La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
PALLONARI DI TUTTO IL MONDO .......UNITEVI!!!!!
26 giugno 2016 | di F. Q.
Brexit, Farage fa marcia indietro: 350 milioni di sterline dell’Ue non andranno più alla sanità pubblica
Incassata la Brexit, Nigel Farage ha ammesso che i fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea “hanno commesso un errore” nel promettere agli elettori che, in caso di vittoria del Leave, i 350 milioni di sterline che ogni settimana sono elargiti alle casse comunitarie, sarebbero andati all’istruzione pubblica o ancor più all’Nhs, il sistema sanitario nazionale. Il leader dell’Ukip, Farage, intervistato dai giornalisti del programma Good Morning Britain su Itv, ha infatti ammesso che non ci sarà questo trasferimento. “È stato fatto un errore. Non posso garantire che tanto denaro andrà al servizio sanitario pubblico, è una cosa che mai sosterrei. Prometterlo è stato un errore”, ha dichiarato candidamente Farage. “Era solo propaganda?“, ha chiesto la conduttrice. “Non era un mio slogan“, ha ribattuto imperturbabile il leader
VIDEO
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/06/ ... ca/538506/
26 giugno 2016 | di F. Q.
Brexit, Farage fa marcia indietro: 350 milioni di sterline dell’Ue non andranno più alla sanità pubblica
Incassata la Brexit, Nigel Farage ha ammesso che i fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea “hanno commesso un errore” nel promettere agli elettori che, in caso di vittoria del Leave, i 350 milioni di sterline che ogni settimana sono elargiti alle casse comunitarie, sarebbero andati all’istruzione pubblica o ancor più all’Nhs, il sistema sanitario nazionale. Il leader dell’Ukip, Farage, intervistato dai giornalisti del programma Good Morning Britain su Itv, ha infatti ammesso che non ci sarà questo trasferimento. “È stato fatto un errore. Non posso garantire che tanto denaro andrà al servizio sanitario pubblico, è una cosa che mai sosterrei. Prometterlo è stato un errore”, ha dichiarato candidamente Farage. “Era solo propaganda?“, ha chiesto la conduttrice. “Non era un mio slogan“, ha ribattuto imperturbabile il leader
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Re: La crisi dell'Europa
ANCHE LORETTA NAPOLEONI DICE LA SUA
ZONAEURO
Brexit, è l’inizio di un nuovo ordine mondiale?
Zonaeuro
di Loretta Napoleoni | 26 giugno 2016
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Loretta Napoleoni
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Nigel Farage, il leader dell’Ukip, il partito euroscettico della destra britannica, ha dichiarato che la vittoria del ‘No’ all’Unione europea segna l’alba dell’indipendenza britannica, “our independence day”. Ma si potrebbe aggiungere che la Brexit potrebbe diventare l’alba del nuovo ordine mondiale, dove confini, istituzioni e persino monete cessano di esistere e vengono rimpiazzate.
Partiamo proprio dal Regno Unito, il vecchio impero britannico, dove è in atto una frenetica raccolta di firme per invalidare il referendum. La Scozia che nel 2014 aveva votato contro l’indipendenza, che a sua volta avrebbe dissolto l’unione del 1707 con l’Inghilterra, ha votato per rimanere nell’Eu. Adesso i politici scozzesi vogliono rifare il referendum per abbandonare questa unione e rimanere in quella europea. L’Irlanda del Nord, i cui abitanti hanno combattuto per secoli i colonizzatori inglesi hanno anche loro votato contro la Brexit. Adesso si pone il problema del confine con la Repubblica irlandese, che appartiene all’Unione Europea, confine che è aperto; l’uscita del Regno Unito ne implicherebbe la chiusura. Gibilterra, che appartiene alla corona britannica dal 1714 quando la conquistò dagli spagnoli, ha anche lei votato per rimanere nell’Unione Europea e la Spagna ha già minacciato di annetterla a seguito della vittoria della Brexit.
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Ancora più complessa la situazione in Europa a causa del contagio che distruggerebbe i principi sui quali è nato il sogno europeista: il libero movimento dei lavoratori e delle merci per evitare l’ennesima guerra nel vecchio continente. Un progetto costruito dai sopravvissuti alla seconda guerra mondiale ma che da anni è gestito da una classe di euro-burocrati non eletti e quindi poco sensibili ai bisogni e sentimenti dei 500 milioni di cittadini europei.
La paura di tutti e’ il contagio! Come lo era nel 2010 e nel 2011, ma questa volta minacciare di chiudere i rubinetti della liquidità, come avvenne con la Grecia, non funzionerà. L’elettorato è stanco e sfiduciato e vuole cambiare, e dato che non può mandare a casa il presidente della Commissione Junker o chi ne fa parte, esprime il proprio scontento come può, ad esempio votando per la Brexit o per i partiti anti-europeisti.
Oggi si vota in Spagna e una vittoria del partito anti austerità Podemos confermerebbe questa analisi, e cioè il dilagare del risentimento anti Bruxelles che ha prodotto la Brexit. E’ questa, ahimè, una tigre che la destra europea cavalca da anni e che ora sfrutta a suo vantaggio e che i partiti di centro o progressisti, fatta eccezione di Podemos e di una parte dei laburisti britannici, non vogliono toccare. E così l’euroscetticismo diventa sinonimo di fascismo ed invece di guidare un processo di riforme istiga alla rottura.
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A poche ore dalla Brexit, Marine Le Pen, considerata la candidata di punta per le prossime elezioni presidenziali francesi, ha dichiarato che anche la Francia deve lasciare l’Unione perché questa istituzione ha fatto salire la disoccupazione ed aperto le porte a “orde di migranti”. Le ha fatto eco Geert Wilders, voce di punta della destra ultraconservatrice olandese e probabile futuro primo ministro olandese. Geert ha promesso che, se il prossimo marzo vincerà le elezioni politiche, proporrà anche lui un referendum per il Nexit, l’uscita dell’Olanda dall’Unione. Secondo i sondaggi il 54 per cento degli olandesi vuole questo referendum. Anche in Italia il partito separatista Lega Nord ha proposto il referendum, che siano gli italiani a decidere se restare o andarsene dall’Unione non il governo di un primo ministro non eletto.
Naturalmente, il Frexit, Nexit o Itexit presenterebbero un problema addizionale serissimo: come gestire l’uscita dall’euro? Tecnicamente parlando questo non è possibile. Mentre secondo l’articolo 50 del trattato di Lisbona una nazione può ipoteticamente decidere di uscire dall’Unione, questa opzione non esiste per chi ha aderito alla moneta europea comune. Morale: l’euro potrebbe semplicemente implodere con conseguenze disastrose per tutti.
Un’occhiata all’andamento delle borse di venerdì 24 giugno mette in guardia contro un nuovo crollo di dimensioni epocali. E questa volta non sarà facile evitare il peggio perché le banche centrali e gli stati non dispongono della liquidità sufficiente per arginare la discesa dei listini, certo possono usare le presse e stampare carta moneta, cosa che già fanno, ma il pericolo è l’iper-inflazione nel momento in cui crolla la fiducia della popolazione nella moneta.
Nelle prossime settimane sapremo se davvero la Brexit ha fatto esplodere la bolla finanziaria e quella immobiliare, se ha finalmente mostrato al mondo che l’economia dal 2007 e 2008 non si è ripresa, ma ha continuato a sopravvivere grazie a una serie di manovre eccezionali, tra cui i tassi d’interesse a zero o negativi, che non possono perdurare in eterno. A quel punto bisognerà rimboccarsi le maniche e ricominciare da capo su tutti i fronti come avvenne dopo il 1929.
La colpa è degli inglesi? Assolutamente no, la colpa è di un sistema economico, politico e finanziario che fa acqua da tutte le parti e che va cambiato. Le borse che sono letteralmente crollate venerdì sono quelle dei paesi della periferia, Milano e Madrid si sono contese la maglia nera. Gli indici di borsa di queste nazioni non riflettono lo status dell’economia nazionale. L’appartenenza all’EU li inflaziona. Ma è un’illusione, basta farsi un giro in Grecia. Essere membro dell’Unione non dà accesso alla ricchezza dell’Eurozona perché non esiste l’Eurobond ma anche perché questa ricchezza non esiste in termini fiscali. Draghi stampa carta straccia. Ed ecco spiegato perché l’uscita della seconda economia dall’Unione, che contribuisce al netto 8 miliardi di sterline l’anno, fa crollare Piazza Affari di oltre 12 punti percentuali.
Come nel film Independence Day, dunque, è possibile che dalla prossima settimana si debba ricominciare a ricostruire tutto iniziando dalla rimozione delle rovine. Se questo è ciò che dobbiamo fare allora iniziamo a pensare ad un futuro diverso, più consono al mondo di oggi.
ZONAEURO
Brexit, è l’inizio di un nuovo ordine mondiale?
Zonaeuro
di Loretta Napoleoni | 26 giugno 2016
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Nigel Farage, il leader dell’Ukip, il partito euroscettico della destra britannica, ha dichiarato che la vittoria del ‘No’ all’Unione europea segna l’alba dell’indipendenza britannica, “our independence day”. Ma si potrebbe aggiungere che la Brexit potrebbe diventare l’alba del nuovo ordine mondiale, dove confini, istituzioni e persino monete cessano di esistere e vengono rimpiazzate.
Partiamo proprio dal Regno Unito, il vecchio impero britannico, dove è in atto una frenetica raccolta di firme per invalidare il referendum. La Scozia che nel 2014 aveva votato contro l’indipendenza, che a sua volta avrebbe dissolto l’unione del 1707 con l’Inghilterra, ha votato per rimanere nell’Eu. Adesso i politici scozzesi vogliono rifare il referendum per abbandonare questa unione e rimanere in quella europea. L’Irlanda del Nord, i cui abitanti hanno combattuto per secoli i colonizzatori inglesi hanno anche loro votato contro la Brexit. Adesso si pone il problema del confine con la Repubblica irlandese, che appartiene all’Unione Europea, confine che è aperto; l’uscita del Regno Unito ne implicherebbe la chiusura. Gibilterra, che appartiene alla corona britannica dal 1714 quando la conquistò dagli spagnoli, ha anche lei votato per rimanere nell’Unione Europea e la Spagna ha già minacciato di annetterla a seguito della vittoria della Brexit.
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Ancora più complessa la situazione in Europa a causa del contagio che distruggerebbe i principi sui quali è nato il sogno europeista: il libero movimento dei lavoratori e delle merci per evitare l’ennesima guerra nel vecchio continente. Un progetto costruito dai sopravvissuti alla seconda guerra mondiale ma che da anni è gestito da una classe di euro-burocrati non eletti e quindi poco sensibili ai bisogni e sentimenti dei 500 milioni di cittadini europei.
La paura di tutti e’ il contagio! Come lo era nel 2010 e nel 2011, ma questa volta minacciare di chiudere i rubinetti della liquidità, come avvenne con la Grecia, non funzionerà. L’elettorato è stanco e sfiduciato e vuole cambiare, e dato che non può mandare a casa il presidente della Commissione Junker o chi ne fa parte, esprime il proprio scontento come può, ad esempio votando per la Brexit o per i partiti anti-europeisti.
Oggi si vota in Spagna e una vittoria del partito anti austerità Podemos confermerebbe questa analisi, e cioè il dilagare del risentimento anti Bruxelles che ha prodotto la Brexit. E’ questa, ahimè, una tigre che la destra europea cavalca da anni e che ora sfrutta a suo vantaggio e che i partiti di centro o progressisti, fatta eccezione di Podemos e di una parte dei laburisti britannici, non vogliono toccare. E così l’euroscetticismo diventa sinonimo di fascismo ed invece di guidare un processo di riforme istiga alla rottura.
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A poche ore dalla Brexit, Marine Le Pen, considerata la candidata di punta per le prossime elezioni presidenziali francesi, ha dichiarato che anche la Francia deve lasciare l’Unione perché questa istituzione ha fatto salire la disoccupazione ed aperto le porte a “orde di migranti”. Le ha fatto eco Geert Wilders, voce di punta della destra ultraconservatrice olandese e probabile futuro primo ministro olandese. Geert ha promesso che, se il prossimo marzo vincerà le elezioni politiche, proporrà anche lui un referendum per il Nexit, l’uscita dell’Olanda dall’Unione. Secondo i sondaggi il 54 per cento degli olandesi vuole questo referendum. Anche in Italia il partito separatista Lega Nord ha proposto il referendum, che siano gli italiani a decidere se restare o andarsene dall’Unione non il governo di un primo ministro non eletto.
Naturalmente, il Frexit, Nexit o Itexit presenterebbero un problema addizionale serissimo: come gestire l’uscita dall’euro? Tecnicamente parlando questo non è possibile. Mentre secondo l’articolo 50 del trattato di Lisbona una nazione può ipoteticamente decidere di uscire dall’Unione, questa opzione non esiste per chi ha aderito alla moneta europea comune. Morale: l’euro potrebbe semplicemente implodere con conseguenze disastrose per tutti.
Un’occhiata all’andamento delle borse di venerdì 24 giugno mette in guardia contro un nuovo crollo di dimensioni epocali. E questa volta non sarà facile evitare il peggio perché le banche centrali e gli stati non dispongono della liquidità sufficiente per arginare la discesa dei listini, certo possono usare le presse e stampare carta moneta, cosa che già fanno, ma il pericolo è l’iper-inflazione nel momento in cui crolla la fiducia della popolazione nella moneta.
Nelle prossime settimane sapremo se davvero la Brexit ha fatto esplodere la bolla finanziaria e quella immobiliare, se ha finalmente mostrato al mondo che l’economia dal 2007 e 2008 non si è ripresa, ma ha continuato a sopravvivere grazie a una serie di manovre eccezionali, tra cui i tassi d’interesse a zero o negativi, che non possono perdurare in eterno. A quel punto bisognerà rimboccarsi le maniche e ricominciare da capo su tutti i fronti come avvenne dopo il 1929.
La colpa è degli inglesi? Assolutamente no, la colpa è di un sistema economico, politico e finanziario che fa acqua da tutte le parti e che va cambiato. Le borse che sono letteralmente crollate venerdì sono quelle dei paesi della periferia, Milano e Madrid si sono contese la maglia nera. Gli indici di borsa di queste nazioni non riflettono lo status dell’economia nazionale. L’appartenenza all’EU li inflaziona. Ma è un’illusione, basta farsi un giro in Grecia. Essere membro dell’Unione non dà accesso alla ricchezza dell’Eurozona perché non esiste l’Eurobond ma anche perché questa ricchezza non esiste in termini fiscali. Draghi stampa carta straccia. Ed ecco spiegato perché l’uscita della seconda economia dall’Unione, che contribuisce al netto 8 miliardi di sterline l’anno, fa crollare Piazza Affari di oltre 12 punti percentuali.
Come nel film Independence Day, dunque, è possibile che dalla prossima settimana si debba ricominciare a ricostruire tutto iniziando dalla rimozione delle rovine. Se questo è ciò che dobbiamo fare allora iniziamo a pensare ad un futuro diverso, più consono al mondo di oggi.
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Re: La crisi dell'Europa
ALL'INTERNO DEL "CUL DE SAC"
Ovvero, la fermezza delle idee dei tricolori.
LIBRE news
Euro e Ue, dai 5 Stelle l’alternativa italiana: le comiche
Scritto il 27/6/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Il 18 dicembre 2014, frase storica, Beppe Grillo proclamava, alla sede della stampa estera in via della Mercede: «Il problema vero non è uscire dall’euro: è uscire il più velocemente possibile. Sperimentare un altro modello di sviluppo».
Quel sanguigno uomo – di cui tutto si potrà dire meno che sia un calcolatore, come invece la gran parte delle creature politiche che hanno generato – aveva percorso in lungo e largo l’Italia in quegli anni, e in particolare nel 2012-2013, davanti a pochi giornalisti, gridando che l’euro è «un cappio al collo che si restringe di giorno in giorno», che uscirne «è scontato, bisogna solo fare in modo che sia in fretta», e suggerendo «una svalutazione del 40-50 per cento con la lira».
Ma poi lo stesso Grillo s’aggrappava anche a un suo personale piano B dialettico se trovava qualche interlocutore che gli rivolgesse delle obiezioni.
«Io non ho mai detto usciamo dall’euro! Io non voglio uscire dall’euro!», urlò su un palco nel luglio 2015. E, a un cronista di La7: «Un referendum? Uscire dall’euro è la mia impressione, ma solo un’opinione personale».
L’aveva derubricata a «opinione personale».
Ieri sul blog è apparso invece un post dal titolo democristiano, «La Ue o cambia o muore»: «L’Ue deve cambiare, altrimenti muore. Le istituzioni comunitarie, e in particolare la troika (Fmi, Bce e Commissione europea) devono iniziare a domandarsi dove hanno sbagliato e come possono risolvere l’enorme problema che hanno generato. Ci sono milioni e milioni di cittadini europei sempre più critici, che non si riconoscono in questa Unione fatta di banche e ricatti economici.
Pensiamo al caso greco, un paese ormai al collasso».
Va bene, direte, questo è Grillo.
Se però prendiamo Luigi Di Maio, l’aspirante premier, la coerenza non aumenta.
Il 13 dicembre 2014 a Bovisio – al “Firma day” – Di Maio firmava per fare un referendum, sì, ma spiegava anche che a quel referendum (ammesso che sia mai possibile giuridicamente tenerlo) lui voterebbe per uscire dall’euro, «uscire dalla moneta unica significa più energia nostra, più investimenti per le imprese, e significa meno troika, e quindi meno tasse e meno stritolamento dei nostri connazionali» (video naturalmente ben rilanciato sui siti della Casaleggio, con record pubblicitari e di visioni).
Sette mesi dopo, invece, diceva: abbandonare l’euro «sarebbe l’extrema ratio.
Ma non credo che ci arriveremo».
Due mesi fa, in missione a Londra, altro coniglio dal cilindro: «Noi siamo contro la Brexit perché siamo convinti che l’Ue possa essere una risorsa. Poi tutt’altro discorso si fa sull’euro…».
In un documento della comunicazione M5S, inviato da Silvia Virgulti a tutti i parlamentari e svelato dalla Stampa nel luglio 2015, all’epoca del dramma dei migranti a Ventimiglia, si invitava a usare la tragedia in chiave no euro: «Questa storia di Ventimiglia può farci gioco per ritirare fuori il tema no euro e no Europa dei burocrati».
Se ricordiamo queste affermazioni, giravolte, cambi di idea, cinismi, è perché, tra la sera di giovedì e la giornata di ieri, ne sono successe un altro paio notevoli, nel Movimento, su Europa ed euro.
Nella tarda serata di giovedì, quando sembrava – secondo i sondaggi – che stesse vincendo il Remain, è uscito sul blog un testo in dieci punti per spiegare tutti i temi della Brexit, ma al punto 10 c’era scritto chiaramente: «Il M5S è in Europa e non ha nessuna intenzione di abbandonarla. Se non fossimo interessati all’Unione Europea non ci saremmo mai candidati (…). Ma ci sono molte cose di questa Europa che non funzionano. L’unico modo per cambiare questa “Unione” è il costante impegno istituzionale, per questo il M5S si sta battendo per trasformare l’Ue dall’interno».
Tuttavia esiste un’altra versione, ancora ben visibile nelle cache di Internet, senza il punto 10.
Chi l’ha fatta introdurre quella frase, Di Maio?
Sono stati gli stessi lettori del blog a rivoltarsi: «Vi hanno puntato una pistola alla tempia per scrivere il punto 10?».
Per di più il 20 maggio apparve sul blog un altro testo, che invitava a liberarsi dal «cappio della moneta unica», e aveva un punto dieci totalmente diverso, che recitava così: «In Italia non si tiene un referendum sull’Europa dal 1989, ed i cittadini dovrebbero poter esprimere la loro opinione, senza dover sempre subire decisioni calate dall’alto. In ogni caso il governo italiano dovrebbe negoziare con Bruxelles condizioni favorevoli alla sua permanenza in Ue su una molteplicità di fattori che attualmente premiano solo ed esclusivamente i paesi del Nord Europa».
Qual è la verità? Ripeti una bugia cento, mille, un milione di volte, e diventerà verità, diceva qualcuno. Anche se quella bugia la cambi spesso.
(Jacopo Iacoboni, “«Siamo in Europa». No, «l’Ue cambia o muore». Le giravolte di Grillo e dell’europeista Di Maio”, da “La Stampa” del 25 giugno 2016).
Ovvero, la fermezza delle idee dei tricolori.
LIBRE news
Euro e Ue, dai 5 Stelle l’alternativa italiana: le comiche
Scritto il 27/6/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Il 18 dicembre 2014, frase storica, Beppe Grillo proclamava, alla sede della stampa estera in via della Mercede: «Il problema vero non è uscire dall’euro: è uscire il più velocemente possibile. Sperimentare un altro modello di sviluppo».
Quel sanguigno uomo – di cui tutto si potrà dire meno che sia un calcolatore, come invece la gran parte delle creature politiche che hanno generato – aveva percorso in lungo e largo l’Italia in quegli anni, e in particolare nel 2012-2013, davanti a pochi giornalisti, gridando che l’euro è «un cappio al collo che si restringe di giorno in giorno», che uscirne «è scontato, bisogna solo fare in modo che sia in fretta», e suggerendo «una svalutazione del 40-50 per cento con la lira».
Ma poi lo stesso Grillo s’aggrappava anche a un suo personale piano B dialettico se trovava qualche interlocutore che gli rivolgesse delle obiezioni.
«Io non ho mai detto usciamo dall’euro! Io non voglio uscire dall’euro!», urlò su un palco nel luglio 2015. E, a un cronista di La7: «Un referendum? Uscire dall’euro è la mia impressione, ma solo un’opinione personale».
L’aveva derubricata a «opinione personale».
Ieri sul blog è apparso invece un post dal titolo democristiano, «La Ue o cambia o muore»: «L’Ue deve cambiare, altrimenti muore. Le istituzioni comunitarie, e in particolare la troika (Fmi, Bce e Commissione europea) devono iniziare a domandarsi dove hanno sbagliato e come possono risolvere l’enorme problema che hanno generato. Ci sono milioni e milioni di cittadini europei sempre più critici, che non si riconoscono in questa Unione fatta di banche e ricatti economici.
Pensiamo al caso greco, un paese ormai al collasso».
Va bene, direte, questo è Grillo.
Se però prendiamo Luigi Di Maio, l’aspirante premier, la coerenza non aumenta.
Il 13 dicembre 2014 a Bovisio – al “Firma day” – Di Maio firmava per fare un referendum, sì, ma spiegava anche che a quel referendum (ammesso che sia mai possibile giuridicamente tenerlo) lui voterebbe per uscire dall’euro, «uscire dalla moneta unica significa più energia nostra, più investimenti per le imprese, e significa meno troika, e quindi meno tasse e meno stritolamento dei nostri connazionali» (video naturalmente ben rilanciato sui siti della Casaleggio, con record pubblicitari e di visioni).
Sette mesi dopo, invece, diceva: abbandonare l’euro «sarebbe l’extrema ratio.
Ma non credo che ci arriveremo».
Due mesi fa, in missione a Londra, altro coniglio dal cilindro: «Noi siamo contro la Brexit perché siamo convinti che l’Ue possa essere una risorsa. Poi tutt’altro discorso si fa sull’euro…».
In un documento della comunicazione M5S, inviato da Silvia Virgulti a tutti i parlamentari e svelato dalla Stampa nel luglio 2015, all’epoca del dramma dei migranti a Ventimiglia, si invitava a usare la tragedia in chiave no euro: «Questa storia di Ventimiglia può farci gioco per ritirare fuori il tema no euro e no Europa dei burocrati».
Se ricordiamo queste affermazioni, giravolte, cambi di idea, cinismi, è perché, tra la sera di giovedì e la giornata di ieri, ne sono successe un altro paio notevoli, nel Movimento, su Europa ed euro.
Nella tarda serata di giovedì, quando sembrava – secondo i sondaggi – che stesse vincendo il Remain, è uscito sul blog un testo in dieci punti per spiegare tutti i temi della Brexit, ma al punto 10 c’era scritto chiaramente: «Il M5S è in Europa e non ha nessuna intenzione di abbandonarla. Se non fossimo interessati all’Unione Europea non ci saremmo mai candidati (…). Ma ci sono molte cose di questa Europa che non funzionano. L’unico modo per cambiare questa “Unione” è il costante impegno istituzionale, per questo il M5S si sta battendo per trasformare l’Ue dall’interno».
Tuttavia esiste un’altra versione, ancora ben visibile nelle cache di Internet, senza il punto 10.
Chi l’ha fatta introdurre quella frase, Di Maio?
Sono stati gli stessi lettori del blog a rivoltarsi: «Vi hanno puntato una pistola alla tempia per scrivere il punto 10?».
Per di più il 20 maggio apparve sul blog un altro testo, che invitava a liberarsi dal «cappio della moneta unica», e aveva un punto dieci totalmente diverso, che recitava così: «In Italia non si tiene un referendum sull’Europa dal 1989, ed i cittadini dovrebbero poter esprimere la loro opinione, senza dover sempre subire decisioni calate dall’alto. In ogni caso il governo italiano dovrebbe negoziare con Bruxelles condizioni favorevoli alla sua permanenza in Ue su una molteplicità di fattori che attualmente premiano solo ed esclusivamente i paesi del Nord Europa».
Qual è la verità? Ripeti una bugia cento, mille, un milione di volte, e diventerà verità, diceva qualcuno. Anche se quella bugia la cambi spesso.
(Jacopo Iacoboni, “«Siamo in Europa». No, «l’Ue cambia o muore». Le giravolte di Grillo e dell’europeista Di Maio”, da “La Stampa” del 25 giugno 2016).
Ultima modifica di camillobenso il 27/06/2016, 12:01, modificato 1 volta in totale.
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Re: La crisi dell'Europa
26 GIU 2016 21:23
SPAGNA, CONTAGIO BREXIT!
- EXIT-POLL: PODEMOS SCAVALCA I SOCIALISTI, SOLO TERZI. RAJOY NON AVREBBE LA MAGGIORANZA
- POTREBBE ESSERCI UNA MAGGIORANZA DI SINISTRA PODEMOS-PSOE O UN NUOVO STALLO POLITICO
La strada per il governo sembra di nuovo in salita. Secondo sarebbe, infatti, arrivato Unidos Podemos e soltanto terzi i socialisti del Psoe. A questo punto si fanno strada l'ipotesi di un'alleanza tra Podemos e Psoe oppure le larghe intese tra Popolari e Psoe...
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 127548.htm
SPAGNA, CONTAGIO BREXIT!
- EXIT-POLL: PODEMOS SCAVALCA I SOCIALISTI, SOLO TERZI. RAJOY NON AVREBBE LA MAGGIORANZA
- POTREBBE ESSERCI UNA MAGGIORANZA DI SINISTRA PODEMOS-PSOE O UN NUOVO STALLO POLITICO
La strada per il governo sembra di nuovo in salita. Secondo sarebbe, infatti, arrivato Unidos Podemos e soltanto terzi i socialisti del Psoe. A questo punto si fanno strada l'ipotesi di un'alleanza tra Podemos e Psoe oppure le larghe intese tra Popolari e Psoe...
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 127548.htm
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Re: La crisi dell'Europa
Spagna, Rajoy vince ma non ha maggioranza
Socialisti 2° partito. Podemos: niente sorpasso
Ultimato lo spoglio delle elezioni politiche, confermata l’incertezza: i popolari raccolgono il 33% dei voti, ma non hanno i numeri per governare. Smentiti gli exit poll: il movimento di Iglesias non supera
Mondo
I primi dati reali dopo la chiusura dei seggi consegnano una fotocopia della Spagna uscita dalle urne del 20 dicembre scorso: una Paese senza maggioranza per governare, immerso fino al collo in quella palude politica che si è venuta a creare con la “morte” del bipartitismo. Ed ecco allora i numeri a spoglio ormai ultimato: primo posto del Pp di Mariano Rajoy, con il 33%. Non c’è invece lo storico ‘sorpasso’ di Podemos sul Psoe, come ipotizzato dagli exit poll. I socialisti per ora sono al 22,6%, Podemos al 21,1%, Ciudadanos il 13%. Nelle elezioni del 20 dicembre, il Pp aveva conseguito 123 seggi, il Psoe 90, Podemos 69 e Ciudadanos 40
Socialisti 2° partito. Podemos: niente sorpasso
Ultimato lo spoglio delle elezioni politiche, confermata l’incertezza: i popolari raccolgono il 33% dei voti, ma non hanno i numeri per governare. Smentiti gli exit poll: il movimento di Iglesias non supera
Mondo
I primi dati reali dopo la chiusura dei seggi consegnano una fotocopia della Spagna uscita dalle urne del 20 dicembre scorso: una Paese senza maggioranza per governare, immerso fino al collo in quella palude politica che si è venuta a creare con la “morte” del bipartitismo. Ed ecco allora i numeri a spoglio ormai ultimato: primo posto del Pp di Mariano Rajoy, con il 33%. Non c’è invece lo storico ‘sorpasso’ di Podemos sul Psoe, come ipotizzato dagli exit poll. I socialisti per ora sono al 22,6%, Podemos al 21,1%, Ciudadanos il 13%. Nelle elezioni del 20 dicembre, il Pp aveva conseguito 123 seggi, il Psoe 90, Podemos 69 e Ciudadanos 40
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Re: La crisi dell'Europa
Spagna, Madrid è più debole e ingovernabile
Ma ora ha chance di dialogo con la Catalogna
Rajoy vince ma non ha maggioranza. Podemos manca sorpasso: ‘Siamo terzi, riflettiamo’ (di S. Ragusa)
La Brexit mina le certezze di Barcellona sulla convenienza economica di un’eventuale indipendenza
Mondo
Le elezioni spagnole sono un’ottima cartina di tornasole per capire cosa sta accadendo nell’Europa in preda alla Brexit e quali rapporti di forza si stanno delineando. Una vittoria di Podemos o, perlomeno, l’atteso sorpasso a danno dei socialisti e l’affermazione come seconda forza politica del Paese avrebbe messo ancora di più in allarme Bruxelles e le cancellerie continentali. Invece, la conferma dell’ingovernabilità – con la vittoria del Partito Popolare, che però non ottiene la maggioranza dei seggi (leggi) – rappresenta paradossalmente un dato neutro, se non addirittura positivo per l’Europa a trazione tedesca di P. Fior
^^^^^^^^^
Elezioni Spagna, ora Madrid è più debole: addio asse con Roma e Parigi. Ma più chance per il dialogo con la Catalogna
Elezioni Spagna, ora Madrid è più debole: addio asse con Roma e Parigi. Ma più chance per il dialogo con la Catalogna
Mondo
Il Paese a questo punto essere governato solo da una “gran coalition” Popolari-Socialisti-Ciudadanos. Uno dei pochi fattori positivi, ancorché indiretti, della Brexit, potrebbe essere l'avvio di un dialogo tra la capitale e Barcellona, dove il vento indipendentista finora ha soffiato forte: un’Unione frammentata mina le certezze catalane sulla convenienza economica dell’indipendenza
di Paolo Fior | 27 giugno 2016
COMMENTI (100)
Le elezioni spagnole sono un’ottima cartina di tornasole per capire cosa sta accadendo nell’Europa in preda alla Brexit e quali rapporti di forza si stanno delineando. Una vittoria di Podemos o, perlomeno, l’atteso sorpasso a danno dei socialisti e l’affermazione come seconda forza politica del Paese avrebbe messo ulteriormente in allarme Bruxelles e le cancellerie continentali. Invece, la conferma dell’ingovernabilità – con la vittoria del Partito Popolare, che però non ottiene la maggioranza dei seggi – rappresenta paradossalmente un dato neutro, se non addirittura positivo per l’Europa a trazione tedesca che può tranquillamente archiviare quest’esito come del tutto ininfluente sul futuro dell’Unione. Poco conta che la Spagna sia tornata al voto a sei mesi dalle precedenti elezioni per l’impossibilità di formare un governo e poco conta che possa essere costretta a tornarci tra altri sei mesi per lo stesso motivo: ciò che importa davvero è che l’esito politico della consultazione elettorale non abbia gettato ulteriore benzina sul fuoco dell’euroscetticismo e della protesta anti-austerity.
Sintomatica da questo punto di vista la scelta dei siti dei principali giornali tedeschi, francesi e britannici, oltre che del Financial Times e del Wall Street Journal di relegare le elezioni spagnole tra le notizie meno importanti della giornata e il New York Times, addirittura, non l’ha reputata degna di figurare in home page. Tutto il contrario dei giornali italiani e portoghesi che, oltre a quelli spagnoli, su questa notizia hanno invece aperto le loro edizioni, perché ciò che accade a Madrid riguarda da vicino anche gli altri Paesi dell’Europa periferica e in particolare l’Italia. Questo non tanto e non solo per le presunte similitudini e differenze tra Podemos e il Movimento 5 Stelle e per lo scenario politico dominato da una sorta di tripartitismo, quanto piuttosto per la necessità di fare fronte comune in Europa nelle settimane e nei mesi a venire. Ma l’assenza di un verdetto elettorale chiaro depotenzia sul nascere un eventuale asse Roma-Madrid-Parigi e porta inevitabilmente la Spagna a guardare più ai suoi problemi interni che alla prospettiva europea.
Quella che è uscita dalle urne è una Spagna che non morde e che – numeri alla mano – può essere governata solo da una “gran coalition” Popolari-Socialisti-Ciudadanos, l’unica in grado di avere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Nei sei mesi passati i socialisti di Sanchez hanno dato picche alla proposta di alleanza di governo avanzata dal premier Mariano Rajoy, ma ora che – pur mantenendo il secondo posto – hanno visto calare ai minimi storici i loro seggi e hanno perso una roccaforte storica come l’Andalusia, potrebbero essere indotti a ripensarci. La ragione è che in una fase d’incertezza come l’attuale la Spagna non è nelle condizioni di permettersi uno stallo politico a tempo indefinito perché la indebolirebbe ulteriormente facendone anche un facile bersaglio per la speculazione finanziaria, come ha dimostrato il crollo della Bolsa di Madrid in linea con quello di Piazza Affari nel bel mezzo del venerdì nero (-12%). Quindi, obtorto collo, è più che probabile che nelle prossime settimane si intavoli un dialogo tra i due maggiori partiti nel tentativo di trovare un accordo e dare un governo al Paese. Quanto alla Brexit, pur sfruttata da Popolari in chiave anti-Podemos nelle ultime battute di campagna elettorale, non sembra aver influenzato più di tanto l’esito del voto, mentre potrebbe giocare un ruolo nel frenare le spinte indipendentiste della Catalogna, dove il vento della separazione da Madrid ha finora soffiato forte.
Non c’è dubbio che l’assenza di un governo centrale forte e rappresentativo costituisca un incentivo per arrivare in tempi brevi all’autoproclamazione dell’indipendenza, come è nei programmi della coalizione al governo della Generalitat de Catalunya, ma la prospettiva di un’Unione frammentata e il rischio concretissimo che la propria scelta possa autoescludere Barcellona dalla Ue mina alla radice molte delle certezze catalane sulla convenienza economica dell’indipendenza. Un conto infatti è una Catalogna che può beneficiare appieno della libera circolazione di persone, merci e servizi, un conto è rischiare di ritrovarsi improvvisamente fuori da questo meccanismo avendo per di più tagliato i ponti con quello che è il proprio partner economico più importante: il resto della Spagna. Da questo punto di vista la “lezione inglese” (con il corredo della volontà degli scozzesi di non uscire dall’Unione europea) può rappresentare un fattore dissuasivo anche per gli indipendentisti catalani più convinti e può essere invece l’occasione per aprire un serio tavolo negoziale con Madrid per ottenere quell’autonomia anche fiscale che altre Regioni spagnole hanno (a partire dai Paesi Baschi) e di cui invece la Catalogna non gode minimamente.
Il fatto che dalle urne spagnole non sia ancora una volta uscita una maggioranza chiara può sicuramente dare un vantaggio negoziale ai catalani, dove invece la maggioranza indipendentista è compatta nelle sue richieste. E’ ancora presto per dire se questa prospettiva si aprirà sul serio, ma l’avvio di un dialogo tra Barcellona e Madrid potrebbe essere uno dei pochi fattori positivi, ancorché indiretti, della Brexit.
Ma ora ha chance di dialogo con la Catalogna
Rajoy vince ma non ha maggioranza. Podemos manca sorpasso: ‘Siamo terzi, riflettiamo’ (di S. Ragusa)
La Brexit mina le certezze di Barcellona sulla convenienza economica di un’eventuale indipendenza
Mondo
Le elezioni spagnole sono un’ottima cartina di tornasole per capire cosa sta accadendo nell’Europa in preda alla Brexit e quali rapporti di forza si stanno delineando. Una vittoria di Podemos o, perlomeno, l’atteso sorpasso a danno dei socialisti e l’affermazione come seconda forza politica del Paese avrebbe messo ancora di più in allarme Bruxelles e le cancellerie continentali. Invece, la conferma dell’ingovernabilità – con la vittoria del Partito Popolare, che però non ottiene la maggioranza dei seggi (leggi) – rappresenta paradossalmente un dato neutro, se non addirittura positivo per l’Europa a trazione tedesca di P. Fior
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Elezioni Spagna, ora Madrid è più debole: addio asse con Roma e Parigi. Ma più chance per il dialogo con la Catalogna
Elezioni Spagna, ora Madrid è più debole: addio asse con Roma e Parigi. Ma più chance per il dialogo con la Catalogna
Mondo
Il Paese a questo punto essere governato solo da una “gran coalition” Popolari-Socialisti-Ciudadanos. Uno dei pochi fattori positivi, ancorché indiretti, della Brexit, potrebbe essere l'avvio di un dialogo tra la capitale e Barcellona, dove il vento indipendentista finora ha soffiato forte: un’Unione frammentata mina le certezze catalane sulla convenienza economica dell’indipendenza
di Paolo Fior | 27 giugno 2016
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Le elezioni spagnole sono un’ottima cartina di tornasole per capire cosa sta accadendo nell’Europa in preda alla Brexit e quali rapporti di forza si stanno delineando. Una vittoria di Podemos o, perlomeno, l’atteso sorpasso a danno dei socialisti e l’affermazione come seconda forza politica del Paese avrebbe messo ulteriormente in allarme Bruxelles e le cancellerie continentali. Invece, la conferma dell’ingovernabilità – con la vittoria del Partito Popolare, che però non ottiene la maggioranza dei seggi – rappresenta paradossalmente un dato neutro, se non addirittura positivo per l’Europa a trazione tedesca che può tranquillamente archiviare quest’esito come del tutto ininfluente sul futuro dell’Unione. Poco conta che la Spagna sia tornata al voto a sei mesi dalle precedenti elezioni per l’impossibilità di formare un governo e poco conta che possa essere costretta a tornarci tra altri sei mesi per lo stesso motivo: ciò che importa davvero è che l’esito politico della consultazione elettorale non abbia gettato ulteriore benzina sul fuoco dell’euroscetticismo e della protesta anti-austerity.
Sintomatica da questo punto di vista la scelta dei siti dei principali giornali tedeschi, francesi e britannici, oltre che del Financial Times e del Wall Street Journal di relegare le elezioni spagnole tra le notizie meno importanti della giornata e il New York Times, addirittura, non l’ha reputata degna di figurare in home page. Tutto il contrario dei giornali italiani e portoghesi che, oltre a quelli spagnoli, su questa notizia hanno invece aperto le loro edizioni, perché ciò che accade a Madrid riguarda da vicino anche gli altri Paesi dell’Europa periferica e in particolare l’Italia. Questo non tanto e non solo per le presunte similitudini e differenze tra Podemos e il Movimento 5 Stelle e per lo scenario politico dominato da una sorta di tripartitismo, quanto piuttosto per la necessità di fare fronte comune in Europa nelle settimane e nei mesi a venire. Ma l’assenza di un verdetto elettorale chiaro depotenzia sul nascere un eventuale asse Roma-Madrid-Parigi e porta inevitabilmente la Spagna a guardare più ai suoi problemi interni che alla prospettiva europea.
Quella che è uscita dalle urne è una Spagna che non morde e che – numeri alla mano – può essere governata solo da una “gran coalition” Popolari-Socialisti-Ciudadanos, l’unica in grado di avere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Nei sei mesi passati i socialisti di Sanchez hanno dato picche alla proposta di alleanza di governo avanzata dal premier Mariano Rajoy, ma ora che – pur mantenendo il secondo posto – hanno visto calare ai minimi storici i loro seggi e hanno perso una roccaforte storica come l’Andalusia, potrebbero essere indotti a ripensarci. La ragione è che in una fase d’incertezza come l’attuale la Spagna non è nelle condizioni di permettersi uno stallo politico a tempo indefinito perché la indebolirebbe ulteriormente facendone anche un facile bersaglio per la speculazione finanziaria, come ha dimostrato il crollo della Bolsa di Madrid in linea con quello di Piazza Affari nel bel mezzo del venerdì nero (-12%). Quindi, obtorto collo, è più che probabile che nelle prossime settimane si intavoli un dialogo tra i due maggiori partiti nel tentativo di trovare un accordo e dare un governo al Paese. Quanto alla Brexit, pur sfruttata da Popolari in chiave anti-Podemos nelle ultime battute di campagna elettorale, non sembra aver influenzato più di tanto l’esito del voto, mentre potrebbe giocare un ruolo nel frenare le spinte indipendentiste della Catalogna, dove il vento della separazione da Madrid ha finora soffiato forte.
Non c’è dubbio che l’assenza di un governo centrale forte e rappresentativo costituisca un incentivo per arrivare in tempi brevi all’autoproclamazione dell’indipendenza, come è nei programmi della coalizione al governo della Generalitat de Catalunya, ma la prospettiva di un’Unione frammentata e il rischio concretissimo che la propria scelta possa autoescludere Barcellona dalla Ue mina alla radice molte delle certezze catalane sulla convenienza economica dell’indipendenza. Un conto infatti è una Catalogna che può beneficiare appieno della libera circolazione di persone, merci e servizi, un conto è rischiare di ritrovarsi improvvisamente fuori da questo meccanismo avendo per di più tagliato i ponti con quello che è il proprio partner economico più importante: il resto della Spagna. Da questo punto di vista la “lezione inglese” (con il corredo della volontà degli scozzesi di non uscire dall’Unione europea) può rappresentare un fattore dissuasivo anche per gli indipendentisti catalani più convinti e può essere invece l’occasione per aprire un serio tavolo negoziale con Madrid per ottenere quell’autonomia anche fiscale che altre Regioni spagnole hanno (a partire dai Paesi Baschi) e di cui invece la Catalogna non gode minimamente.
Il fatto che dalle urne spagnole non sia ancora una volta uscita una maggioranza chiara può sicuramente dare un vantaggio negoziale ai catalani, dove invece la maggioranza indipendentista è compatta nelle sue richieste. E’ ancora presto per dire se questa prospettiva si aprirà sul serio, ma l’avvio di un dialogo tra Barcellona e Madrid potrebbe essere uno dei pochi fattori positivi, ancorché indiretti, della Brexit.
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Re: La crisi dell'Europa
IL PARERE DI UN ESPONENTE DEL MONDO CATTOLICO DELLA SINISTRA
ZONAEURO
Brexit, una scossa salutare per riesaminare tutto: serve l’unione politica
Zonaeuro
di Marco Politi | 27 giugno 2016
COMMENTI (21)
Marco Politi
Scrittore e giornalista
Ora che abbiamo assistito a un’abbondanza di lamenti e di vesti stracciate, possiamo dirlo con freddezza: “E’ bene che la Gran Bretagna esca dall’Unione Europea”. Dicevano i latini: “Oportet ut scandala eveniant”, ossia “E’ positivo che si verifichino shock”. La Brexit è la scossa salutare per riesaminare tutto. Quando una situazione è incancrenita – come l’attuale stato dell’Ue – bisogna prendere il bisturi e andare fino all’osso.
Era negativo che per evitarla fosse stato concesso a Londra uno status speciale che esentava la Gran Bretagna dall’impegno di operare per una “unione sempre più stretta” insieme a ulteriori clausole, che la liberavano da una serie obblighi comunitari per esempio in tema immigrati. Non si sta in un club, se non si condividono il patto fondativo e tutte le regole comuni.
Una Gran Bretagna, che non vuole l’obiettivo di una integrazione progressiva dei paesi europei, non può pretendere di continuare a partecipare alla determinazione della politica dell’Unione. O dentro o fuori. Il referendum britannico ha eliminato la toppa maldestra elaborata a Bruxelles nel febbraio scorso, che un domani avrebbe permesso ad altri paesi di chiamarsi fuori dalla strategia comune.
Pubblicità
Di fatto l’Unione, così come è oggi, è un carrozzone sgangherato sempre più difficile da gestire. La colpa non è delle autorità di Bruxelles (come si tende a dire superficialmente). I tecnocrati di Bruxelles attuano la politica o meglio la non-politica, che risulta da vertici poco gestibili di 28 (ora 27) Stati. Se l’Ue non ha una robusta strategia di sviluppo sociale la responsabilità è dei suoi capi di stato e di governo: non delle autorità di Bruxelles.
L’allargamento entusiastico dell’Unione ai paesi dell’Est dopo la caduta del Muro di Berlino fu un errore. Lo sanno tutti, anche se diplomaticamente pochi lo ammettono. Gran parte delle nazioni dell’Europa orientale, uscite dal sistema sovietico, erano solo interessate ai vantaggi economici dell’Ue, con scarsissimo interesse per la costruzione di una Europa unita. Paesi come la Polonia e l’Ungheria sono oggi rette da regimi nazionalisti, che non osservano nemmeno gli standard normali delle democrazie europee. Soprattutto in Europa orientale è rampante la volontà di opporsi a qualsiasi redistribuzione per quote della massa di migranti, che dal Mediterraneo bussano alle porte dell’Europa.
Bene, quindi, che lo shock della Brexit metta tutti davanti a un bivio.
Pubblicità
Il “carrozzone Europa” – proprio perché il suo passo si è inceppato e non è più in grado di produrre gli indubbi benefici, che ha portato nei decenni passati – non può continuare sui binari attuali. Bisogna scegliere. Imboccare la via dell’unione politica. Prendere atto che gli stati nazionali nell’era della globalizzazione non contano nulla (e se ne accorgeranno presto gli inglesi). L’unica dimensione è quella continentale. Gli Stati Uniti d’Europa.
L’obiettivo non si raggiunge con la bacchetta magica in un momento. Ma è l’ora che la questione sia posta con chiarezza. Specie le generazioni giovani (che, lo si è visto anche in Inghilterra, hanno ben chiaro il vantaggio dell’integrazione) possono e devono pungolare i ceti politici ed economici più responsabili perché sia messo in campo un programma reale di costruzione della Federazione europea per tappe precise. Anche in Italia e in Germania nell’800 erano in tanti a dire che l’unità nazionale era un’utopia o “non era matura”. Allora la questione fu risolta attraverso le guerre di indipendenza e di unificazione.
Oggi deve essere la politica a creare l’unione politica dell’Europa. Euroscettici e populisti neo-nazionalisti prosperano nella grande crisi sociale attuale proprio perché non c’è una proposta chiara di integrazione europea in grado di appassionare gli animi e di spiegare che l’Unione è l’unico strumento per fondare un nuovo patto sociale continentale, che superi le “due società” presenti in ogni nazione : la ridotta casta benestante e dominante da una parte, la massa degli esclusi, poveri, impoveriti, precarizzati a vario titolo dall’altra.
L’Europa a ventisette non può andare avanti. Non ha prospettive. Non produce risultati. Serve una scelta. Due velocità. Da una parte chi si accontenta di un’area economica associata. Dall’altro chi vuole procedere all’integrazione sempre più stretta. Non c’è nulla di utopistico nel decidere un programma concreto di una “unione stretta” che comprenda, per tappe programmate:
1. Regole omogenee per fisco, banche, finanza e un ministro del Tesoro/Economia per l’eurozona ; 2.Intelligence anti-terrorismo comune; 3. Polizia anti-criminalità organizzata comune (tipo Fbi): 4.Esercito europeo; 5.Politica estera integrata; 6.Politica comune sull’immigrazione; 7. un Programma comunitario di forti investimenti per il rilancio dell’occupazione.
“L’Italia farà la sua parte”, ha dichiarato il premier Renzi dopo lo shock della Brexit. Sono le stesse parole da lui pronunciate dopo la strage terroristica a Parigi nel dicembre scorso. Le usa in mancanza di una visione chiara. Ma non è solo Renzi l’inconsistente sulla scena europea. Tutte le classi di governo dell’Unione – quelle responsabili e non nazionaliste – sono chiamate a fare uno scatto per decidere un programma d’azione, che abbia per traguardo la costruzione della Federazione europea.
Chi ci sta, ci sta.
Nel dopoguerra sono stati i “federalisti” e i “visionari” come Altiero Spinelli e Jean Monet a porre le basi di un’integrazione che ha portato un enorme sviluppo all’Europa prima della grande crisi sociale attuale. Ora servono uomini con eguale coraggio e lungimiranza.
ZONAEURO
Brexit, una scossa salutare per riesaminare tutto: serve l’unione politica
Zonaeuro
di Marco Politi | 27 giugno 2016
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Marco Politi
Scrittore e giornalista
Ora che abbiamo assistito a un’abbondanza di lamenti e di vesti stracciate, possiamo dirlo con freddezza: “E’ bene che la Gran Bretagna esca dall’Unione Europea”. Dicevano i latini: “Oportet ut scandala eveniant”, ossia “E’ positivo che si verifichino shock”. La Brexit è la scossa salutare per riesaminare tutto. Quando una situazione è incancrenita – come l’attuale stato dell’Ue – bisogna prendere il bisturi e andare fino all’osso.
Era negativo che per evitarla fosse stato concesso a Londra uno status speciale che esentava la Gran Bretagna dall’impegno di operare per una “unione sempre più stretta” insieme a ulteriori clausole, che la liberavano da una serie obblighi comunitari per esempio in tema immigrati. Non si sta in un club, se non si condividono il patto fondativo e tutte le regole comuni.
Una Gran Bretagna, che non vuole l’obiettivo di una integrazione progressiva dei paesi europei, non può pretendere di continuare a partecipare alla determinazione della politica dell’Unione. O dentro o fuori. Il referendum britannico ha eliminato la toppa maldestra elaborata a Bruxelles nel febbraio scorso, che un domani avrebbe permesso ad altri paesi di chiamarsi fuori dalla strategia comune.
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Di fatto l’Unione, così come è oggi, è un carrozzone sgangherato sempre più difficile da gestire. La colpa non è delle autorità di Bruxelles (come si tende a dire superficialmente). I tecnocrati di Bruxelles attuano la politica o meglio la non-politica, che risulta da vertici poco gestibili di 28 (ora 27) Stati. Se l’Ue non ha una robusta strategia di sviluppo sociale la responsabilità è dei suoi capi di stato e di governo: non delle autorità di Bruxelles.
L’allargamento entusiastico dell’Unione ai paesi dell’Est dopo la caduta del Muro di Berlino fu un errore. Lo sanno tutti, anche se diplomaticamente pochi lo ammettono. Gran parte delle nazioni dell’Europa orientale, uscite dal sistema sovietico, erano solo interessate ai vantaggi economici dell’Ue, con scarsissimo interesse per la costruzione di una Europa unita. Paesi come la Polonia e l’Ungheria sono oggi rette da regimi nazionalisti, che non osservano nemmeno gli standard normali delle democrazie europee. Soprattutto in Europa orientale è rampante la volontà di opporsi a qualsiasi redistribuzione per quote della massa di migranti, che dal Mediterraneo bussano alle porte dell’Europa.
Bene, quindi, che lo shock della Brexit metta tutti davanti a un bivio.
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Il “carrozzone Europa” – proprio perché il suo passo si è inceppato e non è più in grado di produrre gli indubbi benefici, che ha portato nei decenni passati – non può continuare sui binari attuali. Bisogna scegliere. Imboccare la via dell’unione politica. Prendere atto che gli stati nazionali nell’era della globalizzazione non contano nulla (e se ne accorgeranno presto gli inglesi). L’unica dimensione è quella continentale. Gli Stati Uniti d’Europa.
L’obiettivo non si raggiunge con la bacchetta magica in un momento. Ma è l’ora che la questione sia posta con chiarezza. Specie le generazioni giovani (che, lo si è visto anche in Inghilterra, hanno ben chiaro il vantaggio dell’integrazione) possono e devono pungolare i ceti politici ed economici più responsabili perché sia messo in campo un programma reale di costruzione della Federazione europea per tappe precise. Anche in Italia e in Germania nell’800 erano in tanti a dire che l’unità nazionale era un’utopia o “non era matura”. Allora la questione fu risolta attraverso le guerre di indipendenza e di unificazione.
Oggi deve essere la politica a creare l’unione politica dell’Europa. Euroscettici e populisti neo-nazionalisti prosperano nella grande crisi sociale attuale proprio perché non c’è una proposta chiara di integrazione europea in grado di appassionare gli animi e di spiegare che l’Unione è l’unico strumento per fondare un nuovo patto sociale continentale, che superi le “due società” presenti in ogni nazione : la ridotta casta benestante e dominante da una parte, la massa degli esclusi, poveri, impoveriti, precarizzati a vario titolo dall’altra.
L’Europa a ventisette non può andare avanti. Non ha prospettive. Non produce risultati. Serve una scelta. Due velocità. Da una parte chi si accontenta di un’area economica associata. Dall’altro chi vuole procedere all’integrazione sempre più stretta. Non c’è nulla di utopistico nel decidere un programma concreto di una “unione stretta” che comprenda, per tappe programmate:
1. Regole omogenee per fisco, banche, finanza e un ministro del Tesoro/Economia per l’eurozona ; 2.Intelligence anti-terrorismo comune; 3. Polizia anti-criminalità organizzata comune (tipo Fbi): 4.Esercito europeo; 5.Politica estera integrata; 6.Politica comune sull’immigrazione; 7. un Programma comunitario di forti investimenti per il rilancio dell’occupazione.
“L’Italia farà la sua parte”, ha dichiarato il premier Renzi dopo lo shock della Brexit. Sono le stesse parole da lui pronunciate dopo la strage terroristica a Parigi nel dicembre scorso. Le usa in mancanza di una visione chiara. Ma non è solo Renzi l’inconsistente sulla scena europea. Tutte le classi di governo dell’Unione – quelle responsabili e non nazionaliste – sono chiamate a fare uno scatto per decidere un programma d’azione, che abbia per traguardo la costruzione della Federazione europea.
Chi ci sta, ci sta.
Nel dopoguerra sono stati i “federalisti” e i “visionari” come Altiero Spinelli e Jean Monet a porre le basi di un’integrazione che ha portato un enorme sviluppo all’Europa prima della grande crisi sociale attuale. Ora servono uomini con eguale coraggio e lungimiranza.
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Re: La crisi dell'Europa
I PUNTI DI VISTA DI POLITI E DELLA NAPOLEONI SI EQUIVALGONO
Politi
Ora che abbiamo assistito a un’abbondanza di lamenti e di vesti stracciate, possiamo dirlo con freddezza: “E’ bene che la Gran Bretagna esca dall’Unione Europea”. Dicevano i latini: “Oportet ut scandala eveniant”, ossia “E’ positivo che si verifichino shock”. La Brexit è la scossa salutare per riesaminare tutto. Quando una situazione è incancrenita – come l’attuale stato dell’Ue – bisogna prendere il bisturi e andare fino all’osso.
Napoleoni
La colpa è degli inglesi? Assolutamente no, la colpa è di un sistema economico, politico e finanziario che fa acqua da tutte le parti e che va cambiato.
I media nei giorni scorsi avevano spinto per dare la colpa ai vari elettori del LEAVE.
Ma la responsabilità sta a monte.
Nell’orchestra sinfonica di Bruxelles e dei loro padroni delle varie lobby.
Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna.
Politi
Ora che abbiamo assistito a un’abbondanza di lamenti e di vesti stracciate, possiamo dirlo con freddezza: “E’ bene che la Gran Bretagna esca dall’Unione Europea”. Dicevano i latini: “Oportet ut scandala eveniant”, ossia “E’ positivo che si verifichino shock”. La Brexit è la scossa salutare per riesaminare tutto. Quando una situazione è incancrenita – come l’attuale stato dell’Ue – bisogna prendere il bisturi e andare fino all’osso.
Napoleoni
La colpa è degli inglesi? Assolutamente no, la colpa è di un sistema economico, politico e finanziario che fa acqua da tutte le parti e che va cambiato.
I media nei giorni scorsi avevano spinto per dare la colpa ai vari elettori del LEAVE.
Ma la responsabilità sta a monte.
Nell’orchestra sinfonica di Bruxelles e dei loro padroni delle varie lobby.
Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna.
Ultima modifica di camillobenso il 29/06/2016, 11:00, modificato 2 volte in totale.
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Re: La crisi dell'Europa
UE
Elezioni Spagna, dalle urne esce un Paese diviso
A due giorni dal terremoto britannico, contrariamente ai soli, erronei sondaggi, gli elettori spagnoli hanno scelto l'usato sicuro. La rivoluzione delle masse dovrà aspettare
DI FEDERICA BIANCHI
27 giugno 2016
http://espresso.repubblica.it/internazi ... =HEF_RULLO
Elezioni Spagna, dalle urne esce un Paese diviso
A due giorni dal terremoto britannico, contrariamente ai soli, erronei sondaggi, gli elettori spagnoli hanno scelto l'usato sicuro. La rivoluzione delle masse dovrà aspettare
DI FEDERICA BIANCHI
27 giugno 2016
http://espresso.repubblica.it/internazi ... =HEF_RULLO
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Re: La crisi dell'Europa
Elezioni Spagna, Iglesias: ''Per Podemos i risultati non sono soddisfacenti''
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26 GIUGNO 2016
Elezioni Spagna, Iglesias: ''Per Podemos i risultati non sono soddisfacenti''
Il leader di Podemos Pablo Iglesias ha ammesso che il risultato del suo partito alle politiche spagnole "non è stato soddisfacente". Il leader del partito 'viola' si è detto anche preoccupato dalla "perdita di consenso per il blocco progressista'' ma ''soddisfatto di essersi consolidati come spazio politico''
http://video.espresso.repubblica.it/int ... /8752/8843
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26 GIUGNO 2016
Elezioni Spagna, Iglesias: ''Per Podemos i risultati non sono soddisfacenti''
Il leader di Podemos Pablo Iglesias ha ammesso che il risultato del suo partito alle politiche spagnole "non è stato soddisfacente". Il leader del partito 'viola' si è detto anche preoccupato dalla "perdita di consenso per il blocco progressista'' ma ''soddisfatto di essersi consolidati come spazio politico''
http://video.espresso.repubblica.it/int ... /8752/8843
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