La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
Non è vero, il cambio della SEK (intorno a 9/9,50) e della DKK (7/7,50) è praticamente stabile dal 2002 dato che pur non essendo nell'Euro hanno delle bande di oscillazione ridotte con la moneta unica e quindi i dissesti non sono dovuti all'Euro ma alla particolare dipendenza dell'economia finlandese da poche aziende che sono entrate in crisi.
Basta attaccare l'Euro per colpe non sue, la moneta ha dei difetti ma essi sono dovuti al fatto che non ci sono gli Eurobond e la compensazione federale come negli USA.
Se la Finlandia tornasse alla Markka (così come se l'Italia tornasse alla Lira) peggiorerebbe ulteriormente la sua situazione.
Il problema reale è nel fallimento della globalizzazione che come ha ammesso uno studio Mc Kinsey ha impoverito circa il 70% delle famiglia europee occidentali e nordamericane (lì è andata lievamente meno peggio grazie agli sgravi fiscali che però hanno profondamente aggravato il deficit pubblico USA). La diseguaglianza economica cresce e con essa la repulsione verso la globalizzazione e le istituzioni sovranazionali.
Andrà profondamente ripensata la politica economica mondiale degli ultimi 10 anni prima che le conseguenze sfocino in eventi indesiderati.
Basta attaccare l'Euro per colpe non sue, la moneta ha dei difetti ma essi sono dovuti al fatto che non ci sono gli Eurobond e la compensazione federale come negli USA.
Se la Finlandia tornasse alla Markka (così come se l'Italia tornasse alla Lira) peggiorerebbe ulteriormente la sua situazione.
Il problema reale è nel fallimento della globalizzazione che come ha ammesso uno studio Mc Kinsey ha impoverito circa il 70% delle famiglia europee occidentali e nordamericane (lì è andata lievamente meno peggio grazie agli sgravi fiscali che però hanno profondamente aggravato il deficit pubblico USA). La diseguaglianza economica cresce e con essa la repulsione verso la globalizzazione e le istituzioni sovranazionali.
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Re: La crisi dell'Europa
Caro Maucat, e' tutto da vedere se sia peggio o meglio essere nell'euro.Maucat ha scritto:Non è vero, il cambio della SEK (intorno a 9/9,50) e della DKK (7/7,50) è praticamente stabile dal 2002 dato che pur non essendo nell'Euro hanno delle bande di oscillazione ridotte con la moneta unica e quindi i dissesti non sono dovuti all'Euro ma alla particolare dipendenza dell'economia finlandese da poche aziende che sono entrate in crisi.
Basta attaccare l'Euro per colpe non sue, la moneta ha dei difetti ma essi sono dovuti al fatto che non ci sono gli Eurobond e la compensazione federale come negli USA.
Se la Finlandia tornasse alla Markka (così come se l'Italia tornasse alla Lira) peggiorerebbe ulteriormente la sua situazione.
Il problema reale è nel fallimento della globalizzazione che come ha ammesso uno studio Mc Kinsey ha impoverito circa il 70% delle famiglia europee occidentali e nordamericane (lì è andata lievamente meno peggio grazie agli sgravi fiscali che però hanno profondamente aggravato il deficit pubblico USA). La diseguaglianza economica cresce e con essa la repulsione verso la globalizzazione e le istituzioni sovranazionali.
Andrà profondamente ripensata la politica economica mondiale degli ultimi 10 anni prima che le conseguenze sfocino in eventi indesiderati.
Da come stanno le cose attualmente e da come continua a funzionare questa europa dell'Euro le critiche superano le positive.
Non che sia contro ai valori iniziali sul come doveva essere questa nuova Europa ma visto come l'hanno voluta funzionare io non ci sto più ed e' inutile continuare a dire che dovremmo invece farla funzionare bene.
Se le classi dominanti con tutte le loro lobbies cercano in tutti i modi di far vedere che e' la soluzione migliore, non puo che venirti un dubbio visto che il popolo ha dei riscontri diversi.
Non e' sufficiente dire che ha scongiurato le guerre "guerreggiate" poiche non e' vero!!
Le guerre ora vengono fatte in modo diverso e cioe' finanziarie e queste distruggono più di una guerra fatta con le armi.
Io NON CI STO PIU' e non voglio più aspettare.
Il tempo e' scaduto e non voglio farmelo mettere ancora in quel posto che poi sara lo stesso posto per i miei figli e nipoti. BASTAAAA!!!
un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: La crisi dell'Europa
MONDO
Turchia, l’Europa ha perso se stessa venendo a patti con Erdogan
Mondo
di Fausto Corvino | 5 agosto 2016
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La Turchia è certamente un partner fondamentale per l’Europa. O per meglio dire la Turchia gioca un ruolo chiave per l’impostazione geopolitica che oggi prevale tra gli europei. Ankara dispone della possibilità di chiudere o riaprire la rotta balcanica dei migranti. In Medio Oriente consente alla Nato di arginare l’influenza di Mosca. E per dove è posizionata il suo contributo nella lotta al terrorismo non è sicuramente trascurabile. Perciò, guardando la faccenda da una prospettiva realista, non possiamo permetterci di fare troppo gli snob o gli schizzinosi riguardo la leadership turca.
Detto ciò, se anche volessimo infischiarcene dei diritti e delle libertà di chi ha la sfortuna di vivere al di fuori dei confini europei, il prezzo che l’Europa ha pagato nell’ultimo anno per salvaguardare le relazioni con Ankara sembra eccessivamente superiore ai vantaggi che ne ha conseguito. Innanzitutto, in poche mosse gli attuali leader europei hanno inflitto un colpo mortale alla narrazione di un’Europa che è orgogliosa di essere un baluardo dei diritti umani e un luogo di progresso sociale. Con l’accordo sui migranti abbiamo messo in piedi un respingimento di massa di richiedenti asilo politico. Abbiamo attribuito alla Turchia di Erdogan lo status di luogo sicuro, aggirando così le norme internazionali che ci avrebbero proibito di sbattere la porta in faccia a chi fugge da guerra e violenza.
Per non dovere alterare minimamente il nostro stile di vita e potere continuare a condurre un’esistenza distaccata dalla disperazione che scoppia tutto intorno, oltre i confini, e che noi abbiamo contributo a creare con la nostra politica estera dell’ultimo ventennio, abbiamo rispedito i richiedenti asilo in un Paese in cui negli ultimi anni le forze di opposizione, i mezzi di informazione, le università e i magistrati sono stati messi al centro di un’azione repressiva. Come giustamente osservato da Bridget Anderson in un articolo pubblicato su Fortune poco dopo l’annuncio dell’accordo sui migranti: “Per una generazione l’Europa si è avvolta in quello che oramai appare essere un mito: un Continente di decenza e diritti umani, consapevole del suo brutale passato, ma più maturo e più saggio, aperto a tutte le razze e le fedi, disposto a guidare il Mondo verso un futuro più aperto e più pieno di speranza”. In altre parole, tutto quell’apparato argomentativo sull’Unione Europea come spazio di libertà e opportunità, che è stato dispiegato in abbondanza nel dibattito sulla Brexit, è oggi se non addirittura inutilizzabile quanto meno minato alle sue fondamenta.
Poi è venuto il golpe. Più di 15.000 persone sono finite in manette, tra cui 234 accademici, oltre 2.000 magistrati e 100 giornalisti. Hanno dovuto chiudere i battenti 3 agenzie di stampa, 16 canali tv, 23 radio, 45 giornali e 29 case editrici. Inoltre con le leggi sullo stato di emergenza varate dopo il tentativo di golpe è estremamente difficile per gli arrestati provare la propria innocenza. Ma l’Unione europea continua a considerare la Turchia un luogo sicuro in cui spedire richiedenti asilo inermi.
Ogni forma di opposizione laica è stata zittita, i sostenitori di Erdogan si sono presi le piazze, i luoghi di protesta, che fino a poco tempo fa appartenevano ai loro antagonisti politici. In un interessante articolo pubblicato su OpenDemocracy Defne Kadioğlu Polat ha giustamente sottolineato come Erdogan dopo il fallito golpe abbia finalmente ottenuto il suo “Gezi Park”: è riuscito a dare una forte spinta all’agognata svolta presidenzialista riprendendosi allo stesso tempo il sostegno della sua gente. L’Unione europea ha lasciato completamente sola l’opposizione laica turca. Ha continuato a trattare con il governo di Ankara come se nelle ultime settimane non fosse accaduto nulla. Così facendo ha mostrato che nei rapporti con la Turchia non esiste nessun principio di condizionalità. Ankara può continuare a fare ciò che vuole nelle sue faccende interne, tanto Bruxelles continuerà ad avere bisogno del suo aiuto.
Vale poi la pena aprire qui una parentesi. La rotta balcanica dei migranti è ora chiusa anche perché i confini europei in quell’area sono stati sbarrati. Le terribili immagini di Idomeni dei mesi scorsi lo testimoniano. Quindi se l’accordo con la Turchia saltasse siamo davvero sicuri che un numero ingestibile di migranti si getterebbe lungo il confine con l’Europa pur sapendo che si troverebbe la strada sbarrata? Su questo punto non sembra esserci molta chiarezza.
A cosa ci ha portato tutto questo? Gli incentivi per un’inversione di marcia democratica e liberale in Turchia sono al minimo storico. Se i leader europei avessero posto dei paletti fissi sulle libertà fondamentali quale condizione minima per sedersi ad un qualunque tavolo di trattativa avrebbero forse potuto offrire una sponda a chi in Turchia si batte per la democrazia. Invece l’unica linea rossa che è stata imposta con chiarezza dopo il fallito golpe è la non reintroduzione della pena di morte. Come se questo fosse un sufficiente criterio di decenza per uno Stato. L’Unione Europea è scesa a compromessi, mettendo a rischio la sua stessa identità, e i vantaggi che ne ha ottenuto non sembrano bastare per far quadrare il bilancio.
Turchia, l’Europa ha perso se stessa venendo a patti con Erdogan
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di Fausto Corvino | 5 agosto 2016
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La Turchia è certamente un partner fondamentale per l’Europa. O per meglio dire la Turchia gioca un ruolo chiave per l’impostazione geopolitica che oggi prevale tra gli europei. Ankara dispone della possibilità di chiudere o riaprire la rotta balcanica dei migranti. In Medio Oriente consente alla Nato di arginare l’influenza di Mosca. E per dove è posizionata il suo contributo nella lotta al terrorismo non è sicuramente trascurabile. Perciò, guardando la faccenda da una prospettiva realista, non possiamo permetterci di fare troppo gli snob o gli schizzinosi riguardo la leadership turca.
Detto ciò, se anche volessimo infischiarcene dei diritti e delle libertà di chi ha la sfortuna di vivere al di fuori dei confini europei, il prezzo che l’Europa ha pagato nell’ultimo anno per salvaguardare le relazioni con Ankara sembra eccessivamente superiore ai vantaggi che ne ha conseguito. Innanzitutto, in poche mosse gli attuali leader europei hanno inflitto un colpo mortale alla narrazione di un’Europa che è orgogliosa di essere un baluardo dei diritti umani e un luogo di progresso sociale. Con l’accordo sui migranti abbiamo messo in piedi un respingimento di massa di richiedenti asilo politico. Abbiamo attribuito alla Turchia di Erdogan lo status di luogo sicuro, aggirando così le norme internazionali che ci avrebbero proibito di sbattere la porta in faccia a chi fugge da guerra e violenza.
Per non dovere alterare minimamente il nostro stile di vita e potere continuare a condurre un’esistenza distaccata dalla disperazione che scoppia tutto intorno, oltre i confini, e che noi abbiamo contributo a creare con la nostra politica estera dell’ultimo ventennio, abbiamo rispedito i richiedenti asilo in un Paese in cui negli ultimi anni le forze di opposizione, i mezzi di informazione, le università e i magistrati sono stati messi al centro di un’azione repressiva. Come giustamente osservato da Bridget Anderson in un articolo pubblicato su Fortune poco dopo l’annuncio dell’accordo sui migranti: “Per una generazione l’Europa si è avvolta in quello che oramai appare essere un mito: un Continente di decenza e diritti umani, consapevole del suo brutale passato, ma più maturo e più saggio, aperto a tutte le razze e le fedi, disposto a guidare il Mondo verso un futuro più aperto e più pieno di speranza”. In altre parole, tutto quell’apparato argomentativo sull’Unione Europea come spazio di libertà e opportunità, che è stato dispiegato in abbondanza nel dibattito sulla Brexit, è oggi se non addirittura inutilizzabile quanto meno minato alle sue fondamenta.
Poi è venuto il golpe. Più di 15.000 persone sono finite in manette, tra cui 234 accademici, oltre 2.000 magistrati e 100 giornalisti. Hanno dovuto chiudere i battenti 3 agenzie di stampa, 16 canali tv, 23 radio, 45 giornali e 29 case editrici. Inoltre con le leggi sullo stato di emergenza varate dopo il tentativo di golpe è estremamente difficile per gli arrestati provare la propria innocenza. Ma l’Unione europea continua a considerare la Turchia un luogo sicuro in cui spedire richiedenti asilo inermi.
Ogni forma di opposizione laica è stata zittita, i sostenitori di Erdogan si sono presi le piazze, i luoghi di protesta, che fino a poco tempo fa appartenevano ai loro antagonisti politici. In un interessante articolo pubblicato su OpenDemocracy Defne Kadioğlu Polat ha giustamente sottolineato come Erdogan dopo il fallito golpe abbia finalmente ottenuto il suo “Gezi Park”: è riuscito a dare una forte spinta all’agognata svolta presidenzialista riprendendosi allo stesso tempo il sostegno della sua gente. L’Unione europea ha lasciato completamente sola l’opposizione laica turca. Ha continuato a trattare con il governo di Ankara come se nelle ultime settimane non fosse accaduto nulla. Così facendo ha mostrato che nei rapporti con la Turchia non esiste nessun principio di condizionalità. Ankara può continuare a fare ciò che vuole nelle sue faccende interne, tanto Bruxelles continuerà ad avere bisogno del suo aiuto.
Vale poi la pena aprire qui una parentesi. La rotta balcanica dei migranti è ora chiusa anche perché i confini europei in quell’area sono stati sbarrati. Le terribili immagini di Idomeni dei mesi scorsi lo testimoniano. Quindi se l’accordo con la Turchia saltasse siamo davvero sicuri che un numero ingestibile di migranti si getterebbe lungo il confine con l’Europa pur sapendo che si troverebbe la strada sbarrata? Su questo punto non sembra esserci molta chiarezza.
A cosa ci ha portato tutto questo? Gli incentivi per un’inversione di marcia democratica e liberale in Turchia sono al minimo storico. Se i leader europei avessero posto dei paletti fissi sulle libertà fondamentali quale condizione minima per sedersi ad un qualunque tavolo di trattativa avrebbero forse potuto offrire una sponda a chi in Turchia si batte per la democrazia. Invece l’unica linea rossa che è stata imposta con chiarezza dopo il fallito golpe è la non reintroduzione della pena di morte. Come se questo fosse un sufficiente criterio di decenza per uno Stato. L’Unione Europea è scesa a compromessi, mettendo a rischio la sua stessa identità, e i vantaggi che ne ha ottenuto non sembrano bastare per far quadrare il bilancio.
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Re: La crisi dell'Europa
La motivazione che abbia indotto Paul Craig Roberts a denunciare quanto si rileva in questo articolo, e non solo, MI SFUGGE.
Essendo stato Roberts, anche viceministro del Tesoro con Ronald Reagan.
Se qualcuno sa', o intuisce il perché e ce lo fa sapere. non posso che ringraziarlo anticipatamente.
LIBRE news
Craig Roberts: sembra Ue, ma è Cia. Il suo veleno? L’euro
Scritto il 10/8/16 • nella Categoria: idee Condividi
“Un anello per domarli tutti… e nel buio incatenarli” (J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”). La Seconda Guerra Mondiale è finita con la conquista dell’Europa, non da parte di Berlino, ma da parte di Washington. La conquista era certa, ma non la si poteva ottenere tutta in una volta. La conquista di Washington dell’Europa è avvenuta grazie al Piano Marshall, alla paura dell’Armata Rossa di Stalin (che ha portato l’Europa a fare affidamento sulla protezione di Washington e a subordinare le forze armate europee agli Stati Uniti, all’interno della Nato), alla sostituzione della sterlina con il dollaro Usa come valuta di riserva mondiale e al lungo processo di subordinazione della sovranità dei singoli paesi europei verso l’Unione Europea, un’iniziativa della Cia attuata da Washington per controllare tutta l’Europa attraverso un solo e irresponsabile governo. Con poche eccezioni, principalmente il Regno Unito, l’adesione all’Unione Europea ha significato anche la perdita di indipendenza finanziaria. Dato che solo la Banca Centrale Europea è in grado di creare euro, quei paesi così sciocchi da accettarlo come valuta non hanno più avuto il potere di creare il proprio denaro per finanziare i deficit di bilancio.I paesi che hanno aderito all’euro devono fare affidamento su banche private per finanziare i loro deficit. Il risultato è che i paesi indebitati non possono più pagare i loro debiti con la creazione di denaro o sperare che questi debiti vengano abbassati a livelli che possono tenere sotto controllo. Invece, Grecia, Portogallo, Lettonia e Irlanda sono state saccheggiate dalle banche private. L’Ue ha costretto gli pseudo-governi di questi paesi a pagare le banche private del Nord Europa soffocando il tenore di vita delle loro popolazioni e privatizzando i beni pubblici svendendoli per due soldi rispetto al loro valore originale. Così le pensioni di anzianità, il pubblico impiego, l’istruzione e la sanità sono stati tagliati e il denaro reindirizzato alle banche private. Le aziende idriche municipali sono state privatizzate con il risultato che le bollette dell’acqua sono più elevate. E così via. Poiché non vi è alcuna ricompensa, solo punizioni, per essere un membro della Ue, perché i governi, nonostante i desideri espressi dei loro popoli, si uniscono?La risposta è che Washington ha voluto che non vi fossero altre possibilità. I fondatori europei della Ue sono creature mitiche. Washington ha utilizzato i politici pilotandoli nella creazione dell’Unione Europea. Alcuni anni fa sono stati rilasciati dei documenti della Cia che dimostrano che l’Ue è stata un’iniziativa della Cia stessa. Nel 1970 il presidente per la discussione della tesi del mio dottorato di ricerca, divenuto poi un funzionario di alto rango a Washington addetto al controllo degli affari di sicurezza internazionale, mi ha chiesto di intraprendere una missione delicata all’estero. Ho rifiutato. Tuttavia, egli ha risposto alla mia domanda: «Come fa Washington a fare in modo che i paesi stranieri facciano ciò che Washington vuole?». «Soldi», ha detto. «Diamo ai loro leader borse piene di soldi. Appartengono a noi». E’ chiaro che l’Ue serve gli interessi di Washington, non gli interessi dell’Europa. Ad esempio, il popolo francese e il governo sono contrari agli Ogm, ma l’Ue consente una “autorizzazione di mercato precauzionale” di introduzione degli Ogm, contando forse sulle “scoperte scientifiche” degli scienziati sul libro paga della Monsanto.Quando lo Stato americano del Vermont ha approvato una legge che impone l’etichettatura degli alimenti Ogm, la Monsanto gli ha fatto causa. Una volta che i funzionari dell’Ue, pagati di nascosto, firmeranno l’accordo Ttip scritto dalle multinazionali degli Stati Uniti, la Monsanto si impadronirà dell’agricoltura europea. Ma il pericolo per l’Europa va ben oltre la salute dei popoli europei, che saranno costretti a nutrirsi di cibi velenosi. Washington sta usando l’Ue per costringere gli europei a entrare in conflitto con la Russia, una potenza nucleare in grado di distruggere tutta l’Europa e tutti gli Stati Uniti in pochi minuti. Ciò sta accadendo perché i “leader” europei, pagati di nascosto con “borse piene di denaro”, hanno preferito avere il denaro di Washington nel breve periodo piuttosto che garantire la vita degli europei nel lungo periodo. Non è possibile che qualsiasi politico europeo sia sufficientemente idiota da credere che sia stata la Russia a invadere l’Ucraina, che la Russia da un momento all’altro invaderà la Polonia e gli Stati baltici, o che Putin sia un “nuovo Hitler” che progetta di ricostruire l’impero sovietico. Queste accuse assurde non sono altro che propaganda di Washington priva di qualsiasi verità. Tutto ciò è evidente. Nemmeno un idiota potrebbe crederci. Eppure l’Unione Europea va di pari passo con la propaganda, come fa la Nato. Perché?La risposta è il denaro di Washington. L’Ue e la Nato sono assolutamente corrotte. Sono le puttane ben pagate di Washington. L’unico modo che gli europei hanno per impedire una Terza Guerra Mondiale nucleare, e continuare a vivere e godere di ciò che resta della loro cultura (che gli americani non sono riusciti a distruggere con la loro cultura di sesso, violenza e avidità) è, per i governi europei, quello di seguire l’esempio del governo inglese e uscire dall’Unione Europea creata dalla Cia. E l’uscita dalla Nato, il cui scopo è evaporato con il crollo dell’Unione Sovietica, e che ora viene usata come uno strumento di egemonia mondiale da parte di Washington. Perché gli europei vogliono morire per favorire l’egemonia mondiale di Washington? Ciò significa che gli europei stessi stanno morendo a causa di questa egemonia (esercitata allo stesso modo sull’Europa). Perché gli europei vogliono sostenere Washington, i cui alti funzionari, come Victoria Nuland, dicono “l’Unione Europea si fotta”? Gli europei stanno già soffrendo a causa delle sanzioni economiche che il loro signore a Washington li ha costretti ad applicare nei confronti della Russia e dell’Iran. Perché gli europei desiderano essere distrutti da una guerra contro la Russia? Gli europei vogliono forse morire?Sono stati americanizzati e non apprezzano più l’enorme quantità di bellezze artistiche e architettoniche, letterarie e musicali di cui i loro paesi sono custodi? La risposta è che non fa alcuna differenza che cosa pensino gli europei, perché Washington ha istituito per loro un governo che è totalmente indipendente dalla loro volontà. Il governo dell’Ue è tenuto a rispondere solo per il denaro di Washington. Alcune persone capaci di emettere editti sono sul libro paga di Washington. Gli interi popoli d’Europa sono servi di Washington. Pertanto, se gli europei rimangono i popoli creduloni, indifferenti e stupidi che attualmente sono, verranno condannati, assieme al resto di noi. D’altra parte, se i popoli europei saranno in grado di rinsavire, di liberarsi dalla Matrix che Washington ha imposto su di loro, e di rivoltarsi contro gli agenti di Washington che li controllano, i popoli europei potranno salvare la propria vita e la vita di tutti noi.
(Paul Craig Roberts, “L’Ue è condannata al vassallaggio nei confronti di Washington”, dal blog di Craig Roberts del 27 luglio 2016, tradotto da “Desastrado” per “Come Don Chisciotte”. Eminente analista ed economista statunitense, Roberts è stato viceministro del Tesoro con Ronald Reagan).
Essendo stato Roberts, anche viceministro del Tesoro con Ronald Reagan.
Se qualcuno sa', o intuisce il perché e ce lo fa sapere. non posso che ringraziarlo anticipatamente.
LIBRE news
Craig Roberts: sembra Ue, ma è Cia. Il suo veleno? L’euro
Scritto il 10/8/16 • nella Categoria: idee Condividi
“Un anello per domarli tutti… e nel buio incatenarli” (J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”). La Seconda Guerra Mondiale è finita con la conquista dell’Europa, non da parte di Berlino, ma da parte di Washington. La conquista era certa, ma non la si poteva ottenere tutta in una volta. La conquista di Washington dell’Europa è avvenuta grazie al Piano Marshall, alla paura dell’Armata Rossa di Stalin (che ha portato l’Europa a fare affidamento sulla protezione di Washington e a subordinare le forze armate europee agli Stati Uniti, all’interno della Nato), alla sostituzione della sterlina con il dollaro Usa come valuta di riserva mondiale e al lungo processo di subordinazione della sovranità dei singoli paesi europei verso l’Unione Europea, un’iniziativa della Cia attuata da Washington per controllare tutta l’Europa attraverso un solo e irresponsabile governo. Con poche eccezioni, principalmente il Regno Unito, l’adesione all’Unione Europea ha significato anche la perdita di indipendenza finanziaria. Dato che solo la Banca Centrale Europea è in grado di creare euro, quei paesi così sciocchi da accettarlo come valuta non hanno più avuto il potere di creare il proprio denaro per finanziare i deficit di bilancio.I paesi che hanno aderito all’euro devono fare affidamento su banche private per finanziare i loro deficit. Il risultato è che i paesi indebitati non possono più pagare i loro debiti con la creazione di denaro o sperare che questi debiti vengano abbassati a livelli che possono tenere sotto controllo. Invece, Grecia, Portogallo, Lettonia e Irlanda sono state saccheggiate dalle banche private. L’Ue ha costretto gli pseudo-governi di questi paesi a pagare le banche private del Nord Europa soffocando il tenore di vita delle loro popolazioni e privatizzando i beni pubblici svendendoli per due soldi rispetto al loro valore originale. Così le pensioni di anzianità, il pubblico impiego, l’istruzione e la sanità sono stati tagliati e il denaro reindirizzato alle banche private. Le aziende idriche municipali sono state privatizzate con il risultato che le bollette dell’acqua sono più elevate. E così via. Poiché non vi è alcuna ricompensa, solo punizioni, per essere un membro della Ue, perché i governi, nonostante i desideri espressi dei loro popoli, si uniscono?La risposta è che Washington ha voluto che non vi fossero altre possibilità. I fondatori europei della Ue sono creature mitiche. Washington ha utilizzato i politici pilotandoli nella creazione dell’Unione Europea. Alcuni anni fa sono stati rilasciati dei documenti della Cia che dimostrano che l’Ue è stata un’iniziativa della Cia stessa. Nel 1970 il presidente per la discussione della tesi del mio dottorato di ricerca, divenuto poi un funzionario di alto rango a Washington addetto al controllo degli affari di sicurezza internazionale, mi ha chiesto di intraprendere una missione delicata all’estero. Ho rifiutato. Tuttavia, egli ha risposto alla mia domanda: «Come fa Washington a fare in modo che i paesi stranieri facciano ciò che Washington vuole?». «Soldi», ha detto. «Diamo ai loro leader borse piene di soldi. Appartengono a noi». E’ chiaro che l’Ue serve gli interessi di Washington, non gli interessi dell’Europa. Ad esempio, il popolo francese e il governo sono contrari agli Ogm, ma l’Ue consente una “autorizzazione di mercato precauzionale” di introduzione degli Ogm, contando forse sulle “scoperte scientifiche” degli scienziati sul libro paga della Monsanto.Quando lo Stato americano del Vermont ha approvato una legge che impone l’etichettatura degli alimenti Ogm, la Monsanto gli ha fatto causa. Una volta che i funzionari dell’Ue, pagati di nascosto, firmeranno l’accordo Ttip scritto dalle multinazionali degli Stati Uniti, la Monsanto si impadronirà dell’agricoltura europea. Ma il pericolo per l’Europa va ben oltre la salute dei popoli europei, che saranno costretti a nutrirsi di cibi velenosi. Washington sta usando l’Ue per costringere gli europei a entrare in conflitto con la Russia, una potenza nucleare in grado di distruggere tutta l’Europa e tutti gli Stati Uniti in pochi minuti. Ciò sta accadendo perché i “leader” europei, pagati di nascosto con “borse piene di denaro”, hanno preferito avere il denaro di Washington nel breve periodo piuttosto che garantire la vita degli europei nel lungo periodo. Non è possibile che qualsiasi politico europeo sia sufficientemente idiota da credere che sia stata la Russia a invadere l’Ucraina, che la Russia da un momento all’altro invaderà la Polonia e gli Stati baltici, o che Putin sia un “nuovo Hitler” che progetta di ricostruire l’impero sovietico. Queste accuse assurde non sono altro che propaganda di Washington priva di qualsiasi verità. Tutto ciò è evidente. Nemmeno un idiota potrebbe crederci. Eppure l’Unione Europea va di pari passo con la propaganda, come fa la Nato. Perché?La risposta è il denaro di Washington. L’Ue e la Nato sono assolutamente corrotte. Sono le puttane ben pagate di Washington. L’unico modo che gli europei hanno per impedire una Terza Guerra Mondiale nucleare, e continuare a vivere e godere di ciò che resta della loro cultura (che gli americani non sono riusciti a distruggere con la loro cultura di sesso, violenza e avidità) è, per i governi europei, quello di seguire l’esempio del governo inglese e uscire dall’Unione Europea creata dalla Cia. E l’uscita dalla Nato, il cui scopo è evaporato con il crollo dell’Unione Sovietica, e che ora viene usata come uno strumento di egemonia mondiale da parte di Washington. Perché gli europei vogliono morire per favorire l’egemonia mondiale di Washington? Ciò significa che gli europei stessi stanno morendo a causa di questa egemonia (esercitata allo stesso modo sull’Europa). Perché gli europei vogliono sostenere Washington, i cui alti funzionari, come Victoria Nuland, dicono “l’Unione Europea si fotta”? Gli europei stanno già soffrendo a causa delle sanzioni economiche che il loro signore a Washington li ha costretti ad applicare nei confronti della Russia e dell’Iran. Perché gli europei desiderano essere distrutti da una guerra contro la Russia? Gli europei vogliono forse morire?Sono stati americanizzati e non apprezzano più l’enorme quantità di bellezze artistiche e architettoniche, letterarie e musicali di cui i loro paesi sono custodi? La risposta è che non fa alcuna differenza che cosa pensino gli europei, perché Washington ha istituito per loro un governo che è totalmente indipendente dalla loro volontà. Il governo dell’Ue è tenuto a rispondere solo per il denaro di Washington. Alcune persone capaci di emettere editti sono sul libro paga di Washington. Gli interi popoli d’Europa sono servi di Washington. Pertanto, se gli europei rimangono i popoli creduloni, indifferenti e stupidi che attualmente sono, verranno condannati, assieme al resto di noi. D’altra parte, se i popoli europei saranno in grado di rinsavire, di liberarsi dalla Matrix che Washington ha imposto su di loro, e di rivoltarsi contro gli agenti di Washington che li controllano, i popoli europei potranno salvare la propria vita e la vita di tutti noi.
(Paul Craig Roberts, “L’Ue è condannata al vassallaggio nei confronti di Washington”, dal blog di Craig Roberts del 27 luglio 2016, tradotto da “Desastrado” per “Come Don Chisciotte”. Eminente analista ed economista statunitense, Roberts è stato viceministro del Tesoro con Ronald Reagan).
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Re: La crisi dell'Europa
CRAIG ROBERTS, NEL MARZO SCORSO AVEVA SCRITTO QUANTO SOTTO, NEI CONFRONTI DEI MEDIA MADE IN USA:
Dal Garzanti:
mainstream
/ main·stream] n.
1. corrente (f.) principale (anche fig.): their way of life differs radically from the —, il loro modo di vivere differisce profondamente da quello comune
2. (mus.)— (jazz), mainstream (m.).
^^^^^
Dal Dizionario Italiano-Inglese di Repubblica:
mainstream
s.m. inv.
1 MUS Nel jazz, stile intermedio fra il tradizionale e il moderno, dominante nel periodo dagli anni Trenta agli anni Cinquanta
|| Nella musica popolare moderna, tendenza a rifarsi, all'interno di un determinato stile, ai classici del genere
2 estens. Tendenza dominante: m. cinematografico
|| LETTER Corrente letteraria dominante di un determinato periodo
^^^^^^^
LIBRE news
Craig Roberts: i media sanno che la verità ufficiale è falsa
Scritto il 12/3/16 • nella Categoria: segnalazioni
Gli americani vivono in una falsa realtà, creata con fatti inventati. «La maggior parte delle persone consapevoli e capaci di pensare hanno rinunciato a credere al sistema chiamato “media mainstream”». E le “presstitutes”, gli organi di stampa “prostituiti al potere” «hanno perso la loro credibilità pur di aiutare Washington a mentire», sostiene un autorevolissimo analista come Paul Craig Roberts, economista e politologo, già viceministro di Ronald Reagan. Il piano? Diffondere crescente insicurezza, in un vista di una svolta autoritaria. E’ un po’ uno schema che si va ripetendo, sia a livello nazionale che internazionale: le “armi di distruzione di massa” di Saddam, il “nucleare iraniano”, e poi l’uso delle armi chimiche attribuito ad Assad e “l’invasione russa” dell’Ucraina”. Dai media, solo la versione ufficiale, su tutto: l’11 Settembre, le bombe sulla maratona di Boston, le «presunte sparatorie sulle masse, come Sandy Hook e San Bernardino». Nonostante «le incongruenze lampanti, le contraddizioni e i fallimenti dei sistemi di sicurezza che sembrano troppo improbabili per essere credibili – aggiunge Roberts – i media mainstream non si fanno domande e non indagano: si limitano a raccontare, come un dato di fatto, tutto quello che dicono le autorità».Il segno di uno Stato totalitario o autoritario, scrive Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, si ha quando i media non sentono più la responsabilità di dover indagare per cercare la verità, accettando invece il ruolo del propagandista. «Negli Stati Uniti la trasformazione dei giornalisti in propagandisti si è completata con la concentrazione di un sistema che era formato da parecchi media indipendenti in sei mega-società che ormai non sono più gestite da giornalisti». Di conseguenza, le persone più avvedute «fanno affidamento sempre più su media alternativi, quelli che si fanno domande, che seguono la logica dei fatti e che offrono analisi al posto di una linea ufficiale con storie incredibili». Il primo esempio fu l’11 Settembre, in cui la versione ufficiale è stata smontata da centinaia di esperti e tecnici. Nonostante ciò, grazie ai media, la versione ufficiale regge ancora: «Dobbiamo credere che alcuni sauditi, senza nessuna tecnologia che potesse andare oltre il coltellino da tasca e senza nessun appoggio dei servizi segreti di nessun governo, siano stati tanto abili da superare in astuzia la tecnologia di sorveglianza di massa creata dalla Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) e dalla Nsa (National Security Agency) e che siano stati capaci di affondare il colpo più umiliante mai subito da una superpotenza in tutta la storia umana».Invece di mettersi alla guida delle indagini su un fallimento tanto massiccio della sicurezza, la Casa Bianca ha continuato a resistere per più di un anno prima di cedere alle richieste delle famiglie delle vittime delle Torri Gemelle, e solo allora ha accettato di nominare una commissione d’inchiesta, che però «non investigò, ma semplicemente si insediò e scrisse la stessa storia che aveva raccontato il governo», anche se poi gli stessi protagonisti della commissione – presidente, co-presidente e consulenti legali – hanno scritto libri in cui si dichiara che ogni informazione era stata negata alla commissione, che i funzionari governativi avevano mentito e che la Commissione «era stata istituita per fallire». Eppure, le “presstitutes” ancora ripetono la stessa propaganda ufficiale, «e ci sono abbastanza americani che ci credono, tanto da evitare che debbano essere riconosciute le vere responsabilità». Continua Craig Roberts: «Qualsiasi storico competente sa che vengono usati degli eventi “false flag” per portare a compimento gli ordini del giorno che, altrimenti, non potrebbro essere raggiunti». L’11 Settembre? «Diede ai neocon, che controllavano l’amministrazione Bush, una nuova Pearl Harbor che, dicevano, era necessaria per lanciare le loro invasioni militari egemoniche sui paesi musulmani».E le bombe alla maratona di Boston? «Hanno permesso di testare la polizia americana», verificando «come si può isolare totalmente una grande città, mandando per le strade 10.000 soldati armati e squadre speciali con truppe che facevano perquisizioni casa per casa costringendo, con le armi, gli abitanti a lasciare le loro case». Una operazione senza precedenti, «giustificata come necessaria per trovare un ragazzino di 19 anni, ferito, che era chiaramente un capro espiatorio». In mezzo, un’infinità di anomalie, a cui nessuno si cura di dare una spiegazione. In un video, realizzato montando le copertine dei telegiornali, compare un uomo in lutto per la perdita del figlio. E’ la stessa persona che, in altre immagini, indossa l’uniforme delle squadre speciali Swat mentre è intenta a seguire la sparatoria di Sandy Hook. Si tratta di un attore conosciuto, scrive Roberts, che interpreta parti diverse: «Dobbiamo chiederci il perché di questo falso». I primi che dovrebbero farlo sono proprio i media, ma non lo fanno. Insieme a Mike Palecek, il professor Jim Fetzer ha scritto in un libro che Sandy Hook sarebbe stato un esperimento della Fema per promuovere il controllo delle armi. Si dice anche che non sia morto nessuno, a Sandy Hook. «Il libro era disponibile su Amazon, ma è stato improvvisamente vietato. Perché vietare un libro?».«Se le informazioni fornite da Fetzer sono corrette – aggiunge Craig Roberts – risulta chiaramente che il governo degli Stati Uniti sta mettendo in atto un’agenda di lavori autoritaria e che sta usando eventi orchestrati ad arte per mostre una falsa realtà agli americani, per raggiungere gli obiettivi della sua agenda». Fetzer «non può essere liquidato come un semplice folle: è uno che si è laureato con lode all’università di Princeton, ha un dottorato di ricerca dell’Indiana University ed è stato “distinguished professor” alla McKnight University del Minnesota fino al suo pensionamento nel 2006. Ha avuto una borsa di studio della National Science Foundation e ha pubblicato più di 100 articoli e 20 libri di filosofia della scienza. E’ esperto di intelligenza articiale e di “computer science”, ha anche fondato la rivista internazionale “Minds and Machines”».Per una persona di media intelligenza, continua Craig Roberts, sia la storia ufficiale dell’assassinio del presidente Kennedy che quella dell’11 Settembre semplicemente non sono credibili, perché le storie ufficiali non sono coerenti con le prove. «Quello che mi disturba è che nessuno, né tra le autorità né tra i media mainstream, mostra un minimo interesse a controllare i fatti. Invece, quelli che hanno tirato fuori delle questioni scomode vengono additati come teorici della cospirazione». Sappiamo dall’Operazione Gladio e dall’Operazione Northwoods che i governi «si invischiano in cospirazioni criminali contro i propri cittadini: pertanto, il vero errore è concludere che i governi non si impegnino nelle cospirazioni». Spesso, si sente qualcuno che obietta che se l’11 Settembre fosse stato un attacco “false flag”, qualcuno avrebbe parlato. «Perché avrebbero dovuto parlare? Dovrebbe sapere qualcosa solo chi ha organizzato la cospirazione. E allora perché dovrebbe far venire altri dubbi su quella che è stata una sua congiura?».Ricordiamoci di William Binney, l’uomo che sviluppò il sistema di sorveglianza utilizzato dalla Nsa. Quando si rese conto che il suo sistema veniva usato contro il popolo americano, Binney si mise a parlare. «Ma non si era preso nessun documento con cui poter provare le sue affermazioni, cosa che lo salvò dall’essere condannato ma che non gli permise di produrre nessuna prova su quanto diceva», scrive Roberts. «Questo è il motivo per cui Edward Snowden si è preso tutti i documenti e li ha resi pubblici. Tuttavia, molti vedono Snowden come una spia, come uno che ha rubato dei segreti sulla sicurezza nazionale, non lo vedono come uno che ha saputo avvertirci che la Costituzione – quella cosa che ci protegge – è stata ribaltata».Funzionari governativi di alto livello hanno smentito varie parti della storia ufficiale sia dell’11 Settembre che della versione ufficiale che lega l’attentato alle Twin Towers all’invasione dell’Iraq, attraverso la fiaba delle “armi di distruzione di massa”. Il segretario ai trasporti, Norman Mineta, smentì il vicepresidente Cheney e la tempistica della storia ufficiale dell’11 Settembre, ricorda Craig Roberts. E il segretario del Tesoro, Paul O’Neill, affermò che il rovesciamento di Saddam Hussein fu oggetto della prima riunione di gabinetto dell’amministrazione di George W. Bush, molto prima dell’11 Settembre. Lo scrisse in un libro e lo disse a “Cbs News”. Anche la Cnn e altri organi di stampa ne parlarono, ma la cosa non ebbe nessun effetto. Gli informatori – quelli veri – pagano un caro prezzo e molti finiscono in carcere. «Obama ne ha perseguito e incarcerato un numero record. Una volta che li hanno buttati in galera, la domanda diventa: “Chi avrebbe creduto a un criminale?”».Per quanto riguarda l’11 Settembre, aggiunge Craig Roberts, hanno parlato persone di ogni tipo: oltre 100 poliziotti, vigili del fuoco e altri soccorritori hanno riferito di aver nettamente percepito un gran numero di esplosioni nelle Torri. Il personale della manutenzione ha raccontato di enormi esplosioni avvenute negli scantinati appena prima che gli edifici fossero colpiti dagli aerei. Ma nulla da fare: «Niente di tutte queste testimonianze ha avuto qualche effetto né con le autorità che erano dietro la storia ufficiale, né con le “presstitutes”». Ci sono 2.300 architetti e ingegneri che hanno scritto al Congresso chiedendo di aprire una vera indagine, ma invece di accogliere la richiesta con il rispetto che meritano 2.300 professionisti, sono stati liquidati come “teorici della cospirazione”. E ancora: una tavola internazionale di scienziati ha segnalato la presenza di un potentissimo esplosivo come la nanotermite nelle polveri del World Trade Center. Hanno offerto dei campioni alle agenzie governative e agli scienziati, per ottenere conferma. Ma nessuno potrà toccare quei reperti. «Il motivo è chiaro: oggi i finanziamenti per la scienza sono fortemente dipendenti dal governo federale e dalle aziende private che hanno contratti federali. Gli scienziati sanno bene che tirare fuori qualcosa sull’11 Settembre significa la fine della carriera».Il governo americano, conclude Craig Roberts, ci ha reso proprio come voleva: impotenti e disinformati, completamente privi di strumenti per capire quello che sta realmente accadendo, sulla nostra pelle. «La maggior parte degli americani sono troppo ignoranti per essere in grado di comprendere la differenza tra un edificio che crolla per danni strutturali (per asimmetria) e edifici che invece saltano in aria. I giornalisti mainstream non possono fare domante o fare indagini e contemporaneamente mantenersi il posto di lavoro. Gli scienziati non possono parlare se vogliono continuare ad essere finanziati». E così., sintetizza amaramente l’ex viceministro di Reagan, «dire la verità è un compito che ormai si permettono solo i media Internet alternativi, tra i quali io scommetto che il governo sta gestendo dei siti che gridano selvaggiamente alle cospirazioni, con il vero scopo di screditare tutti gli altri siti, quelli scettici».
Dal Garzanti:
mainstream
/ main·stream] n.
1. corrente (f.) principale (anche fig.): their way of life differs radically from the —, il loro modo di vivere differisce profondamente da quello comune
2. (mus.)— (jazz), mainstream (m.).
^^^^^
Dal Dizionario Italiano-Inglese di Repubblica:
mainstream
s.m. inv.
1 MUS Nel jazz, stile intermedio fra il tradizionale e il moderno, dominante nel periodo dagli anni Trenta agli anni Cinquanta
|| Nella musica popolare moderna, tendenza a rifarsi, all'interno di un determinato stile, ai classici del genere
2 estens. Tendenza dominante: m. cinematografico
|| LETTER Corrente letteraria dominante di un determinato periodo
^^^^^^^
LIBRE news
Craig Roberts: i media sanno che la verità ufficiale è falsa
Scritto il 12/3/16 • nella Categoria: segnalazioni
Gli americani vivono in una falsa realtà, creata con fatti inventati. «La maggior parte delle persone consapevoli e capaci di pensare hanno rinunciato a credere al sistema chiamato “media mainstream”». E le “presstitutes”, gli organi di stampa “prostituiti al potere” «hanno perso la loro credibilità pur di aiutare Washington a mentire», sostiene un autorevolissimo analista come Paul Craig Roberts, economista e politologo, già viceministro di Ronald Reagan. Il piano? Diffondere crescente insicurezza, in un vista di una svolta autoritaria. E’ un po’ uno schema che si va ripetendo, sia a livello nazionale che internazionale: le “armi di distruzione di massa” di Saddam, il “nucleare iraniano”, e poi l’uso delle armi chimiche attribuito ad Assad e “l’invasione russa” dell’Ucraina”. Dai media, solo la versione ufficiale, su tutto: l’11 Settembre, le bombe sulla maratona di Boston, le «presunte sparatorie sulle masse, come Sandy Hook e San Bernardino». Nonostante «le incongruenze lampanti, le contraddizioni e i fallimenti dei sistemi di sicurezza che sembrano troppo improbabili per essere credibili – aggiunge Roberts – i media mainstream non si fanno domande e non indagano: si limitano a raccontare, come un dato di fatto, tutto quello che dicono le autorità».Il segno di uno Stato totalitario o autoritario, scrive Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, si ha quando i media non sentono più la responsabilità di dover indagare per cercare la verità, accettando invece il ruolo del propagandista. «Negli Stati Uniti la trasformazione dei giornalisti in propagandisti si è completata con la concentrazione di un sistema che era formato da parecchi media indipendenti in sei mega-società che ormai non sono più gestite da giornalisti». Di conseguenza, le persone più avvedute «fanno affidamento sempre più su media alternativi, quelli che si fanno domande, che seguono la logica dei fatti e che offrono analisi al posto di una linea ufficiale con storie incredibili». Il primo esempio fu l’11 Settembre, in cui la versione ufficiale è stata smontata da centinaia di esperti e tecnici. Nonostante ciò, grazie ai media, la versione ufficiale regge ancora: «Dobbiamo credere che alcuni sauditi, senza nessuna tecnologia che potesse andare oltre il coltellino da tasca e senza nessun appoggio dei servizi segreti di nessun governo, siano stati tanto abili da superare in astuzia la tecnologia di sorveglianza di massa creata dalla Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) e dalla Nsa (National Security Agency) e che siano stati capaci di affondare il colpo più umiliante mai subito da una superpotenza in tutta la storia umana».Invece di mettersi alla guida delle indagini su un fallimento tanto massiccio della sicurezza, la Casa Bianca ha continuato a resistere per più di un anno prima di cedere alle richieste delle famiglie delle vittime delle Torri Gemelle, e solo allora ha accettato di nominare una commissione d’inchiesta, che però «non investigò, ma semplicemente si insediò e scrisse la stessa storia che aveva raccontato il governo», anche se poi gli stessi protagonisti della commissione – presidente, co-presidente e consulenti legali – hanno scritto libri in cui si dichiara che ogni informazione era stata negata alla commissione, che i funzionari governativi avevano mentito e che la Commissione «era stata istituita per fallire». Eppure, le “presstitutes” ancora ripetono la stessa propaganda ufficiale, «e ci sono abbastanza americani che ci credono, tanto da evitare che debbano essere riconosciute le vere responsabilità». Continua Craig Roberts: «Qualsiasi storico competente sa che vengono usati degli eventi “false flag” per portare a compimento gli ordini del giorno che, altrimenti, non potrebbro essere raggiunti». L’11 Settembre? «Diede ai neocon, che controllavano l’amministrazione Bush, una nuova Pearl Harbor che, dicevano, era necessaria per lanciare le loro invasioni militari egemoniche sui paesi musulmani».E le bombe alla maratona di Boston? «Hanno permesso di testare la polizia americana», verificando «come si può isolare totalmente una grande città, mandando per le strade 10.000 soldati armati e squadre speciali con truppe che facevano perquisizioni casa per casa costringendo, con le armi, gli abitanti a lasciare le loro case». Una operazione senza precedenti, «giustificata come necessaria per trovare un ragazzino di 19 anni, ferito, che era chiaramente un capro espiatorio». In mezzo, un’infinità di anomalie, a cui nessuno si cura di dare una spiegazione. In un video, realizzato montando le copertine dei telegiornali, compare un uomo in lutto per la perdita del figlio. E’ la stessa persona che, in altre immagini, indossa l’uniforme delle squadre speciali Swat mentre è intenta a seguire la sparatoria di Sandy Hook. Si tratta di un attore conosciuto, scrive Roberts, che interpreta parti diverse: «Dobbiamo chiederci il perché di questo falso». I primi che dovrebbero farlo sono proprio i media, ma non lo fanno. Insieme a Mike Palecek, il professor Jim Fetzer ha scritto in un libro che Sandy Hook sarebbe stato un esperimento della Fema per promuovere il controllo delle armi. Si dice anche che non sia morto nessuno, a Sandy Hook. «Il libro era disponibile su Amazon, ma è stato improvvisamente vietato. Perché vietare un libro?».«Se le informazioni fornite da Fetzer sono corrette – aggiunge Craig Roberts – risulta chiaramente che il governo degli Stati Uniti sta mettendo in atto un’agenda di lavori autoritaria e che sta usando eventi orchestrati ad arte per mostre una falsa realtà agli americani, per raggiungere gli obiettivi della sua agenda». Fetzer «non può essere liquidato come un semplice folle: è uno che si è laureato con lode all’università di Princeton, ha un dottorato di ricerca dell’Indiana University ed è stato “distinguished professor” alla McKnight University del Minnesota fino al suo pensionamento nel 2006. Ha avuto una borsa di studio della National Science Foundation e ha pubblicato più di 100 articoli e 20 libri di filosofia della scienza. E’ esperto di intelligenza articiale e di “computer science”, ha anche fondato la rivista internazionale “Minds and Machines”».Per una persona di media intelligenza, continua Craig Roberts, sia la storia ufficiale dell’assassinio del presidente Kennedy che quella dell’11 Settembre semplicemente non sono credibili, perché le storie ufficiali non sono coerenti con le prove. «Quello che mi disturba è che nessuno, né tra le autorità né tra i media mainstream, mostra un minimo interesse a controllare i fatti. Invece, quelli che hanno tirato fuori delle questioni scomode vengono additati come teorici della cospirazione». Sappiamo dall’Operazione Gladio e dall’Operazione Northwoods che i governi «si invischiano in cospirazioni criminali contro i propri cittadini: pertanto, il vero errore è concludere che i governi non si impegnino nelle cospirazioni». Spesso, si sente qualcuno che obietta che se l’11 Settembre fosse stato un attacco “false flag”, qualcuno avrebbe parlato. «Perché avrebbero dovuto parlare? Dovrebbe sapere qualcosa solo chi ha organizzato la cospirazione. E allora perché dovrebbe far venire altri dubbi su quella che è stata una sua congiura?».Ricordiamoci di William Binney, l’uomo che sviluppò il sistema di sorveglianza utilizzato dalla Nsa. Quando si rese conto che il suo sistema veniva usato contro il popolo americano, Binney si mise a parlare. «Ma non si era preso nessun documento con cui poter provare le sue affermazioni, cosa che lo salvò dall’essere condannato ma che non gli permise di produrre nessuna prova su quanto diceva», scrive Roberts. «Questo è il motivo per cui Edward Snowden si è preso tutti i documenti e li ha resi pubblici. Tuttavia, molti vedono Snowden come una spia, come uno che ha rubato dei segreti sulla sicurezza nazionale, non lo vedono come uno che ha saputo avvertirci che la Costituzione – quella cosa che ci protegge – è stata ribaltata».Funzionari governativi di alto livello hanno smentito varie parti della storia ufficiale sia dell’11 Settembre che della versione ufficiale che lega l’attentato alle Twin Towers all’invasione dell’Iraq, attraverso la fiaba delle “armi di distruzione di massa”. Il segretario ai trasporti, Norman Mineta, smentì il vicepresidente Cheney e la tempistica della storia ufficiale dell’11 Settembre, ricorda Craig Roberts. E il segretario del Tesoro, Paul O’Neill, affermò che il rovesciamento di Saddam Hussein fu oggetto della prima riunione di gabinetto dell’amministrazione di George W. Bush, molto prima dell’11 Settembre. Lo scrisse in un libro e lo disse a “Cbs News”. Anche la Cnn e altri organi di stampa ne parlarono, ma la cosa non ebbe nessun effetto. Gli informatori – quelli veri – pagano un caro prezzo e molti finiscono in carcere. «Obama ne ha perseguito e incarcerato un numero record. Una volta che li hanno buttati in galera, la domanda diventa: “Chi avrebbe creduto a un criminale?”».Per quanto riguarda l’11 Settembre, aggiunge Craig Roberts, hanno parlato persone di ogni tipo: oltre 100 poliziotti, vigili del fuoco e altri soccorritori hanno riferito di aver nettamente percepito un gran numero di esplosioni nelle Torri. Il personale della manutenzione ha raccontato di enormi esplosioni avvenute negli scantinati appena prima che gli edifici fossero colpiti dagli aerei. Ma nulla da fare: «Niente di tutte queste testimonianze ha avuto qualche effetto né con le autorità che erano dietro la storia ufficiale, né con le “presstitutes”». Ci sono 2.300 architetti e ingegneri che hanno scritto al Congresso chiedendo di aprire una vera indagine, ma invece di accogliere la richiesta con il rispetto che meritano 2.300 professionisti, sono stati liquidati come “teorici della cospirazione”. E ancora: una tavola internazionale di scienziati ha segnalato la presenza di un potentissimo esplosivo come la nanotermite nelle polveri del World Trade Center. Hanno offerto dei campioni alle agenzie governative e agli scienziati, per ottenere conferma. Ma nessuno potrà toccare quei reperti. «Il motivo è chiaro: oggi i finanziamenti per la scienza sono fortemente dipendenti dal governo federale e dalle aziende private che hanno contratti federali. Gli scienziati sanno bene che tirare fuori qualcosa sull’11 Settembre significa la fine della carriera».Il governo americano, conclude Craig Roberts, ci ha reso proprio come voleva: impotenti e disinformati, completamente privi di strumenti per capire quello che sta realmente accadendo, sulla nostra pelle. «La maggior parte degli americani sono troppo ignoranti per essere in grado di comprendere la differenza tra un edificio che crolla per danni strutturali (per asimmetria) e edifici che invece saltano in aria. I giornalisti mainstream non possono fare domante o fare indagini e contemporaneamente mantenersi il posto di lavoro. Gli scienziati non possono parlare se vogliono continuare ad essere finanziati». E così., sintetizza amaramente l’ex viceministro di Reagan, «dire la verità è un compito che ormai si permettono solo i media Internet alternativi, tra i quali io scommetto che il governo sta gestendo dei siti che gridano selvaggiamente alle cospirazioni, con il vero scopo di screditare tutti gli altri siti, quelli scettici».
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Re: La crisi dell'Europa
Con la Lira avresti tassi di inflazione molto alti (e stavolta non c'è la scala mobile a pararti il di dietro), mutui e prestiti a tassi a due cifre, costi delle materie prime in aumento e nessuna svalutazione competitiva stile anni '80 ti potrebbe salvare vista la concorrenza spietata della globalizzazione. Ripeto è la globalizzazione selvaggia a uso e consumo delle multinazionali che ci sta uccidendo non l'Euro.pancho ha scritto:Caro Maucat, e' tutto da vedere se sia peggio o meglio essere nell'euro.Maucat ha scritto:Non è vero, il cambio della SEK (intorno a 9/9,50) e della DKK (7/7,50) è praticamente stabile dal 2002 dato che pur non essendo nell'Euro hanno delle bande di oscillazione ridotte con la moneta unica e quindi i dissesti non sono dovuti all'Euro ma alla particolare dipendenza dell'economia finlandese da poche aziende che sono entrate in crisi.
Basta attaccare l'Euro per colpe non sue, la moneta ha dei difetti ma essi sono dovuti al fatto che non ci sono gli Eurobond e la compensazione federale come negli USA.
Se la Finlandia tornasse alla Markka (così come se l'Italia tornasse alla Lira) peggiorerebbe ulteriormente la sua situazione.
Il problema reale è nel fallimento della globalizzazione che come ha ammesso uno studio Mc Kinsey ha impoverito circa il 70% delle famiglia europee occidentali e nordamericane (lì è andata lievamente meno peggio grazie agli sgravi fiscali che però hanno profondamente aggravato il deficit pubblico USA). La diseguaglianza economica cresce e con essa la repulsione verso la globalizzazione e le istituzioni sovranazionali.
Andrà profondamente ripensata la politica economica mondiale degli ultimi 10 anni prima che le conseguenze sfocino in eventi indesiderati.
Da come stanno le cose attualmente e da come continua a funzionare questa europa dell'Euro le critiche superano le positive.
Non che sia contro ai valori iniziali sul come doveva essere questa nuova Europa ma visto come l'hanno voluta funzionare io non ci sto più ed e' inutile continuare a dire che dovremmo invece farla funzionare bene.
Se le classi dominanti con tutte le loro lobbies cercano in tutti i modi di far vedere che e' la soluzione migliore, non puo che venirti un dubbio visto che il popolo ha dei riscontri diversi.
Non e' sufficiente dire che ha scongiurato le guerre "guerreggiate" poiche non e' vero!!
Le guerre ora vengono fatte in modo diverso e cioe' finanziarie e queste distruggono più di una guerra fatta con le armi.
Io NON CI STO PIU' e non voglio più aspettare.
Il tempo e' scaduto e non voglio farmelo mettere ancora in quel posto che poi sara lo stesso posto per i miei figli e nipoti. BASTAAAA!!!
un salutone
Ciao
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Re: La crisi dell'Europa
conte camillo cosa sta succedendo ?
e in corso un importante dibattito sul ruolo dello stato nazione e reddito minimo garantito
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È la nazione-Stato ei suoi Welfare State morto? Una critica Varoufakis
da Vicente Navarro il 4 agosto 2016 (parte 1)
Ho sempre letto gli scritti di Mr. Varoufakis con grande interesse, e io spesso mi trovo d'accordo, in particolare nella sua critica della Troika (Fondo monetario internazionale, della Commissione europea e Banca centrale europea) e dell'Eurogruppo (i Ministri economia e delle Finanze dell'Unione europea). Ho anche d'accordo con il suo appello per una mobilitazione a livello europeo per imporre la democrazia alle istituzioni che governano l'Unione europea, anche se sono d'accordo con il suo modo proposto di farlo. Egli ritiene (a torto, credo) che il potere degli Stati-nazione è praticamente scomparsa nella UE. Essi non contano più. Sulla base della sua esperienza greca, quando ha rappresentato il governo Syriza nei negoziati con la troika, egli conclude che gli Stati-nazione non hanno alcun potere. Secondo Varoufakis, governi e ai parlamenti di questi Stati-nazione sono state trasformate in semplici cinghie di trasmissione di tutto ciò che è deciso dalla Troika e istituzioni associate. Egli scrive in una delle sue recenti pubblicazioni che "i governi europei trasmettono ai parlamenti tutto ciò che viene deciso a livello europeo (Commissione europea o il Consiglio europeo) e ai parlamenti svolgono qualunque istruzioni che hanno ricevuto da quelle istituzioni" (Yanis Varoufakis e Gerard Pisarello, un piano per l'Europa, p. 89).
Ci sono alternative
Inutile dire che i parlamenti sono fortemente limitata da queste istituzioni. Non vi è alcun disaccordo su questo punto. Ma è esagerato dire che hanno perso tutto il loro potere. Ed è sbagliato accettare che governi e ai parlamenti applicate le politiche di austerità (con tagli nel welfare), sostenendo di non avere altra scelta. Ad esempio, il governo socialista guidato dal presidente Zapatero in Spagna potrebbe, per ridurre i deficit pubblici, tagliate la spesa pubblica o aumentare le tasse. Presidente Zapatero ha scelto la prima per evitare il secondo. Ha tagliato le pensioni pubbliche per ottenere 1.200 milioni di €, quando avrebbe potuto ottenere ancora di più (2.000 milioni di €) invertendo le tasse di proprietà. Lo stesso con il Presidente Rajoy del Partito Popolare conservatore. Ha tagliato 6.000 milioni di € da parte del Servizio Sanitario Nazionale, quando avrebbe potuto ottenere quasi la stessa quantità invertendo tagli sulle imposte societarie. I parlamenti non ancora hanno il potere, tra cui il potere di mettere in discussione le politiche di austerità. Abbiamo visto come il governo portoghese si è fermato l'applicazione delle politiche di austerità imposte dalla Commissione Europea.
I cambiamenti nella UE dovranno includere, oltre mobilitazioni a livello europeo che Varoufakis sostenitori, risposte da coalizioni di Stati-nazione contro le politiche imposte dalle istituzioni che governano la zona euro. E 'un errore di accettare la giustificazione che conservatori, liberali e molti governi socialdemocratici danno quando attuano tagli altamente impopolari di spesa, cioè pubblici e sociali non esistono alternative. Hanno alternative che non sono disposti ad ammettere. In realtà, molti di questi governi (in particolare quelli liberali e conservatori) stanno ottenendo, attraverso politiche impopolari, ciò che hanno sempre desiderato: ridurre la potenza del lavoro e di smantellamento dello stato sociale. Quello che stiamo vedendo è un'alleanza dei potenti e dominanti istituti economici e finanziari di ciascun paese, a sostegno delle politiche pubbliche che scendono dalla Troika e l'istituzione UE e che non poteva passare nei loro parlamenti. Stanno usando le istituzioni europee, che mancano di qualsiasi controllo democratico, per ottenere quello che hanno sempre voluto, giustificano dicendo: ". Non ci sono alternative" E 'ovvio ci sono alternative.
Varoufakis E la sua proposta di UBI
La seconda area di maggior disaccordo ha a che fare con il licenziamento di Varoufakis dello stato sociale, chiedendo invece un reddito di base universale (UBI). Nella conferenza stanno collegando a, egli riassume i suoi principali punti di vista sullo stato attuale del capitalismo e il motivo per cui la creazione di UBI dovrebbe essere al centro di una strategia per risolvere i grandi problemi che questo capitalismo sta creando. Comincia, un po 'provocatoriamente (uno stile che sembra godere, come lo usa spesso), dicendo che "la democrazia sociale (compresa la versione americana: il New Deal negli Stati Uniti) e le sue politiche sono morti, sono finiti, e non può essere rianimato. "Egli aggiunge inoltre che" la creazione dello stato sociale (la fornitura pubblica di trasferimenti e di servizi pubblici come la sanità, l'istruzione, i servizi sociali, e così via) è finita così. "lo stato sociale, dopo tutto, non può continuare: il suo finanziamento non è sostenibile, perché i fondi per pagare per essa proviene da imposte sui salari che diminuirà a causa della riduzione del numero dei lavoratori e della diminuzione dei loro stipendi. Egli attribuisce questo declino ai cambiamenti tecnologici rivoluzionari, aggiungendo la sua voce al crescente numero di autori che credono le rivoluzioni digitali ed elettroniche produrranno un futuro senza lavoro.
Un altro punto egli fa nel suo discorso è che la finanziarizzazione dell'economia (vale a dire, l'espansione del settore finanziario al costo della economia produttiva) aggiunge ulteriore al problema non solo il finanziamento dello stato sociale, ma anche la riproduzione del capitalismo per se. Secondo Varoufakis, bancario ha sostituito per la produzione (e altri elementi dell'economia produttiva). Il significato di questo è che negli Stati Uniti, il centro del potere economico è passato da Detroit a Wall Street, creando un grosso problema perché la riduzione dell'economia produttiva significa un minor numero di posti di lavoro e di una ulteriore riduzione dei salari, il che significa una minore domanda, causando la crisi attuale. A causa di questi punti centrali, la soluzione è quella di tassare i gruppi ad alto reddito e distribuirlo a tutti gli altri come reddito, ripartiti come la stessa quantità di ogni cittadino, la caratteristica principale di UBI. Quel denaro consentirà ai cittadini, consentendo loro di negoziare con il datore di lavoro in condizioni migliori. UBI creerà domanda e dei consumi che stimolerà l'economia torna ai tassi di crescita richiesti.
Questi, credo, sono i suoi punti principali. Spero di aver sintetizzato le sue opinioni in modo corretto.
Quali sono i problemi con queste tesi?
Ce ne sono diversi. Uno è quello di rappresentare in modo impreciso socialdemocrazia. Storicamente, la socialdemocrazia è stato lo sviluppo di una strategia che mira a fornire trasferimenti e servizi pubblici a ciascuno secondo i suoi bisogni, con questi da finanziare in base alle capacità di ciascuno, definendo le esigenze e le capacità attraverso un processo democratico. Questa strategia ha portato alla creazione e l'espansione dello stato sociale, sulla base di una tassazione progressiva. Che Varoufakis presenta come la democrazia sociale, tuttavia, è in realtà la democrazia cristiana. Fu proprio quest'ultimo (stabilito da Bismarck), che basa il finanziamento dello stato sociale sui contributi del mercato del lavoro. Lo stato sociale, radicata nel sistema di assicurazione, era più una caratteristica della strada conservatore, piuttosto che quella socialdemocratica. Sulla base di questa tradizione, i benefici non sono stati universali e finanziamento non è stato in base alla capacità di ciascuno, ma piuttosto per il tipo di lavoro che ciascuno fa. Il contributo non è stato da ciascuno di abilità e capacità, ma piuttosto in base al di ognuno di lavoro. Questa distinzione è importante.
(continua )
e in corso un importante dibattito sul ruolo dello stato nazione e reddito minimo garantito
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È la nazione-Stato ei suoi Welfare State morto? Una critica Varoufakis
da Vicente Navarro il 4 agosto 2016 (parte 1)
Ho sempre letto gli scritti di Mr. Varoufakis con grande interesse, e io spesso mi trovo d'accordo, in particolare nella sua critica della Troika (Fondo monetario internazionale, della Commissione europea e Banca centrale europea) e dell'Eurogruppo (i Ministri economia e delle Finanze dell'Unione europea). Ho anche d'accordo con il suo appello per una mobilitazione a livello europeo per imporre la democrazia alle istituzioni che governano l'Unione europea, anche se sono d'accordo con il suo modo proposto di farlo. Egli ritiene (a torto, credo) che il potere degli Stati-nazione è praticamente scomparsa nella UE. Essi non contano più. Sulla base della sua esperienza greca, quando ha rappresentato il governo Syriza nei negoziati con la troika, egli conclude che gli Stati-nazione non hanno alcun potere. Secondo Varoufakis, governi e ai parlamenti di questi Stati-nazione sono state trasformate in semplici cinghie di trasmissione di tutto ciò che è deciso dalla Troika e istituzioni associate. Egli scrive in una delle sue recenti pubblicazioni che "i governi europei trasmettono ai parlamenti tutto ciò che viene deciso a livello europeo (Commissione europea o il Consiglio europeo) e ai parlamenti svolgono qualunque istruzioni che hanno ricevuto da quelle istituzioni" (Yanis Varoufakis e Gerard Pisarello, un piano per l'Europa, p. 89).
Ci sono alternative
Inutile dire che i parlamenti sono fortemente limitata da queste istituzioni. Non vi è alcun disaccordo su questo punto. Ma è esagerato dire che hanno perso tutto il loro potere. Ed è sbagliato accettare che governi e ai parlamenti applicate le politiche di austerità (con tagli nel welfare), sostenendo di non avere altra scelta. Ad esempio, il governo socialista guidato dal presidente Zapatero in Spagna potrebbe, per ridurre i deficit pubblici, tagliate la spesa pubblica o aumentare le tasse. Presidente Zapatero ha scelto la prima per evitare il secondo. Ha tagliato le pensioni pubbliche per ottenere 1.200 milioni di €, quando avrebbe potuto ottenere ancora di più (2.000 milioni di €) invertendo le tasse di proprietà. Lo stesso con il Presidente Rajoy del Partito Popolare conservatore. Ha tagliato 6.000 milioni di € da parte del Servizio Sanitario Nazionale, quando avrebbe potuto ottenere quasi la stessa quantità invertendo tagli sulle imposte societarie. I parlamenti non ancora hanno il potere, tra cui il potere di mettere in discussione le politiche di austerità. Abbiamo visto come il governo portoghese si è fermato l'applicazione delle politiche di austerità imposte dalla Commissione Europea.
I cambiamenti nella UE dovranno includere, oltre mobilitazioni a livello europeo che Varoufakis sostenitori, risposte da coalizioni di Stati-nazione contro le politiche imposte dalle istituzioni che governano la zona euro. E 'un errore di accettare la giustificazione che conservatori, liberali e molti governi socialdemocratici danno quando attuano tagli altamente impopolari di spesa, cioè pubblici e sociali non esistono alternative. Hanno alternative che non sono disposti ad ammettere. In realtà, molti di questi governi (in particolare quelli liberali e conservatori) stanno ottenendo, attraverso politiche impopolari, ciò che hanno sempre desiderato: ridurre la potenza del lavoro e di smantellamento dello stato sociale. Quello che stiamo vedendo è un'alleanza dei potenti e dominanti istituti economici e finanziari di ciascun paese, a sostegno delle politiche pubbliche che scendono dalla Troika e l'istituzione UE e che non poteva passare nei loro parlamenti. Stanno usando le istituzioni europee, che mancano di qualsiasi controllo democratico, per ottenere quello che hanno sempre voluto, giustificano dicendo: ". Non ci sono alternative" E 'ovvio ci sono alternative.
Varoufakis E la sua proposta di UBI
La seconda area di maggior disaccordo ha a che fare con il licenziamento di Varoufakis dello stato sociale, chiedendo invece un reddito di base universale (UBI). Nella conferenza stanno collegando a, egli riassume i suoi principali punti di vista sullo stato attuale del capitalismo e il motivo per cui la creazione di UBI dovrebbe essere al centro di una strategia per risolvere i grandi problemi che questo capitalismo sta creando. Comincia, un po 'provocatoriamente (uno stile che sembra godere, come lo usa spesso), dicendo che "la democrazia sociale (compresa la versione americana: il New Deal negli Stati Uniti) e le sue politiche sono morti, sono finiti, e non può essere rianimato. "Egli aggiunge inoltre che" la creazione dello stato sociale (la fornitura pubblica di trasferimenti e di servizi pubblici come la sanità, l'istruzione, i servizi sociali, e così via) è finita così. "lo stato sociale, dopo tutto, non può continuare: il suo finanziamento non è sostenibile, perché i fondi per pagare per essa proviene da imposte sui salari che diminuirà a causa della riduzione del numero dei lavoratori e della diminuzione dei loro stipendi. Egli attribuisce questo declino ai cambiamenti tecnologici rivoluzionari, aggiungendo la sua voce al crescente numero di autori che credono le rivoluzioni digitali ed elettroniche produrranno un futuro senza lavoro.
Un altro punto egli fa nel suo discorso è che la finanziarizzazione dell'economia (vale a dire, l'espansione del settore finanziario al costo della economia produttiva) aggiunge ulteriore al problema non solo il finanziamento dello stato sociale, ma anche la riproduzione del capitalismo per se. Secondo Varoufakis, bancario ha sostituito per la produzione (e altri elementi dell'economia produttiva). Il significato di questo è che negli Stati Uniti, il centro del potere economico è passato da Detroit a Wall Street, creando un grosso problema perché la riduzione dell'economia produttiva significa un minor numero di posti di lavoro e di una ulteriore riduzione dei salari, il che significa una minore domanda, causando la crisi attuale. A causa di questi punti centrali, la soluzione è quella di tassare i gruppi ad alto reddito e distribuirlo a tutti gli altri come reddito, ripartiti come la stessa quantità di ogni cittadino, la caratteristica principale di UBI. Quel denaro consentirà ai cittadini, consentendo loro di negoziare con il datore di lavoro in condizioni migliori. UBI creerà domanda e dei consumi che stimolerà l'economia torna ai tassi di crescita richiesti.
Questi, credo, sono i suoi punti principali. Spero di aver sintetizzato le sue opinioni in modo corretto.
Quali sono i problemi con queste tesi?
Ce ne sono diversi. Uno è quello di rappresentare in modo impreciso socialdemocrazia. Storicamente, la socialdemocrazia è stato lo sviluppo di una strategia che mira a fornire trasferimenti e servizi pubblici a ciascuno secondo i suoi bisogni, con questi da finanziare in base alle capacità di ciascuno, definendo le esigenze e le capacità attraverso un processo democratico. Questa strategia ha portato alla creazione e l'espansione dello stato sociale, sulla base di una tassazione progressiva. Che Varoufakis presenta come la democrazia sociale, tuttavia, è in realtà la democrazia cristiana. Fu proprio quest'ultimo (stabilito da Bismarck), che basa il finanziamento dello stato sociale sui contributi del mercato del lavoro. Lo stato sociale, radicata nel sistema di assicurazione, era più una caratteristica della strada conservatore, piuttosto che quella socialdemocratica. Sulla base di questa tradizione, i benefici non sono stati universali e finanziamento non è stato in base alla capacità di ciascuno, ma piuttosto per il tipo di lavoro che ciascuno fa. Il contributo non è stato da ciascuno di abilità e capacità, ma piuttosto in base al di ognuno di lavoro. Questa distinzione è importante.
(continua )
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Re: La crisi dell'Europa
È la nazione-Stato ei suoi Welfare State morto? Una critica Varoufakis
da Vicente Navarro il 4 agosto 2016 (parte 2)
E 'questo secondo approccio, la tradizione democratica conservatore o cristiana (che, ripeto, è finanziato con il contributo del mercato del lavoro), che Varoufakis chiama lo stato sociale. Ed è quello che può essere in difficoltà perché i ricavi assicurativi pubblici dipendono dal numero dei contributi dei lavoratori e dei livelli di stipendi e contributi. E 'questo tipo di stato sociale che deve affrontare grandi problemi, non quella socialdemocratica, in cui il finanziamento viene da entrate statali generali, piuttosto che dal mercato del lavoro.
Capitale-lavoro relazioni di potere sono quelli primari che forma lo Stato.
Nel modello sociale democratico, i ricavi dello Stato sono legati solo alla volontà politica dello Stato su quanto tassare il capitale e quanto al lavoro imposta - e questo dipende principalmente sulle relazioni di potere che esistono in ogni stato-nazione. In paesi come quelli in Scandinavia, con forti movimenti dei lavoratori, la percentuale di reddito nazionale che va al lavoro è molto più grande del reddito che va al capitale. E 'nei paesi in cui la manodopera è debole, come in Europa meridionale (Spagna, Grecia e Portogallo), dove la quota di lavoro del reddito nazionale è molto più basso, e redditi da capitale molto maggiore. Come il reddito nazionale è distribuito e quanto le entrate pubbliche sono ottenuti attraverso la tassazione del lavoro o tassando il capitale è una questione politica. Ma, finché la gente sostenere lo stato sociale, che sarà finanziato. C'è abbastanza denaro negli stati del sud per fornire uno stato sociale sviluppato. Il problema è che lo Stato non raccoglie, perché le forze conservatrici sono estremamente potenti in questi paesi dell'Europa meridionale.
Il problema nei paesi capitalisti sviluppati, sia nell'UE e in Nord America, è che il reddito derivante da capitale è stata vincente al costo del lavoro. I redditi derivanti da capitale è cresciuta enormemente, mentre il reddito derivante da lavoro è in calo drammatico. Questo è il vero problema. Il dominio del capitale (guidato da capitale finanziario) all'interno delle istituzioni europee stabilimento spiega questa situazione. La mancanza di democrazia nelle istituzioni dell'UE si basa su questo. E, non ha nulla a che fare con i cambiamenti tecnologici. Ciò che è necessario è quello di invertire queste relazioni di potere e aumentare il reddito da lavoro a costo di ridurre i redditi da capitale, che richiederà anche cambiamenti nella proprietà del capitale. Mi auguro Varoufakis è d'accordo con questo.
Quali soluzioni ci sono?
Ma, se è d'accordo, allora la soluzione è quella di tassare il capitale ampiamente, perché ha avuto un pranzo libero dal 1980. Ciò è possibile se c'è volontà politica, a livello di ciascuno Stato nazionale ea livello europeo. problema dell'UE è che è completamente controllato o fortemente influenzato dal capitalismo finanziario e orientata all'esportazione (principalmente attraverso lo stato tedesco). Il problema non è dove trovare i soldi. Sappiamo dove sono i soldi. Credo Varoufakis e posso essere d'accordo su questo. Ma il nostro disaccordo non può essere per quanto riguarda dove viene il denaro (perché presumo possiamo essere d'accordo che alcuni di essi dovrebbe venire da coloro che hanno beneficiato maggiormente della crisi attuale), ma dove il denaro dovrebbe andare. Secondo UBI, la stessa quantità di denaro dovrebbe andare a ogni cittadino; che dovrebbe essere un diritto fondamentale per tutti. Ma perché la stessa quantità a tutti? Qual è lo scopo? Se l'obiettivo è quello di ridurre la povertà, si può dimostrare che la povertà può essere ridotta migliore ad un costo più conveniente (come i paesi di tradizione socialdemocratica hanno fatto), attraverso tutta una serie di trasferimenti e di servizi pubblici (vale a dire, lo stato sociale). E lo stesso vale per quanto riguarda le disuguaglianze. Se si vuole ridurre le disuguaglianze, allora si può fare questo molto meglio dando più soldi a chi ha meno (piuttosto che lo stesso importo).
Quindi, mi permetta di continuare a chiedere: Perché abbiamo bisogno di UBI? Sono d'accordo con Varoufakis che dare soldi a chi non ce l'hanno li autorizzerà e che essi saranno più resistenti ad accettare posti di lavoro schifoso, perché non hanno bisogno del denaro per scopi di sopravvivenza. Ma qui, ancora una volta, si può raggiungere questo obiettivo con reddito di base garantito, che è diverso da UBI. Si potrebbe approvare una legge che indica che nessuno in un paese otterrà inferiore al reddito di base. E se ricevono inferiore a tale importo, lo Stato paga per tutto ciò che è necessario per raggiungere tale importo. I poveri riceverà la stessa quantità o anche più di UBI, e sarà meno costoso. Ma questo è diverso da fornire a tutti la stessa quantità. Inoltre, credo che sia sbagliato per i paesi dell'Europa meridionale (come la Grecia, la Spagna, e Portogallo) che hanno poveri welfare (a causa della enorme potere del capitale sul lavoro in quei paesi) per cercare di sostituire il welfare state mal finanziato con UBI. Spagna, per esempio, ha un deficit di finanziamento enorme in tutti i servizi pubblici dello stato sociale, dalla sanità all'istruzione alla cura dei figli, e l'elenco potrebbe continuare. Chiedendo UBI, piuttosto che garantito reddito di base, è solo un mezzo di distrarre il pubblico. Cercando di attuare un programma con l'obiettivo di ridurre la povertà e le disuguaglianze possono essere meglio ottenuta seguendo i principi delle politiche pubbliche socialiste: ". A ciascuno secondo le proprie esigenze, e da ciascuno secondo le loro capacità di pagare"
da Vicente Navarro il 4 agosto 2016 (parte 2)
E 'questo secondo approccio, la tradizione democratica conservatore o cristiana (che, ripeto, è finanziato con il contributo del mercato del lavoro), che Varoufakis chiama lo stato sociale. Ed è quello che può essere in difficoltà perché i ricavi assicurativi pubblici dipendono dal numero dei contributi dei lavoratori e dei livelli di stipendi e contributi. E 'questo tipo di stato sociale che deve affrontare grandi problemi, non quella socialdemocratica, in cui il finanziamento viene da entrate statali generali, piuttosto che dal mercato del lavoro.
Capitale-lavoro relazioni di potere sono quelli primari che forma lo Stato.
Nel modello sociale democratico, i ricavi dello Stato sono legati solo alla volontà politica dello Stato su quanto tassare il capitale e quanto al lavoro imposta - e questo dipende principalmente sulle relazioni di potere che esistono in ogni stato-nazione. In paesi come quelli in Scandinavia, con forti movimenti dei lavoratori, la percentuale di reddito nazionale che va al lavoro è molto più grande del reddito che va al capitale. E 'nei paesi in cui la manodopera è debole, come in Europa meridionale (Spagna, Grecia e Portogallo), dove la quota di lavoro del reddito nazionale è molto più basso, e redditi da capitale molto maggiore. Come il reddito nazionale è distribuito e quanto le entrate pubbliche sono ottenuti attraverso la tassazione del lavoro o tassando il capitale è una questione politica. Ma, finché la gente sostenere lo stato sociale, che sarà finanziato. C'è abbastanza denaro negli stati del sud per fornire uno stato sociale sviluppato. Il problema è che lo Stato non raccoglie, perché le forze conservatrici sono estremamente potenti in questi paesi dell'Europa meridionale.
Il problema nei paesi capitalisti sviluppati, sia nell'UE e in Nord America, è che il reddito derivante da capitale è stata vincente al costo del lavoro. I redditi derivanti da capitale è cresciuta enormemente, mentre il reddito derivante da lavoro è in calo drammatico. Questo è il vero problema. Il dominio del capitale (guidato da capitale finanziario) all'interno delle istituzioni europee stabilimento spiega questa situazione. La mancanza di democrazia nelle istituzioni dell'UE si basa su questo. E, non ha nulla a che fare con i cambiamenti tecnologici. Ciò che è necessario è quello di invertire queste relazioni di potere e aumentare il reddito da lavoro a costo di ridurre i redditi da capitale, che richiederà anche cambiamenti nella proprietà del capitale. Mi auguro Varoufakis è d'accordo con questo.
Quali soluzioni ci sono?
Ma, se è d'accordo, allora la soluzione è quella di tassare il capitale ampiamente, perché ha avuto un pranzo libero dal 1980. Ciò è possibile se c'è volontà politica, a livello di ciascuno Stato nazionale ea livello europeo. problema dell'UE è che è completamente controllato o fortemente influenzato dal capitalismo finanziario e orientata all'esportazione (principalmente attraverso lo stato tedesco). Il problema non è dove trovare i soldi. Sappiamo dove sono i soldi. Credo Varoufakis e posso essere d'accordo su questo. Ma il nostro disaccordo non può essere per quanto riguarda dove viene il denaro (perché presumo possiamo essere d'accordo che alcuni di essi dovrebbe venire da coloro che hanno beneficiato maggiormente della crisi attuale), ma dove il denaro dovrebbe andare. Secondo UBI, la stessa quantità di denaro dovrebbe andare a ogni cittadino; che dovrebbe essere un diritto fondamentale per tutti. Ma perché la stessa quantità a tutti? Qual è lo scopo? Se l'obiettivo è quello di ridurre la povertà, si può dimostrare che la povertà può essere ridotta migliore ad un costo più conveniente (come i paesi di tradizione socialdemocratica hanno fatto), attraverso tutta una serie di trasferimenti e di servizi pubblici (vale a dire, lo stato sociale). E lo stesso vale per quanto riguarda le disuguaglianze. Se si vuole ridurre le disuguaglianze, allora si può fare questo molto meglio dando più soldi a chi ha meno (piuttosto che lo stesso importo).
Quindi, mi permetta di continuare a chiedere: Perché abbiamo bisogno di UBI? Sono d'accordo con Varoufakis che dare soldi a chi non ce l'hanno li autorizzerà e che essi saranno più resistenti ad accettare posti di lavoro schifoso, perché non hanno bisogno del denaro per scopi di sopravvivenza. Ma qui, ancora una volta, si può raggiungere questo obiettivo con reddito di base garantito, che è diverso da UBI. Si potrebbe approvare una legge che indica che nessuno in un paese otterrà inferiore al reddito di base. E se ricevono inferiore a tale importo, lo Stato paga per tutto ciò che è necessario per raggiungere tale importo. I poveri riceverà la stessa quantità o anche più di UBI, e sarà meno costoso. Ma questo è diverso da fornire a tutti la stessa quantità. Inoltre, credo che sia sbagliato per i paesi dell'Europa meridionale (come la Grecia, la Spagna, e Portogallo) che hanno poveri welfare (a causa della enorme potere del capitale sul lavoro in quei paesi) per cercare di sostituire il welfare state mal finanziato con UBI. Spagna, per esempio, ha un deficit di finanziamento enorme in tutti i servizi pubblici dello stato sociale, dalla sanità all'istruzione alla cura dei figli, e l'elenco potrebbe continuare. Chiedendo UBI, piuttosto che garantito reddito di base, è solo un mezzo di distrarre il pubblico. Cercando di attuare un programma con l'obiettivo di ridurre la povertà e le disuguaglianze possono essere meglio ottenuta seguendo i principi delle politiche pubbliche socialiste: ". A ciascuno secondo le proprie esigenze, e da ciascuno secondo le loro capacità di pagare"
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Re: La crisi dell'Europa
Da MicroMega
Il fallimento del multiculturalismo
di Cecilia M. Calamani
Il multiculturalismo, così come l’Europa lo ha pensato e applicato negli ultimi decenni, ha fallito. È questa la tesi che Kenan Malik, filosofo britannico di origine indiana, sviluppa nel suo breve saggio “Il multiculturalismo e i suoi critici – Ripensare la diversità dopo l’11 settembre”, tradotto e pubblicato in Italia (maggio 2016) da Nessun Dogma. Il tema, in questo sanguinario periodo di attacchi terroristici sferrati al cuore laico dell’Europa, è di estrema attenzione e assume il carattere dell’urgenza.
Malik fornisce una chiave di lettura tutt’altro che banale delle politiche europee che, nel nome dell’integrazione sociale e del rispetto della diversità, hanno generato risultati agli antipodi di quelli voluti o quanto meno dichiarati. Come scrive lui stesso nell’introduzione, «Questo libro è una critica al multiculturalismo. È anche una critica ai suoi critici».
Naturalmente bisogna prima intendersi sui termini. E cioè su cosa si intenda per multiculturalismo e cosa per il suo contrario, due categorie di pensiero strettamente connesse a quelle di appartenenza politica. L’idea multiculturale, abbracciata dalla sinistra europea, promuove le iniziative mirate a gestire la diversità definendo e rispettando i bisogni e i diritti di ognuno. Ma ciò secondo l’autore porta necessariamente a inserire le persone in contenitori etnici e a rafforzarne i confini, siano essi fisici o culturali, anziché abolirli.
In altri termini, riconoscere in un sistema legislativo la diversità di un gruppo di persone significa non solo rimarcarla, ma addirittura consolidarla. I detrattori del multiculturalismo, rappresentati politicamente dalla destra più radicale, sono invece quelli che intravedono nella mescolanza di culture, ossia nei fenomeni migratori, un attacco ai valori occidentali, concetto ben stigmatizzato da quella presunta “guerra di civiltà” diventata argomento portante in seguito al perpetuarsi di attentati terroristici di matrice islamica in Europa. Sono cioè i razzisti di oggi, che nascondono la loro intolleranza dietro a inesistenti pericoli di colonizzazione europea da parte dell’Islam.
Alla base del multiculturalismo, seppur nelle sue varie sfaccettature, c’è un elemento comune che Malik mette in discussione: l’identità culturale degli individui. Che non è, secondo l’autore, un contenitore statico che impedisce a un essere umano di vivere felicemente in una cultura diversa dalla sua, bensì un bagaglio di pensieri e comportamenti soggetti all’evoluzione e al progresso attraverso il dialogo e la ragione. È qui che cade la pretesa di conservazione delle diverse culture brandita dai multiculturalisti. In ogni gruppo etnico non esiste una sola visione del mondo e creare comunità con regole ben definite che gli individui del gruppo dovrebbero rispettare si trasforma in una limitazione alla capacità di cambiamento propria di ogni essere umano. D’altronde, se la cultura di un popolo fosse davvero assimilabile al concetto di comportamento, esisterà sempre in ciò che le persone fanno e di conseguenza il problema della sua salvaguardia non sussisterebbe. E allora, si chiede l’autore, se una cultura non è determinata da ciò che i suoi membri fanno, cos’è?
«La risposta definitiva è che sia determinata da ciò che i suoi membri dovrebbero fare». Ma questa interpretazione riporta il concetto di cultura a quello di discendenza biologica che, come scrive lo stesso Malik, è un modo garbato per dire “razza”. Il paradosso multiculturalista diventa così perfettamente evidente: per rispettare la cultura e le tradizioni dei diversi gruppi etnici, questi vengono chiusi in precisi recinti all’interno della comunità ospitante. Il che significa non solo ghettizzarli, ma anche creare micro società frammentate all’interno della stessa società con tutti i problemi di coesione civile connessi.
Fin qui si potrebbe pensare che l’autore affronti il tema in chiave prettamente filosofica. Non è così. I capitoli centrali del libro analizzano i diversi approcci multiculturalisti adottati dai Paesi europei per fronteggiare i fenomeni migratori. In particolare, Malik si sofferma sulle strategie di Gran Bretagna e Germania, tra quelli a più forte affluenza migratoria sin dagli anni Cinquanta, la prima dalle ex colonie, la seconda da Italia, Spagna, Grecia e infine Turchia. Ripercorrendo le varie tappe delle politiche per l’integrazione, molto diverse tra loro, che i due Paesi hanno attuato da allora a oggi e le loro conseguenze – dalla rivolta di Brixton del 1981 che ha schierato bianchi contro neri in Inghilterra alla istituzionalizzazione di vere e proprie comunità turche in Germania in cui gli immigrati possono conservare la loro lingua e il loro stile di vita – l’autore trae le sue conclusioni: «La conseguenza in entrambi i casi è stata la creazione di società frammentate, l’alienazione di molte minoranze e la trasformazione degli immigrati in capri espiatori». Le politiche multiculturaliste, cioè, non hanno risposto alle esigenze delle comunità ma hanno al contrario contribuito a formarle imponendo un’identità culturale alle persone senza considerare le differenze tra gli individui che ne fanno parte, ignorando i conflitti che emergono all’interno e soprattutto rafforzando le figure dei loro esponenti, ossia i membri più reazionari e conservatori, che sono divenuti i loro portavoce ufficiali senza che ne rappresentassero realmente le esigenze e le concezioni.
Un esempio significativo – e tragicamente premonitore della strage dei redattori del settimanale francese Charlie Hebdo avvenuta due anni dopo l’uscita del libro di Malik in Gran Bretagna – lo troviamo nella polemica scaturita dalla pubblicazione, da parte del giornale danese Jyllands-Posten nel settembre 2005, di alcune vignette che raffiguravano Maometto. Lì per lì, denuncia l’autore, non ci furono reazioni di sdegno da parte dei musulmani, neanche in Danimarca. Ma le successive interviste pubblicate da vari quotidiani ad alcuni imam, primo fra tutti Ahmad Abu Laban, scatenarono il putiferio. Non solo Abu Laban si autoproclamò portavoce dei musulmani danesi, ma chiese ufficialmente le scuse del primo ministro. Un paio di mesi dopo gli stessi imam intervistati redassero un documento sulle vignette, lo presentarono al summit dell’Organizzazione della conferenza islamica e lo fecero circolare in Nord Africa e Medio Oriente. A quattro mesi dall’uscita del Jyllands-Posten il caso era montato al punto di suscitare le proteste indignate di vari Paesi tra cui India, Pakistan, Indonesia, Egitto, Afghanistan, Libia, Siria e Iran. Risultato: le ambasciate danesi a Beirut, Damasco e Teheran furono date alle fiamme in un’ondata di violenza integralista che portò 250 vittime. Intanto Abu Laban aveva guadagnato la fama di autentica voce dell’Islam, nonostante le sue concezioni rappresentassero ben pochi individui della sua comunità.
A questo episodio, che sintetizza anche il potere dei media nel conferire ai soggetti più reazionari dei vari gruppi l’autorità di rappresentare il sentire dei suoi componenti appiattendolo sulle posizioni integraliste, l’autore si aggancia per affrontare il tema della libertà di espressione, altro scontro aperto all’interno delle varie istanze del multiculturalismo. Alcune correnti di pensiero sostengono la necessità di limitare le critiche nei confronti di altre culture per rispetto verso la diversità. L’ormai famosa dichiarazione dell’attuale papa a commento del brutale assassinio dei redattori di Charlie Hebdo nel 2015 sintetizza bene questo assunto: «Ognuno ha non solo la libertà e il diritto, ma anche l'obbligo di dire ciò che pensa per aiutare il bene comune. Avere dunque questa libertà, ma senza offendere». Per far capire meglio cosa intendesse per “libertà senza offendere”, Bergoglio osservò che se qualcuno avesse insultato sua madre si sarebbe dovuto aspettare un pugno.
Questo episodio non è contenuto nel libro, in versione originale antecedente a quei tragici fatti, ma fa meglio capire la tesi che Malik sviluppa a tal proposito: «Una delle ironie del vivere in una società pluralista, sembra, è che la salvaguardia della diversità ci impone di lasciare meno spazio alla diversità di vedute. […] L’idea di creare offesa suggerisce che certe credenze siano così importanti o preziose, per certe persone, che dovrebbero essere protette dall’eventualità che possano essere vilipese, rese una caricatura o anche solo contestate. L’importanza del principio di libertà di espressione risiede proprio nel fatto che rappresenta una costante sfida all’idea che alcune questioni siano fuori discussione e quindi rappresenta una costante sfida all’autorità». La libertà di parola è dunque non solo un presupposto essenziale per la sussistenza della democrazia, ma anche per dar voce a quelle comunità escluse dai processi democratici.
Per finire, Malik attacca gli argomenti dei detrattori del multiculturalismo respingendo, anche in chiave storica, le loro derive razziste malcelate dietro assurde pretese di distruzione della “nostra” cultura, della “nostra” storia, della “nostra” tradizione. L’analisi delle generazioni di immigrati che si sono succedute dal dopoguerra a oggi non lascia spazio a ipotesi di inevitabilità dei conflitti attuali. Non c’è uno scontro di culture, bensì una mala gestione del fenomeno migratorio che ha trasformato la convivenza in una polveriera. Ma l’idea populista di una presunta islamizzazione dell’Europa ha fatto e continua a fare il gioco delle destre più illiberali che sulla paura dell’invasione musulmana fondano il loro successo elettorale. Significativo, a tal proposito, il tweet di una militante del Front National di Marine Le Pen subito dopo l’attentato di Monaco del 22 luglio scorso: «Speriamo siano stati gli islamisti, fanno guadagnare voti».
L’autore non dispensa ricette risolutorie, bensì invita ciascuno di noi a riflettere su questioni complesse – e alla luce dei fatti odierni sanguinarie – che affondano le loro radici ben più in profondità di quanto noi stessi percepiamo di fronte alle cronache sbalorditive che ci vorrebbero schierati dall’una o dall’altra parte. In appena un centinaio di pagine Malik è capace di portarci dentro al problema sfrondando la maggior parte dei falsi miti che, dai multiculturalisti ai loro critici, pervadono con faciloneria l’opinione pubblica. La coesistenza democratica di popoli e culture, l’applicazione di un concetto di tolleranza che non leda i diritti di alcuno e al tempo stesso non crei ghetti sociali, la revisione di logiche di integrazione inadatte a far fronte al fenomeno migratorio sono oggi necessità impellenti per fermare sia il terrorismo di stampo fondamentalista sia – come proprio la strage di Monaco dimostra – l’odio ugualmente spietato figlio del disagio esistenziale delle minoranze.
Ma c’è ancor di più. Ognuno di noi è chiuso nella propria gabbia culturale e il confronto con il diverso ci dà la possibilità di ridiscutere valori e credenze, comportamenti e stili di vita. Ci fornisce cioè la chiave per il progresso, come singoli e come società. La Storia lo insegna da sempre.
(28 luglio 2016)
Il fallimento del multiculturalismo
di Cecilia M. Calamani
Il multiculturalismo, così come l’Europa lo ha pensato e applicato negli ultimi decenni, ha fallito. È questa la tesi che Kenan Malik, filosofo britannico di origine indiana, sviluppa nel suo breve saggio “Il multiculturalismo e i suoi critici – Ripensare la diversità dopo l’11 settembre”, tradotto e pubblicato in Italia (maggio 2016) da Nessun Dogma. Il tema, in questo sanguinario periodo di attacchi terroristici sferrati al cuore laico dell’Europa, è di estrema attenzione e assume il carattere dell’urgenza.
Malik fornisce una chiave di lettura tutt’altro che banale delle politiche europee che, nel nome dell’integrazione sociale e del rispetto della diversità, hanno generato risultati agli antipodi di quelli voluti o quanto meno dichiarati. Come scrive lui stesso nell’introduzione, «Questo libro è una critica al multiculturalismo. È anche una critica ai suoi critici».
Naturalmente bisogna prima intendersi sui termini. E cioè su cosa si intenda per multiculturalismo e cosa per il suo contrario, due categorie di pensiero strettamente connesse a quelle di appartenenza politica. L’idea multiculturale, abbracciata dalla sinistra europea, promuove le iniziative mirate a gestire la diversità definendo e rispettando i bisogni e i diritti di ognuno. Ma ciò secondo l’autore porta necessariamente a inserire le persone in contenitori etnici e a rafforzarne i confini, siano essi fisici o culturali, anziché abolirli.
In altri termini, riconoscere in un sistema legislativo la diversità di un gruppo di persone significa non solo rimarcarla, ma addirittura consolidarla. I detrattori del multiculturalismo, rappresentati politicamente dalla destra più radicale, sono invece quelli che intravedono nella mescolanza di culture, ossia nei fenomeni migratori, un attacco ai valori occidentali, concetto ben stigmatizzato da quella presunta “guerra di civiltà” diventata argomento portante in seguito al perpetuarsi di attentati terroristici di matrice islamica in Europa. Sono cioè i razzisti di oggi, che nascondono la loro intolleranza dietro a inesistenti pericoli di colonizzazione europea da parte dell’Islam.
Alla base del multiculturalismo, seppur nelle sue varie sfaccettature, c’è un elemento comune che Malik mette in discussione: l’identità culturale degli individui. Che non è, secondo l’autore, un contenitore statico che impedisce a un essere umano di vivere felicemente in una cultura diversa dalla sua, bensì un bagaglio di pensieri e comportamenti soggetti all’evoluzione e al progresso attraverso il dialogo e la ragione. È qui che cade la pretesa di conservazione delle diverse culture brandita dai multiculturalisti. In ogni gruppo etnico non esiste una sola visione del mondo e creare comunità con regole ben definite che gli individui del gruppo dovrebbero rispettare si trasforma in una limitazione alla capacità di cambiamento propria di ogni essere umano. D’altronde, se la cultura di un popolo fosse davvero assimilabile al concetto di comportamento, esisterà sempre in ciò che le persone fanno e di conseguenza il problema della sua salvaguardia non sussisterebbe. E allora, si chiede l’autore, se una cultura non è determinata da ciò che i suoi membri fanno, cos’è?
«La risposta definitiva è che sia determinata da ciò che i suoi membri dovrebbero fare». Ma questa interpretazione riporta il concetto di cultura a quello di discendenza biologica che, come scrive lo stesso Malik, è un modo garbato per dire “razza”. Il paradosso multiculturalista diventa così perfettamente evidente: per rispettare la cultura e le tradizioni dei diversi gruppi etnici, questi vengono chiusi in precisi recinti all’interno della comunità ospitante. Il che significa non solo ghettizzarli, ma anche creare micro società frammentate all’interno della stessa società con tutti i problemi di coesione civile connessi.
Fin qui si potrebbe pensare che l’autore affronti il tema in chiave prettamente filosofica. Non è così. I capitoli centrali del libro analizzano i diversi approcci multiculturalisti adottati dai Paesi europei per fronteggiare i fenomeni migratori. In particolare, Malik si sofferma sulle strategie di Gran Bretagna e Germania, tra quelli a più forte affluenza migratoria sin dagli anni Cinquanta, la prima dalle ex colonie, la seconda da Italia, Spagna, Grecia e infine Turchia. Ripercorrendo le varie tappe delle politiche per l’integrazione, molto diverse tra loro, che i due Paesi hanno attuato da allora a oggi e le loro conseguenze – dalla rivolta di Brixton del 1981 che ha schierato bianchi contro neri in Inghilterra alla istituzionalizzazione di vere e proprie comunità turche in Germania in cui gli immigrati possono conservare la loro lingua e il loro stile di vita – l’autore trae le sue conclusioni: «La conseguenza in entrambi i casi è stata la creazione di società frammentate, l’alienazione di molte minoranze e la trasformazione degli immigrati in capri espiatori». Le politiche multiculturaliste, cioè, non hanno risposto alle esigenze delle comunità ma hanno al contrario contribuito a formarle imponendo un’identità culturale alle persone senza considerare le differenze tra gli individui che ne fanno parte, ignorando i conflitti che emergono all’interno e soprattutto rafforzando le figure dei loro esponenti, ossia i membri più reazionari e conservatori, che sono divenuti i loro portavoce ufficiali senza che ne rappresentassero realmente le esigenze e le concezioni.
Un esempio significativo – e tragicamente premonitore della strage dei redattori del settimanale francese Charlie Hebdo avvenuta due anni dopo l’uscita del libro di Malik in Gran Bretagna – lo troviamo nella polemica scaturita dalla pubblicazione, da parte del giornale danese Jyllands-Posten nel settembre 2005, di alcune vignette che raffiguravano Maometto. Lì per lì, denuncia l’autore, non ci furono reazioni di sdegno da parte dei musulmani, neanche in Danimarca. Ma le successive interviste pubblicate da vari quotidiani ad alcuni imam, primo fra tutti Ahmad Abu Laban, scatenarono il putiferio. Non solo Abu Laban si autoproclamò portavoce dei musulmani danesi, ma chiese ufficialmente le scuse del primo ministro. Un paio di mesi dopo gli stessi imam intervistati redassero un documento sulle vignette, lo presentarono al summit dell’Organizzazione della conferenza islamica e lo fecero circolare in Nord Africa e Medio Oriente. A quattro mesi dall’uscita del Jyllands-Posten il caso era montato al punto di suscitare le proteste indignate di vari Paesi tra cui India, Pakistan, Indonesia, Egitto, Afghanistan, Libia, Siria e Iran. Risultato: le ambasciate danesi a Beirut, Damasco e Teheran furono date alle fiamme in un’ondata di violenza integralista che portò 250 vittime. Intanto Abu Laban aveva guadagnato la fama di autentica voce dell’Islam, nonostante le sue concezioni rappresentassero ben pochi individui della sua comunità.
A questo episodio, che sintetizza anche il potere dei media nel conferire ai soggetti più reazionari dei vari gruppi l’autorità di rappresentare il sentire dei suoi componenti appiattendolo sulle posizioni integraliste, l’autore si aggancia per affrontare il tema della libertà di espressione, altro scontro aperto all’interno delle varie istanze del multiculturalismo. Alcune correnti di pensiero sostengono la necessità di limitare le critiche nei confronti di altre culture per rispetto verso la diversità. L’ormai famosa dichiarazione dell’attuale papa a commento del brutale assassinio dei redattori di Charlie Hebdo nel 2015 sintetizza bene questo assunto: «Ognuno ha non solo la libertà e il diritto, ma anche l'obbligo di dire ciò che pensa per aiutare il bene comune. Avere dunque questa libertà, ma senza offendere». Per far capire meglio cosa intendesse per “libertà senza offendere”, Bergoglio osservò che se qualcuno avesse insultato sua madre si sarebbe dovuto aspettare un pugno.
Questo episodio non è contenuto nel libro, in versione originale antecedente a quei tragici fatti, ma fa meglio capire la tesi che Malik sviluppa a tal proposito: «Una delle ironie del vivere in una società pluralista, sembra, è che la salvaguardia della diversità ci impone di lasciare meno spazio alla diversità di vedute. […] L’idea di creare offesa suggerisce che certe credenze siano così importanti o preziose, per certe persone, che dovrebbero essere protette dall’eventualità che possano essere vilipese, rese una caricatura o anche solo contestate. L’importanza del principio di libertà di espressione risiede proprio nel fatto che rappresenta una costante sfida all’idea che alcune questioni siano fuori discussione e quindi rappresenta una costante sfida all’autorità». La libertà di parola è dunque non solo un presupposto essenziale per la sussistenza della democrazia, ma anche per dar voce a quelle comunità escluse dai processi democratici.
Per finire, Malik attacca gli argomenti dei detrattori del multiculturalismo respingendo, anche in chiave storica, le loro derive razziste malcelate dietro assurde pretese di distruzione della “nostra” cultura, della “nostra” storia, della “nostra” tradizione. L’analisi delle generazioni di immigrati che si sono succedute dal dopoguerra a oggi non lascia spazio a ipotesi di inevitabilità dei conflitti attuali. Non c’è uno scontro di culture, bensì una mala gestione del fenomeno migratorio che ha trasformato la convivenza in una polveriera. Ma l’idea populista di una presunta islamizzazione dell’Europa ha fatto e continua a fare il gioco delle destre più illiberali che sulla paura dell’invasione musulmana fondano il loro successo elettorale. Significativo, a tal proposito, il tweet di una militante del Front National di Marine Le Pen subito dopo l’attentato di Monaco del 22 luglio scorso: «Speriamo siano stati gli islamisti, fanno guadagnare voti».
L’autore non dispensa ricette risolutorie, bensì invita ciascuno di noi a riflettere su questioni complesse – e alla luce dei fatti odierni sanguinarie – che affondano le loro radici ben più in profondità di quanto noi stessi percepiamo di fronte alle cronache sbalorditive che ci vorrebbero schierati dall’una o dall’altra parte. In appena un centinaio di pagine Malik è capace di portarci dentro al problema sfrondando la maggior parte dei falsi miti che, dai multiculturalisti ai loro critici, pervadono con faciloneria l’opinione pubblica. La coesistenza democratica di popoli e culture, l’applicazione di un concetto di tolleranza che non leda i diritti di alcuno e al tempo stesso non crei ghetti sociali, la revisione di logiche di integrazione inadatte a far fronte al fenomeno migratorio sono oggi necessità impellenti per fermare sia il terrorismo di stampo fondamentalista sia – come proprio la strage di Monaco dimostra – l’odio ugualmente spietato figlio del disagio esistenziale delle minoranze.
Ma c’è ancor di più. Ognuno di noi è chiuso nella propria gabbia culturale e il confronto con il diverso ci dà la possibilità di ridiscutere valori e credenze, comportamenti e stili di vita. Ci fornisce cioè la chiave per il progresso, come singoli e come società. La Storia lo insegna da sempre.
(28 luglio 2016)
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Re: La crisi dell'Europa
L'EUROPA NON ESISTE PIU'. PERCHE' TACE NEI CONFRONTI DEI DIRITTI UMANI.
GALLEGGIA SOLO L'EUROPA DEL DIO DOLLA'RO
Turchia, liberi 38mila detenuti comuni per far spazio ai golpisti. L’ambasciatore turco in Italia: “Sono come la mafia e la P2″
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08 ... i/2978862/
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