Dove va l'America?
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Re: Dove va l'America?
11 LUG 2016 15:04
BARACK, EVITA LE DECAPPOTTABILI!
- OBAMA DOMANI A DALLAS PER I FUNERALI DEI POLIZIOTTI UCCISI DAL CECCHINO NERO. CON LUI, NELLA CITTÀ IN CUI FU ASSASSINATO KENNEDY, CI SARANNO PURE IL VICE BIDEN E L'EX PRESIDENTE W. BUSH
- TENSIONE ALTISSIMA: CENTINAIA DI ARRESTI TRA GLI AFROAMERICANI CHE PROTESTANO IN TUTTO IL PAESE
A Dallas gli attivisti accusano i poliziotti di «profilare» i maschi afroamericani tra i 18 e i 35 anni. Cioè di metterli in cima ai controlli e alla lista degli individui sospetti. Ed è vero. Sono loro che vengono sistematicamente fermati e in 57 casi nel 2015 uccisi anche se disarmati. Ma sono anche loro che controllano il narcotraffico...
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 128461.htm
BARACK, EVITA LE DECAPPOTTABILI!
- OBAMA DOMANI A DALLAS PER I FUNERALI DEI POLIZIOTTI UCCISI DAL CECCHINO NERO. CON LUI, NELLA CITTÀ IN CUI FU ASSASSINATO KENNEDY, CI SARANNO PURE IL VICE BIDEN E L'EX PRESIDENTE W. BUSH
- TENSIONE ALTISSIMA: CENTINAIA DI ARRESTI TRA GLI AFROAMERICANI CHE PROTESTANO IN TUTTO IL PAESE
A Dallas gli attivisti accusano i poliziotti di «profilare» i maschi afroamericani tra i 18 e i 35 anni. Cioè di metterli in cima ai controlli e alla lista degli individui sospetti. Ed è vero. Sono loro che vengono sistematicamente fermati e in 57 casi nel 2015 uccisi anche se disarmati. Ma sono anche loro che controllano il narcotraffico...
http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 128461.htm
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Re: Dove va l'America?
La Stampa 11.7.16
Bauman: “La paura e l’odio si nutrono dello stesso cibo”
“Dallas simbolo dell’Occidente senza identità”
“Servono obiettivi sui quali scaricare i nostri timori. Torniamo alla dinamica tra superiore e inferiore”
Il filosofo: la xenofobia in Europa e a Dallas figlie della cronica incertezza
intervista di Francesca Paci
La paura è il demone più sinistro del nostro tempo», ammoniva già anni fa il filosofo polacco Zygmunt Bauman. A guardare il mondo occidentale, che dagli Usa all’acciaccata Europa, pare aver ceduto alle pulsioni più rabbiose quasi si fosse «mediorientalizzato», gli spettri evocati dal teorico della società liquida nonché una tra le menti più acute del pensiero contemporaneo assumono dimensioni epiche.
Dallas ma anche gli episodi xenofobi ripetutisi nel Regno Unito dopo la Brexit e, nell’Italia porto dei migranti, il rifugiato nigeriano ucciso a Fermo. Professor Bauman, stiamo passando dall’età della paura a quella dell’odio?
«Non c’è alcun passaggio dalle paure nate dalla nostra cronica incertezza all’esibizione di odio a Dallas o ai mini pogrom avvenuti dopo la Brexit nelle strade inglesi: sono contemporanei, solo di rado li sperimentiamo separatamente. Paura e odio hanno le stesse origini e si nutrono dello stesso cibo: ricordano i gemelli siamesi condannati a trascorrere tutta la vita in compagnia reciproca: in molti casi non solo sono nati insieme ma possono solo morire insieme. La paura deve per forza cercare, inventare e costruire gli obiettivi su cui scaricare l’odio mentre l’odio ha bisogno della spaventosità dei suoi obiettivi come ragion d’essere: si rimpallano a vicenda, possono sopravvivere solo così».
C’è consequenzialità tra la diffusione dell’«hate speech» (incitamento all’odio) e le nuove tensioni etniche e razziali?
«La loro coincidenza non è casuale ma neppure predeterminata. Come ogni alleanza è una scelta politica. Per quanto stiamo vivendo la scelta è stata dettata dalla simultaneità di due fenomeni. Il primo, individuato dal sociologo tedesco Ulrich Beck, è la stridente discrepanza tra l’essere stati assegnati a una “situazione cosmopolita” in assenza di una “consapevolezza cosmopolita” e senza gli strumenti adatti a gestirla. Il conseguente scontro tra strumenti di controllo politico territorialmente limitati e poteri extraterritoriali incontrollabili e imprevedibili ha prodotto la “deregulation” multi-direzionale delle condizioni di vita e ha saturato le nostre esistenze di paura per il futuro nostro e dei nostri figli. Quella paura era e resta una trinità avvelenata, l’incontro di tre sentimenti ossessionanti, ignoranza, impotenza e umiliazione. I poteri distanti e oscuri che ci condizionano vanno al di là del nostro sguardo e della nostra influenza, così come le nostre paure si muovono tra forze che siamo incapaci di addomesticare o contenere. Se non sappiamo respingere queste forze che minacciano tutto quanto ci è caro, non potremmo almeno tenerle a distanza, interdire loro l’accesso alle nostre case e ai luoghi di lavoro?».
Non potremmo, professore?
«L’afflusso massiccio e senza precedenti di rifugiati è il secondo fenomeno a cui accennavo e ha contribuito a dare a questa domanda una risposta credibile e “di buon senso” seppure falsa e fuorviante, una risposta elevata a rango di dogma da aspiranti politici che vi annusano la chance di un forte sostegno popolare. È balsamo per le anime tormentate: le paure senza sbocco e perciò tossiche non possono riversarsi sulle loro vere cause - forze poderose e così distanti da essere immuni al nostro risentimento - ma possono facilmente e tangibilmente rovesciarsi su chi appare e si comporta da straniero, dagli ambulanti ai mendicanti. Le aggressioni etniche e razziali sono la medicina dei poveri contro la propria miseria. La loro efficacia si misura non dal fatto che risolvano la fragilità della vita ma dal dare temporaneo sollievo al tormento psicologico dell’impotenza e dell’umiliazione».
La paura, certo. Ma non hanno responsabilità anche la diffusione delle armi in Usa, l’inanità europea sui migranti, Internet?
«Queste non sono cause: facilitano, anche molto, le azioni che quelle cause producono. Internet e i “social” possono servire altrettanto efficacemente all’inclusione come all’esclusione, al rispetto e al disprezzo, all’amicizia e all’odio. La responsabilità di scegliere ricade direttamente sulle nostre spalle di navigatori. Possiamo usare lo stesso coltello per tagliare pane o gole: a qualsiasi uso lo destini, chi lo tiene lo vuole affilato. Il web affila gli strumenti ma noi ne scegliamo l’applicazione».
È ancora «sonno della ragione»?
«Come diceva il filosofo tedesco Leo Strauss, ci sono sempre stati e ci saranno sempre degli inattesi cambiamenti di punto di vista che modificano radicalmente il sapere precedente: ogni dottrina, per quanto definitiva sembri, sarà prima o poi soppiantata da un’altra. L’hanno già detto altri, il tribalismo è la risposta al perché le differenze tra gruppi della popolazione siano sempre ridotte a un rapporto inferiore/superiore».
Bauman: “La paura e l’odio si nutrono dello stesso cibo”
“Dallas simbolo dell’Occidente senza identità”
“Servono obiettivi sui quali scaricare i nostri timori. Torniamo alla dinamica tra superiore e inferiore”
Il filosofo: la xenofobia in Europa e a Dallas figlie della cronica incertezza
intervista di Francesca Paci
La paura è il demone più sinistro del nostro tempo», ammoniva già anni fa il filosofo polacco Zygmunt Bauman. A guardare il mondo occidentale, che dagli Usa all’acciaccata Europa, pare aver ceduto alle pulsioni più rabbiose quasi si fosse «mediorientalizzato», gli spettri evocati dal teorico della società liquida nonché una tra le menti più acute del pensiero contemporaneo assumono dimensioni epiche.
Dallas ma anche gli episodi xenofobi ripetutisi nel Regno Unito dopo la Brexit e, nell’Italia porto dei migranti, il rifugiato nigeriano ucciso a Fermo. Professor Bauman, stiamo passando dall’età della paura a quella dell’odio?
«Non c’è alcun passaggio dalle paure nate dalla nostra cronica incertezza all’esibizione di odio a Dallas o ai mini pogrom avvenuti dopo la Brexit nelle strade inglesi: sono contemporanei, solo di rado li sperimentiamo separatamente. Paura e odio hanno le stesse origini e si nutrono dello stesso cibo: ricordano i gemelli siamesi condannati a trascorrere tutta la vita in compagnia reciproca: in molti casi non solo sono nati insieme ma possono solo morire insieme. La paura deve per forza cercare, inventare e costruire gli obiettivi su cui scaricare l’odio mentre l’odio ha bisogno della spaventosità dei suoi obiettivi come ragion d’essere: si rimpallano a vicenda, possono sopravvivere solo così».
C’è consequenzialità tra la diffusione dell’«hate speech» (incitamento all’odio) e le nuove tensioni etniche e razziali?
«La loro coincidenza non è casuale ma neppure predeterminata. Come ogni alleanza è una scelta politica. Per quanto stiamo vivendo la scelta è stata dettata dalla simultaneità di due fenomeni. Il primo, individuato dal sociologo tedesco Ulrich Beck, è la stridente discrepanza tra l’essere stati assegnati a una “situazione cosmopolita” in assenza di una “consapevolezza cosmopolita” e senza gli strumenti adatti a gestirla. Il conseguente scontro tra strumenti di controllo politico territorialmente limitati e poteri extraterritoriali incontrollabili e imprevedibili ha prodotto la “deregulation” multi-direzionale delle condizioni di vita e ha saturato le nostre esistenze di paura per il futuro nostro e dei nostri figli. Quella paura era e resta una trinità avvelenata, l’incontro di tre sentimenti ossessionanti, ignoranza, impotenza e umiliazione. I poteri distanti e oscuri che ci condizionano vanno al di là del nostro sguardo e della nostra influenza, così come le nostre paure si muovono tra forze che siamo incapaci di addomesticare o contenere. Se non sappiamo respingere queste forze che minacciano tutto quanto ci è caro, non potremmo almeno tenerle a distanza, interdire loro l’accesso alle nostre case e ai luoghi di lavoro?».
Non potremmo, professore?
«L’afflusso massiccio e senza precedenti di rifugiati è il secondo fenomeno a cui accennavo e ha contribuito a dare a questa domanda una risposta credibile e “di buon senso” seppure falsa e fuorviante, una risposta elevata a rango di dogma da aspiranti politici che vi annusano la chance di un forte sostegno popolare. È balsamo per le anime tormentate: le paure senza sbocco e perciò tossiche non possono riversarsi sulle loro vere cause - forze poderose e così distanti da essere immuni al nostro risentimento - ma possono facilmente e tangibilmente rovesciarsi su chi appare e si comporta da straniero, dagli ambulanti ai mendicanti. Le aggressioni etniche e razziali sono la medicina dei poveri contro la propria miseria. La loro efficacia si misura non dal fatto che risolvano la fragilità della vita ma dal dare temporaneo sollievo al tormento psicologico dell’impotenza e dell’umiliazione».
La paura, certo. Ma non hanno responsabilità anche la diffusione delle armi in Usa, l’inanità europea sui migranti, Internet?
«Queste non sono cause: facilitano, anche molto, le azioni che quelle cause producono. Internet e i “social” possono servire altrettanto efficacemente all’inclusione come all’esclusione, al rispetto e al disprezzo, all’amicizia e all’odio. La responsabilità di scegliere ricade direttamente sulle nostre spalle di navigatori. Possiamo usare lo stesso coltello per tagliare pane o gole: a qualsiasi uso lo destini, chi lo tiene lo vuole affilato. Il web affila gli strumenti ma noi ne scegliamo l’applicazione».
È ancora «sonno della ragione»?
«Come diceva il filosofo tedesco Leo Strauss, ci sono sempre stati e ci saranno sempre degli inattesi cambiamenti di punto di vista che modificano radicalmente il sapere precedente: ogni dottrina, per quanto definitiva sembri, sarà prima o poi soppiantata da un’altra. L’hanno già detto altri, il tribalismo è la risposta al perché le differenze tra gruppi della popolazione siano sempre ridotte a un rapporto inferiore/superiore».
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Re: Dove va l'America?
Corriere11.7.16
Neri e bianchi in America: da Lincoln a Obama Perché c’è ancora la frattura?
di Massimo Gaggi
Abramo Lincoln che nel 1862 abolì la schiavitù. Le leggi sui diritti civili e sul diritto di voto introdotte da Lyndon Johnson negli anni Sessanta del secolo scorso che avrebbero dovuto porre fine a ogni forma di segregazione razziale, oltre a offrire ai neri pari opportunità nello studio e nell’accesso al lavoro. Di battaglie per l’integrazione della minoranza di colore la democrazia americana ne ha combattute tante, ma difficoltà e resistenze sono sempre state enormi e la ferita della questione razziale non si è mai rimarginata.
La miscela di rapporti tra le diverse comunità del «melting pot» americano è cambiata più volte negli anni, ma ha sempre mantenuto qualche fattore esplosivo: dopo lo schiavismo, la segregazione delle «leggi Jim Crow» di fine Ottocento. Dopo la segregazione, la discriminazione. E poi, ancora, la povertà, il degrado urbano dei quartieri neri e, oggi, l’insofferenza davanti ai controlli di polizia sempre più frequenti e rudi. Ricucire è difficile anche perché, perfino davanti ai migliori tentativi di integrazione, molti afroamericani non riescono a scrollarsi di dosso il risentimento per il peccato originale che ha prodotto questa loro condizione: la deportazione degli avi dall’Africa.
Quanto ai bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è quasi sempre un sentimento di diffidenza o la tendenza a mantenere le distanze. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Perfino tra neri con molti discendenti dei popoli del Corno d’Africa e del bacino del Nilo che si sentono su un gradino più alto.
C’è il pregiudizio contro i maschi neri che raramente riescono a costruire famiglie stabili e la consapevolezza che - anche se pesano povertà, degrado dei quartieri, scuole disastrate - a finire nel vortice del teppismo e della microcriminalità sono soprattutto i giovani delle minoranze nere e ispaniche. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole evitare il dilagare del crimine.
Fino a quando gli eccessi degli agenti non provocano rivolte tra i neri e anche nelle coscienze dei bianchi. Le tensioni attuali, iniziate due anni fa dopo l’uccisione di un ragazzo disarmato a Ferguson, fin qui non avevano prodotto incendi paragonabili alle rivolte di Chicago e Tulsa dell’inizio del Novecento (in tutti e due i casi ci furono una quarantina di morti e centinaia di feriti).
E nemmeno con quelle degli anni Sessanta: il decennio delle grandi speranze e delle grandi delusioni. Furono quelli gli anni in cui gli Stati Uniti sembrarono a un passo dall’impresa di rimarginare l’antica ferita: John Kennedy che imposta la riforma dei diritti civili mentre Martin Luther King - siamo nel ‘63 - pronuncia davanti a una folla immensa a Washington il suo celebre discorso: «I have a dream».
Qualche mese dopo Kennedy viene assassinato ma Lyndon Johnson ne completa l’opera: pari diritti alle urne, nelle società, sul posto di lavoro. Nel 1966 viene eletto il primo senatore nero. Nel ‘67 tocca al primo giudice afroamericano della Corte Suprema. E’ anche l’anno di «Indovina chi viene a cena?», l’ironico film con il quale Sidney Lumet cerca di rompere gli steccati sulla questione dei matrimoni misti ormai previsti dalla legge, ma che rimangono ancora un tabù nella società americana.
Ma è anche l’anno della rivolta di Newark, alle porte di New York: 23 morti e 700 feriti dopo che la polizia aveva massacrato un tassista nero. L’anno dopo, il 1968, le speranze d una convivenza più serena vengono ulteriormente scosse dall’assassinio di Martin Luther King e dell’altro Kennedy, Robert, lanciato verso la conquista della Casa Bianca.
Le violenze della polizia hanno prodotto negli anni altre rivolte, comprese le due che hanno insanguinato Los Angeles: quella di Watts del 1965 - sei giorni di guerriglia, 34 morti, 1032 feriti e l’intervento della Guardia Nazionale) e quella del 1992 dopo il caso Rodney King (un altro tassista malmenato dalla polizia). Al limite della guerra civile: quando tornò l’ordine sul campo erano rimasti 50 morti e duemila feriti.
L’America ora teme che qualcosa del genere possa succedere di nuovo e proprio negli ultimi mesi della presidenza Obama. Il Paese ha più anticorpi - una vera classe dirigente nera capace di mitigare le tensioni com’è già avvenuto a Baltimora dopo i primi disordini successivi all’uccisione di un altro ragazzo nero disarmato. O come è avvenuto a Charleston, in South Carolina, dove non si è registrato alcun incidente dopo che un «suprematista» bianco ha fatto strage di neri in una chiesa. Ma i tempi sono per certi versi più difficili, le circostanze più insidiose. Oggi l’America è un Paese in armi: 300 milioni di fucili e pistole su 320 milioni di abitanti. E la diffusione dei video che provano gli abusi e a volte i crimini commessi da alcuni poliziotti, suscitano ondate d’indignazione. Venti difficili da controllare: c’è spazio per chi, come il killer di Dallas, va alla ricerca di micce alle quali dare fuoco.
Nel 1921 i disordini di Tulsa vennero spenti dopo giorni di guerriglia coi neri chiusi in campi d’internamento. Solo ricerche storiografiche recenti hanno dimostrato che quel conflitto fu assai più cruento, con molti neri massacrati anche da civili bianchi che volavano su di loro in aereo lanciando candelotti di dinamite. Cosa sarebbe successo, già allora in America, se il Paese avesse visto le immagini di quei feroci bombardamenti?
Neri e bianchi in America: da Lincoln a Obama Perché c’è ancora la frattura?
di Massimo Gaggi
Abramo Lincoln che nel 1862 abolì la schiavitù. Le leggi sui diritti civili e sul diritto di voto introdotte da Lyndon Johnson negli anni Sessanta del secolo scorso che avrebbero dovuto porre fine a ogni forma di segregazione razziale, oltre a offrire ai neri pari opportunità nello studio e nell’accesso al lavoro. Di battaglie per l’integrazione della minoranza di colore la democrazia americana ne ha combattute tante, ma difficoltà e resistenze sono sempre state enormi e la ferita della questione razziale non si è mai rimarginata.
La miscela di rapporti tra le diverse comunità del «melting pot» americano è cambiata più volte negli anni, ma ha sempre mantenuto qualche fattore esplosivo: dopo lo schiavismo, la segregazione delle «leggi Jim Crow» di fine Ottocento. Dopo la segregazione, la discriminazione. E poi, ancora, la povertà, il degrado urbano dei quartieri neri e, oggi, l’insofferenza davanti ai controlli di polizia sempre più frequenti e rudi. Ricucire è difficile anche perché, perfino davanti ai migliori tentativi di integrazione, molti afroamericani non riescono a scrollarsi di dosso il risentimento per il peccato originale che ha prodotto questa loro condizione: la deportazione degli avi dall’Africa.
Quanto ai bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è quasi sempre un sentimento di diffidenza o la tendenza a mantenere le distanze. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Perfino tra neri con molti discendenti dei popoli del Corno d’Africa e del bacino del Nilo che si sentono su un gradino più alto.
C’è il pregiudizio contro i maschi neri che raramente riescono a costruire famiglie stabili e la consapevolezza che - anche se pesano povertà, degrado dei quartieri, scuole disastrate - a finire nel vortice del teppismo e della microcriminalità sono soprattutto i giovani delle minoranze nere e ispaniche. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole evitare il dilagare del crimine.
Fino a quando gli eccessi degli agenti non provocano rivolte tra i neri e anche nelle coscienze dei bianchi. Le tensioni attuali, iniziate due anni fa dopo l’uccisione di un ragazzo disarmato a Ferguson, fin qui non avevano prodotto incendi paragonabili alle rivolte di Chicago e Tulsa dell’inizio del Novecento (in tutti e due i casi ci furono una quarantina di morti e centinaia di feriti).
E nemmeno con quelle degli anni Sessanta: il decennio delle grandi speranze e delle grandi delusioni. Furono quelli gli anni in cui gli Stati Uniti sembrarono a un passo dall’impresa di rimarginare l’antica ferita: John Kennedy che imposta la riforma dei diritti civili mentre Martin Luther King - siamo nel ‘63 - pronuncia davanti a una folla immensa a Washington il suo celebre discorso: «I have a dream».
Qualche mese dopo Kennedy viene assassinato ma Lyndon Johnson ne completa l’opera: pari diritti alle urne, nelle società, sul posto di lavoro. Nel 1966 viene eletto il primo senatore nero. Nel ‘67 tocca al primo giudice afroamericano della Corte Suprema. E’ anche l’anno di «Indovina chi viene a cena?», l’ironico film con il quale Sidney Lumet cerca di rompere gli steccati sulla questione dei matrimoni misti ormai previsti dalla legge, ma che rimangono ancora un tabù nella società americana.
Ma è anche l’anno della rivolta di Newark, alle porte di New York: 23 morti e 700 feriti dopo che la polizia aveva massacrato un tassista nero. L’anno dopo, il 1968, le speranze d una convivenza più serena vengono ulteriormente scosse dall’assassinio di Martin Luther King e dell’altro Kennedy, Robert, lanciato verso la conquista della Casa Bianca.
Le violenze della polizia hanno prodotto negli anni altre rivolte, comprese le due che hanno insanguinato Los Angeles: quella di Watts del 1965 - sei giorni di guerriglia, 34 morti, 1032 feriti e l’intervento della Guardia Nazionale) e quella del 1992 dopo il caso Rodney King (un altro tassista malmenato dalla polizia). Al limite della guerra civile: quando tornò l’ordine sul campo erano rimasti 50 morti e duemila feriti.
L’America ora teme che qualcosa del genere possa succedere di nuovo e proprio negli ultimi mesi della presidenza Obama. Il Paese ha più anticorpi - una vera classe dirigente nera capace di mitigare le tensioni com’è già avvenuto a Baltimora dopo i primi disordini successivi all’uccisione di un altro ragazzo nero disarmato. O come è avvenuto a Charleston, in South Carolina, dove non si è registrato alcun incidente dopo che un «suprematista» bianco ha fatto strage di neri in una chiesa. Ma i tempi sono per certi versi più difficili, le circostanze più insidiose. Oggi l’America è un Paese in armi: 300 milioni di fucili e pistole su 320 milioni di abitanti. E la diffusione dei video che provano gli abusi e a volte i crimini commessi da alcuni poliziotti, suscitano ondate d’indignazione. Venti difficili da controllare: c’è spazio per chi, come il killer di Dallas, va alla ricerca di micce alle quali dare fuoco.
Nel 1921 i disordini di Tulsa vennero spenti dopo giorni di guerriglia coi neri chiusi in campi d’internamento. Solo ricerche storiografiche recenti hanno dimostrato che quel conflitto fu assai più cruento, con molti neri massacrati anche da civili bianchi che volavano su di loro in aereo lanciando candelotti di dinamite. Cosa sarebbe successo, già allora in America, se il Paese avesse visto le immagini di quei feroci bombardamenti?
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Re: Dove va l'America?
Repubblica 11.7.16
Nel ghetto della città in fiamme dove tutto ha avuto inizio “Ci addestriamo alla guerra”
Tra le gang in marcia e i fedeli raccolti in preghiera. Con un pensiero costante: “Le prime vittime qui siamo noi afroamericani”
di Alberto Flores d’Arcais
DALLAS. «Meglio che ve ne andiate, chiudete bene le portiere e non fermatevi. Da queste parti è pericoloso». Queste parti sono le strade intorno a Dixon Circle, ghetto nero della South Dallas dove la classica ferrovia divide l’area «per bene» da quella dei «senza legge», dove la polizia non mette (quasi) mai piede. La donna che parla non abita qui («sono venuta per vedere come sta mio zio, qui l’unica speranza è andarsene») e ha una gran fretta. Lui, lo zio, pelle nera e forte accento ispanico di parlare invece ne ha voglia e da qui non se ne andrà mai. «Le gang stanno lì oltre quel fossato, marciano avanti e indietro nella strada principale, qui non vengono, noi ci facciamo gli affari nostri, siamo tranquilli».
Non sembra molto convinto di quanto sta dicendo, fermo davanti alla sua casa su Barber Street, ridotta piuttosto male ma con una tripla inferriata a scoraggiare i poco di buono. «Sono disabile, vivo nel quartiere da 41 anni e il governo se ne è sempre fregato di noi. Che devo pensare? Non è bello quello che è successo, certo che non si devono ammazzare i poliziotti, ma a noi chi ci difende? Per loro non siamo neanche esseri umani». Sopravvive con pochi spiccioli, ha due figli: «Li avevo, in realtà non ho idea di dove siano finiti. Da qui se ne sono andati e hanno fatto bene, chi cresce nel quartiere non ha alcuna speranza. Io ci sono cresciuto e ci resto».
Quelle che lui chiama gang sono giovani uomini e qualche donna, la fedele “milizia” di Charles Goodson, 31 anni, treccine rasta, sguardo truce e rabbia da vendere, che una volta alla settimana li guida, tute mimetiche e armati come piccoli Rambo, per «addestrarsi alla guerra», nel vicino Martin Luther King Jr. Park, raro pezzo di verde pubblico. Oggi non si fanno vedere, davanti a quello che è una sorta di loro quartier generale — la Marketa Grocery su Dixon Avenue — ci sono solo un paio di afroamericani che sembrano intenti a uno scambio soldi per droga e non hanno alcuna voglia di essere osservati.
Accanto c’è quel che rimane di un altro piccolo market abbandonato, solo un isolato di distanza da dove nel 2012 il ragazzo nero James Harper venne ucciso con tre colpi di pistola da un poliziotto bianco. A South Dallas ha avuto tutto inizio allora. Dopo la morte di Harper ci furono proteste, qualche incidente, poi una sorta di armistizio per cui la polizia doveva girare alla larga. Il salto di qualità arriva nell’estate del 2014, i giorni delle tensioni razziali seguite all’uccisione di Michael Brown a Ferguson e di Eric Garner a Staten Island. Fu allora che Charles Goodson e il suo compare Darren X (che si auto-definisce pomposamente «maresciallo del New Black Panther») hanno organizzato il Huey P. Newton Gun Club e le marce provocatorie, imbracciando fucili d’assalto e AR-15, per le strade della metropoli texana. Dove comprare queste armi è facile quasi quanto fare la spesa alimentare.
Dixon Circle come Arlington, altra area ad alta tensione. Qui tra Dallas e Fort Worth, vicino alla stadio dei Dallas Cowboys, le cose sono ancora più complicate. Ci sono intere zone dove le gang spadroneggiano e dettano legge, ma non solo quelle che si richiamano al Black Power. Qui sono molto organizzati anche i gruppi “ariani”, suprematisti bianchi che esultano a ogni nero ucciso dalla polizia, sognano un ritorno ai “bei tempi” dei linciaggi e di quando i neri non avevano diritti civili. È da Arlington che circa un anno fa sono calati su South Dallas manipoli di “patrioti” che volevano attaccare una moschea di neri (gestita dal Black Islam), quando due gruppi armati — bianchi da una parte, neri dall’altra — hanno dato una dimostrazione palese di come una guerra civile (e razziale) “virtuale” possa diventare reale in un futuro non troppo lontano.
La domenica è giorno di riposo e di preghiera e nelle chiese di Dallas, a maggioranza protestante, la strage dei poliziotti di giovedì scorso tiene inevitabilmente banco. Con distinguo e differenze. La First Baptist si trova al 1707 di San Jacinto, parte nobile di downtown, in mezzo a ristoranti, banche e case di buona borghesia. «La nostra missione è trasformare il mondo con la parola di Dio, la nostra eredità arriva dalla Bibbia», ripetono quasi a slogan i fedeli. Alle 9 e 15 di mattina sono pochi i banchi liberi, il pubblico è composto quasi solo di bianchi, molti hanno appuntata sul petto la scritta “Back the Blue”, appoggiamo la polizia. Più che una celebrazione religiosa sembra un grande happening, danze e concerti, con un gruppo di sedici ballerini-cantanti (tutti rigorosamente bianchi, maschi e femmine) che vengono applauditi a lungo. La parte “politica” è affidata a Robert Jeffress, giacca scura, cravatta e fazzoletto blu, reduce da un’intervista con Fox News. Il suo non è soltanto un invito a pregare per i poliziotti morti, ci sono anche le accuse ai «sedicenti ministri», i religiosi delle altre chiese di Dallas che usano l’altare per fomentare una «inaccettabile violenza».
Non fa nomi, «ma se vuole sentirli vada pure alla Friendship West Baptist», suggerisce un vicino di banco sorridente. La Friendship si trova sulla West Wheatland Road, una quindicina di miglia a sud del centro di Dallas, un grande edificio bianco-crema con tre tetti spioventi color mattone e il motto «cambiare la gente per cambiare il mondo». Qui di facce bianche non se ne vedono, i canti sono più classici, invocazioni e preghiere sono rivolte a tutti. «Preghiamo anche per i poliziotti, ma ricordatevi sempre che le prime vittime siamo noi neri. Vendette? No, cerchiamo solo pace ed uguaglianza». Parole che nella Dallas di oggi sembrano prive di significato.
Nel ghetto della città in fiamme dove tutto ha avuto inizio “Ci addestriamo alla guerra”
Tra le gang in marcia e i fedeli raccolti in preghiera. Con un pensiero costante: “Le prime vittime qui siamo noi afroamericani”
di Alberto Flores d’Arcais
DALLAS. «Meglio che ve ne andiate, chiudete bene le portiere e non fermatevi. Da queste parti è pericoloso». Queste parti sono le strade intorno a Dixon Circle, ghetto nero della South Dallas dove la classica ferrovia divide l’area «per bene» da quella dei «senza legge», dove la polizia non mette (quasi) mai piede. La donna che parla non abita qui («sono venuta per vedere come sta mio zio, qui l’unica speranza è andarsene») e ha una gran fretta. Lui, lo zio, pelle nera e forte accento ispanico di parlare invece ne ha voglia e da qui non se ne andrà mai. «Le gang stanno lì oltre quel fossato, marciano avanti e indietro nella strada principale, qui non vengono, noi ci facciamo gli affari nostri, siamo tranquilli».
Non sembra molto convinto di quanto sta dicendo, fermo davanti alla sua casa su Barber Street, ridotta piuttosto male ma con una tripla inferriata a scoraggiare i poco di buono. «Sono disabile, vivo nel quartiere da 41 anni e il governo se ne è sempre fregato di noi. Che devo pensare? Non è bello quello che è successo, certo che non si devono ammazzare i poliziotti, ma a noi chi ci difende? Per loro non siamo neanche esseri umani». Sopravvive con pochi spiccioli, ha due figli: «Li avevo, in realtà non ho idea di dove siano finiti. Da qui se ne sono andati e hanno fatto bene, chi cresce nel quartiere non ha alcuna speranza. Io ci sono cresciuto e ci resto».
Quelle che lui chiama gang sono giovani uomini e qualche donna, la fedele “milizia” di Charles Goodson, 31 anni, treccine rasta, sguardo truce e rabbia da vendere, che una volta alla settimana li guida, tute mimetiche e armati come piccoli Rambo, per «addestrarsi alla guerra», nel vicino Martin Luther King Jr. Park, raro pezzo di verde pubblico. Oggi non si fanno vedere, davanti a quello che è una sorta di loro quartier generale — la Marketa Grocery su Dixon Avenue — ci sono solo un paio di afroamericani che sembrano intenti a uno scambio soldi per droga e non hanno alcuna voglia di essere osservati.
Accanto c’è quel che rimane di un altro piccolo market abbandonato, solo un isolato di distanza da dove nel 2012 il ragazzo nero James Harper venne ucciso con tre colpi di pistola da un poliziotto bianco. A South Dallas ha avuto tutto inizio allora. Dopo la morte di Harper ci furono proteste, qualche incidente, poi una sorta di armistizio per cui la polizia doveva girare alla larga. Il salto di qualità arriva nell’estate del 2014, i giorni delle tensioni razziali seguite all’uccisione di Michael Brown a Ferguson e di Eric Garner a Staten Island. Fu allora che Charles Goodson e il suo compare Darren X (che si auto-definisce pomposamente «maresciallo del New Black Panther») hanno organizzato il Huey P. Newton Gun Club e le marce provocatorie, imbracciando fucili d’assalto e AR-15, per le strade della metropoli texana. Dove comprare queste armi è facile quasi quanto fare la spesa alimentare.
Dixon Circle come Arlington, altra area ad alta tensione. Qui tra Dallas e Fort Worth, vicino alla stadio dei Dallas Cowboys, le cose sono ancora più complicate. Ci sono intere zone dove le gang spadroneggiano e dettano legge, ma non solo quelle che si richiamano al Black Power. Qui sono molto organizzati anche i gruppi “ariani”, suprematisti bianchi che esultano a ogni nero ucciso dalla polizia, sognano un ritorno ai “bei tempi” dei linciaggi e di quando i neri non avevano diritti civili. È da Arlington che circa un anno fa sono calati su South Dallas manipoli di “patrioti” che volevano attaccare una moschea di neri (gestita dal Black Islam), quando due gruppi armati — bianchi da una parte, neri dall’altra — hanno dato una dimostrazione palese di come una guerra civile (e razziale) “virtuale” possa diventare reale in un futuro non troppo lontano.
La domenica è giorno di riposo e di preghiera e nelle chiese di Dallas, a maggioranza protestante, la strage dei poliziotti di giovedì scorso tiene inevitabilmente banco. Con distinguo e differenze. La First Baptist si trova al 1707 di San Jacinto, parte nobile di downtown, in mezzo a ristoranti, banche e case di buona borghesia. «La nostra missione è trasformare il mondo con la parola di Dio, la nostra eredità arriva dalla Bibbia», ripetono quasi a slogan i fedeli. Alle 9 e 15 di mattina sono pochi i banchi liberi, il pubblico è composto quasi solo di bianchi, molti hanno appuntata sul petto la scritta “Back the Blue”, appoggiamo la polizia. Più che una celebrazione religiosa sembra un grande happening, danze e concerti, con un gruppo di sedici ballerini-cantanti (tutti rigorosamente bianchi, maschi e femmine) che vengono applauditi a lungo. La parte “politica” è affidata a Robert Jeffress, giacca scura, cravatta e fazzoletto blu, reduce da un’intervista con Fox News. Il suo non è soltanto un invito a pregare per i poliziotti morti, ci sono anche le accuse ai «sedicenti ministri», i religiosi delle altre chiese di Dallas che usano l’altare per fomentare una «inaccettabile violenza».
Non fa nomi, «ma se vuole sentirli vada pure alla Friendship West Baptist», suggerisce un vicino di banco sorridente. La Friendship si trova sulla West Wheatland Road, una quindicina di miglia a sud del centro di Dallas, un grande edificio bianco-crema con tre tetti spioventi color mattone e il motto «cambiare la gente per cambiare il mondo». Qui di facce bianche non se ne vedono, i canti sono più classici, invocazioni e preghiere sono rivolte a tutti. «Preghiamo anche per i poliziotti, ma ricordatevi sempre che le prime vittime siamo noi neri. Vendette? No, cerchiamo solo pace ed uguaglianza». Parole che nella Dallas di oggi sembrano prive di significato.
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Re: Dove va l'America?
Ancora del razzismo negli USA.Gli uomini di colore gli sono serviti per tutte le guerre dalla prima guerra mondiale a tutti i conflitti che vi sono stati fino ad ora.Non mi meraviglia per niente che siano stati uccisi dei poliziotti.Forse sono trattati anche sotto le armi le persone di colore in malo modo.Quel ragazzo era tornato dall'Afganistan con dei problemi ( quali?)
https://it.wikipedia.org/wiki/Razzismo_ ... %27America
Ciao
Paolo11
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Paolo11
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Re: Dove va l'America?
LIBRE news
Fermare Trump: maxi-attentato e terzo mandato per Obama
Scritto il 17/7/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Un terzo mandato per la presidenza Obama? Sarebbe perfetto per sospendere le presidenziali di novembre e allontanare quello che resta l’incubo numero uno per Wall Street, ovvero Donald Trump. Naturalmente, per arrivare a tanto servirebbe qualcosa di eccezionale, mostruoso, devastante. Come ad esempio un replay del maxi-attentato dell’11 Settembre. La cosa incredibile è che se ne stia parlando apertamente, negli Usa, come racconta Alexander Azadgan: «Recentemente, si è sollevato un certo interesse (negli Stati Uniti e all’estero) sulla validità giuridica di un eventuale terzo mandato della presidenza Obama nel caso di una guerra imminente in forma di attacco terroristico stile 11 Settembre che, senza essere di quelle proporzioni, permetterebbe una sospensione temporanea delle elezioni presidenziali di novembre». Solo supposizioni, naturalmente, che si devono a esponenti della destra dell’intellighenzia americana e a fonti di intelligence. L’uica certezza è che Wall Street e i cospiratori del Pnac desiderano «il proseguimento della politica di Obama attraverso la candidatura di Hillary Clinton», dal momento che «rappresenta per loro l’opzione più sicura, la più prevedibile, malleabile e controllabile».In ogni caso, avverte Azadgan in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, meglio stare in guardia rispetto all’auto-terrorismo “false flag”, alias strategia della tensione: «Queste astuzie diaboliche sono sempre state usate nel corso della storia umana, ma abbiamo assistito a una concentrazione senza precedenti del loro impiego a partire dall’11 Settembre, che altro non era che una ricetta prefabbricata per garantire la durata del primo mandato di Bush (2000-2004) e, poi, della sua rielezione nel 2004-2008». La storia del ‘900 parla da sola. Prima il naufragio del Lusitania nel 1915 come preludio all’entrata di Washington nella Prima Guerra Mondiale. Poi la macchinazione di Hitler per bruciare il Reichstag nel 1933 ed eliminare i suoi avversari politici schierati a sinistra. Quindi l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941, servito come pretesto per l’ingresso di Washington nella Seconda Guerra Mondiale. E ancora: l’incidente nel Golfo di Tonchino che è servito come scusa per la guerra in Vietnam. Ultimo, ma non meno importante, l’11 Settembre. Quindici anni di guerra ininterrotra in Medio Oriente, a scopo di dominio.Tutti eventi «progettati con astuzia, attraverso un calcolo preprogrammato avente come conseguenza la fabbricazione fallace del consenso del popolo americano, ipnotizzato da paure largamente false e mal percepite». Tornando a oggi: “colpo di Stato” di Obama nel caso in cui Trump abbia la meglio contro Clinton? «Tutti questi fattori di paura, in combinazione con il crollo economico del 2008 che non è mai stato veramente risolto (tranne che per quell’1% a scapito del 99%), così come le dispendiose e sconsiderate guerre del primo decennio del 2000, e non solamente nel Medio Oriente, ma anche alle porte della Russia, attraverso l’Ucraina», secondo Azadgan ha creato avversione e diffidenza nei confronti di Hillary Clinton, «essendo lei coinvolta in pieno in queste decisioni rivelatesi errate, ossia l’invasione del 2003 e l’occupazione dell’Iraq e la seguente in Libia con la destituzione di Muhammar Gheddafi nel 2011 e l’assassinio dell’ambasciatore Stevens, un colpo organizzato dai servizi americani in associazione con quel guazzabuglio chiamato Bengasi».Pesa il coinvolgimento della Clinton in tutti questi fatti, e più ancora il suo comportamento sospetto ed evasivo, la sua intenzionale mancanza di trasparenza (la soppressione di migliaia di mail dal server del suo computer personale nel corso delle sue attività per sovvertire il regime libico, fatto nel quale lei è invischiata fino ai collo). «Il suo comportamento arrogante e solitamente aggressivo hanno prodotto ed esacerbato una profonda avversione e sospetto da parte di una notevole porzione di elettorato americano, democratico e repubblicano in ugual misura: ciò che spiega il fenomeno Bernie Sanders benché quest’ultimo fosse ormai a fine carriera». Tutto questo favorisce la campagna di Donald Trump, che peraltro fino a oggi ha offerto «uno spettacolo clownesco della realtà, nel quadro di una politica demagogica tossica e pericolosa». Ci sarebbero dunque le condizioni (teoriche) per «una continuazione del regime Obama», alla quale però lo stesso Azadgan dice di non credere. Ma restano rischi, «se le strutture di potere a Wall Street (e a Washington) si sentissero minacciate da ciò che potrebbe somigliare a una presa di controllo imminente da parte di Trump».Alcuni gruppi di analisti, conclude Azadgan, sostengono che «la cricca di Washington neocon/neolib potrebbe produrre un’altra operazione sotto falsa bandiera stile 11 Settembre, ma non di pari grandezza, al fine di sostenere il regime Obama con il falso pretesto di un’urgenza nazionale». Questi stessi ambienti, inoltre, denunciano che il complesso delle percezioni, dei sentimenti e dei timori americani è già stato perfettamente «plasmato per preparare le masse ad accettare questo possibile scenario attraverso una serie di operazioni “false flag”». Lo scenario non è rassicurante: «Dall’ “inside job”dell’11 Settembre al 7 luglio 2005 nel Regno Unito, e tutto il cammino percorso per arrivare alla creazione di uno stato di ferocia permanete attraverso gli agenti Isis a Parigi, San Bernardino, Bruxelles, e adesso nell’orribile atto di Orlando, in Florida».
Fermare Trump: maxi-attentato e terzo mandato per Obama
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Un terzo mandato per la presidenza Obama? Sarebbe perfetto per sospendere le presidenziali di novembre e allontanare quello che resta l’incubo numero uno per Wall Street, ovvero Donald Trump. Naturalmente, per arrivare a tanto servirebbe qualcosa di eccezionale, mostruoso, devastante. Come ad esempio un replay del maxi-attentato dell’11 Settembre. La cosa incredibile è che se ne stia parlando apertamente, negli Usa, come racconta Alexander Azadgan: «Recentemente, si è sollevato un certo interesse (negli Stati Uniti e all’estero) sulla validità giuridica di un eventuale terzo mandato della presidenza Obama nel caso di una guerra imminente in forma di attacco terroristico stile 11 Settembre che, senza essere di quelle proporzioni, permetterebbe una sospensione temporanea delle elezioni presidenziali di novembre». Solo supposizioni, naturalmente, che si devono a esponenti della destra dell’intellighenzia americana e a fonti di intelligence. L’uica certezza è che Wall Street e i cospiratori del Pnac desiderano «il proseguimento della politica di Obama attraverso la candidatura di Hillary Clinton», dal momento che «rappresenta per loro l’opzione più sicura, la più prevedibile, malleabile e controllabile».In ogni caso, avverte Azadgan in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, meglio stare in guardia rispetto all’auto-terrorismo “false flag”, alias strategia della tensione: «Queste astuzie diaboliche sono sempre state usate nel corso della storia umana, ma abbiamo assistito a una concentrazione senza precedenti del loro impiego a partire dall’11 Settembre, che altro non era che una ricetta prefabbricata per garantire la durata del primo mandato di Bush (2000-2004) e, poi, della sua rielezione nel 2004-2008». La storia del ‘900 parla da sola. Prima il naufragio del Lusitania nel 1915 come preludio all’entrata di Washington nella Prima Guerra Mondiale. Poi la macchinazione di Hitler per bruciare il Reichstag nel 1933 ed eliminare i suoi avversari politici schierati a sinistra. Quindi l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941, servito come pretesto per l’ingresso di Washington nella Seconda Guerra Mondiale. E ancora: l’incidente nel Golfo di Tonchino che è servito come scusa per la guerra in Vietnam. Ultimo, ma non meno importante, l’11 Settembre. Quindici anni di guerra ininterrotra in Medio Oriente, a scopo di dominio.Tutti eventi «progettati con astuzia, attraverso un calcolo preprogrammato avente come conseguenza la fabbricazione fallace del consenso del popolo americano, ipnotizzato da paure largamente false e mal percepite». Tornando a oggi: “colpo di Stato” di Obama nel caso in cui Trump abbia la meglio contro Clinton? «Tutti questi fattori di paura, in combinazione con il crollo economico del 2008 che non è mai stato veramente risolto (tranne che per quell’1% a scapito del 99%), così come le dispendiose e sconsiderate guerre del primo decennio del 2000, e non solamente nel Medio Oriente, ma anche alle porte della Russia, attraverso l’Ucraina», secondo Azadgan ha creato avversione e diffidenza nei confronti di Hillary Clinton, «essendo lei coinvolta in pieno in queste decisioni rivelatesi errate, ossia l’invasione del 2003 e l’occupazione dell’Iraq e la seguente in Libia con la destituzione di Muhammar Gheddafi nel 2011 e l’assassinio dell’ambasciatore Stevens, un colpo organizzato dai servizi americani in associazione con quel guazzabuglio chiamato Bengasi».Pesa il coinvolgimento della Clinton in tutti questi fatti, e più ancora il suo comportamento sospetto ed evasivo, la sua intenzionale mancanza di trasparenza (la soppressione di migliaia di mail dal server del suo computer personale nel corso delle sue attività per sovvertire il regime libico, fatto nel quale lei è invischiata fino ai collo). «Il suo comportamento arrogante e solitamente aggressivo hanno prodotto ed esacerbato una profonda avversione e sospetto da parte di una notevole porzione di elettorato americano, democratico e repubblicano in ugual misura: ciò che spiega il fenomeno Bernie Sanders benché quest’ultimo fosse ormai a fine carriera». Tutto questo favorisce la campagna di Donald Trump, che peraltro fino a oggi ha offerto «uno spettacolo clownesco della realtà, nel quadro di una politica demagogica tossica e pericolosa». Ci sarebbero dunque le condizioni (teoriche) per «una continuazione del regime Obama», alla quale però lo stesso Azadgan dice di non credere. Ma restano rischi, «se le strutture di potere a Wall Street (e a Washington) si sentissero minacciate da ciò che potrebbe somigliare a una presa di controllo imminente da parte di Trump».Alcuni gruppi di analisti, conclude Azadgan, sostengono che «la cricca di Washington neocon/neolib potrebbe produrre un’altra operazione sotto falsa bandiera stile 11 Settembre, ma non di pari grandezza, al fine di sostenere il regime Obama con il falso pretesto di un’urgenza nazionale». Questi stessi ambienti, inoltre, denunciano che il complesso delle percezioni, dei sentimenti e dei timori americani è già stato perfettamente «plasmato per preparare le masse ad accettare questo possibile scenario attraverso una serie di operazioni “false flag”». Lo scenario non è rassicurante: «Dall’ “inside job”dell’11 Settembre al 7 luglio 2005 nel Regno Unito, e tutto il cammino percorso per arrivare alla creazione di uno stato di ferocia permanete attraverso gli agenti Isis a Parigi, San Bernardino, Bruxelles, e adesso nell’orribile atto di Orlando, in Florida».
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Re: Dove va l'America?
GUERRA CIVILE IN AMERICA
TITOLA SULLA SUA TESTATA DAGOSPIA
17 LUG 2016 18:05
1. SPARATORIA A BATON ROUGE, IN LOUISIANA, CONTRO LA POLIZIA: TRE AGENTI UCCISI - VIDEO
2. BATON ROUGE È IL LUOGO DOVE È STATO L'UCCISO L'AFROAMERICANO ALTON STERLING CHE HA INAUGURATO L'IMPRESSIONANTE SEQUENZA DI AFROAMERICANI UCCISI DALLA POLIZIA
3. CHI HA SPARATO SAREBBE IN FUGA. CHIUSE LE STRADE: E' IN CORSO UNA CACCIA ALL'UOMO
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cron ... 128846.htm
TITOLA SULLA SUA TESTATA DAGOSPIA
17 LUG 2016 18:05
1. SPARATORIA A BATON ROUGE, IN LOUISIANA, CONTRO LA POLIZIA: TRE AGENTI UCCISI - VIDEO
2. BATON ROUGE È IL LUOGO DOVE È STATO L'UCCISO L'AFROAMERICANO ALTON STERLING CHE HA INAUGURATO L'IMPRESSIONANTE SEQUENZA DI AFROAMERICANI UCCISI DALLA POLIZIA
3. CHI HA SPARATO SAREBBE IN FUGA. CHIUSE LE STRADE: E' IN CORSO UNA CACCIA ALL'UOMO
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cron ... 128846.htm
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Re: Dove va l'America?
ELEZIONI USA
Donald Trump, il politico più bugiardo degli Usa
Un sito web ha analizzato 163 sue dichiarazioni: solo 3 sono vere. Ecco una carrellata di quelle false. Che lui difende: così acchiappo milioni di voti
DI ANTONIO CARLUCCI
18 luglio 2016
Donald Trump ha vinto due volte senza avere avversari in grado di impensierirlo. La prima vittoria è arrivata conquistando il primo posto nelle primarie del Partito Repubblicano per poi ottenere, con quasi certezza, la nomination nella convention che inizia il 19 luglio. La seconda vittoria è il titolo di bugiardo dell’anno. PolitiFact , un sito web collegato al quotidiano Tampa Bay che è nato nel 2007 ma già vanta un premio Pulitzer, ha messo il miliardario che aspira a diventare presidente in cima alla lista dei politici più bugiardi d’America.
PolitiFact ha vivisezionato 163 dichiarazioni di Trump e ha stilato questa classifica: sono risultate vere solo 3 affermazioni, ovvero il 2 per cento, e abbastanza vere 12 (7 per cento). Le altre 148 (91 per cento del totale) fanno sprofondare Trump nell’ottavo cerchio dell’Inferno, quello riservato ai bugiardi, se dovessimo prendere in parola Dante Alighieri: 24 affermazioni sono soltanto mezze verità, 27 sono per lo più false, 88 sono totalmente false. E, ciliegina su questa torta, 31 sono falsità che gli americani definiscono “pants on fire”, letteralmente pantaloni in fiamme, ovvero bugie così grossolane da sprofondare direttamente nell’Inferno dantesco.
A queste ultime appartiene sicuramente un’affermazione legata all’attentato alle Torri Gemelle del 2001. «Io ho visto crollare il World Trade Center. E ho visto a Jersey City migliaia e migliaia di persone festeggiare le torri che crollavano». Non esiste un solo video, una fotografia, una testimonianza che nella cittadina del New Jersey che si affaccia sul fiume Hudson ci siano stati episodi come quello citato dal palazzinaro newyorkese l’11 settembre del 2001, né nei giorni seguenti. Alle proteste e alla critiche Trump ha risposto dicendo che lui ricordava perfettamente quello che aveva raccontato.
Dello stesso tipo è la sparata legata alle statistiche sul crimine negli Stati Uniti, in particolare gli omicidi e il fattore razziale. «I bianchi uccisi dai bianchi rappresentano il 16 per cento dei delitti», sentenziò via twitter Donald Trump il giorno dopo un episodio di violenza durante un suo comizio, quando un attivista afro americano che protestava contro il miliardario fu aggredito dai sostenitori di Trump. Nel tweet Trump rivelò una statistica che non appariva in nessuno studio sul crimine: «I neri uccisi dalla polizia, l’1 per cento. I bianchi uccisi dalla polizia, il 3 per cento. I bianchi uccisi dai neri, l’81 per cento».
Con una faccia tosta da primo premio, Trump replicò così al giornalista di Fox Tv Bill O’Reilly che gli chiedeva conto dell’affermazione: «Hey Bill, dovrò mica controllare ogni statistica prima di un tweet? Io, poi, ho acchiappato milioni e milioni di persone con @RealDonaldTrump». E al conduttore delle interviste domenicali della Cnn George Stephanopoulos spiegò: «Ci possono essere state affermazioni controverse George, ma alle fine non lo sono più quando la gente comincia a dire “sai, Trump ha proprio ragione”».
Questo modo di dare una giustificazione politica, se non filosofica, alla menzogna ha sempre attirato la curiosità di molti studiosi. Come ha fatto notare Jeet Heer in un articolo su “New Republic”, il comportamento di Trump è descritto perfettamente in un libro di Harry G. Frankfurt, professore emerito di filosofia all’università di Princeton. Il saggio si chiama “On Bullshit”, ovvero “I Pallonari” o “I Contaballe”, dove viene fatta una distinzione tra il bugiardo e il bullshit, categorie niente affatto assimilabili e che nella società interpretano ruoli differenti.
Questa la riflessione del professor Frankfurt. «È impossibile per qualcuno mentire senza pensare che egli conosca la verità. Sparare balle non richiede questa convinzione. Una persona che mente dovrà in qualche modo rispondere sulla verità che copre e in qualche modo è rispettoso della verità. Quando un uomo onesto parla, dice solo che ritiene di essere nel vero, e per il bugiardo è allo stesso modo indispensabile considerare le sue affermazioni false. Per il contaballe, ovviamente, tutte le scommesse sono perse... Egli non rigetta l’autorità della verità, come fa il bugiardo, né si oppone ad essa. Semplicemente non se ne cura, ed allora il contaballe finisce per essere un nemico più grande della verità di quanto non lo sia il semplice bugiardo».
Seguendo il ragionamento del professore emerito di Princeton allora è più facile mettere a fuoco il comportamento di colui che rischia di rappresentare il Partito Repubblicano nella corsa alla Casa Bianca. Affermare ancora dopo 8 anni che Barack Obama non è nato negli Usa e quindi occupa abusivamente lo Studio Ovale, non è una piccola o grande bugia, è qualcosa che serve solo a creare una falsa realtà, come affermare di «aver sentito che Obama è pronto a fare entrare nel Paese 200 mila rifugiati siriani», quando c’è un comunicato ufficiale che parla di 10 mila. E lo stesso scenario irreale viene proposto con le affermazioni che «il governo messicano ha un piano per far emigrare i criminali negli Usa» o che «le politiche fiscali pongono gli Stati Uniti in testa ai Paesi dove si pagano più tasse», quando tutte le analisi dimostrano che Washington si trova nella parte bassa della classifica.
© Riproduzione riservata 18 luglio 2016
Donald Trump, il politico più bugiardo degli Usa
Un sito web ha analizzato 163 sue dichiarazioni: solo 3 sono vere. Ecco una carrellata di quelle false. Che lui difende: così acchiappo milioni di voti
DI ANTONIO CARLUCCI
18 luglio 2016
Donald Trump ha vinto due volte senza avere avversari in grado di impensierirlo. La prima vittoria è arrivata conquistando il primo posto nelle primarie del Partito Repubblicano per poi ottenere, con quasi certezza, la nomination nella convention che inizia il 19 luglio. La seconda vittoria è il titolo di bugiardo dell’anno. PolitiFact , un sito web collegato al quotidiano Tampa Bay che è nato nel 2007 ma già vanta un premio Pulitzer, ha messo il miliardario che aspira a diventare presidente in cima alla lista dei politici più bugiardi d’America.
PolitiFact ha vivisezionato 163 dichiarazioni di Trump e ha stilato questa classifica: sono risultate vere solo 3 affermazioni, ovvero il 2 per cento, e abbastanza vere 12 (7 per cento). Le altre 148 (91 per cento del totale) fanno sprofondare Trump nell’ottavo cerchio dell’Inferno, quello riservato ai bugiardi, se dovessimo prendere in parola Dante Alighieri: 24 affermazioni sono soltanto mezze verità, 27 sono per lo più false, 88 sono totalmente false. E, ciliegina su questa torta, 31 sono falsità che gli americani definiscono “pants on fire”, letteralmente pantaloni in fiamme, ovvero bugie così grossolane da sprofondare direttamente nell’Inferno dantesco.
A queste ultime appartiene sicuramente un’affermazione legata all’attentato alle Torri Gemelle del 2001. «Io ho visto crollare il World Trade Center. E ho visto a Jersey City migliaia e migliaia di persone festeggiare le torri che crollavano». Non esiste un solo video, una fotografia, una testimonianza che nella cittadina del New Jersey che si affaccia sul fiume Hudson ci siano stati episodi come quello citato dal palazzinaro newyorkese l’11 settembre del 2001, né nei giorni seguenti. Alle proteste e alla critiche Trump ha risposto dicendo che lui ricordava perfettamente quello che aveva raccontato.
Dello stesso tipo è la sparata legata alle statistiche sul crimine negli Stati Uniti, in particolare gli omicidi e il fattore razziale. «I bianchi uccisi dai bianchi rappresentano il 16 per cento dei delitti», sentenziò via twitter Donald Trump il giorno dopo un episodio di violenza durante un suo comizio, quando un attivista afro americano che protestava contro il miliardario fu aggredito dai sostenitori di Trump. Nel tweet Trump rivelò una statistica che non appariva in nessuno studio sul crimine: «I neri uccisi dalla polizia, l’1 per cento. I bianchi uccisi dalla polizia, il 3 per cento. I bianchi uccisi dai neri, l’81 per cento».
Con una faccia tosta da primo premio, Trump replicò così al giornalista di Fox Tv Bill O’Reilly che gli chiedeva conto dell’affermazione: «Hey Bill, dovrò mica controllare ogni statistica prima di un tweet? Io, poi, ho acchiappato milioni e milioni di persone con @RealDonaldTrump». E al conduttore delle interviste domenicali della Cnn George Stephanopoulos spiegò: «Ci possono essere state affermazioni controverse George, ma alle fine non lo sono più quando la gente comincia a dire “sai, Trump ha proprio ragione”».
Questo modo di dare una giustificazione politica, se non filosofica, alla menzogna ha sempre attirato la curiosità di molti studiosi. Come ha fatto notare Jeet Heer in un articolo su “New Republic”, il comportamento di Trump è descritto perfettamente in un libro di Harry G. Frankfurt, professore emerito di filosofia all’università di Princeton. Il saggio si chiama “On Bullshit”, ovvero “I Pallonari” o “I Contaballe”, dove viene fatta una distinzione tra il bugiardo e il bullshit, categorie niente affatto assimilabili e che nella società interpretano ruoli differenti.
Questa la riflessione del professor Frankfurt. «È impossibile per qualcuno mentire senza pensare che egli conosca la verità. Sparare balle non richiede questa convinzione. Una persona che mente dovrà in qualche modo rispondere sulla verità che copre e in qualche modo è rispettoso della verità. Quando un uomo onesto parla, dice solo che ritiene di essere nel vero, e per il bugiardo è allo stesso modo indispensabile considerare le sue affermazioni false. Per il contaballe, ovviamente, tutte le scommesse sono perse... Egli non rigetta l’autorità della verità, come fa il bugiardo, né si oppone ad essa. Semplicemente non se ne cura, ed allora il contaballe finisce per essere un nemico più grande della verità di quanto non lo sia il semplice bugiardo».
Seguendo il ragionamento del professore emerito di Princeton allora è più facile mettere a fuoco il comportamento di colui che rischia di rappresentare il Partito Repubblicano nella corsa alla Casa Bianca. Affermare ancora dopo 8 anni che Barack Obama non è nato negli Usa e quindi occupa abusivamente lo Studio Ovale, non è una piccola o grande bugia, è qualcosa che serve solo a creare una falsa realtà, come affermare di «aver sentito che Obama è pronto a fare entrare nel Paese 200 mila rifugiati siriani», quando c’è un comunicato ufficiale che parla di 10 mila. E lo stesso scenario irreale viene proposto con le affermazioni che «il governo messicano ha un piano per far emigrare i criminali negli Usa» o che «le politiche fiscali pongono gli Stati Uniti in testa ai Paesi dove si pagano più tasse», quando tutte le analisi dimostrano che Washington si trova nella parte bassa della classifica.
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Re: Dove va l'America?
La Stampa 18.7.16
Gang, ribelli e cecchini solitari
L’America che spara alla polizia
Rancore e sangue in strada: è l’estate peggiore dal 1968
Tre poliziotti uccisi a Baton Rouge, in Lousiana, tre in gravissime condizioni, dieci giorni dopo la strage dei cinque agenti uccisi dal cecchino Micah Johnson a Dallas, in Texas. Un sospetto ucciso, due alla macchia. La caccia alla polizia fa dell’estate 2016 la peggiore dal 1968, quando, dopo gli assassinii di M.L. King e del senatore Robert Kennedy - vicino alla nomination democratica - la Convention di Chicago fu stravolta dagli scontri tra studenti, attivisti e polizia. Giusto oggi si apre la Convention repubblicana di Cleveland che nominerà Donald Trump candidato alla Casa Bianca, nel mezzo della campagna di protesta di Black Lives Matter contro gli abusi delle forze dell’ordine.
A pochi passi da Airport Highway, la strada che conduce al quartier generale della polizia a Baton Rouge, si sono ripetute le scene di guerriglia urbana di Dallas.
Con almeno un franco tiratore a mirare sulla polizia. In fondo al rettilineo c’è il presidio costante di dimostranti, slogan e cartelli per denunciare la morte dell’ambulante Alton Sterling, colpito inerme da un agente e ripreso in un video che gira per il mondo.
Da Dallas e Baton Rouge si infetta la ferita delle due Americhe, quella del movimento di Black Lives Matter persuasa che i neri siano bersaglio di una violenza razzista, che mobilita intellettuali come il regista Spike Lee, il filosofo Cornel West e la cantante Beyoncé, e quella legata ai poliziotti, «lavorano e muoiono per mantenere l’ordine». Steve Loomis, capo dell’associazione della polizia di Cleveland, ha chiesto al governatore dell’Ohio Kasich di sospendere il diritto di portare armi, teme disordini alla Convention, Kasich ha detto di no, «non posso cambiare la legge», e Loomis ha allora attaccato il presidente Obama: «Il presidente difende le bugie di Black Lives Matter e dei media… le mani di Obama grondano sangue».
Mentre a Baton Rouge si cercano i killer in fuga, il web si schiera, spietato come Loomis. Trump rispolvera la vecchia linea di Nixon, Legge&Ordine, per catturare il voto dei bianchi, e ragiona col consigliere Paul Manafort come trasformare la Convention, da show business con l’atleta trans Caytlin Jenner, in denuncia contro l’assedio ai bianchi, e alla polizia, da parte di «terroristi armati neri», Black Panthers nel XXI secolo.
Non ci saranno tregue. Sulla rivista «The Atlantic», un veterano osserva «In Iraq e Afghanistan non eravamo tanto attrezzati di armi e giubbotti, la polizia di Baton Rouge è ridicola», ma i dipartimenti delle metropoli acquistano armi, piastre antiproiettile in kevlar, elmetti. C’è voluto un ordine espresso di Obama per vietare l’impiego di baionette e granate, ma le forze dell’ordine affittano il surplus degli arsenali di Kabul e Baghdad. Le città sono percorse da jeep e blindati, armi da guerra, mitragliatrici, elmetti, corazze e le comunità nere, dalla rivolta a Ferguson nel 2014, scaldano la protesta politica. Finché, da Dallas a Baton Rouge, non cominciano a cadere anche i poliziotti, le gang si mobilitano in piazza e - come per Isis - si apre il “copycat”, la strage riprodotta da killer sconosciuti, isolati.
A cambiare la strategia di ordine pubblico americano fu un banale litigio per un sorpasso, nel 1970, a Newhall, in California, un’ora da Los Angeles. I poliziotti si trovarono davanti Bobby Davis, criminale veterano, armato di pistole e fucili. Con in pugno vecchi revolver a sei colpi, quattro agenti rimasero sull’asfalto. La strage di Newhall cambiò il manuale di polizia, più armi e migliori. I militari obiettano: «Al Pentagono insegniamo a parlare con iracheni e afghani, a non blindarsi, dialogando con i civili, nelle nostre città militarizziamo la vita quotidiana» ma le stragi scavano nuove trincee. David Brown, capo della polizia di Dallas, è diventato celebre per la condotta di apertura, che aveva migliorato i rapporti con le minoranze: prevarrà la sua filosofia o la paura dei cecchini, la retorica di Trump peggiorerà il clima, gli estremisti neri capiranno che l’aria è pessima?
Solo in quattro occasioni, dal massacro di Newhall, quattro poliziotti Usa son caduti in un giorno. Ora sono otto tra Dallas e Baton Rouge, mentre dimostranti, attivisti neri, bikers, suprematisti ariani, convergono su Cleveland. L’Fbi bussa alla porta dei violenti, a destra e sinistra, dissuadendoli dal manifestare alla Convention, «troppo rischioso». Qualcuno denuncia il «clima di intimidazione», altri restano a casa, molti partono comunque. Obama comprende che le sue nobili parole alla cerimonia funebre di Dallas commuovono ma non spengono l’ira diffusa. L’estate del rancore e del sangue spaventa il paese, ipnotizzato dai titoli ossessivi Nizza, Turchia, Orlando, Dallas, Baton Rouge. Doveva essere la festa della democrazia a Cleveland, per l’antico Grand Old Party repubblicano sedotto da Donald Trump, comincia invece nel sangue.
Gang, ribelli e cecchini solitari
L’America che spara alla polizia
Rancore e sangue in strada: è l’estate peggiore dal 1968
Tre poliziotti uccisi a Baton Rouge, in Lousiana, tre in gravissime condizioni, dieci giorni dopo la strage dei cinque agenti uccisi dal cecchino Micah Johnson a Dallas, in Texas. Un sospetto ucciso, due alla macchia. La caccia alla polizia fa dell’estate 2016 la peggiore dal 1968, quando, dopo gli assassinii di M.L. King e del senatore Robert Kennedy - vicino alla nomination democratica - la Convention di Chicago fu stravolta dagli scontri tra studenti, attivisti e polizia. Giusto oggi si apre la Convention repubblicana di Cleveland che nominerà Donald Trump candidato alla Casa Bianca, nel mezzo della campagna di protesta di Black Lives Matter contro gli abusi delle forze dell’ordine.
A pochi passi da Airport Highway, la strada che conduce al quartier generale della polizia a Baton Rouge, si sono ripetute le scene di guerriglia urbana di Dallas.
Con almeno un franco tiratore a mirare sulla polizia. In fondo al rettilineo c’è il presidio costante di dimostranti, slogan e cartelli per denunciare la morte dell’ambulante Alton Sterling, colpito inerme da un agente e ripreso in un video che gira per il mondo.
Da Dallas e Baton Rouge si infetta la ferita delle due Americhe, quella del movimento di Black Lives Matter persuasa che i neri siano bersaglio di una violenza razzista, che mobilita intellettuali come il regista Spike Lee, il filosofo Cornel West e la cantante Beyoncé, e quella legata ai poliziotti, «lavorano e muoiono per mantenere l’ordine». Steve Loomis, capo dell’associazione della polizia di Cleveland, ha chiesto al governatore dell’Ohio Kasich di sospendere il diritto di portare armi, teme disordini alla Convention, Kasich ha detto di no, «non posso cambiare la legge», e Loomis ha allora attaccato il presidente Obama: «Il presidente difende le bugie di Black Lives Matter e dei media… le mani di Obama grondano sangue».
Mentre a Baton Rouge si cercano i killer in fuga, il web si schiera, spietato come Loomis. Trump rispolvera la vecchia linea di Nixon, Legge&Ordine, per catturare il voto dei bianchi, e ragiona col consigliere Paul Manafort come trasformare la Convention, da show business con l’atleta trans Caytlin Jenner, in denuncia contro l’assedio ai bianchi, e alla polizia, da parte di «terroristi armati neri», Black Panthers nel XXI secolo.
Non ci saranno tregue. Sulla rivista «The Atlantic», un veterano osserva «In Iraq e Afghanistan non eravamo tanto attrezzati di armi e giubbotti, la polizia di Baton Rouge è ridicola», ma i dipartimenti delle metropoli acquistano armi, piastre antiproiettile in kevlar, elmetti. C’è voluto un ordine espresso di Obama per vietare l’impiego di baionette e granate, ma le forze dell’ordine affittano il surplus degli arsenali di Kabul e Baghdad. Le città sono percorse da jeep e blindati, armi da guerra, mitragliatrici, elmetti, corazze e le comunità nere, dalla rivolta a Ferguson nel 2014, scaldano la protesta politica. Finché, da Dallas a Baton Rouge, non cominciano a cadere anche i poliziotti, le gang si mobilitano in piazza e - come per Isis - si apre il “copycat”, la strage riprodotta da killer sconosciuti, isolati.
A cambiare la strategia di ordine pubblico americano fu un banale litigio per un sorpasso, nel 1970, a Newhall, in California, un’ora da Los Angeles. I poliziotti si trovarono davanti Bobby Davis, criminale veterano, armato di pistole e fucili. Con in pugno vecchi revolver a sei colpi, quattro agenti rimasero sull’asfalto. La strage di Newhall cambiò il manuale di polizia, più armi e migliori. I militari obiettano: «Al Pentagono insegniamo a parlare con iracheni e afghani, a non blindarsi, dialogando con i civili, nelle nostre città militarizziamo la vita quotidiana» ma le stragi scavano nuove trincee. David Brown, capo della polizia di Dallas, è diventato celebre per la condotta di apertura, che aveva migliorato i rapporti con le minoranze: prevarrà la sua filosofia o la paura dei cecchini, la retorica di Trump peggiorerà il clima, gli estremisti neri capiranno che l’aria è pessima?
Solo in quattro occasioni, dal massacro di Newhall, quattro poliziotti Usa son caduti in un giorno. Ora sono otto tra Dallas e Baton Rouge, mentre dimostranti, attivisti neri, bikers, suprematisti ariani, convergono su Cleveland. L’Fbi bussa alla porta dei violenti, a destra e sinistra, dissuadendoli dal manifestare alla Convention, «troppo rischioso». Qualcuno denuncia il «clima di intimidazione», altri restano a casa, molti partono comunque. Obama comprende che le sue nobili parole alla cerimonia funebre di Dallas commuovono ma non spengono l’ira diffusa. L’estate del rancore e del sangue spaventa il paese, ipnotizzato dai titoli ossessivi Nizza, Turchia, Orlando, Dallas, Baton Rouge. Doveva essere la festa della democrazia a Cleveland, per l’antico Grand Old Party repubblicano sedotto da Donald Trump, comincia invece nel sangue.
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Re: Dove va l'America?
Corriere 18.7.16
«Troppo sadismo nella società»
di Matteo Persivale
Il problema razziale c’è ma il sadismo nella società Usa è troppo alto». Sono le parole di Michael Kazin, storico della Georgetown University e autore di The Populist Persuasion: an American History .
Michael Kazin, storico della Georgetown University, autore di uno dei testi di riferimento sul populismo americano («The Populist Persuasion: an American History») è anche condirettore della rivista Dissent sulla quale di recente ha scritto che «il sadismo è tornato prepotentemente sulla scena» in America.
Professor Kazin, vedendo le immagini degli afroamericani uccisi dalla polizia, e degli agguati di Dallas e Baton Rouge ai poliziotti, è difficile non sostenere che lei abbia visto giusto.
«Il filosofo Richard Rorty aveva correttamente attribuito ai movimenti di protesta degli anni 60 e 70 il merito di aver abbassato il livello di sadismo accettabile nella società. Ma la crudeltà verso certi gruppi è tornata a manifestarsi, basta pensare al recente picco di crimini razziali».
Nonostante otto anni di presidenza democratica di Barack Obama?
«Era ridicolo immaginare, come ha fatto qualcuno sull’onda dell’entusiasmo, che l’arrivo di Obama avrebbe segnato l’inizio di una nuova era. Per due motivi. Il primo è che, al di là della persona, ci sono problemi che nel loro sviluppo sono indipendenti da chi in quel momento è stato eletto presidente. Voi, in Italia, lo sapete bene: con tanti governi diversi che si sono avvicendati nella vostra storia è complicato attribuire meriti o colpe a questo o a quel presidente del Consiglio. Gli americani invece tendono a immaginare che il presidente abbia un’influenza ben superiore a quella reale».
Il secondo motivo?
«È che l’America si trascina dietro una questione razziale irrisolta. Obama ha suscitato delle reazioni spesso molto complicate tra gli americani. Dire che nel corso dei due mandati di Obama la situazione sia peggiorata — anche se non sottoscrivo i punti di vista catastrofisti, il 2016 non è il 1968 — è un fatto. Per motivi come dicevo al di là del suo controllo».
Lei definisce la campagna di Donald Trump «crudele».
«Sì, ha legittimato l’animosità che decine di milioni di americani già sentivano dentro di sé verso altri gruppi etnici o religiosi, in questo ha riportato l’America indietro nel tempo e non è un bello spettacolo».
Se otto anni sotto il primo presidente afroamericano hanno inasprito le tensioni razziali cosa potrebbe succedere sotto una presidenza Trump?
«Gli storici sono i peggiori profeti, però se vogliamo fare un’ipotesi direi che, se Trump vincesse, sarebbe per un margine molto ridotto, con la possibilità concreta di avere il Senato contro. Con un margine di manovra così stretto dovrebbe concentrarsi sul tema che l’ha fatto diventare protagonista, il Muro (al confine con il Messico, ndr ). Dovrà costruirlo, fisico o virtuale che sia. Tutto il resto passerà in secondo piano. Di sicuro gli Stati Uniti sono oggi disuniti».
La polizia che finisce letteralmente nel mirino di un killer è il segnale di un odio insanabile, dopo tanti abusi non puniti?
«Quello che gli attivisti non dicono è che la maggior parte dei neri — che spesso vive ancora in quartieri che di fatto sono segregati, a causa della povertà, anche se la segregazione razziale ufficialmente è illegale da cinquant’anni — non vuole una polizia debole. Una polizia senza potere lascerebbe i quartieri dove vivono gli afroamericani ancora più in balia dei criminali. Il problema è la tolleranza zero, che è nata per ovviare a una questione reale, cioè i moltissimi crimini commessi negli anni 70 e 80 nelle strade, specie dei quartieri più poveri. E che poi ha finito per far addestrare la polizia a metodi troppo aggressivi».
Matteo Persivale
«Troppo sadismo nella società»
di Matteo Persivale
Il problema razziale c’è ma il sadismo nella società Usa è troppo alto». Sono le parole di Michael Kazin, storico della Georgetown University e autore di The Populist Persuasion: an American History .
Michael Kazin, storico della Georgetown University, autore di uno dei testi di riferimento sul populismo americano («The Populist Persuasion: an American History») è anche condirettore della rivista Dissent sulla quale di recente ha scritto che «il sadismo è tornato prepotentemente sulla scena» in America.
Professor Kazin, vedendo le immagini degli afroamericani uccisi dalla polizia, e degli agguati di Dallas e Baton Rouge ai poliziotti, è difficile non sostenere che lei abbia visto giusto.
«Il filosofo Richard Rorty aveva correttamente attribuito ai movimenti di protesta degli anni 60 e 70 il merito di aver abbassato il livello di sadismo accettabile nella società. Ma la crudeltà verso certi gruppi è tornata a manifestarsi, basta pensare al recente picco di crimini razziali».
Nonostante otto anni di presidenza democratica di Barack Obama?
«Era ridicolo immaginare, come ha fatto qualcuno sull’onda dell’entusiasmo, che l’arrivo di Obama avrebbe segnato l’inizio di una nuova era. Per due motivi. Il primo è che, al di là della persona, ci sono problemi che nel loro sviluppo sono indipendenti da chi in quel momento è stato eletto presidente. Voi, in Italia, lo sapete bene: con tanti governi diversi che si sono avvicendati nella vostra storia è complicato attribuire meriti o colpe a questo o a quel presidente del Consiglio. Gli americani invece tendono a immaginare che il presidente abbia un’influenza ben superiore a quella reale».
Il secondo motivo?
«È che l’America si trascina dietro una questione razziale irrisolta. Obama ha suscitato delle reazioni spesso molto complicate tra gli americani. Dire che nel corso dei due mandati di Obama la situazione sia peggiorata — anche se non sottoscrivo i punti di vista catastrofisti, il 2016 non è il 1968 — è un fatto. Per motivi come dicevo al di là del suo controllo».
Lei definisce la campagna di Donald Trump «crudele».
«Sì, ha legittimato l’animosità che decine di milioni di americani già sentivano dentro di sé verso altri gruppi etnici o religiosi, in questo ha riportato l’America indietro nel tempo e non è un bello spettacolo».
Se otto anni sotto il primo presidente afroamericano hanno inasprito le tensioni razziali cosa potrebbe succedere sotto una presidenza Trump?
«Gli storici sono i peggiori profeti, però se vogliamo fare un’ipotesi direi che, se Trump vincesse, sarebbe per un margine molto ridotto, con la possibilità concreta di avere il Senato contro. Con un margine di manovra così stretto dovrebbe concentrarsi sul tema che l’ha fatto diventare protagonista, il Muro (al confine con il Messico, ndr ). Dovrà costruirlo, fisico o virtuale che sia. Tutto il resto passerà in secondo piano. Di sicuro gli Stati Uniti sono oggi disuniti».
La polizia che finisce letteralmente nel mirino di un killer è il segnale di un odio insanabile, dopo tanti abusi non puniti?
«Quello che gli attivisti non dicono è che la maggior parte dei neri — che spesso vive ancora in quartieri che di fatto sono segregati, a causa della povertà, anche se la segregazione razziale ufficialmente è illegale da cinquant’anni — non vuole una polizia debole. Una polizia senza potere lascerebbe i quartieri dove vivono gli afroamericani ancora più in balia dei criminali. Il problema è la tolleranza zero, che è nata per ovviare a una questione reale, cioè i moltissimi crimini commessi negli anni 70 e 80 nelle strade, specie dei quartieri più poveri. E che poi ha finito per far addestrare la polizia a metodi troppo aggressivi».
Matteo Persivale
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