La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
Emiliano Brancaccio
Wikipedia
Pensiero economico
Annoverato tra gli esponenti delle scuole di pensiero economico critico, è stato definito dal Sole 24 Ore "di impostazione marxista ma aperto a innovazioni ispirate dai contributi di Keynes e Sraffa".[2]
INTERVISTA
“La Brexit può mettere a rischio anche l’euro”
Se il settore bancario non dovesse tenere, la situazione potrebbe precipitare. L’economista Emiliano Brancaccio è però convinto che il punto sia la disuguaglianza, anche tra Paesi Ue, per retribuzioni e occupazione
DI LUCA SAPPINO
24 giugno 2016
Sondaggi smentiti, borse in caduta libera e il premier britannico David Cameron che annuncia le dimissioni: il referendum sancisce la vittoria dei “sì” all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Di questo risultato storico e delle sue possibili conseguenze parliamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti” pubblicato nel 2013 sul Financial Times, un documento che viene oggi ricordato per l’estremo scetticismo sulla tenuta del processo di unificazione europea.
Professore, i sondaggi e i mercati davano per scontata la vittoria del “no” all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. L’onda della Brexit invece non si è fermata. Che lezione possiamo trarre da questo esito dai più definito inatteso?
«Non era inatteso per tutti. I sondaggi, in casi simili, non aiutano. Quanto ai mercati, smettiamola di pensare che gli speculatori siano dei veggenti: come diceva il premio Nobel James Tobin, al di là di rare eccezioni di solito quelli non sanno guardare oltre i prossimi dieci minuti».
Il “leave” ha vinto anche nel collegio elettorale della deputata laburista Jo Cox, il cui omicidio si pensava avrebbe spostato consensi a favore dell’Unione...
«È stato un delitto atroce che ha inquinato gli ultimi giorni della campagna referendaria. Ma trovo ingenuo ritenere che il corso degli avvenimenti storici possa esser deviato da singoli episodi, per quanto efferati: la guerra dei trent’anni non fu scatenata dalla defenestrazione dei governatori imperiali, e il primo conflitto mondiale non fu certo causato da Gavrilo Princip. La verità è che la vittoria della Brexit è solo uno degli innumerevoli riflessi di una tendenza destabilizzante più profonda, di lungo periodo, nella quale i fattori economici hanno un ruolo importante».
La crisi, la disoccupazione, l’immigrazione anche interna all’Unione Europea?
«L’immigrazione è stata al centro del dibattito referendario, i partiti xenofobi ci hanno sguazzato e ci guadagneranno sul piano politico. Ma la crescita dei flussi migratori, a ben guardare, è solo il sintomo di un problema più di fondo: un’eccezionale divaricazione tra i tassi di occupazione anche nei diversi Paesi dell’Unione europea, che costringe tanti lavoratori a spostarsi dalle aree in crisi verso quelle caratterizzate da andamenti economici migliori o comunque meno disastrosi».
Quindi tra le cause di fondo della Brexit ci sarebbero gli squilibri economici tra i paesi dell’Unione?
«Ovviamente sì. Gli opinionisti che in queste ore riducono la questione a una querelle interna ai Tories, tra Cameron e Johnson, dovrebbero dedicarsi al gossip, non alla politica. Chi vuol capire davvero cosa sia successo dovrebbe interrogarsi sui motivi per cui pezzi rilevanti della società britannica, rappresentativi dell’industria del Nord e non solo, hanno scelto di andare contro la City di Londra aderendo alla campagna per l’uscita dall’Ue. Una delle ragioni è che in Gran Bretagna si sta diffondendo una crescente preoccupazione verso la tendenza del Paese ad importare molti più beni e servizi di quanti ne riesca ad esportare. Finora questo deficit è stato coperto con ingenti prestiti di capitale dall’estero, ma una tendenza del genere non può durare all’infinito e prima o poi sfocerà in una crisi commerciale. Molti considerano il deficit britannico come uno specchio dell’enorme surplus commerciale tedesco ma ritengono che la mera svalutazione della sterlina sarebbe insufficiente a rimettere in equilibrio gli scambi: per questo vedono la Brexit come un’occasione per intervenire, al limite anche rivedendo gli accordi commerciali con la Germania e il resto della Ue».
Dobbiamo cioè aspettarci che la Gran Bretagna possa virare verso la via del protezionismo contro la Ue?
«Non lo sappiamo, è presto per dirlo. Di certo, negli ultimi tempi nel Regno Unito circolano idee che non sarebbero piaciute a David Ricardo, il grande teorico del libero commercio. Ma non è solo un problema britannico: la Commissione europea ha calcolato che dal 2008 ad oggi sono state introdotte più di ottocento nuove misure protezionistiche a livello mondiale. È un effetto degli squilibri causati dal liberismo sfrenato degli anni passati e della grande recessione che ne è seguita. Che ci piaccia o meno, la crisi della globalizzazione fa parte di questa fase storica, e il travaglio del processo di unificazione europea costituisce un esempio emblematico».
Il leader dei Labour, Jeremy Corbyn, aveva sostenuto la campagna per il “No” all’uscita. A quanto pare molti lavoratori, elettori storici del partito laburista, gli sono andati contro.
«Non amo essere irriguardoso, ma temo che gli eredi della tradizione del movimento operaio non ci stiano capendo molto di questa fase dello sviluppo capitalistico».
Però Corbyn ha conquistato il Labour proprio chiedendo di archiviare le politiche liberiste figlie della “Terza via” blairiana, che in Italia sono invece ancora un modello, rinnovato, per il Pd di Matteo Renzi.
«Vero, ed è stata una novità positiva nella visione laburista della politica economica. Ma bisognerebbe rendersi conto che le svolte interne che non siano accompagnate da una visione dei rapporti internazionali realistica e adatta ai tempi, rischiano rapidamente di entrare in contraddizione e di esaurire la loro forza. Il punto da comprendere è che il regime di accumulazione del capitale sta cambiando, c’è una lotta in corso tra le tendenze liberoscambiste del grande capitale e le pulsioni protezioniste dei proprietari più piccoli e maggiormente in affanno. Invece di incunearsi in questo scontro con un punto di vista autonomo e delle proposte originali, gli esponenti della sinistra si gettano ogni volta tra le braccia dell’una o dell’altra parte in causa come dei pugili suonati. Per il lavoro e per le sue residue rappresentanze è un’epoca durissima, ma proprio per questo forse sarebbe ora di avviare un lavoro collettivo per rimettere in moto il pensiero critico e allacciarsi alla realtà del tempo presente».
L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione potrebbe creare problemi anche alla sopravvivenza dell’euro?
«Vedremo, di sicuro questo episodio aprirà un’altra crepa sulle mura del fortino monetario creato dalla Bce. Se ci saranno forti ripercussioni sul settore bancario la situazione potrebbe precipitare anche nei rapporti interni all’eurozona».
All’inizio della crisi lei propose uno “standard retributivo” che interrompesse la competizione salariale al ribasso e aiutasse a ridurre il surplus tedesco e a riequilibrare i rapporti interni all’eurozona. Funzionerebbe ancora, o per fermare l’onda del Brexit è troppo tardi?
«L’idea di uno “standard del lavoro sulla moneta” resta valida in generale, come tassello di una possibile visione lavorista della crisi internazionale. Ma come possibile salvagente per l’euro sarebbe tardiva. Allo stadio in cui siamo i problemi dell’eurozona si sono incancreniti. Con il governo tedesco ostile a qualsiasi mutualizzazione dei debiti, l’Unione non dispone di strumenti adeguati per affrontare una nuova crisi bancaria. Non so se sarà la Brexit, ma l’intero progetto di unificazione europea potrebbe cadere ormai anche con una sola spallata».
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
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Pensiero economico
Annoverato tra gli esponenti delle scuole di pensiero economico critico, è stato definito dal Sole 24 Ore "di impostazione marxista ma aperto a innovazioni ispirate dai contributi di Keynes e Sraffa".[2]
INTERVISTA
“La Brexit può mettere a rischio anche l’euro”
Se il settore bancario non dovesse tenere, la situazione potrebbe precipitare. L’economista Emiliano Brancaccio è però convinto che il punto sia la disuguaglianza, anche tra Paesi Ue, per retribuzioni e occupazione
DI LUCA SAPPINO
24 giugno 2016
Sondaggi smentiti, borse in caduta libera e il premier britannico David Cameron che annuncia le dimissioni: il referendum sancisce la vittoria dei “sì” all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Di questo risultato storico e delle sue possibili conseguenze parliamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti” pubblicato nel 2013 sul Financial Times, un documento che viene oggi ricordato per l’estremo scetticismo sulla tenuta del processo di unificazione europea.
Professore, i sondaggi e i mercati davano per scontata la vittoria del “no” all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. L’onda della Brexit invece non si è fermata. Che lezione possiamo trarre da questo esito dai più definito inatteso?
«Non era inatteso per tutti. I sondaggi, in casi simili, non aiutano. Quanto ai mercati, smettiamola di pensare che gli speculatori siano dei veggenti: come diceva il premio Nobel James Tobin, al di là di rare eccezioni di solito quelli non sanno guardare oltre i prossimi dieci minuti».
Il “leave” ha vinto anche nel collegio elettorale della deputata laburista Jo Cox, il cui omicidio si pensava avrebbe spostato consensi a favore dell’Unione...
«È stato un delitto atroce che ha inquinato gli ultimi giorni della campagna referendaria. Ma trovo ingenuo ritenere che il corso degli avvenimenti storici possa esser deviato da singoli episodi, per quanto efferati: la guerra dei trent’anni non fu scatenata dalla defenestrazione dei governatori imperiali, e il primo conflitto mondiale non fu certo causato da Gavrilo Princip. La verità è che la vittoria della Brexit è solo uno degli innumerevoli riflessi di una tendenza destabilizzante più profonda, di lungo periodo, nella quale i fattori economici hanno un ruolo importante».
La crisi, la disoccupazione, l’immigrazione anche interna all’Unione Europea?
«L’immigrazione è stata al centro del dibattito referendario, i partiti xenofobi ci hanno sguazzato e ci guadagneranno sul piano politico. Ma la crescita dei flussi migratori, a ben guardare, è solo il sintomo di un problema più di fondo: un’eccezionale divaricazione tra i tassi di occupazione anche nei diversi Paesi dell’Unione europea, che costringe tanti lavoratori a spostarsi dalle aree in crisi verso quelle caratterizzate da andamenti economici migliori o comunque meno disastrosi».
Quindi tra le cause di fondo della Brexit ci sarebbero gli squilibri economici tra i paesi dell’Unione?
«Ovviamente sì. Gli opinionisti che in queste ore riducono la questione a una querelle interna ai Tories, tra Cameron e Johnson, dovrebbero dedicarsi al gossip, non alla politica. Chi vuol capire davvero cosa sia successo dovrebbe interrogarsi sui motivi per cui pezzi rilevanti della società britannica, rappresentativi dell’industria del Nord e non solo, hanno scelto di andare contro la City di Londra aderendo alla campagna per l’uscita dall’Ue. Una delle ragioni è che in Gran Bretagna si sta diffondendo una crescente preoccupazione verso la tendenza del Paese ad importare molti più beni e servizi di quanti ne riesca ad esportare. Finora questo deficit è stato coperto con ingenti prestiti di capitale dall’estero, ma una tendenza del genere non può durare all’infinito e prima o poi sfocerà in una crisi commerciale. Molti considerano il deficit britannico come uno specchio dell’enorme surplus commerciale tedesco ma ritengono che la mera svalutazione della sterlina sarebbe insufficiente a rimettere in equilibrio gli scambi: per questo vedono la Brexit come un’occasione per intervenire, al limite anche rivedendo gli accordi commerciali con la Germania e il resto della Ue».
Dobbiamo cioè aspettarci che la Gran Bretagna possa virare verso la via del protezionismo contro la Ue?
«Non lo sappiamo, è presto per dirlo. Di certo, negli ultimi tempi nel Regno Unito circolano idee che non sarebbero piaciute a David Ricardo, il grande teorico del libero commercio. Ma non è solo un problema britannico: la Commissione europea ha calcolato che dal 2008 ad oggi sono state introdotte più di ottocento nuove misure protezionistiche a livello mondiale. È un effetto degli squilibri causati dal liberismo sfrenato degli anni passati e della grande recessione che ne è seguita. Che ci piaccia o meno, la crisi della globalizzazione fa parte di questa fase storica, e il travaglio del processo di unificazione europea costituisce un esempio emblematico».
Il leader dei Labour, Jeremy Corbyn, aveva sostenuto la campagna per il “No” all’uscita. A quanto pare molti lavoratori, elettori storici del partito laburista, gli sono andati contro.
«Non amo essere irriguardoso, ma temo che gli eredi della tradizione del movimento operaio non ci stiano capendo molto di questa fase dello sviluppo capitalistico».
Però Corbyn ha conquistato il Labour proprio chiedendo di archiviare le politiche liberiste figlie della “Terza via” blairiana, che in Italia sono invece ancora un modello, rinnovato, per il Pd di Matteo Renzi.
«Vero, ed è stata una novità positiva nella visione laburista della politica economica. Ma bisognerebbe rendersi conto che le svolte interne che non siano accompagnate da una visione dei rapporti internazionali realistica e adatta ai tempi, rischiano rapidamente di entrare in contraddizione e di esaurire la loro forza. Il punto da comprendere è che il regime di accumulazione del capitale sta cambiando, c’è una lotta in corso tra le tendenze liberoscambiste del grande capitale e le pulsioni protezioniste dei proprietari più piccoli e maggiormente in affanno. Invece di incunearsi in questo scontro con un punto di vista autonomo e delle proposte originali, gli esponenti della sinistra si gettano ogni volta tra le braccia dell’una o dell’altra parte in causa come dei pugili suonati. Per il lavoro e per le sue residue rappresentanze è un’epoca durissima, ma proprio per questo forse sarebbe ora di avviare un lavoro collettivo per rimettere in moto il pensiero critico e allacciarsi alla realtà del tempo presente».
L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione potrebbe creare problemi anche alla sopravvivenza dell’euro?
«Vedremo, di sicuro questo episodio aprirà un’altra crepa sulle mura del fortino monetario creato dalla Bce. Se ci saranno forti ripercussioni sul settore bancario la situazione potrebbe precipitare anche nei rapporti interni all’eurozona».
All’inizio della crisi lei propose uno “standard retributivo” che interrompesse la competizione salariale al ribasso e aiutasse a ridurre il surplus tedesco e a riequilibrare i rapporti interni all’eurozona. Funzionerebbe ancora, o per fermare l’onda del Brexit è troppo tardi?
«L’idea di uno “standard del lavoro sulla moneta” resta valida in generale, come tassello di una possibile visione lavorista della crisi internazionale. Ma come possibile salvagente per l’euro sarebbe tardiva. Allo stadio in cui siamo i problemi dell’eurozona si sono incancreniti. Con il governo tedesco ostile a qualsiasi mutualizzazione dei debiti, l’Unione non dispone di strumenti adeguati per affrontare una nuova crisi bancaria. Non so se sarà la Brexit, ma l’intero progetto di unificazione europea potrebbe cadere ormai anche con una sola spallata».
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
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Re: La crisi dell'Europa
POLITICA
Brexit, populisti o democratici a chi?
Politica
di Luisella Costamagna | 27 giugno 2016
COMMENTI (111)
Luisella Costamagna
Giornalista e autrice
Comunque la si pensi, la Brexit un merito lo ha di sicuro: imporci un cambio di prospettiva, farci vedere le cose da un altro, spiazzante punto di vista.
Populista chi? Ammesso e non concesso che il temine “populismo” – cioè attenzione al popolo e alle sue esigenze, esaltazione dei suoi valori – sia necessariamente negativo, sono più populisti l’Ukip e i conservatori pro Leave, che hanno cavalcato i sentimenti antieuropei e soprattutto anti-immigrazione; oppure Cameron, che ha promosso il referendum sull’uscita dall’Ue nel 2014 (all’indomani del successo di Farage alle Europee), lo ha promesso per vincere le elezioni nel 2015 e poi lo ha realizzato nel 2016, non prima di aver cercato di disinnescarlo, ottenendo da Bruxelles trattamenti speciali su welfare, immigrazione,politica economica e finanziaria?
Non è populista un premier che usa un referendum così importante per mero calcolo politico interno (essere rieletto contro gli euroscettici dentro e fuori il suo partito)? Solo che poi il popolo ha scelto altrimenti.
Disastro quale? L’uscita dall’Ue o la permanenza nell’Ue? Non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze reali del Leave, che peraltro avverrà non prima di due anni, ma gli economisti – gli stessi che hanno già dato pessima prova di sé, non prevedendo la crisi globale e non formulando ricette efficaci per uscirne – ipotizzano scenari nefasti.
In compenso, i cittadini europei conoscono perfettamente i costi del Remain, con tutti i sacrifici insiti nelle politiche di austerity: licenziamenti, tagli delle pensioni, riforme del lavoro con abolizione di diritti, vincoli alle imprese… In Italia la legge Fornero, il bail-in, il Jobs Act, i paletti al Made in Italy agroalimentare. .
La Grecia, che giusto un anno fa disse no al piano dei creditori internazionali per poi alzare bandiera bianca, continua ad avere il debito pubblico e il tasso di disoccupazione più alti d’Europa (24,2%).
Cattivi chi? L’Ue o i governi nazionali, che vendono alle rispettive opinioni pubbliche decisioni che hanno concorso a prendere? Che tagliano l’art. 18 “perché l’Europa ce lo chiede”, ma non realizzano il reddito di cittadinanza anche se “l’Europa ce lo chiede”? Sono cattivi ed egoisti i cittadini britannici, che scelgono l’exit perché spaventati dall’arrivo dei migranti, o la grande e civile Ue che non riesce a dimostrarsi solidale di fronte a una migrazione – e a una strage in mare – epocale, che non riesce a gestire l’arrivo di 250mila uomini, donne, bambini, mentre paesi ben più piccoli come Giordania e Libano fanno fronte a oltre 1 milione di profughi ciascuno?
Democratici chi? La Brexit è stata illuminante anche per capire la concezione della democrazia di molti nostri rappresentanti istituzionali e commentatori.
Se la sono presa con gli elettori, rinnegando nei fatti il metodo democratico, con aberrazioni tipo:
“Ho paura che la democrazia si possa perdere se usata male” (Monti),
“Elettori disinformati producono disastri epocali. Per votare servirebbe esame di cittadinanza” (Gori), “Brexit.(Renziano, per la cronaca-ndt)
I limiti della democrazia diretta: il popolo è sovrano ma non necessariamente consapevole e sapiente” (Castagnetti),
“Certo la democrazia diretta non è infallibile” (Lavia, L’Unità),
“Si è creata un’assurda convinzione basata sul fatto che quello che viene deciso a maggioranza sia democrazia” (Zevi, giornalista).
Fino alle apoteosi sul presunto voto dei vecchi britannici contro i giovani (in realtà solo 1 giovane su 3, il 36%, ha votato): “Invece di vietare il voto alla gente nei primi 18 anni di vita, perché non negli ultimi 18?” (Dini, Vanity Fair, ritwittato dall’ex Min. Melandri),
e il capolavoro del docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano Rosina, che ha parlato di “necessità di allentare il vincolo che impone che il voto di un ottantenne valga come quello di un ventenne su temi che condizionano soprattutto il futuro di quest’ultimo.
Tanto più in un’Europa che invecchia”.
Gli anziani (che per Rosina non hanno né figli né nipoti, dunque sono egoisti, meschini, al loro confronto Ebenezer Scrooge è un chierichetto) dovrebbero votare solo su pensioni, sanità ed eutanasia?
Che sinceri democratici a giorni alterni: se il risultato è quello sperato gli elettori sono maturi e consapevoli, diversamente sono un branco di ignoranti; se c’è il referendum sulle trivelle “Astensione”, se c’è quello costituzionale “Al voto!”; se vince il sì “Trionfa la democrazia”, se vince il No “Trionfa il populismo”. ItExit.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06 ... i/2863717/
Brexit, populisti o democratici a chi?
Politica
di Luisella Costamagna | 27 giugno 2016
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Luisella Costamagna
Giornalista e autrice
Comunque la si pensi, la Brexit un merito lo ha di sicuro: imporci un cambio di prospettiva, farci vedere le cose da un altro, spiazzante punto di vista.
Populista chi? Ammesso e non concesso che il temine “populismo” – cioè attenzione al popolo e alle sue esigenze, esaltazione dei suoi valori – sia necessariamente negativo, sono più populisti l’Ukip e i conservatori pro Leave, che hanno cavalcato i sentimenti antieuropei e soprattutto anti-immigrazione; oppure Cameron, che ha promosso il referendum sull’uscita dall’Ue nel 2014 (all’indomani del successo di Farage alle Europee), lo ha promesso per vincere le elezioni nel 2015 e poi lo ha realizzato nel 2016, non prima di aver cercato di disinnescarlo, ottenendo da Bruxelles trattamenti speciali su welfare, immigrazione,politica economica e finanziaria?
Non è populista un premier che usa un referendum così importante per mero calcolo politico interno (essere rieletto contro gli euroscettici dentro e fuori il suo partito)? Solo che poi il popolo ha scelto altrimenti.
Disastro quale? L’uscita dall’Ue o la permanenza nell’Ue? Non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze reali del Leave, che peraltro avverrà non prima di due anni, ma gli economisti – gli stessi che hanno già dato pessima prova di sé, non prevedendo la crisi globale e non formulando ricette efficaci per uscirne – ipotizzano scenari nefasti.
In compenso, i cittadini europei conoscono perfettamente i costi del Remain, con tutti i sacrifici insiti nelle politiche di austerity: licenziamenti, tagli delle pensioni, riforme del lavoro con abolizione di diritti, vincoli alle imprese… In Italia la legge Fornero, il bail-in, il Jobs Act, i paletti al Made in Italy agroalimentare. .
La Grecia, che giusto un anno fa disse no al piano dei creditori internazionali per poi alzare bandiera bianca, continua ad avere il debito pubblico e il tasso di disoccupazione più alti d’Europa (24,2%).
Cattivi chi? L’Ue o i governi nazionali, che vendono alle rispettive opinioni pubbliche decisioni che hanno concorso a prendere? Che tagliano l’art. 18 “perché l’Europa ce lo chiede”, ma non realizzano il reddito di cittadinanza anche se “l’Europa ce lo chiede”? Sono cattivi ed egoisti i cittadini britannici, che scelgono l’exit perché spaventati dall’arrivo dei migranti, o la grande e civile Ue che non riesce a dimostrarsi solidale di fronte a una migrazione – e a una strage in mare – epocale, che non riesce a gestire l’arrivo di 250mila uomini, donne, bambini, mentre paesi ben più piccoli come Giordania e Libano fanno fronte a oltre 1 milione di profughi ciascuno?
Democratici chi? La Brexit è stata illuminante anche per capire la concezione della democrazia di molti nostri rappresentanti istituzionali e commentatori.
Se la sono presa con gli elettori, rinnegando nei fatti il metodo democratico, con aberrazioni tipo:
“Ho paura che la democrazia si possa perdere se usata male” (Monti),
“Elettori disinformati producono disastri epocali. Per votare servirebbe esame di cittadinanza” (Gori), “Brexit.(Renziano, per la cronaca-ndt)
I limiti della democrazia diretta: il popolo è sovrano ma non necessariamente consapevole e sapiente” (Castagnetti),
“Certo la democrazia diretta non è infallibile” (Lavia, L’Unità),
“Si è creata un’assurda convinzione basata sul fatto che quello che viene deciso a maggioranza sia democrazia” (Zevi, giornalista).
Fino alle apoteosi sul presunto voto dei vecchi britannici contro i giovani (in realtà solo 1 giovane su 3, il 36%, ha votato): “Invece di vietare il voto alla gente nei primi 18 anni di vita, perché non negli ultimi 18?” (Dini, Vanity Fair, ritwittato dall’ex Min. Melandri),
e il capolavoro del docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano Rosina, che ha parlato di “necessità di allentare il vincolo che impone che il voto di un ottantenne valga come quello di un ventenne su temi che condizionano soprattutto il futuro di quest’ultimo.
Tanto più in un’Europa che invecchia”.
Gli anziani (che per Rosina non hanno né figli né nipoti, dunque sono egoisti, meschini, al loro confronto Ebenezer Scrooge è un chierichetto) dovrebbero votare solo su pensioni, sanità ed eutanasia?
Che sinceri democratici a giorni alterni: se il risultato è quello sperato gli elettori sono maturi e consapevoli, diversamente sono un branco di ignoranti; se c’è il referendum sulle trivelle “Astensione”, se c’è quello costituzionale “Al voto!”; se vince il sì “Trionfa la democrazia”, se vince il No “Trionfa il populismo”. ItExit.
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Re: La crisi dell'Europa
27 GIU 2016 17:51
QUALCUNO HA DETTO 'BREXIT'?
UN ALTRO TRACOLLO DELLA BORSA DI MILANO (-4%), A PICCO LE BANCHE.
MPS (-13,8%) E UNICREDIT (-8,1%) AI MINIMI STORICI.
VENDITE ANCHE SU MEDIOBANCA (-12,7%) E INTESA (-11%) - IL CAMBIO STERLINA/DOLLARO AI MINIMI DA 31 ANNI
Le indiscrezioni su un possibile piano del Governo italiano per sostenere il sistema del credito non hanno fermato le vendite. Anzi: tra raffiche di sospensioni, le banche italiane hanno chiuso in fortissimo ribasso: gli investitori sentono odore di soldi facili dal governo...
1.BORSA: E' ANCORA EFFETTO BREXIT, BANCHE TRAVOLGONO MILANO CHE CHIUDE A -4%
2.FININVEST: PELLEGRINO NUOVO A.D, DIVIDENDO PER 91,6 MLN SU CONTI 2015
http://www.dagospia.com/rubrica-4/busin ... 127615.htm
QUALCUNO HA DETTO 'BREXIT'?
UN ALTRO TRACOLLO DELLA BORSA DI MILANO (-4%), A PICCO LE BANCHE.
MPS (-13,8%) E UNICREDIT (-8,1%) AI MINIMI STORICI.
VENDITE ANCHE SU MEDIOBANCA (-12,7%) E INTESA (-11%) - IL CAMBIO STERLINA/DOLLARO AI MINIMI DA 31 ANNI
Le indiscrezioni su un possibile piano del Governo italiano per sostenere il sistema del credito non hanno fermato le vendite. Anzi: tra raffiche di sospensioni, le banche italiane hanno chiuso in fortissimo ribasso: gli investitori sentono odore di soldi facili dal governo...
1.BORSA: E' ANCORA EFFETTO BREXIT, BANCHE TRAVOLGONO MILANO CHE CHIUDE A -4%
2.FININVEST: PELLEGRINO NUOVO A.D, DIVIDENDO PER 91,6 MLN SU CONTI 2015
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Re: La crisi dell'Europa
27 GIU 2016 17:23
JUNCKEREXIT! - IL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE UE SOTTO ASSEDIO - LA FAZ: “NON HA CAPITO NULLA, SI DIMETTA” - LA REPUBBLICA CECA CHIEDE LA SUA TESTA. MA IL DESTINO DI JUNCKER E’ NELLE MANI DEL SUO GRANDE SPONSOR, ANGELA MERKEL -
La Faz: “Il suo sentimento anti britannico gli fa anche dimenticare che l’ultima lezione che arriva dal referendum sulla Brexit è che nel Regno Unito non si vuole più Europa, e che il sentimento è comune anche in altre parti dell’Unione…”
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 127610.htm
JUNCKEREXIT! - IL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE UE SOTTO ASSEDIO - LA FAZ: “NON HA CAPITO NULLA, SI DIMETTA” - LA REPUBBLICA CECA CHIEDE LA SUA TESTA. MA IL DESTINO DI JUNCKER E’ NELLE MANI DEL SUO GRANDE SPONSOR, ANGELA MERKEL -
La Faz: “Il suo sentimento anti britannico gli fa anche dimenticare che l’ultima lezione che arriva dal referendum sulla Brexit è che nel Regno Unito non si vuole più Europa, e che il sentimento è comune anche in altre parti dell’Unione…”
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 127610.htm
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Re: La crisi dell'Europa
Grillo ha deciso di indire un referendum sulla democrazia
Volete voi l'abolizione della democrazia? SI NO
leave se votate SI remain se votate NO
Il popolo non è un sovrano assoluto esercita la sua sovranità nei limiti della costituzione come prescrive la costituzione
Volete voi l'abolizione della democrazia? SI NO
leave se votate SI remain se votate NO
Il popolo non è un sovrano assoluto esercita la sua sovranità nei limiti della costituzione come prescrive la costituzione
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Re: La crisi dell'Europa
Zingaretti lancia "Cambiamo.eu"
Pubblicato: 28/06/2016 12:43 CEST Aggiornato: 1 ora fa ZINGARETTI
La scelta della maggioranza dei cittadini del Regno Unito di abbandonare l'Unione Europea rappresenta un colpo drammatico al modello di democrazia costruito nel secondo dopoguerra.
I motivi di questa scelta, al di là delle dinamiche politiche interne, sono sicuramente legati soprattutto all'insoddisfazione di milioni di cittadini verso la loro condizione di vita, alla sensazione dell'assenza di una prospettiva di riscatto e alla ricerca di un capro espiatorio che, questa volta, ha assunto il volto dell'Europa.
L'Unione con le sue timidezze, le sue fragilità e, spesso, con la sua incapacità di dare risposte adeguate ai bisogni di cittadini e imprese ha prestato il fianco a questo rischio.
Ed è un paradosso, costatare come siano state molto spesso proprio le leadership inglesi degli ultimi 20 anni quelle che, con le loro paure, hanno sempre fermato il cammino verso la costruzione di un'Europa unita, forte e protagonista sulla scena globale. Sono state loro ad aver sempre chiesto e lottato per "un Europa minima necessaria contro un Europa massima possibile", tradendo lo spirito di Ventotene.
Ora la scelta britannica rafforzerà in tutta Europa, e forse nel mondo, i populismi, le destre, i nazionalisti che in maniera irresponsabile e illusoria cercheranno di cavalcare il malessere, indicando nel processo di unione il "problema" e non la possibile soluzione. Sarà un movimento popolare e imponente che si alimenterà di un malessere diffuso legato alla situazione dell'economia, a cambiamenti sociali che disorientano e che coinvolgerà in primo luogo le fasce deboli delle popolazioni impaurite, vittime della globalizzazione e cariche di rabbia, perché private di una prospettiva di riscatto. Popoli ai quali, negli ultimi anni, l'Europa è stata indicata come il problema spesso per nascondere con ipocrisia i limiti di politiche nazionali assolutamente inadeguate. Inadeguate spesso proprio perché nazionali.
Si dice, "ora costruiamo l'Europa politica". Ma l'Europa politica è fragile perché sono fragili i meccanismi democratici delle decisioni europee. Per quale motivo un cittadino dovrebbe delegare a oscuri meccanismi decisionali la propria sovranità? Nell'era della rete, della velocità, della voglia di partecipare e non solo di ascoltare, i meccanismi decisionali dell'Unione appaiono ai più come qualcosa di lontano o incomprensibile. Sono tollerati quando sono percepiti come utili, ma il più delle volte sono derisi e criticati per la loro assoluta impalpabilità o, al contrario, per la loro pesantezza burocratica e per una concezione da molti percepita come vessatoria.
Per far ripartire il processo europeo occorre, innanzitutto, un nuovo slancio improntato a una concezione di sviluppo sostenibile che veda innanzitutto investimenti in opere pubbliche che diano migliori servizi in campi sensibili come la sanità, la scuola o i trasporti, questo è il primo compito dei governi e bene ha fatto l'Italia a caratterizzarsi su questo obiettivo.
Ma non c'è solo un compito per i governi. Accanto a questo occorre tra i cittadini saper prospettare una nuova sfida basata su una visone innovativa dei meccanismi democratici: no alla difesa dell'esistente, non solo cambiamento delle politiche, occorre promuovere una nuova svolta, direi una nuova fase costituente.
Di fronte all'insoddisfazione che si traduce in distruzione, bisogna essere in grado di proporre un progetto di riedificazione e cambiamento. Se non sarà cosi il destino è scritto.
Contro l'opacità e la lontananza percepita di oggi occorre rendere chiaro chi decide e su cosa. I volti dell'Europa non possono essere solo quelli dei banchieri centrali, dei leader dei paesi forti, dei commissari indicati dai governi.
A questo punto della storia, il cittadino europeo deve rientrare in gioco e poter scegliere. Come è stato ricordato in questi giorni, le priorità del movimento federalista europeo non erano le banche, ma la pace e una graduale integrazione politica e sociale.
Occorre dunque coraggio e, ancora una volta, questo coraggio per la sinistra democratica deve ancorarsi all'allargamento della sfera della partecipazione e dell'inclusione sociale. Per questo, occorre costruire un grande movimento di popolo per l'elezione diretta del Presidente degli Stati Uniti d'Europa.
Penso a un movimento "Cambiamo.eu" che veda protagonisti i cittadini per difendere il proprio futuro e i propri diritti; i sindaci e gli amministratori per curare meglio le proprie comunità; gli imprenditori per rilanciare le proprie aziende; il mondo delle rappresentanze per rimettere al centro il tema dello sviluppo della persona attraverso il lavoro; e la risorsa dell'associazionismo, per continuare il percorso europeo di allargamento dei diritti sociali.
Accanto alle piazze della paura e del ritorno al passato, dovranno esserci le piazze della speranza fondate sul cambiamento.
È questa la prospettiva che si deve avere per ripartire. Ognuno dalla propria postazione, ognuno spendendosi, attraverso il proprio impegno quotidiano, per far capire che la dimensione europea è l'unica che ci può permettere di stare nella competizione globale e, insieme, di lottare contro quelle diseguaglianze alla base delle situazioni drammatiche che si stanno vivendo.
Solo un'Europa democratica, plurale, dei diritti e della partecipazione oggi ha un futuro.
Solo se questa idea torna a vivere nelle strade questo sogno potrà realizzarsi e questa consapevolezza deve spingerci tutti all'impegno.
Pubblicato: 28/06/2016 12:43 CEST Aggiornato: 1 ora fa ZINGARETTI
La scelta della maggioranza dei cittadini del Regno Unito di abbandonare l'Unione Europea rappresenta un colpo drammatico al modello di democrazia costruito nel secondo dopoguerra.
I motivi di questa scelta, al di là delle dinamiche politiche interne, sono sicuramente legati soprattutto all'insoddisfazione di milioni di cittadini verso la loro condizione di vita, alla sensazione dell'assenza di una prospettiva di riscatto e alla ricerca di un capro espiatorio che, questa volta, ha assunto il volto dell'Europa.
L'Unione con le sue timidezze, le sue fragilità e, spesso, con la sua incapacità di dare risposte adeguate ai bisogni di cittadini e imprese ha prestato il fianco a questo rischio.
Ed è un paradosso, costatare come siano state molto spesso proprio le leadership inglesi degli ultimi 20 anni quelle che, con le loro paure, hanno sempre fermato il cammino verso la costruzione di un'Europa unita, forte e protagonista sulla scena globale. Sono state loro ad aver sempre chiesto e lottato per "un Europa minima necessaria contro un Europa massima possibile", tradendo lo spirito di Ventotene.
Ora la scelta britannica rafforzerà in tutta Europa, e forse nel mondo, i populismi, le destre, i nazionalisti che in maniera irresponsabile e illusoria cercheranno di cavalcare il malessere, indicando nel processo di unione il "problema" e non la possibile soluzione. Sarà un movimento popolare e imponente che si alimenterà di un malessere diffuso legato alla situazione dell'economia, a cambiamenti sociali che disorientano e che coinvolgerà in primo luogo le fasce deboli delle popolazioni impaurite, vittime della globalizzazione e cariche di rabbia, perché private di una prospettiva di riscatto. Popoli ai quali, negli ultimi anni, l'Europa è stata indicata come il problema spesso per nascondere con ipocrisia i limiti di politiche nazionali assolutamente inadeguate. Inadeguate spesso proprio perché nazionali.
Si dice, "ora costruiamo l'Europa politica". Ma l'Europa politica è fragile perché sono fragili i meccanismi democratici delle decisioni europee. Per quale motivo un cittadino dovrebbe delegare a oscuri meccanismi decisionali la propria sovranità? Nell'era della rete, della velocità, della voglia di partecipare e non solo di ascoltare, i meccanismi decisionali dell'Unione appaiono ai più come qualcosa di lontano o incomprensibile. Sono tollerati quando sono percepiti come utili, ma il più delle volte sono derisi e criticati per la loro assoluta impalpabilità o, al contrario, per la loro pesantezza burocratica e per una concezione da molti percepita come vessatoria.
Per far ripartire il processo europeo occorre, innanzitutto, un nuovo slancio improntato a una concezione di sviluppo sostenibile che veda innanzitutto investimenti in opere pubbliche che diano migliori servizi in campi sensibili come la sanità, la scuola o i trasporti, questo è il primo compito dei governi e bene ha fatto l'Italia a caratterizzarsi su questo obiettivo.
Ma non c'è solo un compito per i governi. Accanto a questo occorre tra i cittadini saper prospettare una nuova sfida basata su una visone innovativa dei meccanismi democratici: no alla difesa dell'esistente, non solo cambiamento delle politiche, occorre promuovere una nuova svolta, direi una nuova fase costituente.
Di fronte all'insoddisfazione che si traduce in distruzione, bisogna essere in grado di proporre un progetto di riedificazione e cambiamento. Se non sarà cosi il destino è scritto.
Contro l'opacità e la lontananza percepita di oggi occorre rendere chiaro chi decide e su cosa. I volti dell'Europa non possono essere solo quelli dei banchieri centrali, dei leader dei paesi forti, dei commissari indicati dai governi.
A questo punto della storia, il cittadino europeo deve rientrare in gioco e poter scegliere. Come è stato ricordato in questi giorni, le priorità del movimento federalista europeo non erano le banche, ma la pace e una graduale integrazione politica e sociale.
Occorre dunque coraggio e, ancora una volta, questo coraggio per la sinistra democratica deve ancorarsi all'allargamento della sfera della partecipazione e dell'inclusione sociale. Per questo, occorre costruire un grande movimento di popolo per l'elezione diretta del Presidente degli Stati Uniti d'Europa.
Penso a un movimento "Cambiamo.eu" che veda protagonisti i cittadini per difendere il proprio futuro e i propri diritti; i sindaci e gli amministratori per curare meglio le proprie comunità; gli imprenditori per rilanciare le proprie aziende; il mondo delle rappresentanze per rimettere al centro il tema dello sviluppo della persona attraverso il lavoro; e la risorsa dell'associazionismo, per continuare il percorso europeo di allargamento dei diritti sociali.
Accanto alle piazze della paura e del ritorno al passato, dovranno esserci le piazze della speranza fondate sul cambiamento.
È questa la prospettiva che si deve avere per ripartire. Ognuno dalla propria postazione, ognuno spendendosi, attraverso il proprio impegno quotidiano, per far capire che la dimensione europea è l'unica che ci può permettere di stare nella competizione globale e, insieme, di lottare contro quelle diseguaglianze alla base delle situazioni drammatiche che si stanno vivendo.
Solo un'Europa democratica, plurale, dei diritti e della partecipazione oggi ha un futuro.
Solo se questa idea torna a vivere nelle strade questo sogno potrà realizzarsi e questa consapevolezza deve spingerci tutti all'impegno.
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Re: La crisi dell'Europa
Dopo il risultato del referendum sul Brexit abbiamo visto uno sconquasso a livello mondiale delle valute e delle borse, ma, avendo il risultato solo un valore consultivo, l'uscita dall'Europa della Gb dovrebbe avvenire ufficialmente solo dopo la richiesta del governo Gb al PARLAMENTO e alla Commissione europea.
Oggi poi un ministro Tory chiede un secondo referendum in caso di accordo con l'Ue sulle frontiere, e in tal caso tutto sarebbe da rivedere.
E allora tutto questo sconquasso per niente ?
Oggi poi un ministro Tory chiede un secondo referendum in caso di accordo con l'Ue sulle frontiere, e in tal caso tutto sarebbe da rivedere.
E allora tutto questo sconquasso per niente ?
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Re: La crisi dell'Europa
VIVENDO GIORNO PER GIORNO
Il futuro é incerto per molti. Mancano completamente gli uomini che nell'immediato dopo guerra hanno fatto la differenza.
Oggi, nostra "signora l'Idiozia" la fa da padrona.
Qui non si tratta più di una parte politica o l'altra, ma di una Nazione, un Continente, che vanno a rotoli.
Dalla prima pagina del "Il Giornale.it":
Ecco la vendetta della Ue:
"Qui non si parla più inglese"
La mossa di Bruxelles dopo l'addio del Regno Unito all'Europa: "L'inglese perderà presto lo status di lingua ufficiale"
E allora cosa dovremo parlare ufficialmente???
Il tedesco del Quarto Reich, della zia Merkellona????
Già ce lo vedo Mussoloni-Bomba, che alcuni sostengono che parla l'inglese come Alberto Sordi, alle prese con il tetesco infarcito di fiorentino!!!!
Il futuro é incerto per molti. Mancano completamente gli uomini che nell'immediato dopo guerra hanno fatto la differenza.
Oggi, nostra "signora l'Idiozia" la fa da padrona.
Qui non si tratta più di una parte politica o l'altra, ma di una Nazione, un Continente, che vanno a rotoli.
Dalla prima pagina del "Il Giornale.it":
Ecco la vendetta della Ue:
"Qui non si parla più inglese"
La mossa di Bruxelles dopo l'addio del Regno Unito all'Europa: "L'inglese perderà presto lo status di lingua ufficiale"
E allora cosa dovremo parlare ufficialmente???
Il tedesco del Quarto Reich, della zia Merkellona????
Già ce lo vedo Mussoloni-Bomba, che alcuni sostengono che parla l'inglese come Alberto Sordi, alle prese con il tetesco infarcito di fiorentino!!!!
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Re: La crisi dell'Europa
Dopo il risultato del referendum sul Brexit abbiamo visto uno sconquasso a livello mondiale delle valute e delle borse, ma, avendo il risultato solo un valore consultivo, l'uscita dall'Europa della Gb dovrebbe avvenire ufficialmente solo dopo la richiesta del governo Gb al PARLAMENTO e alla Commissione europea.
iospero
Siamo nel 2016, e questa procedura dovrebbe essere la condizione minima praticabile tra nazioni che si ritengono civili.
iospero
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Re: La crisi dell'Europa
camillobenso ha scritto:I PUNTI DI VISTA DI POLITI E DELLA NAPOLEONI SI EQUIVALGONO
Politi
Ora che abbiamo assistito a un’abbondanza di lamenti e di vesti stracciate, possiamo dirlo con freddezza: “E’ bene che la Gran Bretagna esca dall’Unione Europea”. Dicevano i latini: “Oportet ut scandala eveniant”, ossia “E’ positivo che si verifichino shock”. La Brexit è la scossa salutare per riesaminare tutto. Quando una situazione è incancrenita – come l’attuale stato dell’Ue – bisogna prendere il bisturi e andare fino all’osso.
Napoleoni
La colpa è degli inglesi? Assolutamente no, la colpa è di un sistema economico, politico e finanziario che fa acqua da tutte le parti e che va cambiato.
I media nei giorni scorsi avevano spinto per dare la colpa ai vari elettori del LEAVE.
Ma la responsabilità sta a monte.
Nell’orchestra sinfonica di Bruxelles e dei loro padroni delle varie lobby.
Il pensiero di BARBARA SPINELLI è dello stesso parere di POLITI E NAPOLEONI.
» BARBARA SPINELLI
Nel Parlamento europeo di cui sono membro, quel che innanzitutto colpisce, osservando la reazione alla Brexit,è la diffusa assenza di autocritica, di memoria storica, di allarme profondo – e anche di qualsiasi curiosità – di fronte
al manifestarsi delle volontà elettorali di un Paese membro.
(Perché non va dimenticato che stiamo parlando di un Paese ancora membro dell’Unione).
Una rimozione collettiva che si rivela quanto mai grottesca e catastrofica, ma che dura da decenni.
Meriterebbe studi molto accurati; mi limiterò a menzionare alcuni punti essenziali.
1. Quel che manca è l’ammissione delle responsabilità, il riconoscimento esplicito del fallimento monumentale delle
istituzioni europee e dei dirigenti nazionali: tutti.
La cecità è totale, devastante e volontaria.
Da anni, e in particolare dall’inizio della crisi del 2007-2008, istituzioni e governi conducono politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione.
Da anni disprezzano e soffocano uno scontento popolare crescente.
Non hanno memoria del passato –né quello lontano né quello vicino.
Sono come gli uomini vuoti di Eliot: “Uomini impagliati che s’appoggiano l’un all’altro, la testa riempita di paglia”.
La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti.
Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna.
Chi c’è in linea
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