IL COMMENTO
Un'altra politica
di MASSIMO GIANNINI
MAGGIO francese, autunno italiano. Se l'esito delle presidenziali d'Oltralpe testimonia la speranza di un cambiamento nella governabilità, il risultato delle amministrative tricolori certifica l'evidenza di un'offerta politica sempre più frammentata e di una proposta di governo sempre meno scontata. Nove milioni di cittadini alle urne non equivalgono a una consultazione nazionale, ma sono un buon test per misurare il polso di un Paese che arriva a questa tornata elettorale in debito di forze e di risorse.
I "numeri" degli oltre mille comuni in cui si è votato riflettono con coerenza lo stato d'animo degli italiani. Sale alta l'onda dell'anti-politica, che spesso è domanda di un'altra politica. C'è una sfiducia profonda verso i partiti tradizionali, di cui il sintomo è il successo delle formazioni "anti-sistema". C'è una disaffezione inquietante verso la stessa democrazia rappresentativa, di cui c'è traccia nell'aumento dell'astensionismo, per la prima volta più alto al Nord che al Sud. Ma sarebbe sbagliato sostenere che, a parte Beppe Grillo, non ha vinto nessuno e hanno perso tutti. C'è invece un primo dato politico che emerge, e che riguarda il centrodestra: è la disfatta totale del Pdl. L'eclissi finale del berlusconismo.
Il Partito del Popolo delle Libertà è quasi scomparso dalla geografia politica. Rispetto al 2007, di 157 comuni con oltre 15 mila abitanti il centrodestra ne governava 95, contro i 53 guidati dal centrosinistra. Oggi il rapporto
è più che invertito. Su 26 comuni capoluogo il Pdl ne governava 15, contro gli 8 del Pd. Oggi ne tiene solo 3 al primo turno (Lecce, Gorizia e Catanzaro). In altri 9 (da Asti a Monza, da Trani ad Agrigento) va ai ballottaggi in netto svantaggio. In quelli che restano è già fuorigioco. Non solo: nella maggioranza dei comuni, il partito del Cavaliere ha percentuali di consenso che non superano il 10%. A Genova ha l'8,4. A Verona il 5,6. A Parma il 4,4. Persino a L'Aquila, dove l'ex premier a suo tempo ha costruito il mirabolante set propagandistico del post-terremoto, oscilla intorno al 6%.
Berlusconi è riuscito in un capolavoro al contrario. In dieci anni aveva trasformato Forza Italia (il vecchio partito "di plastica", proprietario e plebiscitario) in un partito quasi vero, sempre leaderistico ma per lo meno strutturato e presente sul territorio. Aveva costruito non "il partito di massa dei moderati" che aveva promesso, senza averne il dna né l'identità; ma comunque un "blocco sociale", una destra ideologica e populista pur sempre diffusa e maggioritaria nel Paese. Il trionfo del 13 aprile 2008 lo aveva consacrato "padrone" della Repubblica, con una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia. Oggi, nel Paese profondo, di quel patrimonio non resta quasi più nulla. Con la fine dell'avventura di governo, vissuta come puro esercizio del potere, la cifra politica del Cavaliere si è esaurita per sempre.
Proprio nel giorno in cui questa folle dissipazione si consuma, non può essere un caso che Berlusconi sia a Mosca, a incoronare per la terza volta l'amico Putin, zar di tutte le Russie. Un'assenza fisica, ma anche simbolica, che nessun Alfano può colmare. Persino il cantore Giuliano Ferrara è costretto ad ammettere che il Cavaliere "non parla perché non sa cosa dire", e che a questo punto "il Pdl è a rischio esistenziale". È vero: deve decidere se saprà e potrà sopravvivere alla fine del berlusconimo.
Ma non è solo questione del Popolo delle Libertà. L'intera metà campo della destra italiana esce a pezzi da queste amministrative. La Lega resiste, benché travolta dagli scandali come un qualsiasi Psdi della Prima Repubblica. Ma in Lombardia perde ovunque, da como a Monza, e perfino a Cassano Magnago, il comune di Umberto Bossi. L'exploit di Tosi che riconquista Verona al primo turno non deve ingannare: molto più che il Carroccio, stravince la lista civica che porta il nome del sindaco, e che dello stesso Carroccio bossiano è una spina nel fianco. Dunque, la destra anomala conosciuta in questi anni non è più spendibile né ricomponibile. Il collante che la teneva insieme erano gli interessi, non i valori. Esplosa la crisi, economica e politica, non è rimasto più niente.
Il secondo dato politico rilevante riguarda il centrosinistra. Il Pd conferma un discreto recupero rispetto al 2007. Si tiene 4 comuni capoluogo (Brindisi, Taranto, Pistoia e La Spezia) e va al ballottaggio con buone possibilità in altri 18 comuni (da Parma a Belluno, da Brindisi a Lucca). Ma a Genova sostiene Marco Doria, che non era il suo candidato alle primarie. E comunque, in generale, anche se vince non sfonda. Né dove si presenta con la sinistra radicale di Vendola (che incassa un risultato complessivo tutt'altro che entusiasmante) né dove sperimenta l'alleanza con l'Udc di Casini (autentico "desaparecido" di questa tornata amministrativa, ballottaggio di Genova a parte).
Dunque, Bersani fa bene a rivendicare i progressi del suo partito. Ma nella prospettiva del 2013, anche nel centrosinistra rimane un'incognita gigantesca: qual è il progetto politico per rilanciare il Pd come partito "a vocazione maggioritaria"? E se oggi la principale forza progressista e riformista non supera il 25%, con chi si deve alleare per offrire agli italiani una credibile alternativa di governo? La foto è quella del Terzo Polo, le cui ambizioni si rivelano quasi sempre illusioni? O è quella di Vasto, di cui Di Pietro, forte del boom del sempiterno Orlando a Palermo, già esige una rimessa a fuoco a suo favore? Mentre incassa il buon esito di questo voto, il leader del Pd ha il dovere di dare una risposta seria agli elettori. Un dovere che adesso è ancora più stringente, se il centrosinistra vuole davvero candidarsi non solo a vincere, ma a governare nel 2013.
I risultati di oggi allontanano la prospettiva della governabilità. Il terzo dato politico forte (oltre alla crescita dell'Idv) è infatti l'affermazione del Movimento 5 Stelle, che va al ballottaggio a Parma e lo sfiora a Genova, ottiene quasi ovunque (Verona compresa) consensi che oscillano intorno al 10%. In tempi di malaffare e di malapolitica, l'affermazione di una forza anti-sistema come quella di Grillo era da mettere in conto. Ma l'entità va oltre le aspettative. Ha ragione Ilvo Diamanti a teorizzare che, almeno nelle amministrative, questo non si possa considerare un voto "anti-politico", visto che i candidati grillini nelle città (da Putti a Genova a Pizzarotti a Parma) sono portatori di proposte molto concrete e per niente qualunquistiche a livello locale. Ma se questo risultato dovesse essere bissato a livello nazionale, la situazione sarebbe ben diversa. Il comico genovese e i suoi elettori vanno rispettati. Ma finora l'inventore del Movimento 5 Stelle si è impegnato di più a incarnare il modello dell'Uomo Qualunque, che non a offrire una proposta convincente di governo del Paese.
Questo, dunque, è il panorama italiano che si delinea dalle urne. Un assetto politico polarizzato intorno a due ex "grandi partiti" che oscillano tra il 18 e il 25%, e polverizzato in una congerie di formazioni minori, per lo più antagoniste, anti-europee e difficilmente riconducibili a una logica di coalizione. In questo quadro, è persino difficile immaginare una riforma della legge elettorale che possa migliorare o semplificare l'offerta politica. Il voto, in altre parole, fotografa una crisi di sistema dalla quale è assai complicato immaginare una via d'uscita. Una crisi che ha riflessi importanti non solo sulla legislatura che verrà, ma anche su quella ancora in corso.
Questo risultato non aiuta affatto il governo Monti.
Sul Professore rischia di chiudersi una morsa. Da un lato Berlusconi, che potrebbe essere tentato ancora una volta dalla "scorciatoia populista", come lasciano intendere le parole di Alfano: poiché quel che resta del Pdl sta pagando "un prezzo troppo alto" al governo dei tecnici, incline a somministrare al Paese sacrifici e tasse che la vecchia destra non proporrebbe mai, allora meglio optare per l'appoggio esterno, o addirittura per la rottura definitiva della "strana maggioranza" tripartita. Una scelta irresponsabile, e biecamente peggiorista, ma in fondo del tutto coerente con le pulsioni berlusconiane più estreme e disperate.
Dall'altro lato i mercati, che potrebbero essere indotti dalla strategia delle mani libere della destra e dall'incertezza crescente sul dopo-Monti a punire l'Italia e il suo debito sovrano. Sarebbe la bancarotta definitiva, politica e finanziaria. Non il maggio francese, ma la sindrome ateniese.
m.giannini@repubblica.it