soliti maitre a penser che spesso si attribuiscono il termine di SINISTRA senza sapere che i veri cambiamenti possono sono passare dal basso per poter avere un seguito. Costoro possono solo essere di aiuto ma non di più.
Quindi, dobbiamo sempre essere disposti a valutare sempre con attenzione e positivamente tutto quello che di nuovo ci viene proposto se questi presentano quei valori per cui siano nati politicamente. O perlomeno siano presenti in grande quantita'
un salutone
Con questa sinistra non si va molto avanti se non si hanno degli obiettivi chiari e condivisi tenendo conto che siamo in un secolo molto difficile in cui la globalizzazione ci ha posto davanti problemi che per molto tempo erano stati messi nel dimenticatoio della politica per dare precedenze a quelli nazionali.
Ora i problemi sono assai molto più importanti e difficili da raggiungere e questo lo potremo fare solo con chi ne e' consapevole indipendentemente dalle etichette in cui ora sono rinchiusi.
Detto questo, non vuol dire buttare nel letamaio quelle conquiste che ci hanno contraddistinto fin'ora dagli altri.
Che poi le analisi di Giachetti siano vere te ne do atto ma non per questo possono considerarsi in linea col mio pensiero politico. Scopre solo l'acqua calda che da anni perseguita la sinistra.
Quindi, se riusciamo in questa impresa di riunire tutte le anime della sinistra avremo fatto un grosso dono al paese ma deve essere chiaro che dovranno sparire tutti i personalismi ed accettare le piccole distinzioni che ci contraddistinguono.
Queste possono essere la linfa per per poterci appropriare delle discussioni per tanto tempo trascurate.
Certo Giachetti soltanto quello che tutti noi vediamo da molto tempo. Almeno gran parte di noi critici verso il PD e tutte queste frange che si definiscono di sinistra ma che possono essere soltanto delle idee che provengono dai soliti maitre a penser che spesso si attribuiscono il termine di SINISTRA senza sapere che i veri cambiamenti possono sono passare dal basso per poter avere un seguito. Costoro possono solo essere di aiuto ma non di più.
Quindi, dobbiamo sempre essere disposti a valutare sempre con attenzione e positivamente tutto quello che di nuovo ci viene proposto se questi presentano quei valori per cui siano nati politicamente. O perlomeno siano presenti in grande quantita'
un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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