Dove va l'America?
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Re: Dove va l'America?
..SE NON SON MATTI NON LI VOGLIAMO..
La Stampa 30.10.16
“Mandate la Clinton in galera”
Trump trova la spinta giusta e azzera il distacco nei sondaggi
È a meno 2 dalla rivale. L’effetto “mailgate” ancora deve farsi sentire
di Gianni Riotta
Che week end di Halloween 2016! Donald Trump, candidato repubblicano, salta nei sondaggi al 45%, due soli punti dietro la democratica Hillary Clinton. E i numeri non calcolano ancora la reazione di un elettorato stanco, frustrato, malmostoso al caos scatenato da James Comey, repubblicano capo dell’Fbi nominato da Obama, con la irrituale lettera al Congresso su nuovi, possibili, accertamenti a proposito di e-mail della Clinton.
Trick or Treat, scherzetto o dolcetto, l’America si maschera anche in politica, due tribù l’una contro l’altra armate. In New Hampshire, dove Hillary è avanti di un punto, e in Iowa, Trump avanti di un punto, il magnate di New York accoglie il dolcetto Fbi incitando le folle a «sbattere in galera Hillary», l’accento rotondo di Queens, suo quartiere natale, rilanciato rauco dai microfoni. La colonna sonora è adesso i Rolling Stones, «You can’t always get what you want», i versi dei vecchi rockettari colgono l’humor nero trumpista. Siamo andati giù alla dimostrazione, a prenderci la vostra buona dose di insulti, cantando «Noi vogliamo urlare la nostra frustrazione, altrimenti facciamo esplodere pure le valvole da 50-amp!».
Trump rioccupa il terreno prediletto, il trash, il sospetto, al confine tra Vero, Falso, Verosimile, dove i militanti si caricano di energie anti Hillary, «bitch», la cagna delle t-shirt più vendute. Come osservano nel saggio appena pubblicato da Franco Angeli, «Misinformation, Guida all’età dell’informazione e della credulità» gli studiosi Quattrociocchi e Vicini, gli elettori colgono online solo i fatti che aderiscono alle loro opinioni, magma fazioso in cui Trump sguazza a suo agio. L’Fbi non ha rimesso Hillary sotto inchiesta – almeno per ora -, e Comey ha disubbidito alle indicazioni dirette del ministro della Giustizia Lynch, temendo probabilmente di essere accusato dal suo partito di parzialità filo democratici. Trump ha però buon gioco a infierire sugli errori, stupefacenti, della rivale: permettere alla fida consigliera Huma Abedin, moglie separata del disgraziato ex deputato Wiener, sorpreso a ripetizione con sms porno pare anche a minorenni, di condividere con l’assatanato coniuge il telefonino. E da questo scaricare, e stampare, mail dell’allora segretaria di Stato perché Hillary, ahinoi analfabeta digitale, non legge se non su carta e non distingue un server web privato da uno pubblico.
La volata della campagna più pazza a memoria d’uomo, e stavolta sembra non entrarci Putin con gli gnomi hacker pronti a rubacchiare mail democratiche e girarle a Wikileaks, rioffre a Trump l’occasione per vincere sul filo di lana, o almeno perder bene. Lo stato maggiore del partito repubblicano, umiliato nelle primarie in primavera, costretto al silenzio dalla populista Convenzione di Cleveland in estate, aveva trovato nella débâcle delle molestie sessuali di Trump in autunno occasione per rialzare la testa, con i due ex candidati, McCain 2008 e Romney 2012 a guidare lo sdegno contro «il barbaro» Trump. Ora è in gioco anche il Senato, dove il partito ha la maggioranza 54 a 46, ma teme il pareggio 50-50 (maggioranza andrebbe ai democratici, con il vicepresidente Kaine a rompere l’impasse). Dire no a Trump e perdere la Camera Alta rischia di facilitare a Hillary la nomina di giudici costituzionali progressisti.
Con Obama che si sgola a far comizi, Florida, North Carolina e Ohio stati in altalena tra i partiti, i leader repubblicani devono trangugiare l’amara realtà. Vinca o perda a novembre, Donald Trump è il loro Clown Killer, il mostro fantastico che i bambini temono divertiti questo Ognissanti. La sua presenza nella destra è e resterà forte, se davvero lanciasse un canale di talk show, ogni candidato dovrà genuflettersi, se partecipasse a future campagne sarà ostico ignorarne i seguaci scatenati.
A 192 ore dal voto il pasticciaccio Comey-Fbi conferma la debolezza di Hillary come candidata (nei sondaggi parecchi repubblicani la battono facilmente), corroborata solo dall’impopolarità di Trump. Se l’aria infelice che pesa sulla democratica e il richiamo della foresta del machismo di Trump strappassero all’astensionismo gli arrabbiati elettori maschi bianchi che lo adorano, per la Clinton sarà una lunga notte, l’8 di novembre. Per questo dal presidente, alla popolarissima First Lady Michelle, alla esausta Hillary, al bonario vicepresidente Biden il grido comune è «Votate!», per questo Trump rialza a palla il volume dei Rolling Stones «Facciamo esplodere tutte le valvole!».
La Stampa 30.10.16
“Mandate la Clinton in galera”
Trump trova la spinta giusta e azzera il distacco nei sondaggi
È a meno 2 dalla rivale. L’effetto “mailgate” ancora deve farsi sentire
di Gianni Riotta
Che week end di Halloween 2016! Donald Trump, candidato repubblicano, salta nei sondaggi al 45%, due soli punti dietro la democratica Hillary Clinton. E i numeri non calcolano ancora la reazione di un elettorato stanco, frustrato, malmostoso al caos scatenato da James Comey, repubblicano capo dell’Fbi nominato da Obama, con la irrituale lettera al Congresso su nuovi, possibili, accertamenti a proposito di e-mail della Clinton.
Trick or Treat, scherzetto o dolcetto, l’America si maschera anche in politica, due tribù l’una contro l’altra armate. In New Hampshire, dove Hillary è avanti di un punto, e in Iowa, Trump avanti di un punto, il magnate di New York accoglie il dolcetto Fbi incitando le folle a «sbattere in galera Hillary», l’accento rotondo di Queens, suo quartiere natale, rilanciato rauco dai microfoni. La colonna sonora è adesso i Rolling Stones, «You can’t always get what you want», i versi dei vecchi rockettari colgono l’humor nero trumpista. Siamo andati giù alla dimostrazione, a prenderci la vostra buona dose di insulti, cantando «Noi vogliamo urlare la nostra frustrazione, altrimenti facciamo esplodere pure le valvole da 50-amp!».
Trump rioccupa il terreno prediletto, il trash, il sospetto, al confine tra Vero, Falso, Verosimile, dove i militanti si caricano di energie anti Hillary, «bitch», la cagna delle t-shirt più vendute. Come osservano nel saggio appena pubblicato da Franco Angeli, «Misinformation, Guida all’età dell’informazione e della credulità» gli studiosi Quattrociocchi e Vicini, gli elettori colgono online solo i fatti che aderiscono alle loro opinioni, magma fazioso in cui Trump sguazza a suo agio. L’Fbi non ha rimesso Hillary sotto inchiesta – almeno per ora -, e Comey ha disubbidito alle indicazioni dirette del ministro della Giustizia Lynch, temendo probabilmente di essere accusato dal suo partito di parzialità filo democratici. Trump ha però buon gioco a infierire sugli errori, stupefacenti, della rivale: permettere alla fida consigliera Huma Abedin, moglie separata del disgraziato ex deputato Wiener, sorpreso a ripetizione con sms porno pare anche a minorenni, di condividere con l’assatanato coniuge il telefonino. E da questo scaricare, e stampare, mail dell’allora segretaria di Stato perché Hillary, ahinoi analfabeta digitale, non legge se non su carta e non distingue un server web privato da uno pubblico.
La volata della campagna più pazza a memoria d’uomo, e stavolta sembra non entrarci Putin con gli gnomi hacker pronti a rubacchiare mail democratiche e girarle a Wikileaks, rioffre a Trump l’occasione per vincere sul filo di lana, o almeno perder bene. Lo stato maggiore del partito repubblicano, umiliato nelle primarie in primavera, costretto al silenzio dalla populista Convenzione di Cleveland in estate, aveva trovato nella débâcle delle molestie sessuali di Trump in autunno occasione per rialzare la testa, con i due ex candidati, McCain 2008 e Romney 2012 a guidare lo sdegno contro «il barbaro» Trump. Ora è in gioco anche il Senato, dove il partito ha la maggioranza 54 a 46, ma teme il pareggio 50-50 (maggioranza andrebbe ai democratici, con il vicepresidente Kaine a rompere l’impasse). Dire no a Trump e perdere la Camera Alta rischia di facilitare a Hillary la nomina di giudici costituzionali progressisti.
Con Obama che si sgola a far comizi, Florida, North Carolina e Ohio stati in altalena tra i partiti, i leader repubblicani devono trangugiare l’amara realtà. Vinca o perda a novembre, Donald Trump è il loro Clown Killer, il mostro fantastico che i bambini temono divertiti questo Ognissanti. La sua presenza nella destra è e resterà forte, se davvero lanciasse un canale di talk show, ogni candidato dovrà genuflettersi, se partecipasse a future campagne sarà ostico ignorarne i seguaci scatenati.
A 192 ore dal voto il pasticciaccio Comey-Fbi conferma la debolezza di Hillary come candidata (nei sondaggi parecchi repubblicani la battono facilmente), corroborata solo dall’impopolarità di Trump. Se l’aria infelice che pesa sulla democratica e il richiamo della foresta del machismo di Trump strappassero all’astensionismo gli arrabbiati elettori maschi bianchi che lo adorano, per la Clinton sarà una lunga notte, l’8 di novembre. Per questo dal presidente, alla popolarissima First Lady Michelle, alla esausta Hillary, al bonario vicepresidente Biden il grido comune è «Votate!», per questo Trump rialza a palla il volume dei Rolling Stones «Facciamo esplodere tutte le valvole!».
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Re: Dove va l'America?
...VINCA IL PEGGIORE....
LIBRE news
Se gli americani ora scoprono chi è davvero Hillary Clinton
Scritto il 31/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.«Attenzione, si profila uno scenario imprevedibile fino a poche ore fa: il sorpasso di Trump su Hillary nell’ultima settimana della campagna elettorale», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”. «L’emailgate è devastante per l’immagine della Clinton, perché alimenta il sospetto che non sia affidabile, che abbia qualcosa da nascondere, che sia una mentitrice seriale». Ovvero: «Rafforza la diffidenza nei confronti della sua persona, che è stato il suo principale handicap in questi mesi». I contorni della vicenda sono da film: l’Fbi ha trovato le email di Hillary indagando su Anthony Weiner, ex politico emergente del partito democratico ed ex marito della sua assistente personale, la giovane e fidatissima Huma Abedin, il quale «è stato denunciato per molestie nei confronti di ragazzine minorenni, a cui inviava sue foto in costume adamitico». Osserva Foa: «Forse è il karma che colpisce i Clinton: pensavano di aver fatto fuori Trump pubblicando gli audio dei suoi commenti sulle donne e ora proprio uno scandalo sessuale rischia di rovinare la carriera dell’ex first-lady».Ma anche senza il colpo di coda dell’emailgate, aggiunge Foa, Hillary sarebbe stata in difficoltà. Motivo: ormai «la maggior parte degli americani diffida dei cosiddetti media mainstream (grandi tv e grandi giornali) e molti di loro preferiscono informarsi su siti di informazione che sono letteralmente esplosi in quei mesi come “Breitbart”, “Drudge Report”, “Infowars”, quasi tutti filorepubblicani e gli unici ad aver dato conto regolarmente dell’altro enorme scandalo ignorato dai grandi organi di informazione: quello di Wikileaks con la pubblicazione di migliaia di email del capo della campagna democratica, John Podesta, e di altri collaboratori, che sono stati hackerati». Dalla lettura di quelle email «emerge il doppio linguaggio dell’ex first lady su temi fondamentali con evidenti contraddizioni tra quanto promette agli elettori e quel che dice a prete chiuse alle lobby più influenti». Ed emergono «gli “inciuci” con una stampa servile e quella che appare come una corruzione implicita, multimilionaria, tramite la sua Fondazione anche con governi stranieri», come Qatar e Arabia Saudita (Isis e Fondazione Clinton, stessi sponsor). Emerge insomma «il vero volto del mondo della Clinton e, in genere, del potere di Washington, che provoca disgusto e rabbia negli americani».
LIBRE news
Se gli americani ora scoprono chi è davvero Hillary Clinton
Scritto il 31/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.«Attenzione, si profila uno scenario imprevedibile fino a poche ore fa: il sorpasso di Trump su Hillary nell’ultima settimana della campagna elettorale», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”. «L’emailgate è devastante per l’immagine della Clinton, perché alimenta il sospetto che non sia affidabile, che abbia qualcosa da nascondere, che sia una mentitrice seriale». Ovvero: «Rafforza la diffidenza nei confronti della sua persona, che è stato il suo principale handicap in questi mesi». I contorni della vicenda sono da film: l’Fbi ha trovato le email di Hillary indagando su Anthony Weiner, ex politico emergente del partito democratico ed ex marito della sua assistente personale, la giovane e fidatissima Huma Abedin, il quale «è stato denunciato per molestie nei confronti di ragazzine minorenni, a cui inviava sue foto in costume adamitico». Osserva Foa: «Forse è il karma che colpisce i Clinton: pensavano di aver fatto fuori Trump pubblicando gli audio dei suoi commenti sulle donne e ora proprio uno scandalo sessuale rischia di rovinare la carriera dell’ex first-lady».Ma anche senza il colpo di coda dell’emailgate, aggiunge Foa, Hillary sarebbe stata in difficoltà. Motivo: ormai «la maggior parte degli americani diffida dei cosiddetti media mainstream (grandi tv e grandi giornali) e molti di loro preferiscono informarsi su siti di informazione che sono letteralmente esplosi in quei mesi come “Breitbart”, “Drudge Report”, “Infowars”, quasi tutti filorepubblicani e gli unici ad aver dato conto regolarmente dell’altro enorme scandalo ignorato dai grandi organi di informazione: quello di Wikileaks con la pubblicazione di migliaia di email del capo della campagna democratica, John Podesta, e di altri collaboratori, che sono stati hackerati». Dalla lettura di quelle email «emerge il doppio linguaggio dell’ex first lady su temi fondamentali con evidenti contraddizioni tra quanto promette agli elettori e quel che dice a prete chiuse alle lobby più influenti». Ed emergono «gli “inciuci” con una stampa servile e quella che appare come una corruzione implicita, multimilionaria, tramite la sua Fondazione anche con governi stranieri», come Qatar e Arabia Saudita (Isis e Fondazione Clinton, stessi sponsor). Emerge insomma «il vero volto del mondo della Clinton e, in genere, del potere di Washington, che provoca disgusto e rabbia negli americani».
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Re: Dove va l'America?
IL DISASTRO STATUNITENSE. MAI COSI' IN BASSO.
Il Sole 1.11.16
Elezioni Usa
La «nebulosa» estremista che vota Trump
di Marco Valsania
«Siamo al momento decisivo. Me lo sento, se non eleggiamo Trump, se non ci facciamo ascoltare, ci sarà un collasso finanziario, una guerra mondiale, un terzo della popolazione verrà uccisa».
La battaglia tra Donald Trump – l’allarme apocalittico è di un suo sostenitore – e Hillary Clinton è porta a porta e senza risparmio di colpi. In gioco la cattura degli elettori nelle regioni incerte. Già 22 milioni hanno scelto, un quarto del totale in Stati cruciali quali Colorado, Florida e Nevada. Un corpo a corpo che mobilita gli eserciti più fedeli ai candidati. E se l’armata di Hillary ha già dato prova di sé, quella di Trump ha contorni inediti, labili e controversi, supplendo alla cautela dell’apparato conservatore con gli entusiasmi della nuova destra e il disagio o la rabbia di ceti popolari bianchi. Sarà dalla tenuta e ampliamento o meno di questa tumultuosa coalizione, rinvigorita oggi dagli scandali di Hillary, che dipenderà qualunque riscossa di Trump ai seggi.
Lo spettro dei disastri in caso di sconfitta di Trump è stato evocato di recente da Alex Jones, texano 42enne, gran teorico di complotti e tribuno di una nebulosa estremista definita Alt Right, la destra alternativa e radicale americana. Una nebulosa che, per scelta o per caso, ha trovato voce nella campagna di Trump. Quello stesso spettro della terza guerra mondiale è stato citato dal magnate immobiliare se venisse eletta Clinton. Al movimento possono essere ascritti altre crociate diffuse tra i sostenitori di Trump: dai “birthers”, che sospettano Barack Obama non sia americano, all’intransigenza pro-armi, fino a chi crede che il massacro nella scuola di Newtown sia stato una messa in scena dei nemici del Secondo emendamento. È un crogiuolo di tematiche che ha aiutato Trump a rivolgersi a quella che ha identificato come la sua vera base elettorale, la “working class” bianca, i ceti medi e bassi, spesso emarginati dalla politica oltre che dall’economia e da decenni in fuga ormai dai democratici. Negli anni 60 era il partito di Hillary a ottenere il 55% dei loro consensi, poi crollati al 35%, risaliti al 41% con Bill Clinton e nuovamente scesi al 36% con Obama nel 2012. L’esito di sommovimenti sociali e politici: i democratici che sposano diritti delle minoranze e coalizioni multiculturali; i repubblicani che si fanno difensori di valori tradizionali; l’erosione del sindacato; e ciò che leader della sinistra come Robert Reich e Thomas Frank chiamano il “tradimento” dell’adesione a dottrine di liberalizzazione combinata con l’incapacità di parlarne la lingua. Trump si è gettato in questo vuoto, anche se è un paladino discutibile. Tra i suoi limiti c’è proprio l’abbraccio soffocante della destra radicale. Trump, fin dall’inizio, ha faticato a sconfessare simili compagni di strada, compreso David Duke, l’ex leader del Ku Klux Klan. Atteggiamenti che minacciano di alienare almeno una parte di questo stesso elettorato popolare. In particolare le donne stanno prendendo le distanze: Trump domina Clinton di ben 43 punti tra gli uomini bianchi senza laurea, ma nell’identico elettorato femminile, il 55% di questi potenziali votanti, Hillary corre quasi alla pari.
La Alt Right è fatta di anonime “sturmtruppen” e chat digitali come anche di leader di gruppi neonazisti, think tank anti-semiti e filosofi della discriminazione scientifica. Il Breitbart News Network non ne è immune: l’ex presidente Steve Bannon, oggi chief executive della campagna di Trump, aveva definito la sua rete come la vera “piattaforma” dell’Alt Right. E il suo technology editor Milo Yiannopoulos – 33enne britannico, gay dichiarato e gusto per lo shock – ha composto quest’anno l’articolo che ha “sdoganato” la destra alternativa, ispirata più dalla sfida all’establishment e alla “correttezza politica” che a ideologie. Ma i critici segnalano fenomeni ben più oscuri. Gli attacchi antisemiti che invocano il nome di Trump sono in brusco aumento: 800 giornalisti sono stati oggetto di persecuzioni online, con minacce o il volto giustapposto a vittime dei campi di concentramento. Trump non ha creato questa miscela che minaccia sconquassi nelle urne. È stata piuttosto la crisi del partito repubblicano a dare spazio a Trump e alla Alt Right nel nome di un nuovo populismo di destra. Da sempre il populismo americano ha mostrato anime progressiste e oscurantiste alle quali attingere. Nel primo caso, a fine ‘800, il People’s Party dei piccoli agricoltori, seguito dal sindacato della confederazione Afl durante il New Deal. Una tradizione che spesso ha fatto da filtro a spinte più radicali di rivolta dal basso verso l’alto, con apici recenti nella candidatura del leader dei diritti civili Jesse Jackson nel 1988 e quest’anno del “socialdemocratico” Bernie Sanders. Diverso è il populismo conservatore, illustrato da John Judis nella Populist Explosion, che all’estremo idealizza un popolo bianco usurpato da una malsana alleanza tra elite e masse tacciate di inferiorità, dagli immigrati a minoranze etniche e religiose. Si insedia nel Sud con il governatore democratico dell’Alabama George Wallace (“segregazione oggi, domani e sempre”) e approda ai repubblicani che conquistano la regione con la regia della “strategia meridionale” di Richard Nixon. I progenitori più diretti di Trump sono leader repubblicani degli anni Novanta quali Pat Buchanan, il primo a proporre a un muro contro immigrati. Un decennio più tardi esplodono i Tea Party, commistione di valori religiosi e sociali ultra-conservatori, esprimendo la candidata alla vicepresidenza Sarah Palin.
Trump sta scrivendo un nuovo capitolo di questa storia appoggiandosi – anche – agli arsenali di una Alt Right che oggi può vantare persino un’ala di sicurezza nazionale, incarnata dall’ex generale e direttore dei servizi segreti delle Forze Armate Michael Flynn. Una destra che fa ampio uso dei nuovi strumenti di social media, inclusi siti quali Reddit e Twitter. Ma i cui ideali sono spesso antichi. Ci sono gli “scienziati”, che riconducono al Dna le differenze razziali e celebrano la superiorità dell’identità bianca. I Neoreazionari e Archeofuturisti, ispirati dall’ordine del mondo che fu. Nonché nazionalisti bianchi e seguaci della “manosphere”, che idealizza il Maschio Alfa. Il loro punto di raccolta si trova in Jared Taylor e Richard Spencer, fondatori del National Policy Institute. Spencer organizza conferenze a Washington, l’ultima in marzo dedicata alla nuova Identity Politics della destra. Ma giacca e cravatta non possono esorcizzare le identità più inquietanti, l’antisemitismo dell’ex professore universitario Kevin McDonald o il neonazismo del Daily Stormer di Andrew Anglin. Per non citare i cosiddetti 1488ers, 14 come le parole dello slogan «Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi»; 88 come due volte l’ottava lettera dell’alfabeto – H – per Heil Hitler.
Il Sole 1.11.16
Elezioni Usa
La «nebulosa» estremista che vota Trump
di Marco Valsania
«Siamo al momento decisivo. Me lo sento, se non eleggiamo Trump, se non ci facciamo ascoltare, ci sarà un collasso finanziario, una guerra mondiale, un terzo della popolazione verrà uccisa».
La battaglia tra Donald Trump – l’allarme apocalittico è di un suo sostenitore – e Hillary Clinton è porta a porta e senza risparmio di colpi. In gioco la cattura degli elettori nelle regioni incerte. Già 22 milioni hanno scelto, un quarto del totale in Stati cruciali quali Colorado, Florida e Nevada. Un corpo a corpo che mobilita gli eserciti più fedeli ai candidati. E se l’armata di Hillary ha già dato prova di sé, quella di Trump ha contorni inediti, labili e controversi, supplendo alla cautela dell’apparato conservatore con gli entusiasmi della nuova destra e il disagio o la rabbia di ceti popolari bianchi. Sarà dalla tenuta e ampliamento o meno di questa tumultuosa coalizione, rinvigorita oggi dagli scandali di Hillary, che dipenderà qualunque riscossa di Trump ai seggi.
Lo spettro dei disastri in caso di sconfitta di Trump è stato evocato di recente da Alex Jones, texano 42enne, gran teorico di complotti e tribuno di una nebulosa estremista definita Alt Right, la destra alternativa e radicale americana. Una nebulosa che, per scelta o per caso, ha trovato voce nella campagna di Trump. Quello stesso spettro della terza guerra mondiale è stato citato dal magnate immobiliare se venisse eletta Clinton. Al movimento possono essere ascritti altre crociate diffuse tra i sostenitori di Trump: dai “birthers”, che sospettano Barack Obama non sia americano, all’intransigenza pro-armi, fino a chi crede che il massacro nella scuola di Newtown sia stato una messa in scena dei nemici del Secondo emendamento. È un crogiuolo di tematiche che ha aiutato Trump a rivolgersi a quella che ha identificato come la sua vera base elettorale, la “working class” bianca, i ceti medi e bassi, spesso emarginati dalla politica oltre che dall’economia e da decenni in fuga ormai dai democratici. Negli anni 60 era il partito di Hillary a ottenere il 55% dei loro consensi, poi crollati al 35%, risaliti al 41% con Bill Clinton e nuovamente scesi al 36% con Obama nel 2012. L’esito di sommovimenti sociali e politici: i democratici che sposano diritti delle minoranze e coalizioni multiculturali; i repubblicani che si fanno difensori di valori tradizionali; l’erosione del sindacato; e ciò che leader della sinistra come Robert Reich e Thomas Frank chiamano il “tradimento” dell’adesione a dottrine di liberalizzazione combinata con l’incapacità di parlarne la lingua. Trump si è gettato in questo vuoto, anche se è un paladino discutibile. Tra i suoi limiti c’è proprio l’abbraccio soffocante della destra radicale. Trump, fin dall’inizio, ha faticato a sconfessare simili compagni di strada, compreso David Duke, l’ex leader del Ku Klux Klan. Atteggiamenti che minacciano di alienare almeno una parte di questo stesso elettorato popolare. In particolare le donne stanno prendendo le distanze: Trump domina Clinton di ben 43 punti tra gli uomini bianchi senza laurea, ma nell’identico elettorato femminile, il 55% di questi potenziali votanti, Hillary corre quasi alla pari.
La Alt Right è fatta di anonime “sturmtruppen” e chat digitali come anche di leader di gruppi neonazisti, think tank anti-semiti e filosofi della discriminazione scientifica. Il Breitbart News Network non ne è immune: l’ex presidente Steve Bannon, oggi chief executive della campagna di Trump, aveva definito la sua rete come la vera “piattaforma” dell’Alt Right. E il suo technology editor Milo Yiannopoulos – 33enne britannico, gay dichiarato e gusto per lo shock – ha composto quest’anno l’articolo che ha “sdoganato” la destra alternativa, ispirata più dalla sfida all’establishment e alla “correttezza politica” che a ideologie. Ma i critici segnalano fenomeni ben più oscuri. Gli attacchi antisemiti che invocano il nome di Trump sono in brusco aumento: 800 giornalisti sono stati oggetto di persecuzioni online, con minacce o il volto giustapposto a vittime dei campi di concentramento. Trump non ha creato questa miscela che minaccia sconquassi nelle urne. È stata piuttosto la crisi del partito repubblicano a dare spazio a Trump e alla Alt Right nel nome di un nuovo populismo di destra. Da sempre il populismo americano ha mostrato anime progressiste e oscurantiste alle quali attingere. Nel primo caso, a fine ‘800, il People’s Party dei piccoli agricoltori, seguito dal sindacato della confederazione Afl durante il New Deal. Una tradizione che spesso ha fatto da filtro a spinte più radicali di rivolta dal basso verso l’alto, con apici recenti nella candidatura del leader dei diritti civili Jesse Jackson nel 1988 e quest’anno del “socialdemocratico” Bernie Sanders. Diverso è il populismo conservatore, illustrato da John Judis nella Populist Explosion, che all’estremo idealizza un popolo bianco usurpato da una malsana alleanza tra elite e masse tacciate di inferiorità, dagli immigrati a minoranze etniche e religiose. Si insedia nel Sud con il governatore democratico dell’Alabama George Wallace (“segregazione oggi, domani e sempre”) e approda ai repubblicani che conquistano la regione con la regia della “strategia meridionale” di Richard Nixon. I progenitori più diretti di Trump sono leader repubblicani degli anni Novanta quali Pat Buchanan, il primo a proporre a un muro contro immigrati. Un decennio più tardi esplodono i Tea Party, commistione di valori religiosi e sociali ultra-conservatori, esprimendo la candidata alla vicepresidenza Sarah Palin.
Trump sta scrivendo un nuovo capitolo di questa storia appoggiandosi – anche – agli arsenali di una Alt Right che oggi può vantare persino un’ala di sicurezza nazionale, incarnata dall’ex generale e direttore dei servizi segreti delle Forze Armate Michael Flynn. Una destra che fa ampio uso dei nuovi strumenti di social media, inclusi siti quali Reddit e Twitter. Ma i cui ideali sono spesso antichi. Ci sono gli “scienziati”, che riconducono al Dna le differenze razziali e celebrano la superiorità dell’identità bianca. I Neoreazionari e Archeofuturisti, ispirati dall’ordine del mondo che fu. Nonché nazionalisti bianchi e seguaci della “manosphere”, che idealizza il Maschio Alfa. Il loro punto di raccolta si trova in Jared Taylor e Richard Spencer, fondatori del National Policy Institute. Spencer organizza conferenze a Washington, l’ultima in marzo dedicata alla nuova Identity Politics della destra. Ma giacca e cravatta non possono esorcizzare le identità più inquietanti, l’antisemitismo dell’ex professore universitario Kevin McDonald o il neonazismo del Daily Stormer di Andrew Anglin. Per non citare i cosiddetti 1488ers, 14 come le parole dello slogan «Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi»; 88 come due volte l’ottava lettera dell’alfabeto – H – per Heil Hitler.
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Re: Dove va l'America?
GLI USA COSTRETTI A FARE I CONTI CON LA SUA PARTE PEGGIORE. CI MANCAVA SOLO LUTTWAK
Chi ha scritto queste righe ha omesso che Luttwak è un un politologo di parte. Molto di parte. Lo è sempre stato.
«Voi in Europa non avete idea del grado di corruzione imputato ai Clinton», dice Luttwak.
LIBRE news
Luttwak: la Clinton non ha scampo, dovrà dimettersi
Scritto il 02/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Anche se dovesse vincere, Hillary Clinton sarebbe inchiodata dalle indagini riaperte dall’Fbi, che il Dipartimento di Giustizia avrebbe voluto insabbiare: non uscirebbe viva dalla procedura di impeachment. Lo afferma Edward Luttwak, politologo di fama e repubblicano di ferro: «Mettiamo che Hillary vinca. L’inchiesta dell’Fbi non per questo si bloccherà. Nemmeno se il direttore James Comey dovesse essere sostituito. Il che non sarà facile, anche perché in quel posto Comey è stato messo dall’amministrazione democratica». Conseguenza? «Dal vaso di Pandora, appena scoperchiato, verranno fuori altri scandali. Scandali per l’intera famiglia. Non solo Hillary e Bill, non solo la Fondazione, ma anche la figlia Chelsea», che viaggia su jet privati, «invitata come speaker a pagamento a conferenze dedicate al global warming». Anche se i media mainstream, giornali e televisioni, «fanno a gara a coprire, ridurre, nascondere il caso», parlando di “complotto”, Hillary non se la potrebbe cavare. Ed ecco spiegata, probabilmente, la mossa di Comey alla vigilia del voto: azzoppare la Clinton, accusata dall’Fbi, per evitare che finisca alla Casa Bianca un presidente “impresentabile”.«Di fronte alle nuove evidenze, Comey ha ritenuto di non poter più sorvolare su ipotesi di reato, come aveva fatto in luglio». Dal direttore dell’Fbi, una sfida senza precedenti rivolta al Dipartimento della Giustizia, che avrebbe coperto Hillary, spiega Luttwak in un’intervista a Cesare De Carlo per “Il Giorno”, ripresa da “Dagospia”. E se la Clinton comunque vincesse? «Avrebbe poca importanza», secondo Luttwak. «Allo stato dei fatti la nomina di uno Special Prosecutor sarebbe probabile, se – come pare – la Camera rimanesse repubblicana. E altrettanto probabilmente uno Special Prosecutor sarebbe l’inizio di un procedimento di impeachment». Uno “special prosecutor”: lo stesso Obama, come commissario provvisorio degli Stati Uniti? Il deputato Jason Chaffetz, presidente della Commissione per la sorveglianza delle attività governative, parla apertamente del problema Clinton: abbiamo tanto di quel materiale, ha detto, da tenerci occupati per due anni. «Voi in Europa non avete idea del grado di corruzione imputato ai Clinton», dice Luttwak. «Quando Hillary era segretario di Stato, avrebbe usato la carica pubblica per promuovere gli interessi della Fondazione e quelli della sua stessa famiglia».Un esempio: un principe del Qatar le avrebbe chiesto udienza per concludere un certo affare per il quale il Dipartimento di Stato avrebbe dovuto dare luce verde. Nessuna risposta. Allora il principe avrebbe fatto una ricca donazione. Le porte del Dipartimento si spalancano e l’affare viene concluso». Questi “affari” figuravano nelle e-mail private cancellate dopo l’ingiunzione da parte della polizia federale: in teoria, si tratta di “sottrazione di prove”. «Sì. È un reato. E lo è anche la notizia di questi giorni», cioè la comparsa di e-mail ufficiali, del Dipartimento di Stato, sul computer privato dell’ex marito di Huma Abedin: «Non ne conosco la sostanza. Ma già il fatto in sé è stato sufficiente in casi analoghi a spedire i colpevoli in prigione». Certo, lo stesso Comey in luglio non era arrivato a questa conclusione: aveva definito “imprudenza” la negligenza di avere usato server privati per la posta elettronica dell’ex segretario di Stato. «Differenza terminologica importante. Se avesse parlato di negligenza, l’incriminazione sarebbe stata inevitabile». Ora, Hillary teme lo tsunami-Fbi, e Trump risorge persino nei sondaggi ufficiali, “accomodati” dallo staff dei democratici. Lassù, più in alto della Casa Bianca, qualcuno sembra aver abbandonato la Clinton, incaricando l’Fbi di colpirla proprio adesso.
Chi ha scritto queste righe ha omesso che Luttwak è un un politologo di parte. Molto di parte. Lo è sempre stato.
«Voi in Europa non avete idea del grado di corruzione imputato ai Clinton», dice Luttwak.
LIBRE news
Luttwak: la Clinton non ha scampo, dovrà dimettersi
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Anche se dovesse vincere, Hillary Clinton sarebbe inchiodata dalle indagini riaperte dall’Fbi, che il Dipartimento di Giustizia avrebbe voluto insabbiare: non uscirebbe viva dalla procedura di impeachment. Lo afferma Edward Luttwak, politologo di fama e repubblicano di ferro: «Mettiamo che Hillary vinca. L’inchiesta dell’Fbi non per questo si bloccherà. Nemmeno se il direttore James Comey dovesse essere sostituito. Il che non sarà facile, anche perché in quel posto Comey è stato messo dall’amministrazione democratica». Conseguenza? «Dal vaso di Pandora, appena scoperchiato, verranno fuori altri scandali. Scandali per l’intera famiglia. Non solo Hillary e Bill, non solo la Fondazione, ma anche la figlia Chelsea», che viaggia su jet privati, «invitata come speaker a pagamento a conferenze dedicate al global warming». Anche se i media mainstream, giornali e televisioni, «fanno a gara a coprire, ridurre, nascondere il caso», parlando di “complotto”, Hillary non se la potrebbe cavare. Ed ecco spiegata, probabilmente, la mossa di Comey alla vigilia del voto: azzoppare la Clinton, accusata dall’Fbi, per evitare che finisca alla Casa Bianca un presidente “impresentabile”.«Di fronte alle nuove evidenze, Comey ha ritenuto di non poter più sorvolare su ipotesi di reato, come aveva fatto in luglio». Dal direttore dell’Fbi, una sfida senza precedenti rivolta al Dipartimento della Giustizia, che avrebbe coperto Hillary, spiega Luttwak in un’intervista a Cesare De Carlo per “Il Giorno”, ripresa da “Dagospia”. E se la Clinton comunque vincesse? «Avrebbe poca importanza», secondo Luttwak. «Allo stato dei fatti la nomina di uno Special Prosecutor sarebbe probabile, se – come pare – la Camera rimanesse repubblicana. E altrettanto probabilmente uno Special Prosecutor sarebbe l’inizio di un procedimento di impeachment». Uno “special prosecutor”: lo stesso Obama, come commissario provvisorio degli Stati Uniti? Il deputato Jason Chaffetz, presidente della Commissione per la sorveglianza delle attività governative, parla apertamente del problema Clinton: abbiamo tanto di quel materiale, ha detto, da tenerci occupati per due anni. «Voi in Europa non avete idea del grado di corruzione imputato ai Clinton», dice Luttwak. «Quando Hillary era segretario di Stato, avrebbe usato la carica pubblica per promuovere gli interessi della Fondazione e quelli della sua stessa famiglia».Un esempio: un principe del Qatar le avrebbe chiesto udienza per concludere un certo affare per il quale il Dipartimento di Stato avrebbe dovuto dare luce verde. Nessuna risposta. Allora il principe avrebbe fatto una ricca donazione. Le porte del Dipartimento si spalancano e l’affare viene concluso». Questi “affari” figuravano nelle e-mail private cancellate dopo l’ingiunzione da parte della polizia federale: in teoria, si tratta di “sottrazione di prove”. «Sì. È un reato. E lo è anche la notizia di questi giorni», cioè la comparsa di e-mail ufficiali, del Dipartimento di Stato, sul computer privato dell’ex marito di Huma Abedin: «Non ne conosco la sostanza. Ma già il fatto in sé è stato sufficiente in casi analoghi a spedire i colpevoli in prigione». Certo, lo stesso Comey in luglio non era arrivato a questa conclusione: aveva definito “imprudenza” la negligenza di avere usato server privati per la posta elettronica dell’ex segretario di Stato. «Differenza terminologica importante. Se avesse parlato di negligenza, l’incriminazione sarebbe stata inevitabile». Ora, Hillary teme lo tsunami-Fbi, e Trump risorge persino nei sondaggi ufficiali, “accomodati” dallo staff dei democratici. Lassù, più in alto della Casa Bianca, qualcuno sembra aver abbandonato la Clinton, incaricando l’Fbi di colpirla proprio adesso.
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Re: Dove va l'America?
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Barnard: ma i padroni di Hillary temono la guerra atomica
Scritto il 02/11/16 • nella Categoria: idee Condividi
Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».Il punto non è assolutamente se la Clinton sia più guerrafondaia di Trump, insiste Barnard nel suo blog: «La questione è quale candidato americano assillato dal crollo dell’impero resisterà più tempo prima di una dichiarazione di guerra mondiale». E la risposta fra Trump e Clinton «è senza dubbio la Clinton, perché Hillary almeno pensa», e in più «deve rispondere ai suoi padroni», mentre Trump «non pensa e risponde solo agli sbalzi di serotonina del suo cervello da mucca pazza». Sulla Clinton, ovviamente, nessuna illusione: «Sappiamo con certezza, fin dai tempi della giovane coppia Clinton in Arkansas, chi governa e possiede quella coppia di criminali internazionali. Ne conosciamo nomi cognomi e soprattutto gli interessi, che oggi si sono spostati da quelli delle lobby agricole e immobiliari degli anni ’90, a quelli di Wall Street». E qui, per Barnard, viene il punto cruciale, se si teme la Terza Guerra Mondiale: «L’ultima cosa al mondo che la finanza vuole è una guerra nucleare, semplicemente perché non esiste modello algoritmico, statistico, o tendenza di Borsa che racconti all’uomo con le scarpe da 5.000 dollari a Manhattan o a Francoforte cosa accadrebbe alla finanza in caso di guerra nucleare. Non esiste, non ce l’hanno. E gente che oggi ha in mano assets per oltre 30 volte il Pil mondiale, non rischia il culo su un modello che non conosce».Al contrario, continua Barnard, i super-potenti dell’élite finanziaria «sanno benissimo che bottoni premere, dove investire, che profitti si fanno in caso di guerra convenzionale», ma appunto, «non in caso di guerra atomica». Sicché, «la Clinton dovrà guardarli tutti in faccia prima di schiacciare il bottone rosso e non lo farà mai per prima». Al contrario, continua Barnard, Trump sarebbe completamente solo di fronte a quattro fattori ad altissimo rischio: l’espansionismo Nato alle soglie di Mosca, le nuove mini-atomiche americane, l’esplosivo derby Israele-Iran e il dilagare delle basi militari Usa. Il pericolo è motivato da ragioni drasticamente concrete: «Qualsiasi candidato alla Casa Bianca potrebbe scatenare una Terza Guerra da un giorno all’altro, perché dovrà preservare l’Impero per la sopravvivenza di 350 milioni di americani nel loro stile di vita, che non verrà mai messo in discussione, mai». Lo dimostra il fatto che persino Bernie Sanders appoggia le guerre “utili”, infatti «ha speso parole mielose per “i nostri migliori e valorosi americani”, cioè le truppe Usa in guerra, e mai ha pronunciato una singola parola per lo smantellamento totale della finanza speculativa».L’espansionismo Nato, ricorda Barnard, nasce ben prima di Trump e Clinton: fu Ronald Reagan che, «con la faccia come il culo», tradì le promesse fatte a Gorbaciov negli anni ’80 di non espandere la Nato di un metro a Est. «Oggi la Nato è letteralmente arrivata al confine con la Russia, e “deve” farlo, sempre per il solito motivo, cioè il controllo delle risorse materiali e finanziarie» del maggior numero possibile di nazioni, «e dei flussi di energia nell’interesse dell’Impero al crollo». Attenzione: Trump «non si oppone all’espansionismo, dice solo che lo devono pagare gli altri». In effetti, «non ha mai messo in programma il ritiro Nato a ovest della Polonia». Così, «la scintilla finale con Mosca rimarrà tale e quale, pronta a scoppiare, con Donald o con Hillary o con chiunque altro». E la donna «non è affatto peggio», sostiene Barnard. Sviluppi di crisi potrebbero avere tempi brevissimi, con l’impiego di armi micidiali come le mini-atomiche B-61 Model 12 per le quali Obama ha speso 1.000 miliardi di dollari. «Escluso che la Clinton possa prendere per prima una decisione atomica per i motivi detti sopra», cioè la necessità di consultare prima i suoi “padroni” di Wall Street, «la facilità dell’uso di una testata “mini” capace ad esempio di distruggere selettivamente un’area grande come 4 quartieri di Milano, si addice molto di più a un rantolo cerebrale di Trump se, poniamo, vi fosse un attentato Isis a Filadelfia con 100 morti».In assoluto, però, secondo Barnard il maggior pericolo di guerra atomica, il più realistico, «non risiede in una consolle di un bunker di Washington, ma a Tel Aviv». Norman Finkelstein definì Israele «uno Stato psicotico». Per Barnard, «i sionisti sono non solo dei criminali internazionali di comprovata devastante letalità, ma sono anche letteralmente dei pazzi». Finora, «l’unico fattore che ha impedito a Israele di usare l’atomica sull’Iran è stata la mano del “padrone” a Washington». Ora, Trump «vuole il disingaggio degli Stati Uniti soprattutto dal rapporto Iran-Usa-Israele, e l’ha detto: per prima cosa ripudierà l’accordo Obama-Rouhani sul nucleare». Questo, per Barnard, significa solo una cosa: che «verrà tolta la “sicura” dalla pistola dei pazzi genocidi sionisti», lasciando mano libera a Tel Aviv per «far partire le testate contro l’Iran», scatenando la guerra atomica. «Qui – insiste Barnard – dobbiamo scongiurare Dio di far vincere la Clinton, che invece la mano sugli psicopatici eredi di Theodor Herzl la terrà eccome».Quanto all’espansionsimo imperiale post-Urss inaugurato con Colin Powell, la “Lillypad expansion”, cioè l’espansione a foglia di ninfea delle basi Nato, se ieri era un’opzione oggi è un “obbligo assoluto” per puntellare l’impero declinante, «pena appunto la sua morte», cominciando con l’accerchiare la Via della Seta cinese in piena costruzione. «E stanno succedendo entrambe le cose contemporaneamente», con Pechino che «ha già piazzato 46 miliardi di dollari in Pakistan protetti da oltre 10.000 soldati con la mira al Golfo Persico», e intanto «sta costruendo piste di decollo per bombardieri in tutti i distretti del Sud-Est Asiatico che controlla», mentre gli Usa «stanno circondando i cinesi» com la “Lillypad expansion” «mirando proprio agli Stretti di Malacca da cui passa la gran parte dell’energia di cui necessita Pechino». Washington «semina basi e flotte, con l’aiuto dell’Australia, come ha recentemente rivelato il grande John Pilger».
Dunque: «Avete voi sentito Trump parlare di un piano sensato per la distensione con la Cina?».
Soprattutto: sarebbe capace, Trump, «di pensare a una cosa immensa come un piano di distensione fra potenze?». La Clinton, almeno, «non reagirà a una crisi dei missili nel Pacifico con lo sguardo demente sotto alla parrucca di un Trump».
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Barnard: ma i padroni di Hillary temono la guerra atomica
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Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».Il punto non è assolutamente se la Clinton sia più guerrafondaia di Trump, insiste Barnard nel suo blog: «La questione è quale candidato americano assillato dal crollo dell’impero resisterà più tempo prima di una dichiarazione di guerra mondiale». E la risposta fra Trump e Clinton «è senza dubbio la Clinton, perché Hillary almeno pensa», e in più «deve rispondere ai suoi padroni», mentre Trump «non pensa e risponde solo agli sbalzi di serotonina del suo cervello da mucca pazza». Sulla Clinton, ovviamente, nessuna illusione: «Sappiamo con certezza, fin dai tempi della giovane coppia Clinton in Arkansas, chi governa e possiede quella coppia di criminali internazionali. Ne conosciamo nomi cognomi e soprattutto gli interessi, che oggi si sono spostati da quelli delle lobby agricole e immobiliari degli anni ’90, a quelli di Wall Street». E qui, per Barnard, viene il punto cruciale, se si teme la Terza Guerra Mondiale: «L’ultima cosa al mondo che la finanza vuole è una guerra nucleare, semplicemente perché non esiste modello algoritmico, statistico, o tendenza di Borsa che racconti all’uomo con le scarpe da 5.000 dollari a Manhattan o a Francoforte cosa accadrebbe alla finanza in caso di guerra nucleare. Non esiste, non ce l’hanno. E gente che oggi ha in mano assets per oltre 30 volte il Pil mondiale, non rischia il culo su un modello che non conosce».Al contrario, continua Barnard, i super-potenti dell’élite finanziaria «sanno benissimo che bottoni premere, dove investire, che profitti si fanno in caso di guerra convenzionale», ma appunto, «non in caso di guerra atomica». Sicché, «la Clinton dovrà guardarli tutti in faccia prima di schiacciare il bottone rosso e non lo farà mai per prima». Al contrario, continua Barnard, Trump sarebbe completamente solo di fronte a quattro fattori ad altissimo rischio: l’espansionismo Nato alle soglie di Mosca, le nuove mini-atomiche americane, l’esplosivo derby Israele-Iran e il dilagare delle basi militari Usa. Il pericolo è motivato da ragioni drasticamente concrete: «Qualsiasi candidato alla Casa Bianca potrebbe scatenare una Terza Guerra da un giorno all’altro, perché dovrà preservare l’Impero per la sopravvivenza di 350 milioni di americani nel loro stile di vita, che non verrà mai messo in discussione, mai». Lo dimostra il fatto che persino Bernie Sanders appoggia le guerre “utili”, infatti «ha speso parole mielose per “i nostri migliori e valorosi americani”, cioè le truppe Usa in guerra, e mai ha pronunciato una singola parola per lo smantellamento totale della finanza speculativa».L’espansionismo Nato, ricorda Barnard, nasce ben prima di Trump e Clinton: fu Ronald Reagan che, «con la faccia come il culo», tradì le promesse fatte a Gorbaciov negli anni ’80 di non espandere la Nato di un metro a Est. «Oggi la Nato è letteralmente arrivata al confine con la Russia, e “deve” farlo, sempre per il solito motivo, cioè il controllo delle risorse materiali e finanziarie» del maggior numero possibile di nazioni, «e dei flussi di energia nell’interesse dell’Impero al crollo». Attenzione: Trump «non si oppone all’espansionismo, dice solo che lo devono pagare gli altri». In effetti, «non ha mai messo in programma il ritiro Nato a ovest della Polonia». Così, «la scintilla finale con Mosca rimarrà tale e quale, pronta a scoppiare, con Donald o con Hillary o con chiunque altro». E la donna «non è affatto peggio», sostiene Barnard. Sviluppi di crisi potrebbero avere tempi brevissimi, con l’impiego di armi micidiali come le mini-atomiche B-61 Model 12 per le quali Obama ha speso 1.000 miliardi di dollari. «Escluso che la Clinton possa prendere per prima una decisione atomica per i motivi detti sopra», cioè la necessità di consultare prima i suoi “padroni” di Wall Street, «la facilità dell’uso di una testata “mini” capace ad esempio di distruggere selettivamente un’area grande come 4 quartieri di Milano, si addice molto di più a un rantolo cerebrale di Trump se, poniamo, vi fosse un attentato Isis a Filadelfia con 100 morti».In assoluto, però, secondo Barnard il maggior pericolo di guerra atomica, il più realistico, «non risiede in una consolle di un bunker di Washington, ma a Tel Aviv». Norman Finkelstein definì Israele «uno Stato psicotico». Per Barnard, «i sionisti sono non solo dei criminali internazionali di comprovata devastante letalità, ma sono anche letteralmente dei pazzi». Finora, «l’unico fattore che ha impedito a Israele di usare l’atomica sull’Iran è stata la mano del “padrone” a Washington». Ora, Trump «vuole il disingaggio degli Stati Uniti soprattutto dal rapporto Iran-Usa-Israele, e l’ha detto: per prima cosa ripudierà l’accordo Obama-Rouhani sul nucleare». Questo, per Barnard, significa solo una cosa: che «verrà tolta la “sicura” dalla pistola dei pazzi genocidi sionisti», lasciando mano libera a Tel Aviv per «far partire le testate contro l’Iran», scatenando la guerra atomica. «Qui – insiste Barnard – dobbiamo scongiurare Dio di far vincere la Clinton, che invece la mano sugli psicopatici eredi di Theodor Herzl la terrà eccome».Quanto all’espansionsimo imperiale post-Urss inaugurato con Colin Powell, la “Lillypad expansion”, cioè l’espansione a foglia di ninfea delle basi Nato, se ieri era un’opzione oggi è un “obbligo assoluto” per puntellare l’impero declinante, «pena appunto la sua morte», cominciando con l’accerchiare la Via della Seta cinese in piena costruzione. «E stanno succedendo entrambe le cose contemporaneamente», con Pechino che «ha già piazzato 46 miliardi di dollari in Pakistan protetti da oltre 10.000 soldati con la mira al Golfo Persico», e intanto «sta costruendo piste di decollo per bombardieri in tutti i distretti del Sud-Est Asiatico che controlla», mentre gli Usa «stanno circondando i cinesi» com la “Lillypad expansion” «mirando proprio agli Stretti di Malacca da cui passa la gran parte dell’energia di cui necessita Pechino». Washington «semina basi e flotte, con l’aiuto dell’Australia, come ha recentemente rivelato il grande John Pilger».
Dunque: «Avete voi sentito Trump parlare di un piano sensato per la distensione con la Cina?».
Soprattutto: sarebbe capace, Trump, «di pensare a una cosa immensa come un piano di distensione fra potenze?». La Clinton, almeno, «non reagirà a una crisi dei missili nel Pacifico con lo sguardo demente sotto alla parrucca di un Trump».
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Re: Dove va l'America?
QUANDO GLI IMPERI IMPAZZISCONO
LIBRE news
Crisi e guerra, la grande paura. E l’Fbi azzoppa la Clinton
Scritto il 01/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Non è strano che, a una settimana dal voto, l’Fbi riapra le indagini sullo staff di Hillary Clinton, terremotando inevitabilmente i sondaggi, già in fibrillazione? Non è strano che il direttore della prestigiosa polizia federale osi un gesto simile, alla vigilia dell’election day, come se non ne temesse le conseguenze? Forse non è così strano, se si rileggono – oggi, a qualche mese di distanza – alcune ricostruzioni provenienti dall’Italia: Trump non è (solo) la “bomba a mano” incontrollabile descritta dai media mainstream, ma è anche e soprattutto una “scommessa coperta”, un Cavallo di Troia abilmente lanciato nel campo repubblicano alla stessa élite super-massonica “progressista” che, nel campo opposto, aveva appoggiato il socialista Bernie Sanders. Trump doveva servire a fermare Jeb Bush, Sanders a ostacolare l’ascesa della Clinton. Oggi questo ruolo è stato ereditato dallo stesso Trump, ma il copione non cambia.
E il “pericolo” non è Hillary, ma i poteri fortissimi che l’hanno scelta come esecutrice del loro volere, così come scelsero personaggi “neocon” come Victoria Nuland, introdotta nel team di Obama con l’obiettivo di destabilizzare la Russia attraverso la sfida alle frontiere, cominciando dal golpe in Ucraina travestito da rivoluzione.
L’escalation a Kiev fu decisa in risposta alla decisione di Putin di schierarsi in difesa della Siria: un cambio di rotta radicale, dopo che il Cremlino aveva assistito passivamente all’ultima puntata della “guerra infinita”, la demolizione della Libia.
Dietro le quinte, a Washington, a fare la prima mossa sono sempre loro, gli uomini del Pnac, quelli del “nuovo secolo americano”, protagonisti delle guerre di Bush innescate dall’11 Settembre. E’ il famigerato super-vertice globalizzatore, finanziario e militare, “l’Impero”. Non tollera l’idea che gli Stati Uniti possano perdere i propri immensi privilegi, che sorreggono il tenore di vita (e i clamorosi profitti dell’élite), e per questo è pronto a tutto – anche una Terza Guerra Mondiale, nucleare?
Ne è convinto l’ex viceministro di Reagan, Paul Craig Roberts, secondo cui i grandi media – sotto Obama – hanno coperto una sostanziale “dittatura” instauratasi alla Casa Bianca, dove il presidente non è il che il terminale, sempre più opaco, di micidiali gruppi di interesse, completamente irresponsabili e ormai anche in preda al panico, ossessionati dalla paura di perdere il loro immenso potere.
Recenti sondaggi, dice Marcello Foa, rivelano che il 70% degli elettori statunitensi non credono più ai grandi media, dai network televisivi al “New York Times”, tutti schierati con la Clinton e ridotti a mero strumento di propaganda dell’establishment, di cui Trump è visto come antagonista.«Illusionismo, puro gioco delle parti», sostiene Fausto Carotenuto, analista internazionale, ai microfoni di “Border Nights”: «Si scontrano due gruppi di potere, sempre gli stessi: uno è definito conservatore, quello che appoggia la Clinton, e l’altro si definisce progressista ma è ancora più ipocrita del primo». Super-massoneria occulta: quella che Gioele Magaldi, progressista, ha messo in piazza tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere). Un altro esponente della cultura massonica italiana, Gianfranco Carpeoro, autore del recentissimo saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori), avverte: «La novità è che il vertice di quel potere è spaccato, come dimostra l’appoggio dato a un candidato come Sanders». Grandi defezioni, nelle alte sfere, avrebbero propiziato la stessa candidatura Trump. Diserzioni così preoccupanti, secondo Carpeoro, da spingere “l’ala destra” del super-potere a ricorrere in modo sistematico anche alla strategia della tensione, come si deduce dal moltiplicarsi di sanguinosi attentati in Europa, organizzati da quella che Carpeoro chiama “sovragestione”, ovvero: elementi di vertice che si avvalgono di settori dei servizi segreti, che all’occorenza reclutano kamikaze jihadisti.Il vertice della piramide è diviso? Lo dimostra il testa a testa fra Hillary e Trump. E una delle massime eminenze grigie del super-potere massonico, Zbigniew Brezinzki, qualche settimana fa aveva avvertito: ora basta con la guerra fredda, è tempo di sedersi attorno a un tavolo con Putin e coi cinesi, perché questa escalation porta solo al rischio di una catastrofe. Attenzione: Brzezinski è stato uno dei massimi architetti della globalizzazione “imperiale”. Il pericolo di un collasso è concreto, sostiene Giulietto Chiesa: «I padroni universali sanno quello che sta succedendo, e più o meno – tra di loro – se lo dicono». Chiesa cita dichiarazioni recenti, molto inquietanti: da Rockefeller, secondo cui «la Terza Guerra Mondiale è inevitabile: dovremmo metterci d’accordo coi russi, ma temo che non ce la faremo», a Rotschild, che avverte: «Sta per terminare il più grande esperimento finanziario mai realizzato nella storia», la finanza monetarista svincolata dall’economia reale, «e adesso stiamo entrando in acque inesplorate». E Larry Summers, ex segretario al Tesoro, aveva profetizzato: la crescita del Pil mondiale si fermerà attorno al 2005. «Ci stanno dicendo che si sta avvicinando una catastrofe, la fine di questo capitalismo finanziario. Non c’è da stupirsi, quindi, dei preparativi di guerra cui stiamo assistendo».Tra i nuovi “catastrofisti” si iscrive anche il finanziere Carlo De Benedetti, che al “Corriere della Sera” dichiara: «Sta arrivando una crisi gigantesca, che metterà in forse tutta la democrazia nel mondo». Giulietto Chiesa è pessimista: «Tutti quelli che pensano che non succederà niente, perché alla fine ci si metterà d’accordo, si sbagliano. Non sono “i cattivi” che vogliono la guerra, è la situazione che non è sanabile: siamo governati da imbecilli, in un mondo totalmente diviso tra ricchi e poveri come mai nella storia dell’umanità». Lo stesso Carpeoro, nei mesi scorsi, è tornato più volte sul tema: «Il nuovo ordine mondiale è fatalmente incompiuto, provano sempre a realizzarlo ma non ci riescono mai fino in fondo, perché litigano tra loro». Una rissa pericolosa, che può anche esplodere – sotto forma di terrorismo e bombe, domani anche atomiche? Difficile credere che tutto sia appeso, davvero, al solo parrucchino di Trump: non può essere un caso che un super-potente come James Comey, capo dell’Fbi, scenda in campo – a due passi dal voto – per tentare di sbarrare la strada della Casa Bianca ai “padroni” di Hillary Clinton, i “signori della guerra”. Zero fair-play, dicono i commentatori mainstream: la campagna più brutta della storia delle elezioni Usa. Forse anche la più drammatica, cruciale, pericolosa.
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Crisi e guerra, la grande paura. E l’Fbi azzoppa la Clinton
Scritto il 01/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Non è strano che, a una settimana dal voto, l’Fbi riapra le indagini sullo staff di Hillary Clinton, terremotando inevitabilmente i sondaggi, già in fibrillazione? Non è strano che il direttore della prestigiosa polizia federale osi un gesto simile, alla vigilia dell’election day, come se non ne temesse le conseguenze? Forse non è così strano, se si rileggono – oggi, a qualche mese di distanza – alcune ricostruzioni provenienti dall’Italia: Trump non è (solo) la “bomba a mano” incontrollabile descritta dai media mainstream, ma è anche e soprattutto una “scommessa coperta”, un Cavallo di Troia abilmente lanciato nel campo repubblicano alla stessa élite super-massonica “progressista” che, nel campo opposto, aveva appoggiato il socialista Bernie Sanders. Trump doveva servire a fermare Jeb Bush, Sanders a ostacolare l’ascesa della Clinton. Oggi questo ruolo è stato ereditato dallo stesso Trump, ma il copione non cambia.
E il “pericolo” non è Hillary, ma i poteri fortissimi che l’hanno scelta come esecutrice del loro volere, così come scelsero personaggi “neocon” come Victoria Nuland, introdotta nel team di Obama con l’obiettivo di destabilizzare la Russia attraverso la sfida alle frontiere, cominciando dal golpe in Ucraina travestito da rivoluzione.
L’escalation a Kiev fu decisa in risposta alla decisione di Putin di schierarsi in difesa della Siria: un cambio di rotta radicale, dopo che il Cremlino aveva assistito passivamente all’ultima puntata della “guerra infinita”, la demolizione della Libia.
Dietro le quinte, a Washington, a fare la prima mossa sono sempre loro, gli uomini del Pnac, quelli del “nuovo secolo americano”, protagonisti delle guerre di Bush innescate dall’11 Settembre. E’ il famigerato super-vertice globalizzatore, finanziario e militare, “l’Impero”. Non tollera l’idea che gli Stati Uniti possano perdere i propri immensi privilegi, che sorreggono il tenore di vita (e i clamorosi profitti dell’élite), e per questo è pronto a tutto – anche una Terza Guerra Mondiale, nucleare?
Ne è convinto l’ex viceministro di Reagan, Paul Craig Roberts, secondo cui i grandi media – sotto Obama – hanno coperto una sostanziale “dittatura” instauratasi alla Casa Bianca, dove il presidente non è il che il terminale, sempre più opaco, di micidiali gruppi di interesse, completamente irresponsabili e ormai anche in preda al panico, ossessionati dalla paura di perdere il loro immenso potere.
Recenti sondaggi, dice Marcello Foa, rivelano che il 70% degli elettori statunitensi non credono più ai grandi media, dai network televisivi al “New York Times”, tutti schierati con la Clinton e ridotti a mero strumento di propaganda dell’establishment, di cui Trump è visto come antagonista.«Illusionismo, puro gioco delle parti», sostiene Fausto Carotenuto, analista internazionale, ai microfoni di “Border Nights”: «Si scontrano due gruppi di potere, sempre gli stessi: uno è definito conservatore, quello che appoggia la Clinton, e l’altro si definisce progressista ma è ancora più ipocrita del primo». Super-massoneria occulta: quella che Gioele Magaldi, progressista, ha messo in piazza tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere). Un altro esponente della cultura massonica italiana, Gianfranco Carpeoro, autore del recentissimo saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori), avverte: «La novità è che il vertice di quel potere è spaccato, come dimostra l’appoggio dato a un candidato come Sanders». Grandi defezioni, nelle alte sfere, avrebbero propiziato la stessa candidatura Trump. Diserzioni così preoccupanti, secondo Carpeoro, da spingere “l’ala destra” del super-potere a ricorrere in modo sistematico anche alla strategia della tensione, come si deduce dal moltiplicarsi di sanguinosi attentati in Europa, organizzati da quella che Carpeoro chiama “sovragestione”, ovvero: elementi di vertice che si avvalgono di settori dei servizi segreti, che all’occorenza reclutano kamikaze jihadisti.Il vertice della piramide è diviso? Lo dimostra il testa a testa fra Hillary e Trump. E una delle massime eminenze grigie del super-potere massonico, Zbigniew Brezinzki, qualche settimana fa aveva avvertito: ora basta con la guerra fredda, è tempo di sedersi attorno a un tavolo con Putin e coi cinesi, perché questa escalation porta solo al rischio di una catastrofe. Attenzione: Brzezinski è stato uno dei massimi architetti della globalizzazione “imperiale”. Il pericolo di un collasso è concreto, sostiene Giulietto Chiesa: «I padroni universali sanno quello che sta succedendo, e più o meno – tra di loro – se lo dicono». Chiesa cita dichiarazioni recenti, molto inquietanti: da Rockefeller, secondo cui «la Terza Guerra Mondiale è inevitabile: dovremmo metterci d’accordo coi russi, ma temo che non ce la faremo», a Rotschild, che avverte: «Sta per terminare il più grande esperimento finanziario mai realizzato nella storia», la finanza monetarista svincolata dall’economia reale, «e adesso stiamo entrando in acque inesplorate». E Larry Summers, ex segretario al Tesoro, aveva profetizzato: la crescita del Pil mondiale si fermerà attorno al 2005. «Ci stanno dicendo che si sta avvicinando una catastrofe, la fine di questo capitalismo finanziario. Non c’è da stupirsi, quindi, dei preparativi di guerra cui stiamo assistendo».Tra i nuovi “catastrofisti” si iscrive anche il finanziere Carlo De Benedetti, che al “Corriere della Sera” dichiara: «Sta arrivando una crisi gigantesca, che metterà in forse tutta la democrazia nel mondo». Giulietto Chiesa è pessimista: «Tutti quelli che pensano che non succederà niente, perché alla fine ci si metterà d’accordo, si sbagliano. Non sono “i cattivi” che vogliono la guerra, è la situazione che non è sanabile: siamo governati da imbecilli, in un mondo totalmente diviso tra ricchi e poveri come mai nella storia dell’umanità». Lo stesso Carpeoro, nei mesi scorsi, è tornato più volte sul tema: «Il nuovo ordine mondiale è fatalmente incompiuto, provano sempre a realizzarlo ma non ci riescono mai fino in fondo, perché litigano tra loro». Una rissa pericolosa, che può anche esplodere – sotto forma di terrorismo e bombe, domani anche atomiche? Difficile credere che tutto sia appeso, davvero, al solo parrucchino di Trump: non può essere un caso che un super-potente come James Comey, capo dell’Fbi, scenda in campo – a due passi dal voto – per tentare di sbarrare la strada della Casa Bianca ai “padroni” di Hillary Clinton, i “signori della guerra”. Zero fair-play, dicono i commentatori mainstream: la campagna più brutta della storia delle elezioni Usa. Forse anche la più drammatica, cruciale, pericolosa.
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Re: Dove va l'America?
ANALISI
Finmeccanica e gli altri: gli italiani che finanziano la campagna elettorale di Trump
Consultando il database di OpenSecrets.org ‘l’Espresso’ ha scoperto che la corsa presidenziale non coinvolge solo aziende statunitensi, ma anche gruppi italianissimi, come il colosso aerospaziale e l'Eni
DI CRISTINA CUCCINIELLO
03 novembre 2016
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Finmeccanica e gli altri: gli italiani che finanziano la campagna elettorale di Trump
Mauro Moretti, Ad e direttore generale di Finmeccanica
711.675 dollari dalla Microsoft Corp, 349.278 dalla Walt Disney Co, 131.391 dalla Hewlett-Packard. O anche: 5000 dollari dalla Ralph Lauren Corp e 3965 da Facebook Inc. Il ciclo delle elezioni presidenziali, negli Stati Uniti, non è solo una faccenda politica: è anche una partita che si gioca sul piano economico, in un paese in cui i candidati, i loro comitati ed i partiti di riferimento vivono di donazioni.
Le cifre qui riportate – donazioni ricevute rispettivamente dai due candidati in corsa per l’elezione a presidente degli Stati Uniti d’America, la democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump - sono solo alcuni esempi delle cifre che aziende, gruppi, corporazioni, grandi marchi noti in tutto il mondo sono disposti a spendere per supportare questo o quel candidato.
Se la politica vive di donazioni, è lecito aspettarsi che i resoconti relativi al denaro ricevuto siano pubblici: ed infatti, esistono numerosi gruppi di ricerca impegnati a diffondere on line i dati relativi alle campagne elettorali. Uno di questi è il Center for Responsive Politics (CRP), una organizzazione non-profit, con sede a Washington, fondata nel 1983 da due senatori ormai in pensione, il democratico Franck Church ed il repubblicano Hugh Scott.
È consultando il database di OpenSecrets.org che ‘l’Espresso’ ha scoperto che la corsa presidenziale non coinvolge solo aziende statunitensi, ma anche gruppi italianissimi. Aziende private, certo, ma anche aziende a partecipazione statale, come la Leonardo-Finmeccanica - gruppo italiano impegnato nel settore aerospaziale, della difesa e della sicurezza, il cui maggiore azionista è il Ministero dell’Economia e delle Finanze – o l’Eni Spa, che annovera fra i suoi azionisti il Ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti.
Se l’Eni Spa ha contribuito all’intero ciclo elettorale 2016 solo con una modesta spesa di 39.000 dollari in lobbying, devolvendo ad Hillary Clinton e Donald Trump cifre minuscole – 117 dollari alla candidata democratica e 222 al repubblicano – l’impegno di Finmeccanica ha raggiunto quote più consistenti.
294.618 dollari di contributi diretti e 865.000 di lobbying nel solo 2016, cifra inferiore a quella spesa nell’anno precedente, pari a 1.375.000 dollari: queste le cifre relative al gruppo guidato da Mauro Moretti e Gianni De Gennaro. 7.523 dollari sono andati ad Hillary Clinton, mentre Donald Trump ha ricevuto donazioni dirette per 930 dollari. La grafica fornita dal Center for Responsive Politics mostra che – nonostante la donazione alla candidata dem sia stata più pesante – il totale speso a supporto dei candidati repubblicani sia nettamente maggiore rispetto alle cifre devolute ai democrats.
Scelte che non stupiscono: non solo il partito repubblicano statunitense è quello più tradizionalmente legato ai temi relativi alla difesa ed alla sicurezza nazionale, ma Finmeccanica potrebbe trarre beneficio da una vittoria di Trump.
VEDI ANCHE:
trumphillary-jpg
Presidenziali Usa, cosa succede se vince Hillary. E se vince Trump
Infatti, secondo Marcus Weisgerber, analista economico specializzato nel settore difesa per DefenseOne ed ex corrispondente dal Pentagono per riviste del settore, è plausibile aspettarsi che ad una eventuale vittoria di Donald Trump segua lo spostamento delle commesse per la produzione di armamenti dagli Stati Uniti all’Europa; potrebbe accadere che commesse provenienti dal medio-oriente siano rivolte a aziende come l’inglese BAE Systems e l’italiana Finmeccanica.
Ma il gruppo italiano può vantare anche una storica simpatia da parte di Hillary Clinton: quando, nel 2005, l’azienda – allora guidata da Pier Francesco Guarguaglini – era in corsa, tramite la controllata AgustWwestland, per l’assegnazione della commessa per la fornitura di elicotteri per la Casa Bianca, la Clinton tifava per il made in Italy.
Tag
FINMECCANICA ENI PRESIDENZIALI USA 2016 DONALD TRUMP
© Riproduzione riservata 03 novembre 2016
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
Finmeccanica e gli altri: gli italiani che finanziano la campagna elettorale di Trump
Consultando il database di OpenSecrets.org ‘l’Espresso’ ha scoperto che la corsa presidenziale non coinvolge solo aziende statunitensi, ma anche gruppi italianissimi, come il colosso aerospaziale e l'Eni
DI CRISTINA CUCCINIELLO
03 novembre 2016
Finmeccanica e gli altri: gli italiani che finanziano la campagna elettorale di Trump
Mauro Moretti, Ad e direttore generale di Finmeccanica
711.675 dollari dalla Microsoft Corp, 349.278 dalla Walt Disney Co, 131.391 dalla Hewlett-Packard. O anche: 5000 dollari dalla Ralph Lauren Corp e 3965 da Facebook Inc. Il ciclo delle elezioni presidenziali, negli Stati Uniti, non è solo una faccenda politica: è anche una partita che si gioca sul piano economico, in un paese in cui i candidati, i loro comitati ed i partiti di riferimento vivono di donazioni.
Le cifre qui riportate – donazioni ricevute rispettivamente dai due candidati in corsa per l’elezione a presidente degli Stati Uniti d’America, la democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump - sono solo alcuni esempi delle cifre che aziende, gruppi, corporazioni, grandi marchi noti in tutto il mondo sono disposti a spendere per supportare questo o quel candidato.
Se la politica vive di donazioni, è lecito aspettarsi che i resoconti relativi al denaro ricevuto siano pubblici: ed infatti, esistono numerosi gruppi di ricerca impegnati a diffondere on line i dati relativi alle campagne elettorali. Uno di questi è il Center for Responsive Politics (CRP), una organizzazione non-profit, con sede a Washington, fondata nel 1983 da due senatori ormai in pensione, il democratico Franck Church ed il repubblicano Hugh Scott.
È consultando il database di OpenSecrets.org che ‘l’Espresso’ ha scoperto che la corsa presidenziale non coinvolge solo aziende statunitensi, ma anche gruppi italianissimi. Aziende private, certo, ma anche aziende a partecipazione statale, come la Leonardo-Finmeccanica - gruppo italiano impegnato nel settore aerospaziale, della difesa e della sicurezza, il cui maggiore azionista è il Ministero dell’Economia e delle Finanze – o l’Eni Spa, che annovera fra i suoi azionisti il Ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti.
Se l’Eni Spa ha contribuito all’intero ciclo elettorale 2016 solo con una modesta spesa di 39.000 dollari in lobbying, devolvendo ad Hillary Clinton e Donald Trump cifre minuscole – 117 dollari alla candidata democratica e 222 al repubblicano – l’impegno di Finmeccanica ha raggiunto quote più consistenti.
294.618 dollari di contributi diretti e 865.000 di lobbying nel solo 2016, cifra inferiore a quella spesa nell’anno precedente, pari a 1.375.000 dollari: queste le cifre relative al gruppo guidato da Mauro Moretti e Gianni De Gennaro. 7.523 dollari sono andati ad Hillary Clinton, mentre Donald Trump ha ricevuto donazioni dirette per 930 dollari. La grafica fornita dal Center for Responsive Politics mostra che – nonostante la donazione alla candidata dem sia stata più pesante – il totale speso a supporto dei candidati repubblicani sia nettamente maggiore rispetto alle cifre devolute ai democrats.
Scelte che non stupiscono: non solo il partito repubblicano statunitense è quello più tradizionalmente legato ai temi relativi alla difesa ed alla sicurezza nazionale, ma Finmeccanica potrebbe trarre beneficio da una vittoria di Trump.
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Presidenziali Usa, cosa succede se vince Hillary. E se vince Trump
Infatti, secondo Marcus Weisgerber, analista economico specializzato nel settore difesa per DefenseOne ed ex corrispondente dal Pentagono per riviste del settore, è plausibile aspettarsi che ad una eventuale vittoria di Donald Trump segua lo spostamento delle commesse per la produzione di armamenti dagli Stati Uniti all’Europa; potrebbe accadere che commesse provenienti dal medio-oriente siano rivolte a aziende come l’inglese BAE Systems e l’italiana Finmeccanica.
Ma il gruppo italiano può vantare anche una storica simpatia da parte di Hillary Clinton: quando, nel 2005, l’azienda – allora guidata da Pier Francesco Guarguaglini – era in corsa, tramite la controllata AgustWwestland, per l’assegnazione della commessa per la fornitura di elicotteri per la Casa Bianca, la Clinton tifava per il made in Italy.
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Re: Dove va l'America?
I nostri politici si rifanno alla democrazia degli USA.Intanto ci sarebbe molto da discutere quale democrazia ci sia Lì.Chi è al potere è solamente un fantoccio messo dalle multinazionali varie. Sia che sia Repubblicano che Democratico.Specialmente in queste elezioni.Hanno solo l'uno che l'antro iniziato guerre ovulque dal dopoguerra.E noi leccapiedi degli USA sempre dietro.
I paesi dell'est dopo la caduta del muro hanno acettato missili nucleari vicino alla Russia.Noi invece siamo ancora appiccicati agli USA.Cominciano toglierci dalla Nato ( il Patto di Varsavia si è sciolto, eppure la Nato non si è sciolta.)e mandare a casa loro i militari USA che abbiamo in casa.E ritirare i nostri soldati in giro per il mondo.
Paolo11
I paesi dell'est dopo la caduta del muro hanno acettato missili nucleari vicino alla Russia.Noi invece siamo ancora appiccicati agli USA.Cominciano toglierci dalla Nato ( il Patto di Varsavia si è sciolto, eppure la Nato non si è sciolta.)e mandare a casa loro i militari USA che abbiamo in casa.E ritirare i nostri soldati in giro per il mondo.
Paolo11
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Re: Dove va l'America?
IL GIORNO DEL POLLICE VERSO E' ARRIVATO. GLI AMERICANI VOTANO.
CHE VINCA L'UNO O CHE VINCA L'ALTRO, IL BAROMETRO DEL NOSTRO DESTINO SEGNA TEMPESTA.
LIBRE news
Vince Trump? Parla all’America rovinata dal mondialismo
Scritto il 08/11/16 • nella Categoria: idee Condividi
Sono passati solo pochi giorni dallo spoglio e la vittoria di Trump è confermata. I media americani non san ancora che pesci pigliare, i media europei, che salvo poche eccezioni, avevano sposato la più “estabilished” Clinton si stanno arrabattando per uscire con analisi “pro Trump”. Ma perché Donald ha vinto? Descritto fino a pochi giorni fa come un ninfomane, folle, guerrafondaio ed evasore di tasse (toccate tutto agli americani tranne sesso e tasse) ora è president. A mio modesto avviso quello che ha convinto gli americani è stata la decisione di Trump, al netto delle sue passioni (di 35 anni fa?) per il sesso femminile, in merito all’economia e la politica estera. Il discorso che ha fatto a Gettysburg il 22 ottobre ha conquistato il popolo americano. Vale la pena considerare alcuni elementi sinteticamente catturati da questo speech. Un americano su 4 nella fascia lavorativa dai 25 ai 54 anni è disoccupato; 1 uomo ogni 6 nella fascia d’età 18-34 è in prigione o è disoccupato; 45 milioni di americani sono poveri; l’entrata media annuale (real median household) è di $1,274 più bassa rispetto al 2000.Dal 2002 l’America ha perso oltre 70.000 fabbriche e 5 milioni di posti di lavoro nel settore manufatturiero. Gli agricoltori non se la passano meglio. Il deficit in beni è salito a 766 miliardi di dollari e sono stati persi oltre 300 miliardi all’anno in furti di proprietà intellettuali. Le attività produttive americane emigrate all’estero (off-shoring) hanno esacerbato questo scenario. Dal Nafta del 1993 all’entrata nel Wto della Cina fino ai recenti accordi con il Sud Corea del 2012 firmato Hillary Clinton. Stati manufatturieri come Michigan, Ohio e North Carolina sono stati particolarmente colpiti. Sotto il mandato di Obama-Clinton molti progetti infrastrutturali sono stati ritardati e o ostacolati. Oltre 60.000 ponti americani sono considerati “strutturalmente deficienti”. Il traffico costa all’economia americana oltre 100 miliardi di dollari all’anno. Sei milioni di americani sono esposti ad acqua contaminata.L’agenda dei primi cento giorni che Trump ha illustrato durante il discorso ha conquistato l’America (punti già menzionati più volte durante la sua campagna). Facciamo alcuni esempi. La Middle Class Tax Relief and Simplification Act. La più grande riduzione delle tasse per la classe media (gli sconfitti di 20 anni di globalizzazione Usa). Una famiglia con due figli avrà un taglio della tassazione del 35%. Stando alla Tax Foundation il piano di tasse di Trump potrebbe da solo aumentare l’economia del 7%, accrescere gli stipendi del 5-6%. Le Pmi, la spina dorsale dell’economia, vedranno le loro tasse tagliate quasi della metà, dal 35% al 15%. I risparmi saranno usati per assumere e espandersi nella comunità (questo ovviamente è tutto da vedere, ma le Pmi tendono ad avere un maggior legame con il territorio in fatto di assunzioni). I miliardi di dollari americani nascosti all’estero saranno rimpatriati con una tassa una tantum del 10%. La Tax Foundation stima che il piano di Trump aumenterà il Pil di un punto percentuale all’anno. Per contro hanno stimato che il progetto di tasse della Clinton decrescerà il Pil di un quarto di punto su base annua.La posizione di Trump, per certi aspetti isolazionista, mira a far uscire gli Usa da ogni accordo internazionale che li danneggi (danneggi la produzione e l’industria nativa) sulla base dell’articolo 2205. Una politica simile mira ad attivare il “End The Offshoring Act”. Una soluzione che stabilisca tariffe che scoraggino le aziende a licenziare personale per trasferirsi all’estero. Questa combinazione di soluzioni ha sicuramente colpito la popolazione bianca stremata e fortemente impoverita, specialmente i colletti blu (la classe media e operaia). Rispetto al settore energetico, Trump ha spinto per una produzione domestica di energia da ogni fonte fossile (poco ecologica ma una forte spinta all’occupazione). In accordo con l’analisi del “Wall Street Journal”, «oltre una dozzina di progetti infrastrutturali energetici, del valore di 33 miliardi di dollari, sono stati rifiutati dal regolatore dal 2012». Stando alla analisi dell’Heritage Foundation, entro il 2030, le restrizioni energetiche del duo Obama-Clinton elimineranno circa mezzo milione di posti di lavoro nel manufatturiero. Queste idee, insieme alle molte altre spiegate a Gettysburg, hanno infiammato gli animi degli americani.
(Enrico Verga, “Elezioni Usa 2016, 10 novembre: Trump ha vinto”, dal “Fatto Quotidiano” del 2 novembre 2016).
CHE VINCA L'UNO O CHE VINCA L'ALTRO, IL BAROMETRO DEL NOSTRO DESTINO SEGNA TEMPESTA.
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Sono passati solo pochi giorni dallo spoglio e la vittoria di Trump è confermata. I media americani non san ancora che pesci pigliare, i media europei, che salvo poche eccezioni, avevano sposato la più “estabilished” Clinton si stanno arrabattando per uscire con analisi “pro Trump”. Ma perché Donald ha vinto? Descritto fino a pochi giorni fa come un ninfomane, folle, guerrafondaio ed evasore di tasse (toccate tutto agli americani tranne sesso e tasse) ora è president. A mio modesto avviso quello che ha convinto gli americani è stata la decisione di Trump, al netto delle sue passioni (di 35 anni fa?) per il sesso femminile, in merito all’economia e la politica estera. Il discorso che ha fatto a Gettysburg il 22 ottobre ha conquistato il popolo americano. Vale la pena considerare alcuni elementi sinteticamente catturati da questo speech. Un americano su 4 nella fascia lavorativa dai 25 ai 54 anni è disoccupato; 1 uomo ogni 6 nella fascia d’età 18-34 è in prigione o è disoccupato; 45 milioni di americani sono poveri; l’entrata media annuale (real median household) è di $1,274 più bassa rispetto al 2000.Dal 2002 l’America ha perso oltre 70.000 fabbriche e 5 milioni di posti di lavoro nel settore manufatturiero. Gli agricoltori non se la passano meglio. Il deficit in beni è salito a 766 miliardi di dollari e sono stati persi oltre 300 miliardi all’anno in furti di proprietà intellettuali. Le attività produttive americane emigrate all’estero (off-shoring) hanno esacerbato questo scenario. Dal Nafta del 1993 all’entrata nel Wto della Cina fino ai recenti accordi con il Sud Corea del 2012 firmato Hillary Clinton. Stati manufatturieri come Michigan, Ohio e North Carolina sono stati particolarmente colpiti. Sotto il mandato di Obama-Clinton molti progetti infrastrutturali sono stati ritardati e o ostacolati. Oltre 60.000 ponti americani sono considerati “strutturalmente deficienti”. Il traffico costa all’economia americana oltre 100 miliardi di dollari all’anno. Sei milioni di americani sono esposti ad acqua contaminata.L’agenda dei primi cento giorni che Trump ha illustrato durante il discorso ha conquistato l’America (punti già menzionati più volte durante la sua campagna). Facciamo alcuni esempi. La Middle Class Tax Relief and Simplification Act. La più grande riduzione delle tasse per la classe media (gli sconfitti di 20 anni di globalizzazione Usa). Una famiglia con due figli avrà un taglio della tassazione del 35%. Stando alla Tax Foundation il piano di tasse di Trump potrebbe da solo aumentare l’economia del 7%, accrescere gli stipendi del 5-6%. Le Pmi, la spina dorsale dell’economia, vedranno le loro tasse tagliate quasi della metà, dal 35% al 15%. I risparmi saranno usati per assumere e espandersi nella comunità (questo ovviamente è tutto da vedere, ma le Pmi tendono ad avere un maggior legame con il territorio in fatto di assunzioni). I miliardi di dollari americani nascosti all’estero saranno rimpatriati con una tassa una tantum del 10%. La Tax Foundation stima che il piano di Trump aumenterà il Pil di un punto percentuale all’anno. Per contro hanno stimato che il progetto di tasse della Clinton decrescerà il Pil di un quarto di punto su base annua.La posizione di Trump, per certi aspetti isolazionista, mira a far uscire gli Usa da ogni accordo internazionale che li danneggi (danneggi la produzione e l’industria nativa) sulla base dell’articolo 2205. Una politica simile mira ad attivare il “End The Offshoring Act”. Una soluzione che stabilisca tariffe che scoraggino le aziende a licenziare personale per trasferirsi all’estero. Questa combinazione di soluzioni ha sicuramente colpito la popolazione bianca stremata e fortemente impoverita, specialmente i colletti blu (la classe media e operaia). Rispetto al settore energetico, Trump ha spinto per una produzione domestica di energia da ogni fonte fossile (poco ecologica ma una forte spinta all’occupazione). In accordo con l’analisi del “Wall Street Journal”, «oltre una dozzina di progetti infrastrutturali energetici, del valore di 33 miliardi di dollari, sono stati rifiutati dal regolatore dal 2012». Stando alla analisi dell’Heritage Foundation, entro il 2030, le restrizioni energetiche del duo Obama-Clinton elimineranno circa mezzo milione di posti di lavoro nel manufatturiero. Queste idee, insieme alle molte altre spiegate a Gettysburg, hanno infiammato gli animi degli americani.
(Enrico Verga, “Elezioni Usa 2016, 10 novembre: Trump ha vinto”, dal “Fatto Quotidiano” del 2 novembre 2016).
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Re: Dove va l'America?
Trump è il delitto, Hillary il castigo.
Trump è il delitto del nichilismo incendiario, la Russia di metà Ottocento che ritorna oggi a Occidente:
le mani di Raskol’nikov intorno alla scure che schianta il “pidocchio”, la vecchia usuraia.
Hillary è il castigo di un popolo che marcia come un gregge verso l’ovile, è il passato scaduto,
lo psicofarmaco che oblia la realtà.
Trump è il delitto dell’uomo che si crede al di là del bene e del male. Hillary è il castigo di
un Paese che non crede più a niente.
Trump è il delitto di una passione triste: l’odio. Hillary è il castigo di una passione triste:
la rassegnazione
Trump è il delitto dell’intelletto, è la mente sorda ai racconti di progresso. Hillary è il castigo del
tempo sprecato, di una restaurazione impossibile.
Trump è la pillola rossa: vedranno quant’è profondo l’abisso dell’incubo. Hillary è la pillola azzurra:
fine della storia, si sveglieranno nelle loro camere e crederanno a ciò che vorranno.
Trump è il delitto della pena di morte, della distruzione ecologica, del cemento armato che
scorre a fiumi, dei confini che si fanno muri e dei muri che diventano confini.
Hillary è il castigo di un paradosso: votare repubblicano pensando di votare democratico;
è il castigo dei cacciabombardieri in volo verso il Golfo persico e degli scarponi sulla sabbia
del deserto, il castigo della finanziarizzazione dell’economia reale, e della finanza –
immemore del crollo del 2007 – che tenta di sopravvivere.
Trump è il delitto della lobby delle armi. Hillary è il castigo dello scudo fiscale alle platform
company tecnologiche.
Trump è il delitto del trash, Hillary è il castigo dell’establishment.
Trump è il delitto di uomini che odiano le donne, dei “negri che sono pigri”, degli “ispanici
che non devono passare”.
Hillary è il castigo dei soldi di chi la finanzia, delle oligarchie che la supportano, del partito
democratico dimentico della working class.
Trump è il delitto di zar e sultani eletti a modello. Hillary è il castigo delle sue relazioni
con le canaglie del Medioriente.
Trump è il delitto di Bill il Macellaio ai Five Points, nelle Gangs of New York. Hillary è
il castigo di Nora Desmond nel Viale del tramonto.
Trump è il delitto della supremazia bianca, del nativismo e dei fratelli Bundy. Hillary è
il castigo dell’usato sicuro: del centrismo in decomposizione in tutti gli angoli del globo.
Trump è il delitto di dio, Hillary è il castigo del grande Inquisitore.
http://www.idiavoli.com/2016/11/07/usa- ... ton-trump/
Trump è il delitto del nichilismo incendiario, la Russia di metà Ottocento che ritorna oggi a Occidente:
le mani di Raskol’nikov intorno alla scure che schianta il “pidocchio”, la vecchia usuraia.
Hillary è il castigo di un popolo che marcia come un gregge verso l’ovile, è il passato scaduto,
lo psicofarmaco che oblia la realtà.
Trump è il delitto dell’uomo che si crede al di là del bene e del male. Hillary è il castigo di
un Paese che non crede più a niente.
Trump è il delitto di una passione triste: l’odio. Hillary è il castigo di una passione triste:
la rassegnazione
Trump è il delitto dell’intelletto, è la mente sorda ai racconti di progresso. Hillary è il castigo del
tempo sprecato, di una restaurazione impossibile.
Trump è la pillola rossa: vedranno quant’è profondo l’abisso dell’incubo. Hillary è la pillola azzurra:
fine della storia, si sveglieranno nelle loro camere e crederanno a ciò che vorranno.
Trump è il delitto della pena di morte, della distruzione ecologica, del cemento armato che
scorre a fiumi, dei confini che si fanno muri e dei muri che diventano confini.
Hillary è il castigo di un paradosso: votare repubblicano pensando di votare democratico;
è il castigo dei cacciabombardieri in volo verso il Golfo persico e degli scarponi sulla sabbia
del deserto, il castigo della finanziarizzazione dell’economia reale, e della finanza –
immemore del crollo del 2007 – che tenta di sopravvivere.
Trump è il delitto della lobby delle armi. Hillary è il castigo dello scudo fiscale alle platform
company tecnologiche.
Trump è il delitto del trash, Hillary è il castigo dell’establishment.
Trump è il delitto di uomini che odiano le donne, dei “negri che sono pigri”, degli “ispanici
che non devono passare”.
Hillary è il castigo dei soldi di chi la finanzia, delle oligarchie che la supportano, del partito
democratico dimentico della working class.
Trump è il delitto di zar e sultani eletti a modello. Hillary è il castigo delle sue relazioni
con le canaglie del Medioriente.
Trump è il delitto di Bill il Macellaio ai Five Points, nelle Gangs of New York. Hillary è
il castigo di Nora Desmond nel Viale del tramonto.
Trump è il delitto della supremazia bianca, del nativismo e dei fratelli Bundy. Hillary è
il castigo dell’usato sicuro: del centrismo in decomposizione in tutti gli angoli del globo.
Trump è il delitto di dio, Hillary è il castigo del grande Inquisitore.
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