La crisi dell'Europa

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camillobenso
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Re: La crisi dell'Europa

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Lo spettro dei Balcani e la rivoluzione da fare contro l’Ue
Scritto il 06/7/16 • nella Categoria: idee Condividi


“L’inglese se n’è gghiuto e soli n’ha lasciati”. Non credevo nella Brexit, pensavo che solo un popolo di ubriachi poteva decidere una simile autolesionistica catastrofe. Dimenticavo che gli inglesi sono per l’appunto un popolo di ubriachi. Scherzo, naturalmente, dato che non credo nell’esistenza dei popoli. Ma credo nella lotta di classe, e la decisione degli operai inglesi di affondare definitivamente l’Unione Europea è un atto di disperazione che consegue alla violenza dell’attacco finanzista che da anni impoverisce i lavoratori di tutto il continente e anche di quell’isola del caXXo. La City si preparava a festeggiare l’ennesima vittoria della finanza, e invece l’hanno spuntata i proletari resi nazionalisti dalla disperazione (e dalla patetica arroganza imperialista bianca). Ma non possiamo liquidare come fasciste le motivazioni di coloro che vogliono uscire dalla trappola europea, visto che è ormai dimostratissimo che l’Unione Europea non è (e non è mai stato) altro che un dispositivo di impoverimento della società, precarizzazione del lavoro e concentrazione del potere nelle mani del sistema bancario.Gran parte di quelle motivazioni sono comprensibili, tant’è vero che la maggior parte dei “leave” proviene dalle aree operaie mentre le forze del finanzismo davano per certa la vittoria alla faccia di chi in nome dei “valori europei” si fa derubare il salario. Ma il problema non sta nelle motivazioni, il problema sta nelle conseguenze. L’Unione Europea non esiste più da tempo, almeno dal luglio del 2015, quando Syriza è stata umiliata e il popolo greco definitivamente sottomesso. Ci occorre forse un’Europa più politica come dicono ritualmente le sinistre al servizio delle banche? Sono anni che crediamo nella favoletta dell’Europa che deve diventare più politica e più democratica. Ci siamo caduti anche noi, mi spiace dirlo, ma non è mai stato vero. L’Unione europea è una trappola finanzista da Maastricht in poi.Un articolo di Paolo Rumiz (“Come i Balcani”) uscito il 23 su “La Repubblica” dice una cosa che a me pareva chiara da tempo: il futuro d’Europa è la Yugoslavia del 1992. Rumiz lo dice bene, solo che dimentica il ruolo che la Deutsche Bank svolse nello spingere gli yugoslavi verso la guerra civile (e Wojtyla fece la sua parte). Ora credo che dobbiamo dirlo senza tanti giri di parole: il futuro d’Europa è la guerra. Il suo presente è già la guerra contro i migranti che già è costata decine di migliaia di morti e innumerevoli violenze. Forse suona un po’ antico, ma per me resta vero che il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta. Cosa si fa in questi casi? Si ferma la guerra, si impongono gli interessi della società contro quelli della finanza? Naturalmente sì, quando questo è possibile. Ma oggi fermare la guerra non è più possibile perché la guerra è già in corso, anche se per il momento a morire sono centinaia di migliaia di migranti in un Mediterraneo in cui l’acqua salata ha sostituito lo Zyklon-B.I movimenti sono stati distrutti uno dopo l’altro. E allora?, allora si passa all’altra parte dell’adagio leniniano (segnalo per chi avesse qualche dubbio che non sono mai stato leninista e non intendo diventarlo). Si trasforma la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Cosa vuol dire? Non lo so, e nessuno può saperlo, oggi. Ma nei prossimi anni credo che dovremo ragionare solo su questo. Non su come salvare l’Unione Europea, che il diavolo se la porti. Non su come salvare la democrazia che non è mai esistita. Ma su come trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Pacifica e senz’armi, se possibile. Guerra dei saperi autonomi contro il comando e la privatizzazione. Ma insomma, non porto il lutto perché gli inglesi se ne vanno. Ho portato il lutto quando i greci sono stati costretti a rimanere a quelle condizioni (e adesso che ne sarà di loro?). Cent’anni dopo l’Ottobre, mi sembra che il nostro compito sia chiederci: cosa vuol dire Ottobre nell’epoca di Internet, del lavoro cognitivo e precario? Il precipizio che ci attende è il luogo in cui dobbiamo ragionare su questo.(Franco “Bifo” Berardi, “L’inglese se n’è gghiuto”, da “Alfabeta 2” del 28 giugno 2016).
iospero
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L’Europa del futuro deve liberarsi della Nato e del neoliberismo
L’Europa del futuro deve liberarsi della Nato e del neoliberismo
Zonaeuro
di Gianluca Ferrara | 6 luglio 2016 - IL Fatto Quotidiano

Un’altra Europa è possibile? Prima di rispondere a questa domanda credo che, dopo anni in cui l’industria mediatica ha prodotto enormi quantità di disinformazione, sia fondamentale effettuare un chiarimento. Una prima e semplice considerazione è che l’Unione Europea non è l’Europa. L’Ue è un’organizzazione internazionale, un’unione economica e politica di carattere sovranazionale alla quale aderiscono 28 Stati. Con l’uscita della Gran Bretagna scenderanno a 27. In antitesi di ciò che è stato veicolato in questi anni, neppure euro ed Europa sono sinonimi. L’euro è semplicemente una valuta comune adottata da 19 degli Stati aderenti all’Unione europea. Allora l’Europa che cos’è? E’ un continente composto da 50 Stati dove vivono oltre 700 milioni di persone. In realtà con Europa si dovrebbe intendere l’ideale di unità e fratellanza fra popoli. Un auspicabile ideale che però in questi decenni è stato adoperato per realizzare un golpe da parte di un’élite di burocrati devoti al dogma neoliberista che hanno reso l’Europa un lager economico finanziario.

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I popoli sono stati ingannati e con essi anche Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann che, da una condizione di prigionia, riuscirono a intravedere una nuova Europa. Oggi serve una visione come la ebbero loro. Una nuova visione che però sia resa operativa da forze politiche non disponibili a vendersi al mercato come è accaduto a gran parte della sinistra europea. E’ come se gli europei fossero saliti su un treno indicante una destinazione ma, in realtà, è come se fosse partito per un’altra meta. Volendo rimanere nella metafora, il treno doveva andare a Strasburgo (sede ufficiale del Parlamento), un luogo dove, come ci è stato inculcato da servizi televisivi e articoli di giornale, i rappresentanti eletti dal popolo si sarebbero uniti per prendere insieme decisioni per il bene comune della grande casa che doveva essere l’Europa. In realtà, la vera destinazione di quel treno era Francoforte sede della Banca centrale europea, dove pochi burocrati al soldo di un’aristocrazia finanziaria senza alcun mandato elettorale esercitano il vero potere.

Un’aristocrazia che ha derubato i popoli di sovranità e democrazia. L’Ue e l’euro sono espressione di un progetto economico perfettamente riuscito, che è una mutazione neoliberista ove gli Stati servono solo a ripianare i debiti prodotti dalle élite. Non credo che “quest’Europa” possa essere riformata. Proprio come una casa con fondamenta errate va abbattuta e ricostruita su basi solide. L’Ue si regge solo su pilastri economici e non su valori culturali e di solidarietà. Non esiste neppure una politica energetica comune. Occorre avere il coraggio di resettare e ricostruire un’unità che non sia una prigione economica ove prevale la legge del più forte sul più debole. L’unica unione possibile è quella tra Stati uguali e sovrani che non siano subalterni a politiche che giovano agli Usa. Una nuova Europa dovrebbe passare prima di tutto per una banca pubblica, controllata e a servizio della cittadinanza e non dei burocrati che senza alcun mandato elettorale decidono se fare l’elemosina oppure no agli Stati.

Secondo punto fondamentale, gli organi scelti dai popoli devono poter incidere nell’agenda politica. Oggi il Parlamento europeo si limita a ratificare le leggi proposte dalla Commissione. Occorre stracciare trattati come Maastricht e Lisbona che sono veri e proprie condanne a morte per la democrazia. I popoli, quando è stata data loro la possibilità di votare, hanno più volte mostrato di rigettare questa Europa burocratica e antidemocratica. Ed è davvero raccapricciante l’arroganza e l’anti­democraticità di molteplici opinionisti che in questi giorni denigrano la scelta dei tanti britannici che hanno detto no all’Ue relegandola a una moltitudine di vecchi ignoranti.

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Nessun mea culpa per i troppi giornalisti ed intellettuali venduti al pensiero unico dominante. Una nuova Europa deve svincolarsi dalla Nato che, dopo il 1989, non ha più senso di esistere se non quello evidente di perpetrare le proprie politiche egemoniche miranti ad allargare la propria influenza sempre più verso est. Una Nato che con i suoi conflitti produce immigrazione incontrollata e crescenti guerre tra poveri. In una nuova Europa i cittadini devono poter contribuire direttamente attraverso costanti consultazioni, a partire dal redigere di un nuovo patto tra Stati che devono partecipare a un novello processo costituente. Va costituita un’Europa a servizio dei popoli e non delle élite come quella vigente ed è per questo che nel nuovo sogno europeo il Parlamento dovrebbe essere situato ad Atene, luogo dove nacque la democrazia e dove i burocrati oggi al comando hanno inflitto con maggior ferocia la propria violenza.
camillobenso
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Re: La crisi dell'Europa

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Zeman: anche a Praga un referendum sull’Ue (e sulla Nato)
Scritto il 08/7/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi


Brexit sta provocando sconquassi dovunque. In primo luogo in Europa, ma – si presume – gli effetti si faranno sentire anche sulla stessa fisionomia della Gran Bretagna.

Il primo leader europeo – già fortemente critico verso l’attuale Unione – a prendere la “palla al balzo”, in pieno torneo europeo di calcio, è stato il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman.


E il suo calcio di punizione è stato potentissimo.

Ancora non sappiamo se sarà un goal, ma certamente non sarà agevole pararlo.

Zeman, infatti, ha detto che, anche lui, ritiene necessario, ora, dopo il voto britannico, un referendum popolare che lasci esprimere i suoi concittadini sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea, o meno.

Il clamore (e la preoccupazione di diverse cancellerie europee) è stato moltiplicato dalla seconda proposta: che si faccia il referendum anche sulla questione della appartenenza alla Nato.

I due quesiti aprirebbero non uno ma due squarci nel muro delle idee correnti sull’Europa.

Zeman ne è ben consapevole e si è affrettato a precisare che lui, personalmente, è per rimanere in Europa (significativo silenzio per quanto riguarda la Nato), ma che farà «ogni cosa per dare ai suoi concittadini la possibilità di potere esprimersi» su entrambe le questioni.

Milos Zeman sa quel che dice. Un recente sondaggio dell’Istituto Cvvm ha rivelato che solo il 25% dei cittadini della Repubblica Ceca sono soddisfatti dello stato delle cose (un anno fa lo erano il 32%).

Solo che, per realizzare la proposta del presidente in carica, bisognerebbe modificare la Costituzione del paese.

E, per farlo, occorrerebbe il voto favorevole di almeno il 60% dei voti del Parlamento.

Una maggioranza che, se si formasse, equivarrebbe alla caduta dell’attuale governo di Bohuslav Sobotka.

Il quale si è subito affrettato a dichiarare che non ha alcuna intenzione di indire un tale referendum.

Non senza aggiungere che, anche lui, pensa che sia necessario inviare a Bruxelles «un chiaro segnale», prima dell’autunno, della necessità di «cambiamenti positivi».

In ogni caso la mossa di Zeman esprime un sentimento che va ben oltre il palazzo presidenziale di Praga, e sicuramente oltre i confini della Repubblica Ceca.

La critica a Bruxelles, sia per la gestione della tragedia dei profughi, sia per le sanzioni contro la Russia, sia per la politica monetaria, sia per i nuovi missili installati dagli Stati Uniti in Polonia e Romania, è largamente diffusa nei paesi dell’est Europa.

Ciascuno per conto proprio e con diverse agende, ma tutti guardano a Bruxelles con crescente insofferenza.

Zeman in particolare è preoccupato per il completo oblio dei temi della sicurezza comune europea e non ha nascosto, a più riprese, il suo desiderio di riaprire la questione del dialogo positivo con la Russia.

(Giulietto Chiesa, “Milos Zeman apre i giochi europei del dopo-Brexit”, da “Sputnik News” del 4 luglio 2016).
I
camillobenso
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L'Economist ora lancia l'allarme: "In Italia la prossima crisi d'Europa"
L'Economist dedica la copertina alla crisi delle nostre banche. "Se anche gli italiani perdono fiducia, l'euro non sopravviverà"


Sergio Rame - Gio, 07/07/2016 - 22:35
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Un torpedone tricolore pericolosamente in bilico, con la scritta "banca" sulla fiancata, pronto a precipitare nel burrone.
(Vedi foto - http://www.ilgiornale.it/news/economia/ ... 0878.html- ndt)


E il titolo: The Italian Job. Europe's next crisis. È la nuova copertina dell'Economist, che dedica la sua apertura alla crisi delle banche italiane.

La front page dell'Economist fa una chiara allusione alla Brexit e mostra un'auto con la bandiera britannica già piombata inesorabilmente nel vuoto. Poco sopra il torpedone Italia, in precario equilibrio, ad un passo dal seguire la stessa sorte. Il settimanale britannico accende i riflettori sulle sofferenze bancarie che riempiono i bilanci delle banche e che hanno causato destabilizzanti turbolenze che hanno colpito numerosi istituti. "Le pressioni del mercato sulle banche italiane non diminuiranno finché la fiducia non verrà ristabilita e ciò non succederà senza fondi pubblici - scrive l'Economist - se le regole sul bail in verranno applicate con rigidità in Italia, le proteste dei risparmiatori mineranno la fiducia e apriranno le porte del potere ai movimento Cinque Stelle".

Secondo il settimanale ignlese, le ferree regole di bilancio e le nuove norme sui salvataggi bancari arrivate, "dopo che altri Paesi avevano salvato con soldi pubblici le banche", potrebbe anche alimentare l'idea che "l'Italia ottenga scarsi benefici dalla supposta condivisione dei rischi all'interno dell'Eurozona" e venga piuttosto danneggiata "dai molti vincoli che deve rispettare". "Se gli italiani dovessero perdere fiducia nell'euro - è il ragionamento - la moneta unica non sopravvivrebbe". Per questo, il premier Matteo Renzi non avrebbe alcun motivo di "rispettare alla lettera le regole, se questo dovesse mettere a rischio la moneta unica". Quindi, continua l'analisi dell'Economist, "la risposta giusta è autorizzare il governo italiano a finanziare i meccanismi di difesa delle sue banche vulnerabili con capitali pubblici che siano sufficienti per placare i timori di una crisi sistemica".

Pur considerando "buone" le nuove norme sul bail in, l'Economist fa notare che in Italia oltre 200 miliardi di titoli bancari sono in mano a piccoli investitori. Negli altri Paesi dell'Eurozona succede, invece, che la maggior parte dei titoli spazzatura sia in mano a investitori istituzionali. "Obbligare gli italiani comuni ad accollarsi di nuovo le perdite danneggerebbe pesantemente Renzi, facendo svanire la sua speranza di vincere il referendum sulle riforme costituzionali in autunno", conclude il settimanale suggerendo all'Unione europea di cambiare la normativa sul bail in "escludendo gli investitori privati che detengono i titoli" dai soggetti coinvolti nel salvataggio.
camillobenso
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Banche, l'Ue ammonisce Renzi: "L'Italia deve rispettare le regole"

A Bruxelles continuano i contatti con le autorità italiane. L'emergenza banche cresce. Ma Renzi resta immobile


Sergio Rame - Gio, 07/07/2016 - 17:58
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A Bruxelles le trattative con il governo italiano sulle misure da adottare per sostenere le banche in difficoltà vanno avanti serrate. Ma a Roma Matteo Renzi non riesce a trovare la via di fuga per tamponare l'emergenza.




Renzi fa il pompiere: "I correntisti al sicuro"

Il Monte di crediti agli amici degli amici
Svelato dal Financial Times il piano del governo per usare soldi pubblici per salvare le banche in crisi, il premier è guardato a vista dall'Unione europea. Il presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha nuovamente richiamato le banche italiane al rispetto delle nuove regole europee sui salvataggi, che prevedono il coinvolgimento degli azionisti e degli obbligazionisti (il cosiddetto bail in) per tutelare i contribuenti.

L'emergenza banche
"Siamo in contatti continui con le autorità italiane". Durante il briefing quotidiano con la stampa a Bruxelles, Ricardo Cardoso, portavoce della Commissione Europea per la concorrenza, risponde, mette in chiaro che la posizione dell'Unione europea non è cambiata. "Non abbiamo altro da aggiungere a quello che ha detto ieri il vicepresidente Valdis Dombrovskis". Il problema, insomma, è tutto italiano. Le sofferenze totali presenti nel sistema bancario italiano ammontano a 200 miliardi di euro. "Con che cosa Renzi pensa di smaltire questa montagna di denaro? - chiede il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta - non basterà certo un secondo Fondo Atlante per risistemare le cose". Occorrerebbe, infatti, un veicolo finanziario di almeno 50 miliardi. Soldi che il governo non ha nemmeno lontanamente a disposizione. "Guardando ai pochi risultati prodotti dal precedente fondo si potrebbe dire che gli azionisti hanno poco da stare sereni", tuona Brunetta ricordando che, con una dotazione di soli 4,25 miliardi raccolti a fine aprile, "Atlante ha provocato una spaventosa crescita di sfiducia verso le banche più deboli, per arrivare fino alle banche di statura europea come Unicredit". Banca Intesa ha già dichiarato che non intende mettere altri soldi sul piatto.

I rischi dei risparmiatori
L'Eurogruppo è stato sin troppo chiaro. "Fino al primo gennaio si potevano sostenere le banche con il denaro proveniente dai contribuenti - ha detto Dijsselbloem all'Aja - ma ora questa possibilità è stata limitata e non vogliamo tornare indietro". Il punto, ora, è capire cosa potrebbe succedere ai risparmiatori. Le norme sul bail in prevedono che i primi 100mila euro del conto corrente siano intoccabili. Oltre i 100mila euro, però, i depositi possono essere decurtati. Secondo la Stampa, a rischiare più di tutti sono gli obbligazionisti. Lo stesso caso si è già presentato con Banca Etruria. I più esposti sono ovviamenti quelli che hanno investito nel Monte dei Paschi di Siena. L'istituto senese ha messo in circolazione obbligazioni subordinate per 5 miliardi di euro, una cifra sei volte superiore rispetto a quelle di Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti.
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2 ore fa
Una nuova bomba sull'Europa:
anche l'Austria lavora all'uscita


La Brexit ha acceso gli animi degli euroscettici. Se l'ultra destra vincerà le presidenziali, anche l'Austria avvierà le pratiche per uscire dalla Ue


Sergio Rame - Ven, 08/07/2016 - 10:38
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Bruxelles e Vienna non sono mai andate d'accordo: i polli al cloro, il centralismo di Bruxelles, la curvatura del cetriolo.


Tutto questo è stato rievocato negli ultimi tempi per attizzare il risentimento contro l'integrazione europea. Adesso che la Brexit sta risvegliando le fantasie degli euroscettici, l'Austria starebbe seriamente valutando la possibilità di strappare, una volta per tutte, con l'Unione europea.

È vero che il nuovo cancelliere Christian Kern ha dichiarato che "non c'è la necessità di aprire un dibattito sulla possibile Oexit". Ma questo, scrive il quotidiano tedesco Die Zeit, solo perché non ne avrà bisogno. Quando in ottobre si rivoteranno i ballottaggi delle elezioni presidenzali, l'ultranazionalista Norbert Hoefer avrà, infatti, altissime probabilità di essere eletto presidente. E di recente ha già messo in chiaro: "Se l'Unione Europea avrà cattivi sviluppi, per me sarà arrivato il momento di interpellare i cittadini austriaci".

L'uscita dell'Austria dall'Unione europea è un sogno per tutti gli euroscettici di destra. Ma per il Paese, a detta del quotidiano tedesco, si tratterebbe di "una missione suicida". "Le conseguenze dirette sarebbero catastrofiche - si legge - l'uscita della Gran Bretagna dalla Unione europea è una piccolezza a confronto con quello che potrebbe comportare il processo di separazione di un paese dell'euro e di Schengen, nonostante sia uno Stato piccolo e non una potenza economica".
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Re: La crisi dell'Europa

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Scrive tra l’altro Claudio Lindner sull’Espresso di questa settimana, in “Un’Europa di sonnambuli”:


L’EUROPA APPARE COME AFFLITTA da un’epidemia di sonnambulismo.

Si prenda qui a prestito un’azzecata metafora dello storico Cristopher Clark, autore di un bestseller, mondiale (<<I sonnambuli>>) nel quale si faceva un parallelo tra l’incapacità della leadership europea del 1914 di evitare la prima guerra mondiale e di quella attuale di salvare l’Unione europea.

Oggi a Brexit approvata, il docente di Cambridge ironizza sul fatto che personaggi come Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra capofila dei “Leave” e quindi vittorioso il 23 giugno, in realtà non sappia più cosa fare, da che parte voltarsi.

Clark, più in generale, fa notare che <<purtroppo le persone da non imparare nulla dalla lezione del passato>>.

Questi primi dieci giorni non sembrano dargli torto.

L’Unione europea è a un passo dal baratro , ma a Bruxelles e nelle capitali è un continuo girovgare di sonnambuli che pensano più a sistemare le proprie faccende che a fermarsi e aprire gli occhi su quanto sta succedendo.


Questa descrizione di Lindner dà l’impressione che gli europei siano diventati tutti italiani.
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Re: La crisi dell'Europa

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Euro, l'ex ministro tedesco: "L'uscita penalizza solo Berlino"
Dopo il Brexit, la tenuta dell'Europa è messa a dura prova. Di fatto altri Stati pensano ad un'uscita dall'Unione e c'è anche chi considera l'ipotesi di abbandonare la moneta unica


Claudio Torre - Dom, 10/07/2016 - 09:16
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Dopo il Brexit, la tenuta dell'Europa è messa a dura prova. Di fatto altri Stati pensano ad un'uscita dall'Unione e c'è anche chi considera l'ipotesi di abbandonare la moneta unica.


Ma in un'Europa a trazione tedesca a chi converrebbe la rottura del patto basato sull'Euro? Prova a dare una risposta l'ex ministro delle finanze tedesco Theo Waigel in un'intervista a T-Online: "Al grado di sviluppo della globalizzazione e dei mercati aperti cui siamo arrivati – che non è più reversibile -, ci sono forze che si oppongono, sostenendo la necessità di ritornare ai confini e alle regolamentazioni nazionali, che prima funzionavano bene, per tornare ad appropriarsi delle proprie capacità decisionali“.

Poi l'ex ministro spiega in modo chiaro lo scenario: "Se la Germania oggi uscisse dall’unione monetaria, allora avremmo immediatamente, il giorno dopo, un apprezzamento tra il 20% e il 30% del marco tedesco – che tornerebbe nuovamente in circolazione -. Chiunque si può immaginare che cosa significherebbe per il nostro export, per il nostro mercato del lavoro, o per il nostro bilancio federale“. Una tesi quella di Waigel che già qualche anno fa era stata esposta dallo Spiegel: "Con un’uscita dall’Euro e un taglio netto dei debiti la crisi interna italiana finirebbe di colpo. La nostra invece inizierebbe proprio allora. Una gran parte del settore bancario europeo si troverebbe a collassare immediatamente. Il debito pubblico tedesco aumenterebbe massicciamente".
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Re: La crisi dell'Europa

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10 LUG 2016 15:23
INTERVISTE DA LEGGERE/1

- IL FILOSOFO TEDESCO HABERMAS RIVELA CHI È IL PRIMO NEMICO DELL'EUROPA: ANGELA MERKEL

- ''LA SUA UNICA TATTICA È STARE FERMA. HA SPARSO UN TAPPETO DI SCHIUMA SULLA STAMPA, CHE NON OSA CRITICARLA E NON SPIEGA AI TEDESCHI COME LI VEDONO GLI ALTRI. LA GERMANIA È IL PAESE CHE SI ARRICCHISCE DI PIÙ DALL'UNIONE. UN’EGEMONE RILUTTANTE E AL TEMPO STESSO INSENSIBILE E INCAPACE''


''Merkel e Schäuble continuano ad avere gioco facile nel dare di se stessi davanti all’opinione pubblica del proprio paese l’immagine di difensori autentici dell’idea d’Europa. Ma oggi ogni riforma per unificare l'Europa fallisce a causa della rigida opposizione della Cdu/Csu''...





Thomas Assheuer per Die Zeit
Traduzione di Steffen Wagner per il ''Corriere della Sera''



Signor Habermas, Lei avrebbe mai ritenuto possibile il Brexit? Qual è stato il suo stato d’animo quando ha saputo del successo della campagna in favore del Leave?
«Non mi aspettavo che il populismo battesse il capitalismo nel suo paese d’origine. Vista l’importanza essenziale del settore bancario per la Gran Bretagna e considerando il potere mediatico e la capacità di fare valere le proprie ragioni da parte della City di Londra, era improbabile che questioni di identità riuscissero ad avere la meglio su posizioni legate ad interessi»

Sono in molti ora a chiedere consultazioni referendarie anche in altri paesi. Un referendum in Germania sarebbe finito diversamente da quello della Gran Bretagna?

«Penso proprio di sì. L’unificazione dell’Europa è stata fatta – e funziona tutt’oggi – nell’interesse della Repubblica Federale. Nei primi decenni del dopoguerra abbiamo potuto recuperare una reputazione nazionale, totalmente compromessa, soltanto passo dopo passo e come “buoni” europei che operavano in modo prudente. Alla fine abbiamo potuto usufruire, per la riunificazione, della copertura da parte dell’Ue. Guardando indietro nel tempo la Germania è stata anche il beneficiario dell’Unione monetaria europea, a maggior ragione nel corso della crisi dell’euro.

E poiché a partire dal 2010, attraverso il Consiglio d’Europa, il governo federale ha avuto la meglio sulla Francia e sugli stati europei del sud in virtù delle idee ordoliberiste della propria politica del risparmio, Angela Merkel e Wolfgang Schäuble continuano ad avere gioco facile nel dare di se stessi davanti all’opinione pubblica del proprio paese l’immagine di difensori autentici dell’idea d’Europa. Si tratta sicuramente di un modo molto nazionale di vedere le cose, ma questo governo non ha dovuto temere una stampa, indipendente dal corso governativo, che informasse la popolazione sulle buone ragioni che hanno portato gli altri stati membri ad una valutazione della situazione completamente diversa».

Lei accusa la stampa di essere devota al governo? La Signora Merkel non può certo lamentarsi del numero di critici, almeno per quanto riguarda la sua politica sui rifugiati.

«Questo non è in realtà il nostro tema. Ma non voglio fare un segreto di ciò che penso. Anche dalle nostre parti la politica sui rifugiati ha diviso l’opinione pubblica e la stampa. Con ciò sono finiti lunghi anni di una paralisi senza precedenti del dibattito politico pubblico.

Prima mi riferivo al precedente periodo molto movimentato della crisi dell’euro. All’epoca c’era da attendersi una controversia altrettanto movimentata sulla politica della crisi da parte del governo, in un dibattito pubblico più ampio. Il modo di procedere tecnocratico, che ha soltanto l’effetto di rinviare, è discusso in tutta l’Europa in quanto controproducente. Non così invece nei due giornali e nei due settimanali principali che leggo con regolarità. Se questa osservazione è corretta, come sociologo si può andare alla ricerca delle spiegazioni.

Ma la mia prospettiva è quella di un attivo lettore di giornali e mi domando se il tappeto di schiuma della politica di addormentamento della Merkel si sarebbe potuto distendere in tutto il paese senza una certa disponibilità ad adattarsi da parte della stampa. Se non è più pensato in termini di alternative, l’orizzonte di pensiero si striminzisce.

Al momento osservo un’analoga somministrazione di tranquillanti. Nel rapporto che ho appena letto sull’ultima conferenza programmatica della SPD, la presa di posizione di un partito al governo sul grande evento del Brexit, che oggettivamente dovrebbe interessare tutti, da una prospettiva che Hegel avrebbe definito di un cameriere, è tarpata alle prossime elezioni federali e al rapporto personale tra i Signori Gabriel e Schulz».

Il desiderio britannico di lasciare la UE ha motivi nazionali e autoconfezionati? O è sintomatico di una crisi dell’Unione Europea?

«Sia l’uno, sia l’altro. I britannici hanno alle spalle una storia diversa da quella del Continente. La consapevolezza politica di una superpotenza, che nel XX secolo è stata due volte vittoriosa, ma che, dal punto di vista della politica mondiale, è in discesa, non si adegua alla mutata situazione senza un ritardo. Con questa concezione di sé come nazione la Gran Bretagna è finita in una situazione difficile, dopo che aveva aderito nel 1973 alla Comunità economica europea soltanto per ragioni economiche. Perché le élite politiche, dalla Thatcher attraverso Blair fino a Cameron, non pensavano minimamente di recedere dal proprio sguardo distante sulla terraferma.

Era già stato lo sguardo di Churchill, nel suo discorso europeo del 1946 a Zurigo, a ragione divenuto celebre, che aveva visto l’Impero britannico come padrino benevolo di un’Europa unita, ma, per l’appunto, non come sua parte. Anche a Bruxelles i britannici hanno condotto una politica fatta di riserve, seguendo la massima “lavami, ma non mi bagnare”».


Intende la loro politica economica?

«I britannici avevano una concezione dell’Ue decisamente improntata al libero mercato, come di una zona di libero commercio, che si traduceva in una politica dell’ampliamento dell’Ue senza un contemporaneo approfondimento della cooperazione. Niente Schengen, niente euro. L’atteggiamento esclusivamente strumentale delle elites politiche nei confronti dell’Ue si è ancora rispecchiato nella campagna elettorale della parte in favore del remain. I difensori tiepidi della permanenza nell’UE si sono limitati ad una campagna della paura condotta con argomentazioni economiche.

Come avrebbe dovuto avere la meglio nella popolazione più ampia un atteggiamento pro-Europa, se la leadership politica per decenni si è comportata come se il perseguimento strategico degli interessi nazionali senza riguardi fosse sufficiente per fare l’unione sovranazionale di una comunità di stati? Visto da lontano questo fallimento delle élite trova oggi nei due i giocatori, Cameron e Johnson, che agiscono in modo autoreferenziale, due personificazioni insolite e ricche di sfumature».

In questa consultazione non c’era solamente una notevole differenza tra giovani e anziani, ma anche tra città e campagna. La City multiculturale ha perso. Per quale ragione l’identità nazionale si trova improvvisamente contrapposta all’integrazione europea? I politici europei hanno sottovalutato la forza esplosiva dell’egoismo nazionale e culturale?

«Ha ragione. Il voto degli elettori britannici rispecchia anche qualcosa dell’attuale stato di crisi dell’Ue e dei suoi stati membri. Nei risultati delle analisi degli elettori si ripete la matrice che abbiamo conosciuto nell’elezione del Presidente federale dell’Austria e anche nelle nostre ultime elezioni regionali. La partecipazione al voto relativamente alta lascerebbe intendere che i populisti sono riusciti a mobilitare parti di non-elettori. Questi ultimi vengono reclutati per lo più in gruppi marginali della popolazione che si sentono lasciati indietro.

Ciò si intona con l’altro risultato secondo il quale i ceti più poveri, socialmente svantaggiati e meno istruiti, hanno per lo più votato per l’exit. Non solamente il comportamento elettorale diverso in campagna e nelle città, ma anche la distribuzione geografica dei voti per l’exit, quindi l’accumulo di questi voti nei Midlands e in parti del Galles – tra l’altro nei paesaggi industriali devastati, che non si sono più ripresi economicamente –, indicano le cause sociali ed economiche del Brexit.

La percezione dell’ineguaglianza sociale drasticamente aumentata e il sentimento di impotenza, che i propri interessi non vengano più rappresentati a livello politico, creano lo sfondo motivazionale per la mobilitazione contro gli estranei, l’allontanamento dall’Europa, l’odio per Bruxelles. Per un mondo quotidiano reso incerto l’“egoismo nazionale e culturale”, come Lei ha detto, rappresentano dei pilastri stabilizzanti».

Si tratta davvero soltanto questioni sociali? Esistono invece sia un trend storico, per cui le nazioni si aiutano da sé, sia il rifiuto della cooperazione. Sovra-nazionalità significa per i cittadini la perdita di controllo. Loro credono che soltanto la nazione sia la pietra su cui possono ancora costruire. Questo non dimostra che è fallita la trasformazione della democrazia nazionale in una transnazionale?

«Un tentativo mai compiuto non può ritenersi fallito. Certo, il grido al “take back control”, riprendiamo il controllo, che ha avuto un ruolo nella campagna elettorale britannica, è un sintomo che va preso sul serio. Si è imposta all’osservatore l’evidente irrazionalità non solo del risultato di questa consultazione, ma della campagna stessa. Anche sul Continente stanno aumentando queste campagne di odio.

I tratti sociopatici di un’aggressività politicamente disinibita indicano che le costrizioni di sistema che tutto permeano, insite in una società mondiale cresciuta e unita economicamente e digitalmente, pretendono troppo dalle forme di integrazione sociale, che nello stato nazionale erano democraticamente affiatate. Ciò scatena regressioni. Ne sono un esempio le fantasie guglielmine di un Jaroslaw Kaczynski, mentore del governo polacco in carica. Questi ha proposto, dopo il referendum britannico, lo scioglimento dell’Ue e una federazione allentata di stati nazionali sovrani, affinché questi si uniscano immediatamente in una superpotenza militare che faccia sentire il clangore di spade».

Si potrebbe dire: Kaczynski reagisce soltanto alla perdita di controllo dello stato nazionale.

«Come tutti i sintomi, anche il sentimento di perdere il controllo ha un nucleo reale – lo svuotamento delle democrazie nazionali, che hanno finora dato ai cittadini la possibilità di co-determinare condizioni importanti della loro esistenza sociale. Il referendum britannico fornisce attestazioni chiare di cosa si intenda con il termine “postdemocratico”. Evidentemente l’infrastruttura, senza la quale uno spazio pubblico politico non può funzionare, si è disintegrata.

Secondo le prime analisi i media e le parti in causa non hanno informato la popolazione circa questioni rilevanti e dati di fatto elementari, quindi circa le fondamenta necessarie per formarsi razionalmente un giudizio, per non parlare delle argomentazioni più differenziate in favore e contro le opinioni pubbliche che concorrono. Un altro dato significativo è la partecipazione al voto estremamente bassa da parte delle persone tra i 18 e i 24 anni, i presunti svantaggiati».

Ciò suona come se fosse di nuovo colpa della stampa.
«No, ma il comportamento di questo gruppo punta un faro sul modo dei più giovani di utilizzare i media nell’epoca digitale e sul cambiamento di atteggiamento in generale verso la politica. Secondo l’ideologia della Silicon Valley saranno mercato e tecnologia a salvare la società e a rendere superfluo qualcosa di cosi antiquato e fuori moda come la democrazia. Un fattore da prendere sul serio in questo contesto è la tendenza generale ad una “statalizzazione” dei partiti politici.

Non è tuttavia un caso che a non essere radicata nella società civile sia proprio la politica europea. Essa, in effetti, è organizzata in modo tale che le decisioni in materia di politica economica, rilevanti per la società nella sua totalità, siano sottratte ai processi di formazione della volontà democratica. Questo svuotamento tecnocratico dell’agenda, di cui i cittadini vengono ancora investiti, non è un destino naturale, bensì la conseguenza di un disegno stabilito nei trattati.

Ha un ruolo di peso in questo contesto anche la distribuzione del potere, voluta politicamente, tra il livello nazionale e quello europeo: il potere dell’Unione è concentrato laddove gli interessi nazionali possono bloccarsi a vicenda. Una trans- nazionalizzazione della democrazia sarebbe la risposta giusta a questo. Altrimenti, in una società mondiale altamente interdipendente, quella perdita di controllo lamentata e che si è effettivamente verificata, e che i cittadini percepiscono, non potrà essere recuperata».

Molti non credono più alla trans-nazionalizzazione. Per il sociologo Wolfgang Streeck la Ue è una macchina di de-regolamentazione. Essa non avrebbe protetto le nazioni dinanzi da un capitalismo diventato selvaggio, ma gliele avrebbe soltanto consegnate. Ora gli stati nazionali devono prendere di nuovo in mano la situazione. Per quale ragione non dovrebbe esserci un ritorno all’antico capitalismo dello stato sociale?


« L’analisi della crisi da parte di Wolfgang Streeck si fonda su analisi empiriche convincenti. Condivido anche la sua diagnosi dell’emaciamento della sostanza democratica. che nel frattempo è istituzionalizzata quasi solamente negli stati nazionali. E io condivido molte diagnosi simili da parte di politologi e giuristi, che si riferiscono alle conseguenze di de-democratizzazione delle nuove forme politiche e giuridiche del “governare al di là dello stato nazionale”.

Ma la requisitoria in favore di un ritorno al format dei piccoli Stati nazionali non mi convince. Perché essi dovrebbero a maggior ragione essere condotti sui mercati globalizzati nello stile di conglomerati globali. Questo significa una completa uscita di scena della politica dinanzi agli imperativi dei mercati non regolamentati».

C’è una interessante divisione in frazioni. Per l’una l’Ue come progetto politico ha fatto il suo tempo, e il Brexit è un chiaro segnale per costruire l’Europa rimpicciolendola. L’altra frazione, ad esempio Martin Schulz, dice: non si può continuare così. La crisi dell’Ue si deve anche al suo mancato approfondimento – c’è l’euro, ma non c’è un governo europeo, nessuna politica economica e sociale. Chi ha ragione?


«Angela Merkel ha subito riconosciuto il pericolo, quando Frank-Walter Steinmeier, il mattino dopo il Brexit, ha preso l’iniziativa con un invito ai ministri degli Esteri dei sei Stati fondatori. In questa costellazione si sarebbe, infatti, potuto leggere il desiderio di voler ricostruire l’Europa, dopo quest’onda di sconvolgimento, a partire dal suo nucleo. In risposta la Merkel ha preteso di trovare prima un accordo nei rimanenti 27 stati.

Ben sapendo che un accordo costruttivo in questo ambito e con nazionalisti autoritari come Orbán o Kaszynski sarebbe stato impossibile, Angela Merkel voleva soffocare sul nascere ogni pensiero di un’ulteriore integrazione. Nel frattempo ha obbligato il Consiglio di Bruxelles a stare fermo, sperando forse ancora nella neutralizzazione delle conseguenze del Brexit nella politica commerciale ed economica o addirittura nella sua revisione».

La sua critica non sembra nuova. Lei ha spesso rimproverato alla Signora Merkel una politica del “continuiamo-così”. Almeno nella politica europea.
«Temo che questa consueta politica del placare avrà o che già ha avuto la meglio – nessuna prospettiva, mi raccomando! L’argomentazione è: Non vi agitate, l’Ue si è sempre trasformata! Di fatto la strategia, senza prospettiva, del cavarsela alla meglio, messa in atto durante la crisi dell’euro, la quale nel frattempo continuava a covare, ha avuto per conseguenza che la Ue non potesse proseguire “come prima” nella modalità reattiva dell’adattamento. Ma il precipitoso e anticipatorio adattamento alla normalità del “frenetico stare fermi“ si paga con la rinuncia alla progettazione politica.

Eppure è stata proprio Angela Merkel che per due volte ha confutato in modo convincente l’opinione, che circolava tra i sociologi, per cui non vi sarebbe stato lo spazio per agire – nei casi del cambiamento climatico e dell’accoglimento dei rifugiati. Sigmar Gabriel e Martin Schulz sono da queste parti le uniche voci famose che ancora tradiscono un temperamento politico e che non vogliono rassegnarsi alla timida uscita di scena della politica da ogni tentativo di pensare anche soltanto guardando i prossimi tre o quattro anni.

Non è segno di realismo quando la leadership politica si abbandona al corso plumbeo della storia. In Gefahr und größter Not bringt der Mittelweg den Tod (In caso di pericolo e di più grande bisogno la via di mezzo porta alla morte): in questi giorni ho dovuto spesso pensare al film del mio amico Alexander Kluge. Certo, si sa sempre soltanto guardandosi indietro se ci sarebbe stata un’altra via. Ma, prima di rigettare un’alternativa mai tentata, si dovrebbe cercare di immaginare il nostro presente come il passato del presente di un futuro storiografo».

Come possiamo immaginarci l’approfondimento dell’Unione senza che i cittadini debbano temere un’ulteriore perdita di controllo democratico? Finora ogni approfondimento ha fatto crescere lo scetticismo nei confronti dell’Europa. Wolfgang Schäuble e Karl Lamers hanno parlato anni fa di un’Europa a due velocità, di un Kerneuropa, di un’Europa del nucleo. Lei allora è stato d’accordo. Come ce lo dobbiamo immaginare? Per questo non dovrebbero essere modificati i trattati?

«Si potrà convocare un’assemblea che porti a grandi modifiche dei trattati e a consultazioni referendarie soltanto qualora l’Ue affronti in modo percepibile e convincente i suoi problemi più urgenti. La crisi, a tutt‘oggi irrisolta, dell’euro, il problema a lungo termine dei rifugiati e le questioni di sicurezza vengono ora indicati come problemi urgenti. Ma già la loro descrizione non permette un consenso nella cerchia cacofonica dei 27 membri del Consiglio Europeo. Compromessi si trovano soltanto tra chi è disponibile al compromesso e perché ciò accada gli interessi non devono divergere troppo.

C’è da aspettarsi al massimo tra i membri della Comunità monetaria europea questo minimo di convergenza degli interessi. Il destino di crisi della moneta comune, le cui cause sono state, a proposito, ben analizzate da parte della scienza, incatena questi paesi da anni, strettamente gli uni agli altri, sebbene in modo asimmetrico.

Perciò l’eurozona si offre come definizione naturale per i confini di una futura Europa del nucleo. Se questi paesi avessero la volontà politica, il principio della “stretta collaborazione”, affermato nei trattati, consentirebbe i primi passi per la definizione di un simile nucleo: e anche la formazione da tempo matura di un pendant con l’Eurogruppo del Consiglio all’interno del Parlamento Europeo».

Ciò divide la Ue.
«È vero, contro questo piano si solleva l’accusa di “scissione”. Quest’accusa è infondata, a condizione che, in generale, si voglia l’unificazione europea. Perché solamente un’Europa del nucleo potrebbe convincere le popolazioni, polarizzate in tutti gli stati membri, riguardo il senso del progetto. Solamente a questa condizione, anche quelle popolazioni che nel frattempo preferiscono mantenere la loro sovranità. potrebbero essere convinte, piano piano, alla loro adesione sempre aperta (!).

In questa prospettiva si dovrebbe però cercare di ottenere il consenso dei governi attendisti, perché questi dovrebbero fin dall’inizio tollerare il progetto. Il primo passo da compiere, al fine di un compromesso all’interno della comunità monetaria, è evidentemente quello di far cessare la resistenza della Germania contro una più stretta cooperazione sul piano delle politiche finanziarie, economiche e sociali, e la Francia dovrebbe esser disposta alle rispettive rinunce in tema di sovranità.

E chi si oppone a questo?
«Per lungo tempo ho avuto la sensazione che le resistenze maggiori sarebbero state quelle francesi. Non è più così oggi. Oggi ogni approfondimento fallisce a causa della rigida opposizione della Cdu/Csu, che è al governo e da anni sottoutilizza, chiede troppo pochi sforzi, al proprio elettorato. Mentre fomenta l’egoismo economico nazionale in vista delle prossime elezioni, sottovaluta sistematicamente quali concessioni i cittadini della Germania sarebbero in maggioranza disposti a fare nel proprio interesse a lungo termine. Basterebbe offrire a loro con vigore un’alternativa al paralizzante proseguimento dell’attuale corso e della prassi finora messa in atto, che guardasse lontano e fosse ben motivata».

La Brexit rafforza l’influenza tedesca. Già da prima la Germania veniva percepita come egemone. Come si è potuti arrivare a questa percezione?
« Il recupero di una presunta „normalità“ nazionale ha portato al cambiamento di quella mentalità nel nostro paese che si era formata in decenni di lotte e contrapposizioni nella vecchia Repubblica Federale. A ciò corrispondeva uno stile sempre più sicuro di sé e l’indirizzo “realistico” della politica della Repubblica berlinese con accenti sempre più risoluti verso l’esterno.

Dal 2010 osserviamo come il governo tedesco svolge il suo ruolo di leader, ottenuto nel tempo in modo involontario, meno nell’interesse comune che non piuttosto in quello proprio. Persino un editoriale della Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung, ndr) lamenta l’effetto controproducente della politica tedesca, “perché scambia la leadership europea sempre di più con la realizzazione delle proprie idee di ordine” (Faz del 29 giugno 2016).

La Germania è un’egemone riluttante e al tempo stesso insensibile e incapace, che utilizza e contemporaneamente nega il disturbato equilibrio del potere europeo. Ciò fa nascere risentimenti in particolare nei paesi dell’Eurozona. Come devono sentirsi uno spagnolo, un portoghese o un greco che hanno perso il posto di lavoro in seguito alla politica di risparmio decisa dal Consiglio Europeo?

Non può rivalersi sui membri del governo che hanno fatto passare questa politica a Bruxelles. Perché non può eleggerli o non eleggerli. Al posto di ciò poteva leggere durante la crisi della Grecia che questi stessi politici rifiutavano con sdegno la co-responsabilità per le conseguenze sociali disastrose che venivano accettate con simili programmi di risparmio. Finché non si abolisce questa costruzione sbagliata e antidemocratica, non ci si deve meravigliare della propaganda antieuropea. La democrazia in Europa non si ottiene se non dall’approfondimento della cooperazione europea».

Ciò significherebbe che i contro-movimenti di destra scomparirebbero soltanto se ci fosse più Europa e l’Ue venisse approfondita democraticamente?
«No, essi devono perdere terreno già durante questo cammino. Se vedo bene, oggi tutti partono dal presupposto che l‘Unione debba riconquistarsi fiducia, per poter togliere l’acqua al populismo di destra. Una delle frazioni vuole dimostrare la capacità d’azione, per fare impressione alla destra, mettendo in mostra i muscoli. Lo slogan è “non più visioni, ma competenza nelle soluzioni”.

Da questo punto di vista Wolfgang Schäuble ha ora anche pubblicamente abiurato alla propria idea di un’Europa del nucleo. Egli scommette tutto sull’intergovernamentalismo, dunque sul fatto che i capi di stato e di governo si mettano d’accordo tra di loro. Scommette sull’apparenza di una cooperazione di successo tra forti stati nazionali. Ma gli esempi che enuclea – l’unione del digitale di Oettinger, l’europeizzazione dei budget per gli armamenti o un’unione dell’energia – difficilmente avranno l’effetto desiderato di impressionare.

E nel caso dei problemi davvero urgenti – egli stesso indica la politica sui rifugiati e la creazione di un diritto d’asilo europeo, ma poi mette da parte la drammatica disoccupazione giovanile nei paesi del sud – i costi della cooperazione sono così elevati come sempre. L’altra frazione raccomanda perciò l’alternativa di una cooperazione approfondita e vincolante in una cerchia più piccola di stati disposti alla cooperazione in maniera duratura.

Una tale Unione non ha bisogno di scegliersi i problemi da affrontare al fine di dimostrare la propria capacità d’azione. Già durante il percorso i cittadini devono poter riconoscere, che vengono affrontati quei problemi sociali ed economici, che causano la incertezza, la paura di una retrocessione sociale e il sentimento della perdita di controllo. Stato sociale e democrazia costituiscono un contesto intrinseco che in una comunità monetaria non può più essere garantito dal singolo
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Re: La crisi dell'Europa

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l Sole 10.7.16
Europa dopo Brexit
La visione federale contro il rischio disintegrazione

di Sergio Fabbrini

Brexit sta portando la Gran Bretagna all’anarchia (come ha scritto l’Economist), ma sta anche dividendo l’Unione europea. L’anarchia britannica è evidente, con le dimissioni in serie di leader politici e la confusione del Paese sulle strategie da perseguire per avviare l’uscita dall’Ue. Ma evidenti sono anche le divisioni esplose nell’Ue. Queste divisioni non coincidono con la semplice frattura tra europeisti e nazionalisti. Riflettono piuttosto combinazioni diverse di unione e nazione.
Una prima prospettiva sull’Europa del dopo-Brexit è quella perseguita da Paesi (dell’Est europeo o del Nord scandinavo) che vogliono rimanere nel mercato comune a condizione che il suo funzionamento non metta in discussione le loro sovranità nazionali. Questa prospettiva si alimenta certamente dei sentimenti nazionalisti, ma non propone il semplice ritorno allo Stato nazionale del passato. L’idea è quella di trasformare l’Ue in una comunità economica con limitate regolamentazioni sovranazionali. Dopo tutto, contrariamente alla Gran Bretagna, nessuno di quei Paesi dispone di un centro finanziario globale come la City, o di una rete di relazioni economiche post-coloniali come il Commonwealth, o di università internazionali come Oxford e Cambridge. Per crescere, essi hanno bisogno del mercato europeo, dei finanziamenti europei, delle imprese europee, delle università europee. L’Ue, insieme alla Nato, ha fornito loro una sicurezza economica e militare a cui non possono rinunciare. Tuttavia, seppure riconoscano la loro dipendenza dall’Ue, non accettano che quest’ultima prenda decisioni che condizionino la loro politica interna. Quando ciò avviene, rivendicano il potere di nullificarle. L’Ungheria organizzerà un referendum il 2 ottobre prossimo sulla decisione Ue di collocare una quota di rifugiati politici nel suo territorio; la Repubblica Ceca e la Slovacchia hanno minacciato di fare altrettanto; la Polonia sta preparando azioni di ritorsione contro il Parlamento europeo e la Commissione europea che hanno criticato le sue scelte illiberali se non autoritarie.
L’Austria ha rivendicato l’autonomia di decidere sulla chiusura delle proprie frontiere; la Danimarca e la Svezia continuano la loro politica di “opt-outs” di fatto dalle principali politiche decise a Bruxelles.
Nel 1832 la Carolina del Sud approvò un Atto di Nullificazione contro l’applicazione (nello Stato) della legge sulle tariffe decisa dal congresso federale. Fu il segnale della tempesta che si stava avvicinando sull’unione americana. Tempesta esplosa con la Guerra Civile (1861-65). Questa prospettiva è tanto mobilitante sul piano politico quanto inconsistente su quello economico. Non può esistere un mercato comune senza regolamentazioni sovranazionali. Altrimenti bisogna accontentarsi di una zona di libero scambio senza fondi strutturali. Se si vuole la botte piena, è bene che la moglie non si ubriachi.
È di tipo intergovernativo la più vociferante alternativa alla prospettiva di un’Ue intesa come pura organizzazione economica. In un’intervista rilasciata pochi giorni fa alla stampa tedesca, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble si candida, e candida il suo Paese, ad essere il leader della coalizione che vuole fare dell’Ue un’unione intergovernativa. Per i sostenitori di questa prospettiva (tradizionalmente la Francia, ma anche Olanda, Finlandia, Portogallo e, si pensi un po’, la Grecia) l’integrazione deve procedere (e non già arretrare) senza tuttavia rafforzare le istituzioni e gli attori sovranazionali. Dice Schäuble: «L’approccio intergovernativo si è dimostrato efficace durante la crisi dell’Eurozona». Dunque, seguiamo questo approccio e «se la Commissione non collabora, allora ci occuperemo noi delle questioni, risolvendo i problemi tra i governi».
La Germania comunitaria di Adenauer e Kohl è servita: basta con gli idealisti o con coloro che vogliono rafforzare le istituzioni comuni. Ma se a decidere sono i governi nazionali, chi li controlla? La risposta di Schäuble è impietosa: «La domanda se il Parlamento europeo abbia o meno un ruolo decisivo non è quella che preoccupa la gente». Ma se i governi nazionali prendono decisioni a nome dell’Ue, come può bastare la legittimazione individuale che ognuno di essi ha ricevuto dai rispettivi parlamenti nazionali? Per Schäuble la legittimazione è come un taxi, che parte da Berlino e giunge a Bruxelles. La prospettiva intergovernativa ha quindi trascinato con sé la visione interparlamentare. La decisione del Consiglio e della Commissione di lunedì scorso, di sottoporre all’approvazione di ben 38 camere legislative nazionali l’accordo commerciale concluso nel dicembre scorso con il Canada (il Comprehensive Economic and Trade Agreement o Ceta), è la conseguenza di tutto ciò.
Ma della prospettiva intergovernativa fa parte anche la proposta di affidare ad un’agenzia indipendente (il cosiddetto European Fiscal Council) il controllo delle politiche fiscali degli Stati membri, sottraendo quel controllo alla Commissione che recentemente aveva cercato di rivendicare un ruolo autonomo nell’interpretazione dei trattati e dei patti. E così ne fa parte la proposta di istituire un ministro europeo delle finanze, scelto dai ministri nazionali che costituiscono l’Eurogruppo e responsabile solamente nei loro confronti. Un ministro incaricato di rappresentare, sulla base di un esclusivo mandato intergovernativo, i cittadini dell’intera Eurozona in organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale. Quel ministro andrà periodicamente al Parlamento europeo per informarlo sulle scelte fatte. Ma quest’ultimo non avrà alcun potere di sanzione nei suoi confronti.
Eppure, fior fiore di federalisti si sono entusiasmati all’idea di un ministro europeo delle finanze, senza rendersi conto del tranello in cui si infilavano. Oppure si sono entusiasmati all’idea del ruolo “europeo” dei Parlamenti nazionali, senza rendersi conto che la conseguenza è un indebolimento del Parlamento europeo e la paralisi del sistema decisionale dell’Ue (come sicuramente avverrà nel caso dell’accordo con il Canada). Per dirla fuori dai denti, l’unione intergovernativa di Schäuble è un’organizzazione in cui i governi e i parlamenti dei Paesi più forti dominano quelli dei Paesi più deboli. Una buona ricetta per la disintegrazione.
Non si può lasciare il futuro dell’Europa del dopo-Brexit al confronto tra economicisti e intergovernativi. Mi rendo conto che il vento non gonfia più le vele della Commissione e del Parlamento europeo. Mi rendo conto anche che l’inerzia amministrativa dell’Ue tenderà ad ostacolare drammatici passi indietro. Eppure se non si sentirà la voce dei leader europei e nazionali con una visione federale, sarà difficile arrestare la disintegrazione.
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