La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
Il Sole 18.11.16
La corsa all’Eliseo. Valls: Marine Le Pen può vincere
Il premier lancia l’allarme, accreditandosi implicitamente come unico candidato di sinistra con chance di successo
Cresce la pressione perché Hollande non si ricandidi, vigilia di primarie per il centrodestra
di Marco Moussanet
Parigi «Sì, è possibile che Marine Le Pen vinca le presidenziali dell’anno prossimo». Rispondendo così a una domanda sull’appuntamento elettorale che farà della Francia il primo grande Paese europeo ad andare alle urne in uno scenario internazionale caratterizzato dal doppio shock della Brexit e del successo di Donald Trump, il premier Manuel Valls, a Berlino per un forum economico, ha deciso di drammatizzare la situazione. E, indirettamente, cercato di rafforzare l’idea che sia lui l’unico esponente della sinistra a poter sbarrare la strada all’estrema destra. A maggior ragione dopo le polemiche sul libro in cui due giornalisti di Le Monde hanno raccolto le confidenze del presidente (che l’opposizione accusa persino di alto tradimento per aver rivelato segreti di Stato).
Un’ipotesi, quella di Valls, sul tavolo da settimane e che viene ormai apertamente evocata anche da alcune figure di primo piano del Governo, storicamente molto vicine a François Hollande, come i ministri dell’Economia Michel Sapin e della Difesa Jean-Yves Le Drian. Mentre cresce la pressione nei confronti del presidente perché faccia un passo indietro e apra la strada a Valls.
Hollande tentenna. Continua a pensare di potercela fare, di poter invertire la tendenza, di poter creare la sorpresa. Nonostante i sondaggi gli assegnino un misero 9-10% al primo turno delle presidenziali (il 23 aprile, con ballottaggio il 7 maggio). Nonostante gli ultimi dati sulla disoccupazione (in risalita al 10% nel terzo trimestre) facciano dubitare di una reale inversione di tendenza alla quale ha da sempre subordinato la candidatura alla propria successione. E nonostante corra il rischio di una storica umiliazione facendosi battere alle primarie dei socialisti (22 e 27 gennaio). Dall’ex ministro Arnaud Montebourg. O magari proprio da Valls, che alla fine potrebbe rompere gli indugi (ha più volte dichiarato che se Hollande decide di presentarsi lui non lo farà) e candidarsi ugualmente.
Ma anche per il premier – che alle primarie socialiste del 2011 arrivò quinto e ultimo, con appena il 5,6% dei consensi - la strada sarebbe comunque tutta in salita. Avrebbe molta difficoltà a separare la propria immagine da quella del presidente che due anni fa gli ha affidato la guida del Governo. Ed è odiato dalla sinistra del partito. Che potrebbe appunto preferirgli Montebourg. O addirittura Jean-Luc Mélenchon, il leader della sinistra radicale. Senza trascurare il fatto che i sondaggi sono disastrosi anche per lui: tra il 12 e il 14 per cento.
I dubbi saranno comunque sciolti tra meno di un mese, visto che la scadenza per la presentazione delle candidature alle primarie del Ps è il 15 dicembre. E forse anche prima.
In attesa che lo psicodramma socialista abbia un epilogo, l’attenzione è tutta rivolta all’appuntamento, domenica, con il primo turno delle primarie del centro-destra. Dalle quali, stando ai sondaggi, dovrebbe uscire il nome del prossimo presidente della Repubblica. Chiamato a raccogliere i voti necessari a evitare il salto nel buio di una vittoria della Le Pen (che dovrebbe virare in testa al primo turno delle presidenziali con il 27-29%). Va ricordato che il Front National andò al ballottaggio già nel 2002 (con Jean-Marie Le Pen, favorito dalla frammentazione della sinistra, con 13 candidati), ma in un contesto completamente diverso, che impedì al “vecchio leone” di andare oltre il 18% ottenuto al primo turno.
Secondo le ultime rilevazioni, l’ex premier (e sindaco di Bordeaux) Alain Juppé continua a essere in testa (con il 36%), ma perde colpi a vantaggio di un altro ex premier, François Fillon, che in risalita al 22% starebbe ormai tallonando l’ex presidente Nicolas Sarkozy (al 29%). Tutto dipende dalla partecipazione. Più sarà alta più Juppé sarà favorito. Mentre Sarkozy sarebbe avvantaggiato da una partecipazione più ristretta, considerata la popolarità di cui gode tra i militanti dei Républicains. Con Fillon a fare appunto da terzo incomodo, da outsider.
A Emmanuel Macron – che ha fatto la scommessa di correre da solo, con un partito appena costituito – i sondaggi assegnano il 10-13 per cento. Ma sono precedenti all’annuncio ufficiale della sua candidatura.
La corsa all’Eliseo. Valls: Marine Le Pen può vincere
Il premier lancia l’allarme, accreditandosi implicitamente come unico candidato di sinistra con chance di successo
Cresce la pressione perché Hollande non si ricandidi, vigilia di primarie per il centrodestra
di Marco Moussanet
Parigi «Sì, è possibile che Marine Le Pen vinca le presidenziali dell’anno prossimo». Rispondendo così a una domanda sull’appuntamento elettorale che farà della Francia il primo grande Paese europeo ad andare alle urne in uno scenario internazionale caratterizzato dal doppio shock della Brexit e del successo di Donald Trump, il premier Manuel Valls, a Berlino per un forum economico, ha deciso di drammatizzare la situazione. E, indirettamente, cercato di rafforzare l’idea che sia lui l’unico esponente della sinistra a poter sbarrare la strada all’estrema destra. A maggior ragione dopo le polemiche sul libro in cui due giornalisti di Le Monde hanno raccolto le confidenze del presidente (che l’opposizione accusa persino di alto tradimento per aver rivelato segreti di Stato).
Un’ipotesi, quella di Valls, sul tavolo da settimane e che viene ormai apertamente evocata anche da alcune figure di primo piano del Governo, storicamente molto vicine a François Hollande, come i ministri dell’Economia Michel Sapin e della Difesa Jean-Yves Le Drian. Mentre cresce la pressione nei confronti del presidente perché faccia un passo indietro e apra la strada a Valls.
Hollande tentenna. Continua a pensare di potercela fare, di poter invertire la tendenza, di poter creare la sorpresa. Nonostante i sondaggi gli assegnino un misero 9-10% al primo turno delle presidenziali (il 23 aprile, con ballottaggio il 7 maggio). Nonostante gli ultimi dati sulla disoccupazione (in risalita al 10% nel terzo trimestre) facciano dubitare di una reale inversione di tendenza alla quale ha da sempre subordinato la candidatura alla propria successione. E nonostante corra il rischio di una storica umiliazione facendosi battere alle primarie dei socialisti (22 e 27 gennaio). Dall’ex ministro Arnaud Montebourg. O magari proprio da Valls, che alla fine potrebbe rompere gli indugi (ha più volte dichiarato che se Hollande decide di presentarsi lui non lo farà) e candidarsi ugualmente.
Ma anche per il premier – che alle primarie socialiste del 2011 arrivò quinto e ultimo, con appena il 5,6% dei consensi - la strada sarebbe comunque tutta in salita. Avrebbe molta difficoltà a separare la propria immagine da quella del presidente che due anni fa gli ha affidato la guida del Governo. Ed è odiato dalla sinistra del partito. Che potrebbe appunto preferirgli Montebourg. O addirittura Jean-Luc Mélenchon, il leader della sinistra radicale. Senza trascurare il fatto che i sondaggi sono disastrosi anche per lui: tra il 12 e il 14 per cento.
I dubbi saranno comunque sciolti tra meno di un mese, visto che la scadenza per la presentazione delle candidature alle primarie del Ps è il 15 dicembre. E forse anche prima.
In attesa che lo psicodramma socialista abbia un epilogo, l’attenzione è tutta rivolta all’appuntamento, domenica, con il primo turno delle primarie del centro-destra. Dalle quali, stando ai sondaggi, dovrebbe uscire il nome del prossimo presidente della Repubblica. Chiamato a raccogliere i voti necessari a evitare il salto nel buio di una vittoria della Le Pen (che dovrebbe virare in testa al primo turno delle presidenziali con il 27-29%). Va ricordato che il Front National andò al ballottaggio già nel 2002 (con Jean-Marie Le Pen, favorito dalla frammentazione della sinistra, con 13 candidati), ma in un contesto completamente diverso, che impedì al “vecchio leone” di andare oltre il 18% ottenuto al primo turno.
Secondo le ultime rilevazioni, l’ex premier (e sindaco di Bordeaux) Alain Juppé continua a essere in testa (con il 36%), ma perde colpi a vantaggio di un altro ex premier, François Fillon, che in risalita al 22% starebbe ormai tallonando l’ex presidente Nicolas Sarkozy (al 29%). Tutto dipende dalla partecipazione. Più sarà alta più Juppé sarà favorito. Mentre Sarkozy sarebbe avvantaggiato da una partecipazione più ristretta, considerata la popolarità di cui gode tra i militanti dei Républicains. Con Fillon a fare appunto da terzo incomodo, da outsider.
A Emmanuel Macron – che ha fatto la scommessa di correre da solo, con un partito appena costituito – i sondaggi assegnano il 10-13 per cento. Ma sono precedenti all’annuncio ufficiale della sua candidatura.
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Re: La crisi dell'Europa
Repubblica 18.11.16
Appello degli intellettuali per salvare l’Europa “È tempo di mobilitarsi per fermare i populisti”
Da Saviano a Wim Wenders e Felipe Gonzalez, politici, intellettuali e uomini d’arte creano una piattaforma per far sentire la voce dei cittadini nella Ue e prevenire le derive nazionaliste
Guillaume Klossa Sandro Gozi Daniel Cohn-Bendit Felipe Gonzalez Robert Menasse Roberto Saviano David Van Reybrouck Guy Verhofstadt Wim Wenders
Come la Brexit, la vittoria di Donald Trump ancora una volta ci ha colto di sorpresa. Eravamo per lo più convinti che un approccio ragionevole al dibattito politico avrebbe prevalso su un discorso populista.
Le radici della Brexit e della vittoria di Trump sono in gran parte le stesse: aumento delle disuguaglianze, ascensore sociale bloccato, paura della perdita di identità moltiplicata per la paura dell’immigrazione di massa, abbandono della questione sociale, sistema educativo e culturale carente, diffidenza verso élite ossessionate per i propri interessi personali e verso istituzioni pubbliche percepite come costose e inefficaci.
In entrambi i casi, le conseguenze per gli europei e per il mondo sono rilevanti.
Al rischio di disgregazione dell’Unione Europea, causato dalla Brexit, si aggiunge quello di un allontanamento progressivo tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea e della fine del mondo costruito nel dopoguerra, basato sul multilateralismo e sulla leadership benevola degli Stati Uniti. Il presidente americano eletto è stato chiaro: gli europei devono occuparsi di più della propria sicurezza, politicamente e finanziariamente. Le sue parole non fanno che accelerare una dinamica in atto sin dalla caduta del Muro di Berlino, 27 anni fa.
Questi eventi non possono che galvanizzare i populisti del Vecchio continente, in vista degli appuntamenti elettorali o degli importanti referendum che si terranno nei prossimi mesi in Austria, Italia, Paesi Bassi, Francia e Germania. Ovunque, i partiti moderati sono minacciati.
È dunque urgente agire.
Se noi europei non impariamo rapidamente la lezione che viene da questi eventi, il crollo dell’Unione e la marginalizzazione dei nostri interessi e dei nostri valori in un mondo in cui presto non rappresenteremo più del 5% della popolazione (e dove nessuno Stato europeo farà più parte del G7) diventeranno sempre più probabili.
Non avremo più i mezzi per essere ascoltati, né per garantire la sicurezza, mentre si moltiplicano le minacce alle nostre frontiere. Sarà sempre più difficile difendere i nostri interessi economici e commerciali - quelli della prima potenza esportatrice mondiale - quando la tentazione protezionista troverà sempre più consenso. La nostra idea di sviluppo sostenibile del pianeta rimarrà lettera morta. Non sarà più possibile finanziare i nostri modelli sociali fondati sulla redistribuzione, né i nostri importanti servizi pubblici.
Nessuno dei nostri Stati ha gli strumenti per trovare, da solo, soluzioni a queste sfide. Ora più che mai, l’unità europea è indispensabile. L’urgenza è quella di trovare il modo di riconciliare i cittadini con il progetto europeo e di inventare l’Europa del futuro, capace di offrire speranza per tutti. L’Europa del futuro deve avere il cittadino nel cuore, e dimostrare che serve in modo efficace gli interessi di tutti i cittadini europei, e non solo delle proprie élite.
È questa convinzione che ci porta al Movimento del 9 maggio, lanciato da cittadini e personalità da ogni provenienza, da ogni settore e da ogni sensibilità del continente, per far sì che l’Europa adotti senza indugio una tabella di marcia ambiziosa, concreta e pragmatica. La sfida è ridurre concretamente le disuguaglianze, stimolare la crescita, dare una risposta forte alla questione delle migrazioni, rafforzare la sicurezza dei cittadini, ambire a un’ulteriore democratizzazione dell’Unione e rimettere istruzione e cultura, fondamento della nostra identità democratica, al centro della Ue. Tra le nostre proposte ce ne sono alcune fortemente simboliche: la creazione di un Erasmus degli studenti medi; una politica di ricerca e sviluppo (R&S)comune nel campo della difesa; un raddoppio immediato del piano Juncker per gli investimenti; la creazione di liste transnazionali per le prossime elezioni europee.
In parte siamo stati ascoltati dalle istituzioni europee, che hanno ripreso alcune delle nostre linee guida e adottato l’idea di una tabella di marcia.
Ma oggi è necessaria più ambizione, è giunto il momento di lanciare una vera politica estera e di difesa europea. È tempo che l’Unione diventi una grande potenza politica, democratica, culturale, sociale, economica e ambientale. Il vertice europeo che si terrà a Roma il 25 marzo prossimo, in occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, dovrà rappresentare l’opportunità di un forte rilancio dell’Ue. Dovrà anche essere l’occasione per rafforzare la democrazia in Europa, sviluppando di metodi di democrazia deliberativa che possano permettere in modo efficace ai cittadini di contribuire alla definizione di priorità per il progetto europeo, e inventare i nuovi diritti e le nuove libertà del XXI secolo.
Senza questo nuovo slancio politico rivolto ai nostri cittadini i demoni populisti che ora ci stanno indebolendo, ci porteranno alla sconfitta. La Storia varia nelle sue forme, ma il risultato sarebbe comunque disastroso. E la possibilità che l’Ue non festeggi neppure il suo 70° anniversario è concreta.
Questa riscossa sarà possibile solo se le decine di milioni di cittadini che condividono la nostra ambizione si mobiliteranno per dare un futuro al nostro continente. È per questo che nel prossimo mese di gennaio creeremo una Piattaforma Civica Federale, ed è per questo che abbiamo lanciato in tutta Europa degli accordi civici per diffondere collettivamente la nostra voce. Dopo Parigi, lo scorso 15 ottobre, le prossime tappe saranno a Bratislava, Berlino, Roma e Bruxelles. Invitiamo tutti coloro che vogliono trasformare l’Europa a unirsi a noi.
All’appello aderiscono anche: László Andor; Lionel Baier ; Mercedes Bresso; Elmar Brok; Philippe de Buck; Georges Dassis; Paul Dujardin; Cynthia Fleury; Markus Gabriel; Danuta Huebner; Cristiano Leone; Jo Leinen; Sofi Oksanen; Maria Joao Rodrigues; Petre Roman; Nicolas Schmit; Gesine Schwan; Kirsten van den Hul; René Van Der Linden; Philippe van Parijs; Luca Visentini; Vaira Vike- Freiberga; Cédric Villani; Sasha Waltz; Mars di Bartolomeo
Appello degli intellettuali per salvare l’Europa “È tempo di mobilitarsi per fermare i populisti”
Da Saviano a Wim Wenders e Felipe Gonzalez, politici, intellettuali e uomini d’arte creano una piattaforma per far sentire la voce dei cittadini nella Ue e prevenire le derive nazionaliste
Guillaume Klossa Sandro Gozi Daniel Cohn-Bendit Felipe Gonzalez Robert Menasse Roberto Saviano David Van Reybrouck Guy Verhofstadt Wim Wenders
Come la Brexit, la vittoria di Donald Trump ancora una volta ci ha colto di sorpresa. Eravamo per lo più convinti che un approccio ragionevole al dibattito politico avrebbe prevalso su un discorso populista.
Le radici della Brexit e della vittoria di Trump sono in gran parte le stesse: aumento delle disuguaglianze, ascensore sociale bloccato, paura della perdita di identità moltiplicata per la paura dell’immigrazione di massa, abbandono della questione sociale, sistema educativo e culturale carente, diffidenza verso élite ossessionate per i propri interessi personali e verso istituzioni pubbliche percepite come costose e inefficaci.
In entrambi i casi, le conseguenze per gli europei e per il mondo sono rilevanti.
Al rischio di disgregazione dell’Unione Europea, causato dalla Brexit, si aggiunge quello di un allontanamento progressivo tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea e della fine del mondo costruito nel dopoguerra, basato sul multilateralismo e sulla leadership benevola degli Stati Uniti. Il presidente americano eletto è stato chiaro: gli europei devono occuparsi di più della propria sicurezza, politicamente e finanziariamente. Le sue parole non fanno che accelerare una dinamica in atto sin dalla caduta del Muro di Berlino, 27 anni fa.
Questi eventi non possono che galvanizzare i populisti del Vecchio continente, in vista degli appuntamenti elettorali o degli importanti referendum che si terranno nei prossimi mesi in Austria, Italia, Paesi Bassi, Francia e Germania. Ovunque, i partiti moderati sono minacciati.
È dunque urgente agire.
Se noi europei non impariamo rapidamente la lezione che viene da questi eventi, il crollo dell’Unione e la marginalizzazione dei nostri interessi e dei nostri valori in un mondo in cui presto non rappresenteremo più del 5% della popolazione (e dove nessuno Stato europeo farà più parte del G7) diventeranno sempre più probabili.
Non avremo più i mezzi per essere ascoltati, né per garantire la sicurezza, mentre si moltiplicano le minacce alle nostre frontiere. Sarà sempre più difficile difendere i nostri interessi economici e commerciali - quelli della prima potenza esportatrice mondiale - quando la tentazione protezionista troverà sempre più consenso. La nostra idea di sviluppo sostenibile del pianeta rimarrà lettera morta. Non sarà più possibile finanziare i nostri modelli sociali fondati sulla redistribuzione, né i nostri importanti servizi pubblici.
Nessuno dei nostri Stati ha gli strumenti per trovare, da solo, soluzioni a queste sfide. Ora più che mai, l’unità europea è indispensabile. L’urgenza è quella di trovare il modo di riconciliare i cittadini con il progetto europeo e di inventare l’Europa del futuro, capace di offrire speranza per tutti. L’Europa del futuro deve avere il cittadino nel cuore, e dimostrare che serve in modo efficace gli interessi di tutti i cittadini europei, e non solo delle proprie élite.
È questa convinzione che ci porta al Movimento del 9 maggio, lanciato da cittadini e personalità da ogni provenienza, da ogni settore e da ogni sensibilità del continente, per far sì che l’Europa adotti senza indugio una tabella di marcia ambiziosa, concreta e pragmatica. La sfida è ridurre concretamente le disuguaglianze, stimolare la crescita, dare una risposta forte alla questione delle migrazioni, rafforzare la sicurezza dei cittadini, ambire a un’ulteriore democratizzazione dell’Unione e rimettere istruzione e cultura, fondamento della nostra identità democratica, al centro della Ue. Tra le nostre proposte ce ne sono alcune fortemente simboliche: la creazione di un Erasmus degli studenti medi; una politica di ricerca e sviluppo (R&S)comune nel campo della difesa; un raddoppio immediato del piano Juncker per gli investimenti; la creazione di liste transnazionali per le prossime elezioni europee.
In parte siamo stati ascoltati dalle istituzioni europee, che hanno ripreso alcune delle nostre linee guida e adottato l’idea di una tabella di marcia.
Ma oggi è necessaria più ambizione, è giunto il momento di lanciare una vera politica estera e di difesa europea. È tempo che l’Unione diventi una grande potenza politica, democratica, culturale, sociale, economica e ambientale. Il vertice europeo che si terrà a Roma il 25 marzo prossimo, in occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, dovrà rappresentare l’opportunità di un forte rilancio dell’Ue. Dovrà anche essere l’occasione per rafforzare la democrazia in Europa, sviluppando di metodi di democrazia deliberativa che possano permettere in modo efficace ai cittadini di contribuire alla definizione di priorità per il progetto europeo, e inventare i nuovi diritti e le nuove libertà del XXI secolo.
Senza questo nuovo slancio politico rivolto ai nostri cittadini i demoni populisti che ora ci stanno indebolendo, ci porteranno alla sconfitta. La Storia varia nelle sue forme, ma il risultato sarebbe comunque disastroso. E la possibilità che l’Ue non festeggi neppure il suo 70° anniversario è concreta.
Questa riscossa sarà possibile solo se le decine di milioni di cittadini che condividono la nostra ambizione si mobiliteranno per dare un futuro al nostro continente. È per questo che nel prossimo mese di gennaio creeremo una Piattaforma Civica Federale, ed è per questo che abbiamo lanciato in tutta Europa degli accordi civici per diffondere collettivamente la nostra voce. Dopo Parigi, lo scorso 15 ottobre, le prossime tappe saranno a Bratislava, Berlino, Roma e Bruxelles. Invitiamo tutti coloro che vogliono trasformare l’Europa a unirsi a noi.
All’appello aderiscono anche: László Andor; Lionel Baier ; Mercedes Bresso; Elmar Brok; Philippe de Buck; Georges Dassis; Paul Dujardin; Cynthia Fleury; Markus Gabriel; Danuta Huebner; Cristiano Leone; Jo Leinen; Sofi Oksanen; Maria Joao Rodrigues; Petre Roman; Nicolas Schmit; Gesine Schwan; Kirsten van den Hul; René Van Der Linden; Philippe van Parijs; Luca Visentini; Vaira Vike- Freiberga; Cédric Villani; Sasha Waltz; Mars di Bartolomeo
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Re: La crisi dell'Europa
il manifesto 18.11.16
Non lasciamo campo libero ai tanti Trump del mondo
Crolla il vecchio ordine. La crisi stravolge anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. La situazione è pericolosa, ma offre anche delle opportunità
di Fulvio Lorefice, Tommaso Nencioni
Sul segno reale della vittoria di Donald Trump, le opinioni in merito paiono tanto polarizzate quanto la società che l’ha prodotta. È l’incedere della crisi che sta stravolgendo non solo la vita materiale di milioni di persone, ma anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. Il disfacimento della Obama coalition e l’affermazione del fenomeno Trump proietta una luce globale sul Midi francese già roccaforte del Pcf e ora bacino di consensi per la vandea lepenista; o ancora sull’Emilia fu rossa che alza barricate contro un pugno di donne e bambini migranti.
La crisi attuale, nella lettura che, per certi versi anticipandola, ne è stata data da Giovanni Arrighi, è la piena epifania della crisi del sistema egemonico della grande fabbrica integrata e imperniato sugli Stati uniti d’America, in realtà già avviata alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Il modello di Arrighi prevede che ogni ciclo espansivo del capitalismo giunga a saturazione per una doppia pressione che si scatena sui profitti: pressione orizzontale dovuta alla concorrenza tra imprese, pressione verticale dovuta alla spinta delle rivendicazioni delle classi subalterne. Si produce dapprima una «crisi-spia» del sistema egemonico, cui il capitale tende a sfuggire tramite il ricorso alla finanziarizzazione. Il boom borsistico dà luogo ad una euforia dei mercati mondiali che rende possibile un momentaneo superamento della crisi (le belles époques). Ma allo scoppio della bolla la crisi esplode con violenza ancor maggiore, con la conseguenza della ripresa del conflitto sociale, questa volta allargato dai subalterni alle classi medie, cioè a quei gruppi sociali che avevano costituito il collante del precedente regime di accumulazione; che avevano fatto sì che esso si instaurasse in termini di egemonia e non di puro dominio.
Il tema della condizione di questa classe media, delle sue aspirazioni e delle sue frustrazioni, è oggetto di una contesa egemonica all’interno dei Paesi a capitalismo maturo e tra le cosiddette economie emergenti. Nel corso della belle époque le disuguaglianze sono in genere socialmente tollerate, ma nel momento in cui le prospettive di stagnazione si fanno «secolari» non possono più esserlo. A determinare l’esito politico dei processi sociali innescati concorre la capacità dei soggetti organizzati di politicizzare e attrarre a sé nuovi protagonisti del conflitto sociale. Negli Stati uniti di questo primo scorcio di XXI secolo il tema è tornato in auge. Uno studio del 2012, a cura del Pew Research Center, recava l’eloquente titolo The lost decade of the middle class. Il dato econometrico sulle disuguaglianze ha ben presto lasciato il passo alla disputa politica tradizionale tra democratici e repubblicani. Lungi dal rappresentare un’alternativa reale al cosiddetto establishment, Trump ne è una particolare e nuova incarnazione, nel tentativo di sussumere e neutralizzare reali istanze sociali.
Lo sfarinamento delle classi medie, e l’emergere di nuovi protagonisti, sta introducendo tuttavia mutamenti massicci nei sistemi politici liberal-democratici. Quello dell’impermeabilità dello scontro partitico a quanto si muove nella società non è uno scenario sostenibile. Iniziarono già ad inizio secolo i regimi oligarchici latinoamericani a crollare sotto l’urto della crisi. Seguì la Grecia, con la pratica scomparsa di uno dei pilastri del regime liberale, il Pasok, e di lì a breve saltarono altri sistemi bipolaristi, come quello spagnolo sorto dalla Transizione e quello italiano che aveva caratterizzato la seconda repubblica. E già la V Repubblica francese si avvia a essere sconvolta dall’ondata lepenista.
Se il bipartitismo made in Usa sarà in grado di assimilare la presidenza Trump e la contemporanea spinta radicale manifestatasi nel corso delle primarie nel sostegno al socialista Sanders è forse ancor presto per dirlo. Di sicuro c’è che la governance neoliberale, l’estremo centro in cui ci sono spazio e risorse per rispondere a tutte le più disparate istanze provenienti da una società frantumata, o meglio ancora inesistente, crollano assieme all’illusione dell’eternità della belle époque.
«La crisi – annotava Gramsci – crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifici, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere».
La caduta dei pilastri di un ordine che tramonta può essere gravida di grandi pericoli, ma allo stesso tempo di altrettanto grandi opportunità di riarticolazione politica del sociale. Un terreno del tutto nuovo che le forze democratiche non possono permettersi di lasciare in balia dei tanti Trump che si candidano a monopolizzarlo.
Non lasciamo campo libero ai tanti Trump del mondo
Crolla il vecchio ordine. La crisi stravolge anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. La situazione è pericolosa, ma offre anche delle opportunità
di Fulvio Lorefice, Tommaso Nencioni
Sul segno reale della vittoria di Donald Trump, le opinioni in merito paiono tanto polarizzate quanto la società che l’ha prodotta. È l’incedere della crisi che sta stravolgendo non solo la vita materiale di milioni di persone, ma anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. Il disfacimento della Obama coalition e l’affermazione del fenomeno Trump proietta una luce globale sul Midi francese già roccaforte del Pcf e ora bacino di consensi per la vandea lepenista; o ancora sull’Emilia fu rossa che alza barricate contro un pugno di donne e bambini migranti.
La crisi attuale, nella lettura che, per certi versi anticipandola, ne è stata data da Giovanni Arrighi, è la piena epifania della crisi del sistema egemonico della grande fabbrica integrata e imperniato sugli Stati uniti d’America, in realtà già avviata alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Il modello di Arrighi prevede che ogni ciclo espansivo del capitalismo giunga a saturazione per una doppia pressione che si scatena sui profitti: pressione orizzontale dovuta alla concorrenza tra imprese, pressione verticale dovuta alla spinta delle rivendicazioni delle classi subalterne. Si produce dapprima una «crisi-spia» del sistema egemonico, cui il capitale tende a sfuggire tramite il ricorso alla finanziarizzazione. Il boom borsistico dà luogo ad una euforia dei mercati mondiali che rende possibile un momentaneo superamento della crisi (le belles époques). Ma allo scoppio della bolla la crisi esplode con violenza ancor maggiore, con la conseguenza della ripresa del conflitto sociale, questa volta allargato dai subalterni alle classi medie, cioè a quei gruppi sociali che avevano costituito il collante del precedente regime di accumulazione; che avevano fatto sì che esso si instaurasse in termini di egemonia e non di puro dominio.
Il tema della condizione di questa classe media, delle sue aspirazioni e delle sue frustrazioni, è oggetto di una contesa egemonica all’interno dei Paesi a capitalismo maturo e tra le cosiddette economie emergenti. Nel corso della belle époque le disuguaglianze sono in genere socialmente tollerate, ma nel momento in cui le prospettive di stagnazione si fanno «secolari» non possono più esserlo. A determinare l’esito politico dei processi sociali innescati concorre la capacità dei soggetti organizzati di politicizzare e attrarre a sé nuovi protagonisti del conflitto sociale. Negli Stati uniti di questo primo scorcio di XXI secolo il tema è tornato in auge. Uno studio del 2012, a cura del Pew Research Center, recava l’eloquente titolo The lost decade of the middle class. Il dato econometrico sulle disuguaglianze ha ben presto lasciato il passo alla disputa politica tradizionale tra democratici e repubblicani. Lungi dal rappresentare un’alternativa reale al cosiddetto establishment, Trump ne è una particolare e nuova incarnazione, nel tentativo di sussumere e neutralizzare reali istanze sociali.
Lo sfarinamento delle classi medie, e l’emergere di nuovi protagonisti, sta introducendo tuttavia mutamenti massicci nei sistemi politici liberal-democratici. Quello dell’impermeabilità dello scontro partitico a quanto si muove nella società non è uno scenario sostenibile. Iniziarono già ad inizio secolo i regimi oligarchici latinoamericani a crollare sotto l’urto della crisi. Seguì la Grecia, con la pratica scomparsa di uno dei pilastri del regime liberale, il Pasok, e di lì a breve saltarono altri sistemi bipolaristi, come quello spagnolo sorto dalla Transizione e quello italiano che aveva caratterizzato la seconda repubblica. E già la V Repubblica francese si avvia a essere sconvolta dall’ondata lepenista.
Se il bipartitismo made in Usa sarà in grado di assimilare la presidenza Trump e la contemporanea spinta radicale manifestatasi nel corso delle primarie nel sostegno al socialista Sanders è forse ancor presto per dirlo. Di sicuro c’è che la governance neoliberale, l’estremo centro in cui ci sono spazio e risorse per rispondere a tutte le più disparate istanze provenienti da una società frantumata, o meglio ancora inesistente, crollano assieme all’illusione dell’eternità della belle époque.
«La crisi – annotava Gramsci – crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifici, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere».
La caduta dei pilastri di un ordine che tramonta può essere gravida di grandi pericoli, ma allo stesso tempo di altrettanto grandi opportunità di riarticolazione politica del sociale. Un terreno del tutto nuovo che le forze democratiche non possono permettersi di lasciare in balia dei tanti Trump che si candidano a monopolizzarlo.
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Re: La crisi dell'Europa
LIBRE news
Marine Le Pen: popolo sovrano, no al globalismo Ue-Nato
Scritto il 19/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza: se qualcuno si domanda perché “il terrorismo” abbia scelto proprio la Francia, come obiettivo, congelando il dibattito politico sotto la pressione dell’emergenza, una risposta la può suggerire “Foreign Affairs”, che parla di “nuova Rivoluzione Francese” in arrivo con Marine Le Pen, l’unico leader in pole position, in un grande paese europeo, con un programma anti-Ue.
La principale candidata alla presidenza francese nel 2017, scrive “Voci dall’Estero”, ribadisce la sua visione economica e sociale per la Francia, incentrata sul ritorno alla completa sovranità statale su moneta, frontiere, leggi e indirizzo economico e culturale, in totale antitesi rispetto alla traiettoria della globalizzazione e dell’Unione Europea: «Bisogna dire che ci piacerebbe sentire queste parole anche dalla sinistra, che invece è totalmente arresa al neoliberismo e ormai sulla via dell’estinzione».
L’avvocato Marine Le Pen, che ha espulso dal Front National il padre, Jean-Marie, colpevole di aver definito la Shoah «un dettaglio della storia», prenota per la Francia un futuro fondato sul ritorno alla sovranità democratica, fuori dall’euro e dai diktat di Bruxelles.
«Credo che tutte le persone aspirino a essere libere.
Per troppo tempo, i popoli dei paesi dell’Unione Europea, e forse anche gli americani, hanno avuto l’impressione che i leader politici non difendano i loro interessi, ma bensì degli interessi particolari.
C’è una forma di rivolta del popolo contro un sistema che non lo serve più, ma che piuttosto serve se stesso», dichiara la Le Pen a Stuart Reid, nell’intervista ripresa da “Voci dall’Estero”.
Sulla scia della crisi europea dei migranti, degli attacchi terroristici a Parigi e a Nizza, e del voto per il Brexit, il messaggio euro-scettico della Le Pen sta “vendendo bene”, scrive Reid: «Recenti sondaggi la mostrano come principale candidata per la presidenza nel 2017, con gli intervistati che le attribuiscono un gradimento doppio rispetto a quello dell’attuale presidente, François Hollande».
Guardando agli Usa, Marine Le Pen paragona Donald Trump a Bernie Sanders: «Entrambi rifiutano un sistema che sembra essere molto egoista.
In molti paesi, vi è questa corrente di pensiero fedele alla nazione, che rifiuta la globalizzazione selvaggia, vista come una forma di totalitarismo.
La globalizzazione è stata imposta a tutti i costi, una guerra contro tutti per il beneficio di pochi».
La Le Pen “vota” contro il Ttip e contro Hillary Clinton: «E’ portatrice di guerra nel mondo: Iraq, Libia e Siria.
Questo ha avuto conseguenze estremamente destabilizzanti per il mio paese in termini di crescita del fondamentalismo islamico e per le enormi ondate migratorie che ormai stanno travolgendo l’Unione Europea».
La Clinton? «Spinge per l’applicazione extraterritoriale della legge americana, che è un’arma inaccettabile per coloro che desiderano rimanere indipendenti».
Nel frattempo, la Francia affonda nella crisi: la disoccupazione è oltre il 10%, e persino l’ex ministro socialista Arnaud Montebourg perora la causa del “made in France”, che è uno dei principali pilastri del Fronte Nazionale.
Anche la Francia soffre la globalizzazione-canaglia, «che espone alla concorrenza sleale di paesi che effettuano dumping sociale e ambientale, lasciandoci senza la possibilità di proteggere noi stessi e le nostre aziende strategiche, a differenza degli Stati Uniti».
E in termini di dumping sociale, la direttiva Ue sui “lavoratori distaccati”, cioè la libera circolazione della forza lavoro, «sta permettendo di far entrare in Francia lavoratori a salari molto bassi».
L’altro dumping è monetario: l’euro.
«Il fatto di non avere una nostra moneta ci mette in una situazione economica estremamente difficile», dice Marine Le Pen.
«Il Fmi ha appena affermato che l’euro è sopravvalutato del 6% in Francia e sottovalutato del 15% in Germania.
Questo è un gap di 21 punti percentuali con il nostro principale concorrente in Europa».
A questo si aggiunge la scomparsa dell’interventismo statale, leva storica per lo sviluppo.
«Quello a cui aspiro – dichiara apertamente la Le Pen – è un’uscita concertata dall’Unione Europea, in cui tutti i paesi si siedono intorno ad un tavolo e decidono di tornare al “serpente monetario”, che permette a ciascuno di adattare la sua politica monetaria alla propria economia.
E voglio che sia fatto gradualmente e in modo coordinato».
La situazione sta peggiorando: «Molti paesi si stanno rendendo conto che non possono continuare a vivere con l’euro, perché la sua contropartita è la politica di austerità, che ha aggravato la recessione».
E cita Joseph Stiglitz, che ha appena scritto che l’euro è una moneta «completamente inadatta per le nostre economie».
Proprio l’euro «è uno dei motivi per cui c’è tanta disoccupazione nell’Unione Europea».
Quindi, «o ci arriviamo attraverso la negoziazione – avverte Marine Le Pen – o teniamo un referendum come la Gran Bretagna e decidiamo di riprendere il controllo della nostra moneta».
Un referendum sul “Frexit”? «Nel 2005 il popolo francese è stato tradito.
I francesi hanno detto no alla Costituzione europea; i politici di destra e di sinistra l’hanno imposta contro la volontà del popolo.
Io sono democratica. Credo che non spetti a nessun altro che al popolo francese di decidere sul proprio futuro e su tutto ciò che riguarda la sua sovranità, libertà e indipendenza», sottolinea la leader del Front National.
«Quindi sì, vorrei organizzare un referendum su questo tema. E sulla base di ciò che accadrà nel corso dei negoziati che avrò intrapreso, dirò ai francesi: “Ascoltate, ho ottenuto quello che volevo, e penso che potremmo rimanere nell’Unione Europea”, oppure: “Non ho ottenuto quello che volevo, e credo che non ci sia altra soluzione che uscire dall’Unione Europea”».
Il caso Brexit è incoraggiante: «Quando la gente vuole qualcosa, nulla è impossibile».
Inoltre, «ci hanno mentito: ci hanno detto che il Brexit sarebbe stato una catastrofe, che i mercati azionari sarebbero precipitati, che l’economia avrebbe rallentato fino a fermarsi, che la disoccupazione sarebbe schizzata alle stelle.
La realtà è che niente di tutto questo è successo».Le banche oggi dicono che si erano “sbagliate”?
«No, ci avete mentito. Avete mentito per influenzare il voto. Ma le persone stanno iniziando a comprendere i vostri metodi, che consistono nel terrorizzarle quando c’è una scelta da fare.
Con questo voto il popolo britannico ha dato grande mostra di maturità».
Paura per l’isolamento di una Francia fuori dall’Eurozona?
«Sono le stesse esatte critiche fatte al generale de Gaulle nel 1966, quando voleva ritirarsi dal comando integrato della Nato.
Libertà non è isolamento.
Indipendenza non è isolamento». Al contrario: «La Francia è sempre stata molto più potente quando è stata soltanto Francia invece che una provincia dell’Unione Europea».
E a chi attribuisce all’Ue il merito di aver garantito la pace dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, risponde: «Non è l’Unione Europea ad aver mantenuto la pace; è la pace che ha reso l’Unione Europea possibile».
Ma la pace «non è stata perfetta nell’Unione Europea, con il Kosovo e l’Ucraina sulla soglia di casa».
Inoltre, l’Ue «si è progressivamente trasformata in una sorta di Unione Sovietica Europea che decide tutto, che impone le sue opinioni, che spegne il processo democratico.
Basta sentire il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che ha detto: “Non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei”».
Insiste Marine Le Pen: «Noi non abbiamo combattuto per la libertà e l’indipendenza durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale per dover accettare oggi di non essere più un popolo libero solo perché alcuni dei nostri governanti hanno preso questa decisione per noi».
Governanti francesi, ma soprattutto tedeschi: la leadership della Germania ha condizionato totalmente l’Europa.
«Era scritta nella creazione dell’euro.
In realtà, l’euro è una moneta creata dalla Germania, per la Germania.
Si tratta di un abito che si adatta solo alla Germania.
A poco a poco, la cancelliera Angela Merkel ha cominciato a sentire di essere il leader dell’Unione Europea.
Ha imposto le sue opinioni.
Le ha imposte in materia economica, ma le ha imposte anche accettando di accogliere un milione di immigrati in Germania, ben sapendo che la Germania poi li avrebbe smistati.
Si sarebbe tenuta il meglio e avrebbe lasciato andare il resto negli altri paesi dell’Unione Europea.
Non c’è più nessuna frontiera interna tra i nostri paesi, il che è assolutamente inaccettabile.
Il modello imposto dalla Merkel sicuramente funziona per i tedeschi, ma sta uccidendo i vicini della Germania.
Io sono l’anti-Merkel».
A differenza degli altri leader francesi, finora pronti a «sottomettersi molto facilmente alle esigenze di Merkel e Obama», dimenticando di «difendere i propri interessi, compresi quelli commerciali e industriali», Marine Le Pen si dichiara «per l’indipendenza», ovvero «per una Francia che rimanga equidistante tra le due grandi potenze, la Russia e gli Stati Uniti: né sottomessa, né ostile».
Vuole una Francia che torni a essere «un punto di riferimento per i paesi non allineati, come si diceva durante l’era De Gaulle».
Semplice: «Abbiamo il diritto di difendere i nostri interessi, proprio come gli Stati Uniti hanno il diritto di difendere i propri interessi, come la Germania ha il diritto di difendere i propri interessi, e la Russia ha il diritto di difendere i propri interessi».
Francia e Russia? «Hanno una storia comune e una forte affinità culturale.
E strategicamente, non vi è alcun motivo per non approfondire le relazioni con la Russia.
L’unica ragione per cui non lo facciamo è perché gli americani lo vietano: questo confligge con il mio desiderio di indipendenza», dice la Le Pen.
Gli Usa? «Credo che stiano facendo un errore a ricreare una sorta di guerra fredda con la Russia, perché stanno spingendo la Russia nelle braccia della Cina.
E oggettivamente, un’associazione ultrapotente tra la Cina e la Russia non sarebbe vantaggiosa né per gli Stati Uniti, né per il mondo».
Marine Le Pen: popolo sovrano, no al globalismo Ue-Nato
Scritto il 19/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza: se qualcuno si domanda perché “il terrorismo” abbia scelto proprio la Francia, come obiettivo, congelando il dibattito politico sotto la pressione dell’emergenza, una risposta la può suggerire “Foreign Affairs”, che parla di “nuova Rivoluzione Francese” in arrivo con Marine Le Pen, l’unico leader in pole position, in un grande paese europeo, con un programma anti-Ue.
La principale candidata alla presidenza francese nel 2017, scrive “Voci dall’Estero”, ribadisce la sua visione economica e sociale per la Francia, incentrata sul ritorno alla completa sovranità statale su moneta, frontiere, leggi e indirizzo economico e culturale, in totale antitesi rispetto alla traiettoria della globalizzazione e dell’Unione Europea: «Bisogna dire che ci piacerebbe sentire queste parole anche dalla sinistra, che invece è totalmente arresa al neoliberismo e ormai sulla via dell’estinzione».
L’avvocato Marine Le Pen, che ha espulso dal Front National il padre, Jean-Marie, colpevole di aver definito la Shoah «un dettaglio della storia», prenota per la Francia un futuro fondato sul ritorno alla sovranità democratica, fuori dall’euro e dai diktat di Bruxelles.
«Credo che tutte le persone aspirino a essere libere.
Per troppo tempo, i popoli dei paesi dell’Unione Europea, e forse anche gli americani, hanno avuto l’impressione che i leader politici non difendano i loro interessi, ma bensì degli interessi particolari.
C’è una forma di rivolta del popolo contro un sistema che non lo serve più, ma che piuttosto serve se stesso», dichiara la Le Pen a Stuart Reid, nell’intervista ripresa da “Voci dall’Estero”.
Sulla scia della crisi europea dei migranti, degli attacchi terroristici a Parigi e a Nizza, e del voto per il Brexit, il messaggio euro-scettico della Le Pen sta “vendendo bene”, scrive Reid: «Recenti sondaggi la mostrano come principale candidata per la presidenza nel 2017, con gli intervistati che le attribuiscono un gradimento doppio rispetto a quello dell’attuale presidente, François Hollande».
Guardando agli Usa, Marine Le Pen paragona Donald Trump a Bernie Sanders: «Entrambi rifiutano un sistema che sembra essere molto egoista.
In molti paesi, vi è questa corrente di pensiero fedele alla nazione, che rifiuta la globalizzazione selvaggia, vista come una forma di totalitarismo.
La globalizzazione è stata imposta a tutti i costi, una guerra contro tutti per il beneficio di pochi».
La Le Pen “vota” contro il Ttip e contro Hillary Clinton: «E’ portatrice di guerra nel mondo: Iraq, Libia e Siria.
Questo ha avuto conseguenze estremamente destabilizzanti per il mio paese in termini di crescita del fondamentalismo islamico e per le enormi ondate migratorie che ormai stanno travolgendo l’Unione Europea».
La Clinton? «Spinge per l’applicazione extraterritoriale della legge americana, che è un’arma inaccettabile per coloro che desiderano rimanere indipendenti».
Nel frattempo, la Francia affonda nella crisi: la disoccupazione è oltre il 10%, e persino l’ex ministro socialista Arnaud Montebourg perora la causa del “made in France”, che è uno dei principali pilastri del Fronte Nazionale.
Anche la Francia soffre la globalizzazione-canaglia, «che espone alla concorrenza sleale di paesi che effettuano dumping sociale e ambientale, lasciandoci senza la possibilità di proteggere noi stessi e le nostre aziende strategiche, a differenza degli Stati Uniti».
E in termini di dumping sociale, la direttiva Ue sui “lavoratori distaccati”, cioè la libera circolazione della forza lavoro, «sta permettendo di far entrare in Francia lavoratori a salari molto bassi».
L’altro dumping è monetario: l’euro.
«Il fatto di non avere una nostra moneta ci mette in una situazione economica estremamente difficile», dice Marine Le Pen.
«Il Fmi ha appena affermato che l’euro è sopravvalutato del 6% in Francia e sottovalutato del 15% in Germania.
Questo è un gap di 21 punti percentuali con il nostro principale concorrente in Europa».
A questo si aggiunge la scomparsa dell’interventismo statale, leva storica per lo sviluppo.
«Quello a cui aspiro – dichiara apertamente la Le Pen – è un’uscita concertata dall’Unione Europea, in cui tutti i paesi si siedono intorno ad un tavolo e decidono di tornare al “serpente monetario”, che permette a ciascuno di adattare la sua politica monetaria alla propria economia.
E voglio che sia fatto gradualmente e in modo coordinato».
La situazione sta peggiorando: «Molti paesi si stanno rendendo conto che non possono continuare a vivere con l’euro, perché la sua contropartita è la politica di austerità, che ha aggravato la recessione».
E cita Joseph Stiglitz, che ha appena scritto che l’euro è una moneta «completamente inadatta per le nostre economie».
Proprio l’euro «è uno dei motivi per cui c’è tanta disoccupazione nell’Unione Europea».
Quindi, «o ci arriviamo attraverso la negoziazione – avverte Marine Le Pen – o teniamo un referendum come la Gran Bretagna e decidiamo di riprendere il controllo della nostra moneta».
Un referendum sul “Frexit”? «Nel 2005 il popolo francese è stato tradito.
I francesi hanno detto no alla Costituzione europea; i politici di destra e di sinistra l’hanno imposta contro la volontà del popolo.
Io sono democratica. Credo che non spetti a nessun altro che al popolo francese di decidere sul proprio futuro e su tutto ciò che riguarda la sua sovranità, libertà e indipendenza», sottolinea la leader del Front National.
«Quindi sì, vorrei organizzare un referendum su questo tema. E sulla base di ciò che accadrà nel corso dei negoziati che avrò intrapreso, dirò ai francesi: “Ascoltate, ho ottenuto quello che volevo, e penso che potremmo rimanere nell’Unione Europea”, oppure: “Non ho ottenuto quello che volevo, e credo che non ci sia altra soluzione che uscire dall’Unione Europea”».
Il caso Brexit è incoraggiante: «Quando la gente vuole qualcosa, nulla è impossibile».
Inoltre, «ci hanno mentito: ci hanno detto che il Brexit sarebbe stato una catastrofe, che i mercati azionari sarebbero precipitati, che l’economia avrebbe rallentato fino a fermarsi, che la disoccupazione sarebbe schizzata alle stelle.
La realtà è che niente di tutto questo è successo».Le banche oggi dicono che si erano “sbagliate”?
«No, ci avete mentito. Avete mentito per influenzare il voto. Ma le persone stanno iniziando a comprendere i vostri metodi, che consistono nel terrorizzarle quando c’è una scelta da fare.
Con questo voto il popolo britannico ha dato grande mostra di maturità».
Paura per l’isolamento di una Francia fuori dall’Eurozona?
«Sono le stesse esatte critiche fatte al generale de Gaulle nel 1966, quando voleva ritirarsi dal comando integrato della Nato.
Libertà non è isolamento.
Indipendenza non è isolamento». Al contrario: «La Francia è sempre stata molto più potente quando è stata soltanto Francia invece che una provincia dell’Unione Europea».
E a chi attribuisce all’Ue il merito di aver garantito la pace dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, risponde: «Non è l’Unione Europea ad aver mantenuto la pace; è la pace che ha reso l’Unione Europea possibile».
Ma la pace «non è stata perfetta nell’Unione Europea, con il Kosovo e l’Ucraina sulla soglia di casa».
Inoltre, l’Ue «si è progressivamente trasformata in una sorta di Unione Sovietica Europea che decide tutto, che impone le sue opinioni, che spegne il processo democratico.
Basta sentire il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che ha detto: “Non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei”».
Insiste Marine Le Pen: «Noi non abbiamo combattuto per la libertà e l’indipendenza durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale per dover accettare oggi di non essere più un popolo libero solo perché alcuni dei nostri governanti hanno preso questa decisione per noi».
Governanti francesi, ma soprattutto tedeschi: la leadership della Germania ha condizionato totalmente l’Europa.
«Era scritta nella creazione dell’euro.
In realtà, l’euro è una moneta creata dalla Germania, per la Germania.
Si tratta di un abito che si adatta solo alla Germania.
A poco a poco, la cancelliera Angela Merkel ha cominciato a sentire di essere il leader dell’Unione Europea.
Ha imposto le sue opinioni.
Le ha imposte in materia economica, ma le ha imposte anche accettando di accogliere un milione di immigrati in Germania, ben sapendo che la Germania poi li avrebbe smistati.
Si sarebbe tenuta il meglio e avrebbe lasciato andare il resto negli altri paesi dell’Unione Europea.
Non c’è più nessuna frontiera interna tra i nostri paesi, il che è assolutamente inaccettabile.
Il modello imposto dalla Merkel sicuramente funziona per i tedeschi, ma sta uccidendo i vicini della Germania.
Io sono l’anti-Merkel».
A differenza degli altri leader francesi, finora pronti a «sottomettersi molto facilmente alle esigenze di Merkel e Obama», dimenticando di «difendere i propri interessi, compresi quelli commerciali e industriali», Marine Le Pen si dichiara «per l’indipendenza», ovvero «per una Francia che rimanga equidistante tra le due grandi potenze, la Russia e gli Stati Uniti: né sottomessa, né ostile».
Vuole una Francia che torni a essere «un punto di riferimento per i paesi non allineati, come si diceva durante l’era De Gaulle».
Semplice: «Abbiamo il diritto di difendere i nostri interessi, proprio come gli Stati Uniti hanno il diritto di difendere i propri interessi, come la Germania ha il diritto di difendere i propri interessi, e la Russia ha il diritto di difendere i propri interessi».
Francia e Russia? «Hanno una storia comune e una forte affinità culturale.
E strategicamente, non vi è alcun motivo per non approfondire le relazioni con la Russia.
L’unica ragione per cui non lo facciamo è perché gli americani lo vietano: questo confligge con il mio desiderio di indipendenza», dice la Le Pen.
Gli Usa? «Credo che stiano facendo un errore a ricreare una sorta di guerra fredda con la Russia, perché stanno spingendo la Russia nelle braccia della Cina.
E oggettivamente, un’associazione ultrapotente tra la Cina e la Russia non sarebbe vantaggiosa né per gli Stati Uniti, né per il mondo».
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Re: La crisi dell'Europa
Repubblica 22.11.16
Thomas Brussig, scrittore
“Angela è la guida di un mondo politico che sta svanendo”
Vedo troppo testosterone in politica: Putin Erdogan e ora Trump
intervista di T. M.
BERLINO. Nei romanzi e nelle sceneggiature di Thomas Brussig la cesura più drammatica della Germania recente, la caduta del Muro, è raccontata sempre con esilarante spirito iconoclasta senza mai indugiare alla nostalgia per la Ddr. Ed è noto tra gli estimatori del grande scrittore berlinese ci sia anche Angela Merkel. In quest’intervista, Brussig spiega cosa significa la quarta candidatura della cancelliera alla guida della Germania e cos’è cambiato in questi suoi undici anni di regno incontrastato. Lo scrittore spiega perché è meglio che il suo Paese esporti più scuole e meno carri armati. E perché viviamo in un’epoca di «troppo testosterone»: Soprattutto, Brussig prova a illuminarci sul perché i cancellieri tedeschi durano quanto un imperatore medievale mentre in Italia la fine della legislatura è ancora un miraggio.
Angela Merkel si ricandida, le reazioni sono molto diverse. Per alcuni, come Timothy Garton Ash, sarà la “guida del mondo libero” che dovrà salvare l’Europa, per altri rischia di fare danni alla Germania e al resto del continente per la nota tendenza al tentennamento.
«La cultura politica cui Angela Merkel appartiene sta scomparendo. Merkel è una persona che cerca convergenze e le sviluppa. Non credo che ciò danneggi la Germania o l’Europa. Ma se, condizionata dallo Zeitgeist, lo spirito del tempo, comincia a mancarle un riscontro per questo tipo di approccio, il suo talento rischia di andare sprecato. Non so se è la “guida del mondo libero”. So che il mondo libero si sta rimpicciolendo».
Come è cambiata la Germania in questi ultimi undici anni? Merkel cosa può darle, ancora?
«La Germania sta molto bene, economicamente, anche grazie all’Agenda 2010 decisa dal suo predecessore, Gerhard Schröder. Una scelta, peraltro, che gli costò l’incarico. Angela Merkel ha mostrato un gran cuore, nella crisi dei profughi. Proprio come accadde a Schröder, la cancelliera si sta attirando molti nemici per questo. Comunque, adesso è importante che riusciamo a garantire l’integrazione dei profughi ma anche a riconoscere i limiti della nostra possibilità di integrare. E che reagiamo di conseguenza».
Alcuni sostengono, sopratutto nel suo partito, che Merkel si sarebbe occupata troppo poco dell’Afd, nato e prosperato a destra dei conservatori tedeschi.
«La democrazia serve a creare spazi per le opinioni e per gli interessi più diversi. La questione dei profughi è sfaccettata e importante, quindi è necessario che nascano opinioni molto diverse sull’argomento. Che l’Afd rappresenti gli elettori conservatori che si sentono traditi dalla Cdu di Merkel, è tutto da dimostrare. Secondo me è solo un partito dei risentimenti ».
Molti chiedono da tempo che la Germania acquisti un ruolo più forte, al livello internazionale, e chiamano Merkel la “leader riluttante”, perché esita a rispondere a queste attese. Secondo lei ciò dovrebbe anche avvenire sul piano militare?
«La Germania ha smesso di pensare nel 1945 di dover avere un ruolo militare. E c’è da fidarsi del pacifismo dei tedeschi, direi. Se la Germania vuole contare di più nel mondo, fondi delle università o delle scuole tedesche all’estero, non delle basi militari».
Se Merkel vincesse le elezioni, potrebbe eguagliare il record di Helmut Kohl: sedici anni al potere. Merkel, Kohl, Adenauer… perché i cancellieri tedeschi durano tanto?
In Italia un governo che finisca una legislatura è un evento sovrannaturale.
«Credo che la differenza fondamentale tra tedeschi e italiani stia nel fatto che la classe politica in Italia è profondamente disprezzata dai cittadini. Certo, anche da noi in Germania i politici vengono presi in giro. Ma in fondo i miei concittadini sanno che vengono governati bene».
L’elezione del populista Donald Trump alla Casa Bianca la spaventa?
«Non ho paura di Donald Trump. Però diciamo che non sono entusiasta dei tempi in cui viviamo. Al momento vedo troppo testosterone nella politica: Putin, Erdogan, ora Trump. Stiamo attraversando un rinascimento anti liberale. In cui nascono partiti che si nutrono di istinti bassi, pregiudizi e teorie complottiste e riescono a diventare eleggibili, vanno al potere. Anche in Europa. Forse attraverseremo di nuovo una fase di egoismi nazionali. Ma un ritorno all’età delle guerre è inimmaginabile». ( t. m.)
Thomas Brussig, scrittore
“Angela è la guida di un mondo politico che sta svanendo”
Vedo troppo testosterone in politica: Putin Erdogan e ora Trump
intervista di T. M.
BERLINO. Nei romanzi e nelle sceneggiature di Thomas Brussig la cesura più drammatica della Germania recente, la caduta del Muro, è raccontata sempre con esilarante spirito iconoclasta senza mai indugiare alla nostalgia per la Ddr. Ed è noto tra gli estimatori del grande scrittore berlinese ci sia anche Angela Merkel. In quest’intervista, Brussig spiega cosa significa la quarta candidatura della cancelliera alla guida della Germania e cos’è cambiato in questi suoi undici anni di regno incontrastato. Lo scrittore spiega perché è meglio che il suo Paese esporti più scuole e meno carri armati. E perché viviamo in un’epoca di «troppo testosterone»: Soprattutto, Brussig prova a illuminarci sul perché i cancellieri tedeschi durano quanto un imperatore medievale mentre in Italia la fine della legislatura è ancora un miraggio.
Angela Merkel si ricandida, le reazioni sono molto diverse. Per alcuni, come Timothy Garton Ash, sarà la “guida del mondo libero” che dovrà salvare l’Europa, per altri rischia di fare danni alla Germania e al resto del continente per la nota tendenza al tentennamento.
«La cultura politica cui Angela Merkel appartiene sta scomparendo. Merkel è una persona che cerca convergenze e le sviluppa. Non credo che ciò danneggi la Germania o l’Europa. Ma se, condizionata dallo Zeitgeist, lo spirito del tempo, comincia a mancarle un riscontro per questo tipo di approccio, il suo talento rischia di andare sprecato. Non so se è la “guida del mondo libero”. So che il mondo libero si sta rimpicciolendo».
Come è cambiata la Germania in questi ultimi undici anni? Merkel cosa può darle, ancora?
«La Germania sta molto bene, economicamente, anche grazie all’Agenda 2010 decisa dal suo predecessore, Gerhard Schröder. Una scelta, peraltro, che gli costò l’incarico. Angela Merkel ha mostrato un gran cuore, nella crisi dei profughi. Proprio come accadde a Schröder, la cancelliera si sta attirando molti nemici per questo. Comunque, adesso è importante che riusciamo a garantire l’integrazione dei profughi ma anche a riconoscere i limiti della nostra possibilità di integrare. E che reagiamo di conseguenza».
Alcuni sostengono, sopratutto nel suo partito, che Merkel si sarebbe occupata troppo poco dell’Afd, nato e prosperato a destra dei conservatori tedeschi.
«La democrazia serve a creare spazi per le opinioni e per gli interessi più diversi. La questione dei profughi è sfaccettata e importante, quindi è necessario che nascano opinioni molto diverse sull’argomento. Che l’Afd rappresenti gli elettori conservatori che si sentono traditi dalla Cdu di Merkel, è tutto da dimostrare. Secondo me è solo un partito dei risentimenti ».
Molti chiedono da tempo che la Germania acquisti un ruolo più forte, al livello internazionale, e chiamano Merkel la “leader riluttante”, perché esita a rispondere a queste attese. Secondo lei ciò dovrebbe anche avvenire sul piano militare?
«La Germania ha smesso di pensare nel 1945 di dover avere un ruolo militare. E c’è da fidarsi del pacifismo dei tedeschi, direi. Se la Germania vuole contare di più nel mondo, fondi delle università o delle scuole tedesche all’estero, non delle basi militari».
Se Merkel vincesse le elezioni, potrebbe eguagliare il record di Helmut Kohl: sedici anni al potere. Merkel, Kohl, Adenauer… perché i cancellieri tedeschi durano tanto?
In Italia un governo che finisca una legislatura è un evento sovrannaturale.
«Credo che la differenza fondamentale tra tedeschi e italiani stia nel fatto che la classe politica in Italia è profondamente disprezzata dai cittadini. Certo, anche da noi in Germania i politici vengono presi in giro. Ma in fondo i miei concittadini sanno che vengono governati bene».
L’elezione del populista Donald Trump alla Casa Bianca la spaventa?
«Non ho paura di Donald Trump. Però diciamo che non sono entusiasta dei tempi in cui viviamo. Al momento vedo troppo testosterone nella politica: Putin, Erdogan, ora Trump. Stiamo attraversando un rinascimento anti liberale. In cui nascono partiti che si nutrono di istinti bassi, pregiudizi e teorie complottiste e riescono a diventare eleggibili, vanno al potere. Anche in Europa. Forse attraverseremo di nuovo una fase di egoismi nazionali. Ma un ritorno all’età delle guerre è inimmaginabile». ( t. m.)
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Re: La crisi dell'Europa
Repubblica 22.11.16
Thomas Brussig, scrittore
“Angela è la guida di un mondo politico che sta svanendo”
Vedo troppo testosterone in politica: Putin Erdogan e ora Trump
intervista di T. M.
BERLINO. Nei romanzi e nelle sceneggiature di Thomas Brussig la cesura più drammatica della Germania recente, la caduta del Muro, è raccontata sempre con esilarante spirito iconoclasta senza mai indugiare alla nostalgia per la Ddr. Ed è noto tra gli estimatori del grande scrittore berlinese ci sia anche Angela Merkel. In quest’intervista, Brussig spiega cosa significa la quarta candidatura della cancelliera alla guida della Germania e cos’è cambiato in questi suoi undici anni di regno incontrastato. Lo scrittore spiega perché è meglio che il suo Paese esporti più scuole e meno carri armati. E perché viviamo in un’epoca di «troppo testosterone»: Soprattutto, Brussig prova a illuminarci sul perché i cancellieri tedeschi durano quanto un imperatore medievale mentre in Italia la fine della legislatura è ancora un miraggio.
Angela Merkel si ricandida, le reazioni sono molto diverse. Per alcuni, come Timothy Garton Ash, sarà la “guida del mondo libero” che dovrà salvare l’Europa, per altri rischia di fare danni alla Germania e al resto del continente per la nota tendenza al tentennamento.
«La cultura politica cui Angela Merkel appartiene sta scomparendo. Merkel è una persona che cerca convergenze e le sviluppa. Non credo che ciò danneggi la Germania o l’Europa. Ma se, condizionata dallo Zeitgeist, lo spirito del tempo, comincia a mancarle un riscontro per questo tipo di approccio, il suo talento rischia di andare sprecato. Non so se è la “guida del mondo libero”. So che il mondo libero si sta rimpicciolendo».
Come è cambiata la Germania in questi ultimi undici anni? Merkel cosa può darle, ancora?
«La Germania sta molto bene, economicamente, anche grazie all’Agenda 2010 decisa dal suo predecessore, Gerhard Schröder. Una scelta, peraltro, che gli costò l’incarico. Angela Merkel ha mostrato un gran cuore, nella crisi dei profughi. Proprio come accadde a Schröder, la cancelliera si sta attirando molti nemici per questo. Comunque, adesso è importante che riusciamo a garantire l’integrazione dei profughi ma anche a riconoscere i limiti della nostra possibilità di integrare. E che reagiamo di conseguenza».
Alcuni sostengono, sopratutto nel suo partito, che Merkel si sarebbe occupata troppo poco dell’Afd, nato e prosperato a destra dei conservatori tedeschi.
«La democrazia serve a creare spazi per le opinioni e per gli interessi più diversi. La questione dei profughi è sfaccettata e importante, quindi è necessario che nascano opinioni molto diverse sull’argomento. Che l’Afd rappresenti gli elettori conservatori che si sentono traditi dalla Cdu di Merkel, è tutto da dimostrare. Secondo me è solo un partito dei risentimenti ».
Molti chiedono da tempo che la Germania acquisti un ruolo più forte, al livello internazionale, e chiamano Merkel la “leader riluttante”, perché esita a rispondere a queste attese. Secondo lei ciò dovrebbe anche avvenire sul piano militare?
«La Germania ha smesso di pensare nel 1945 di dover avere un ruolo militare. E c’è da fidarsi del pacifismo dei tedeschi, direi. Se la Germania vuole contare di più nel mondo, fondi delle università o delle scuole tedesche all’estero, non delle basi militari».
Se Merkel vincesse le elezioni, potrebbe eguagliare il record di Helmut Kohl: sedici anni al potere. Merkel, Kohl, Adenauer… perché i cancellieri tedeschi durano tanto?
In Italia un governo che finisca una legislatura è un evento sovrannaturale.
«Credo che la differenza fondamentale tra tedeschi e italiani stia nel fatto che la classe politica in Italia è profondamente disprezzata dai cittadini. Certo, anche da noi in Germania i politici vengono presi in giro. Ma in fondo i miei concittadini sanno che vengono governati bene».
L’elezione del populista Donald Trump alla Casa Bianca la spaventa?
«Non ho paura di Donald Trump. Però diciamo che non sono entusiasta dei tempi in cui viviamo. Al momento vedo troppo testosterone nella politica: Putin, Erdogan, ora Trump. Stiamo attraversando un rinascimento anti liberale. In cui nascono partiti che si nutrono di istinti bassi, pregiudizi e teorie complottiste e riescono a diventare eleggibili, vanno al potere. Anche in Europa. Forse attraverseremo di nuovo una fase di egoismi nazionali. Ma un ritorno all’età delle guerre è inimmaginabile». ( t. m.)
Thomas Brussig, scrittore
“Angela è la guida di un mondo politico che sta svanendo”
Vedo troppo testosterone in politica: Putin Erdogan e ora Trump
intervista di T. M.
BERLINO. Nei romanzi e nelle sceneggiature di Thomas Brussig la cesura più drammatica della Germania recente, la caduta del Muro, è raccontata sempre con esilarante spirito iconoclasta senza mai indugiare alla nostalgia per la Ddr. Ed è noto tra gli estimatori del grande scrittore berlinese ci sia anche Angela Merkel. In quest’intervista, Brussig spiega cosa significa la quarta candidatura della cancelliera alla guida della Germania e cos’è cambiato in questi suoi undici anni di regno incontrastato. Lo scrittore spiega perché è meglio che il suo Paese esporti più scuole e meno carri armati. E perché viviamo in un’epoca di «troppo testosterone»: Soprattutto, Brussig prova a illuminarci sul perché i cancellieri tedeschi durano quanto un imperatore medievale mentre in Italia la fine della legislatura è ancora un miraggio.
Angela Merkel si ricandida, le reazioni sono molto diverse. Per alcuni, come Timothy Garton Ash, sarà la “guida del mondo libero” che dovrà salvare l’Europa, per altri rischia di fare danni alla Germania e al resto del continente per la nota tendenza al tentennamento.
«La cultura politica cui Angela Merkel appartiene sta scomparendo. Merkel è una persona che cerca convergenze e le sviluppa. Non credo che ciò danneggi la Germania o l’Europa. Ma se, condizionata dallo Zeitgeist, lo spirito del tempo, comincia a mancarle un riscontro per questo tipo di approccio, il suo talento rischia di andare sprecato. Non so se è la “guida del mondo libero”. So che il mondo libero si sta rimpicciolendo».
Come è cambiata la Germania in questi ultimi undici anni? Merkel cosa può darle, ancora?
«La Germania sta molto bene, economicamente, anche grazie all’Agenda 2010 decisa dal suo predecessore, Gerhard Schröder. Una scelta, peraltro, che gli costò l’incarico. Angela Merkel ha mostrato un gran cuore, nella crisi dei profughi. Proprio come accadde a Schröder, la cancelliera si sta attirando molti nemici per questo. Comunque, adesso è importante che riusciamo a garantire l’integrazione dei profughi ma anche a riconoscere i limiti della nostra possibilità di integrare. E che reagiamo di conseguenza».
Alcuni sostengono, sopratutto nel suo partito, che Merkel si sarebbe occupata troppo poco dell’Afd, nato e prosperato a destra dei conservatori tedeschi.
«La democrazia serve a creare spazi per le opinioni e per gli interessi più diversi. La questione dei profughi è sfaccettata e importante, quindi è necessario che nascano opinioni molto diverse sull’argomento. Che l’Afd rappresenti gli elettori conservatori che si sentono traditi dalla Cdu di Merkel, è tutto da dimostrare. Secondo me è solo un partito dei risentimenti ».
Molti chiedono da tempo che la Germania acquisti un ruolo più forte, al livello internazionale, e chiamano Merkel la “leader riluttante”, perché esita a rispondere a queste attese. Secondo lei ciò dovrebbe anche avvenire sul piano militare?
«La Germania ha smesso di pensare nel 1945 di dover avere un ruolo militare. E c’è da fidarsi del pacifismo dei tedeschi, direi. Se la Germania vuole contare di più nel mondo, fondi delle università o delle scuole tedesche all’estero, non delle basi militari».
Se Merkel vincesse le elezioni, potrebbe eguagliare il record di Helmut Kohl: sedici anni al potere. Merkel, Kohl, Adenauer… perché i cancellieri tedeschi durano tanto?
In Italia un governo che finisca una legislatura è un evento sovrannaturale.
«Credo che la differenza fondamentale tra tedeschi e italiani stia nel fatto che la classe politica in Italia è profondamente disprezzata dai cittadini. Certo, anche da noi in Germania i politici vengono presi in giro. Ma in fondo i miei concittadini sanno che vengono governati bene».
L’elezione del populista Donald Trump alla Casa Bianca la spaventa?
«Non ho paura di Donald Trump. Però diciamo che non sono entusiasta dei tempi in cui viviamo. Al momento vedo troppo testosterone nella politica: Putin, Erdogan, ora Trump. Stiamo attraversando un rinascimento anti liberale. In cui nascono partiti che si nutrono di istinti bassi, pregiudizi e teorie complottiste e riescono a diventare eleggibili, vanno al potere. Anche in Europa. Forse attraverseremo di nuovo una fase di egoismi nazionali. Ma un ritorno all’età delle guerre è inimmaginabile». ( t. m.)
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Re: La crisi dell'Europa
Francia, Sicurezza nucleare: “Situazione delle nostre centrali preoccupante”. Il rischio per l’Italia? Bollette più care
Ambiente & Veleni
Pier-Franck Chevet, presidente dell’Autorità di sicurezza nucleare francese (Asn), ha sottolineato l'esigenza di “ripensare” l'intera catena di controllo per rendere l'atomo più sicuro. Ricotti (Politecnico Milano): "Nessuna preoccupazione. I reattori che hanno problemi saranno tenuti fermi". Meregalli (Energia felice): "Conferma che il nucleare è pericoloso". L'unico rischio per il nostro Paese, che importa energia, sono i costi dei consumi
di Luigi Franco | 23 novembre 2016
COMMENTI
Più informazioni su: Bollette, Centrali Nucleari, Francia, Politecnico
Conseguenze negative per le nostre bollette elettriche, più che la possibilità di un grave incidente nucleare Oltralpe che metta a rischio la sicurezza anche in Italia. Questa l’opinione degli esperti contattati da ilfattoquotidiano.it dopo le parole di Pier-Franck Chevet, presidente dell’Autorità di sicurezza nucleare francese (Asn), che in un’intervista al supplemento economico di Le Figaro ha parlato di una situazione delle centrali transalpine diventata “molto preoccupante”. E ha sottolineato l’esigenza di “ripensare” l’intera catena di controllo per rendere l’atomo più sicuro.
Concentrazioni anomale di carbonio e dossier falsificati – All’età media piuttosto elevata degli impianti francesi si sono aggiunte questioni tecniche che hanno spinto nelle ultime settimane l’Asn a imporre al gestore dell’energia Edf di fermare diversi reattori. Così, tra guasti, manutenzioni ordinarie già programmate e controlli straordinari, i reattori al momento non in funzione sono 21 sui 58 presenti nelle 19 centrali francesi. In particolare una serie di verifiche a tappeto che ha portato ai blocchi attuali è stata avviata a maggio 2015, quando nella centrale che Edf e Areva stanno costruendo con tecnologia Epr a Flamanville, in Normandia, è stata scoperta un’anomalia nei generatori di vapore: l’acciaio con cui è stato realizzato il coperchio contiene una percentuale di carbonio più elevata rispetto alle specifiche. Problema che poi è stato rilevato anche altrove. “Oggi – ha spiegato Chevet a Le Figaro – 12 reattori sono fermi o stanno per essere fermati, per controllare che l’eccesso di carbonio scoperto nell’acciaio non alteri la capacità di resistenza meccanica dei generatori di vapore”. Il responsabile dell’Authority, inoltre, ha rivelato che i suoi ispettori hanno riscontrato nei 12 reattori una non meglio precisata “anomalia generica”. Il risultato delle verifiche in corso si avrà non prima di un mese e, una volta riavviati i reattori, ci vorrà un altro mese per raggiungere la piena potenza.
Ma i problemi non finiscono qui. Lo scorso maggio una serie di controlli nell’impianto siderurgico di Creusot Forge di Areva ha riscontrato circa 400 “incoerenze” nei rapporti di produzione di componenti per centrali realizzati negli scorsi decenni, su un totale di oltre 10mila pezzi controllati. In seguito a tale episodio sono partite ulteriori verifiche nelle centrali francesi. A questo riguardo, Chevet ha fatto riferimento a “pratiche inaccettabili”, a “dossier riguardanti anomalie volontariamente nascosti al cliente e all’Asn” e alla “scoperta di documenti di fabbricazione che appaiono falsificati”.
“Situazione sotto controllo, nessun rischio per l’Italia” – Tra i reattori fermati per le verifiche sui generatori di vapore, ci sono anche quelli delle centrali di Tricastin e Bugey, non lontane dal confine con l’Italia. La situazione in questi e negli altri impianti francesi mette a rischio anche la nostra sicurezza? “Non credo dobbiamo preoccuparci – risponde Marco Ricotti, docente di Impianti nucleari del Politecnico di Milano e da luglio presidente di Sogin, società pubblica incaricata dello smantellamento degli impianti nucleari italiani -. Se l’authority francese troverà problemi seri nei reattori sotto controllo, ordinerà di tenerli fermi finché i problemi non verranno risolti grazie a un’adeguata manutenzione o alla sostituzione dei componenti difettosi. Visto che in campo nucleare la regolamentazione è molto stringente, è sufficiente un lieve scostamento dalle specifiche per arrivare alla fermata dell’impianto”.
E se quei reattori, oggi considerati a rischio, non fossero stati fermati? “Non penso fossimo vicini a bombe pronte a esplodere. L’obbligo di rispettare elevati margini di sicurezza fa sì che una non conformità rispetto alle specifiche, soprattutto se lieve, non comporta per forza un rischio. In ogni caso avremo il quadro chiaro a breve, quando l’Asn avrà completato le proprie analisi”.
Non vede particolari rischi di qua dal confine neppure Roberto Meregalli, esperto dell’associazione Energia Felice, che tra le altre cose si occupa di energie rinnovabili: “Se nei reattori francesi si verificassero rotture o deformazioni, ci sarebbero perdite radioattive potenzialmente pericolose. Ma l’authority francese sta tenendo monitorati i casi che potrebbero dare problemi e confidiamo nell’efficienza di questi controlli. Al momento siamo solo a un livello di allerta. Certo, tutto questo conferma che in generale il nucleare è pericoloso”.
Da noi bolletta della luce più cara – Se dunque al momento la nostra sicurezza non sembra essere in discussione, lo stesso non si può dire per le nostre tasche. In Francia il 75% dell’energia proviene da fonte nucleare. Così il blocco di un terzo dei reattori ha come conseguenza un calo dell’offerta di elettricità che si ripercuote anche da noi che siamo un paese importatore. Con extra costi sulle nostre bollette che nei primi quattro mesi dell’anno prossimo potrebbero arrivare a 1,5 miliardi di euro.
Twitter: @gigi_gno
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Pier-Franck Chevet, presidente dell’Autorità di sicurezza nucleare francese (Asn), ha sottolineato l'esigenza di “ripensare” l'intera catena di controllo per rendere l'atomo più sicuro. Ricotti (Politecnico Milano): "Nessuna preoccupazione. I reattori che hanno problemi saranno tenuti fermi". Meregalli (Energia felice): "Conferma che il nucleare è pericoloso". L'unico rischio per il nostro Paese, che importa energia, sono i costi dei consumi
di Luigi Franco | 23 novembre 2016
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Conseguenze negative per le nostre bollette elettriche, più che la possibilità di un grave incidente nucleare Oltralpe che metta a rischio la sicurezza anche in Italia. Questa l’opinione degli esperti contattati da ilfattoquotidiano.it dopo le parole di Pier-Franck Chevet, presidente dell’Autorità di sicurezza nucleare francese (Asn), che in un’intervista al supplemento economico di Le Figaro ha parlato di una situazione delle centrali transalpine diventata “molto preoccupante”. E ha sottolineato l’esigenza di “ripensare” l’intera catena di controllo per rendere l’atomo più sicuro.
Concentrazioni anomale di carbonio e dossier falsificati – All’età media piuttosto elevata degli impianti francesi si sono aggiunte questioni tecniche che hanno spinto nelle ultime settimane l’Asn a imporre al gestore dell’energia Edf di fermare diversi reattori. Così, tra guasti, manutenzioni ordinarie già programmate e controlli straordinari, i reattori al momento non in funzione sono 21 sui 58 presenti nelle 19 centrali francesi. In particolare una serie di verifiche a tappeto che ha portato ai blocchi attuali è stata avviata a maggio 2015, quando nella centrale che Edf e Areva stanno costruendo con tecnologia Epr a Flamanville, in Normandia, è stata scoperta un’anomalia nei generatori di vapore: l’acciaio con cui è stato realizzato il coperchio contiene una percentuale di carbonio più elevata rispetto alle specifiche. Problema che poi è stato rilevato anche altrove. “Oggi – ha spiegato Chevet a Le Figaro – 12 reattori sono fermi o stanno per essere fermati, per controllare che l’eccesso di carbonio scoperto nell’acciaio non alteri la capacità di resistenza meccanica dei generatori di vapore”. Il responsabile dell’Authority, inoltre, ha rivelato che i suoi ispettori hanno riscontrato nei 12 reattori una non meglio precisata “anomalia generica”. Il risultato delle verifiche in corso si avrà non prima di un mese e, una volta riavviati i reattori, ci vorrà un altro mese per raggiungere la piena potenza.
Ma i problemi non finiscono qui. Lo scorso maggio una serie di controlli nell’impianto siderurgico di Creusot Forge di Areva ha riscontrato circa 400 “incoerenze” nei rapporti di produzione di componenti per centrali realizzati negli scorsi decenni, su un totale di oltre 10mila pezzi controllati. In seguito a tale episodio sono partite ulteriori verifiche nelle centrali francesi. A questo riguardo, Chevet ha fatto riferimento a “pratiche inaccettabili”, a “dossier riguardanti anomalie volontariamente nascosti al cliente e all’Asn” e alla “scoperta di documenti di fabbricazione che appaiono falsificati”.
“Situazione sotto controllo, nessun rischio per l’Italia” – Tra i reattori fermati per le verifiche sui generatori di vapore, ci sono anche quelli delle centrali di Tricastin e Bugey, non lontane dal confine con l’Italia. La situazione in questi e negli altri impianti francesi mette a rischio anche la nostra sicurezza? “Non credo dobbiamo preoccuparci – risponde Marco Ricotti, docente di Impianti nucleari del Politecnico di Milano e da luglio presidente di Sogin, società pubblica incaricata dello smantellamento degli impianti nucleari italiani -. Se l’authority francese troverà problemi seri nei reattori sotto controllo, ordinerà di tenerli fermi finché i problemi non verranno risolti grazie a un’adeguata manutenzione o alla sostituzione dei componenti difettosi. Visto che in campo nucleare la regolamentazione è molto stringente, è sufficiente un lieve scostamento dalle specifiche per arrivare alla fermata dell’impianto”.
E se quei reattori, oggi considerati a rischio, non fossero stati fermati? “Non penso fossimo vicini a bombe pronte a esplodere. L’obbligo di rispettare elevati margini di sicurezza fa sì che una non conformità rispetto alle specifiche, soprattutto se lieve, non comporta per forza un rischio. In ogni caso avremo il quadro chiaro a breve, quando l’Asn avrà completato le proprie analisi”.
Non vede particolari rischi di qua dal confine neppure Roberto Meregalli, esperto dell’associazione Energia Felice, che tra le altre cose si occupa di energie rinnovabili: “Se nei reattori francesi si verificassero rotture o deformazioni, ci sarebbero perdite radioattive potenzialmente pericolose. Ma l’authority francese sta tenendo monitorati i casi che potrebbero dare problemi e confidiamo nell’efficienza di questi controlli. Al momento siamo solo a un livello di allerta. Certo, tutto questo conferma che in generale il nucleare è pericoloso”.
Da noi bolletta della luce più cara – Se dunque al momento la nostra sicurezza non sembra essere in discussione, lo stesso non si può dire per le nostre tasche. In Francia il 75% dell’energia proviene da fonte nucleare. Così il blocco di un terzo dei reattori ha come conseguenza un calo dell’offerta di elettricità che si ripercuote anche da noi che siamo un paese importatore. Con extra costi sulle nostre bollette che nei primi quattro mesi dell’anno prossimo potrebbero arrivare a 1,5 miliardi di euro.
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Re: La crisi dell'Europa
LIBRE news
Thomas Mann e il prossimo Hitler invocato da noi umiliati
Scritto il 24/11/16 • nella Categoria: idee Condividi
Il romanziere tedesco Thomas Mann era «cittadino di un popolo che nel 1925 ancora rappresentava un apice della civiltà e della cultura mondiale». Solo vent’anni dopo, «divenne uno degli abomini della civiltà mondiale». Cosa lo trasfigurò a tal punto? La crisi. Che è sempre “indotta” e trasferisce immense ricchezze nelle mani di pochi, impoverendo tutti gli altri. Dopo la Brexit e l’exploit di Trump, Paolo Barnard invita a rileggere il Thomas Mann che rievocava «la follia dell’iperinflazione tedesca», capace di tracciare «una linea diretta» verso il Terzo Reich: «In quei giorni la negoziante che senza battere un ciglio chiedeva 100 milioni di marchi per un uovo, dimostrava che nulla più al mondo l’avrebbe potuta scioccare». Fu durante la crisi, aggiunge Mann, che «i tedeschi persero la capacità di confidare in se stessi, e impararono ad aspettarsi ormai qualsiasi cosa dalla politica, dallo Stato, dal destino». Milioni di cittadini, «rapinati dei loro stipendi e risparmi, divennero le masse su cui lavorò Goebbels». Oggi ci risiamo? Deflagra «la furia sommessa di centinaia di milioni di occidentali», verso l’avvento del prossimo Hitler: «Trump, Le Pen, Hofer, Orbán, Petry o Wilders sono per adesso solo il primo tratto di quella linea».La crisi della Repubblica di Weimar, scrive Barnard nel suo blog, insegna che «quando i popoli si sentono traditi e abbandonati proprio dalle classi politiche che avrebbero dovuto proteggerli», finisce che «si gettano per esasperazione nelle mani del vendicatore, quello che poi fa l’Apocalisse». La negoziante tedesca citata da Thoman Mann oggi «rappresenta i milioni di noi», ormai rassegnati «alla morte dei redditi, delle pensioni, di ogni singolo diritto che fino a ieri sembrava scontato», consapevoli che i bambini «saranno servi delle gleba, letteralmente», e che «dei milionari non-eletti sono il loro vero governo», mentre «il politico di casa non può più neppure parlare, senza il permesso di cento cravatte blu a Bruxelles o a Manhattan». I cittadini «si lamentano, disperati»? Vengono «tranciati a metà da parole come razzista, fascista, retrogrado, nemico della modernità, ignorante bifolco» che non capisce le “riforme”. Sono centinaia di milioni, oggi, quelli ridotti come la negoziante tedesca di Thomas Mann: «Lo siamo, e ormai siamo impossibili da scioccare, non spostiamo più un gomito». Però «siamo furenti, come lo erano i tedeschi allora».Ieri come oggi, la crisi priva i cittadini di ogni «capacità di confidare in se stessi». Anche la crisi di Weimar, da cui nacque la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, fu innescata «dalla consapevole follia predatoria delle potenze, senza la minima considerazione dei costi sugli esseri umani». Nel 1919, ricorda Barnard, un giovane brillante economista della delegazione inglese al Trattato di Versailles – dove i vincitori della Prima Guerra Mondiale decisero le sanzioni e la spoliazione della Germania – rassegnò le dimissioni orripilato. Scrisse un volume storico chiamato “Le Conseguenze Economiche della Pace”, dove denunciò la follia predatoria degli Alleati, denunciò che nulla veniva fatto per l’occupazione in Europa, e avvertì che il popolo tedesco sarebbe stato schiacciato delle austerità impostegli. Predisse il peggio, e indovinò tutto. Era John Maynard Keynes, il maggior economista del ‘900. Siamo di nuovo lì: la finanza-barracuda «non ha un secondo di considerazione per i costi umani sui popoli, sulle classi medie ormai divenute straccioni, sugli anziani, sugli ammalati, sui bambini».Oggi, come allora, l’espressione “piena occupazione” è scomparsa anche dai sindacati, non solo da Washington o da Bruxelles. Entrambe le crisi sono «alimentate dalla pervicace insistenza delle potenze nel ripetere gli errori micidiali e il sadismo sociale». L’economista americano Randall Wray, sempre nel parallelo fra Weimar e oggi, scrive: «Il Trattato di Versailles fu una follia sanguinaria dei vincitori, ma ci ricorda adesso il comportamento della Germania della Merkel ai danni del Sud Europa». Pervicace insistenza nell’errore, appunto: «Guardate oggi cosa gracchiano la Ue o ancora i democratici americani dopo Brexit e Trump», sono «recidivi fino al crimine contro l’umanità». E’ un’Europa che, «invece di capire il ‘Quarto Reich’ in arrivo, fa le riunioni per punire Brexit e Trump, tutti a culo in aria di fronte al volto deforme di Angela Merkel». E Obama? Dopo aver «distrutto la vita di milioni di americani», ancora fa lezioncine contro “il nazionalismo populista”, applaudito dal solito codazzo italiano («De Benedetti, Pd, Benigni, Saviano, Severgnini, Travaglio, Vincenzo Boccia, il “Sole 24 Ore”»), mentre intanto «la furia sommessa di oceani umani cresce», avvicinando «l’Apocalisse di un nuovo Hitler». E’ un vecchio film: «Abbiamo già visto a cosa poi si abbandonano i milioni di furenti, impoveriti, esclusi, ridicolizzati e ignorati quando arriva l’uomo forte. Si abbandonano alla “politica della mannaia”, quella che li vendica, certo, ma mozza teste, diritti, ricchezza, intelligenza, compassione e civiltà senza più distinguere nulla».
Thomas Mann e il prossimo Hitler invocato da noi umiliati
Scritto il 24/11/16 • nella Categoria: idee Condividi
Il romanziere tedesco Thomas Mann era «cittadino di un popolo che nel 1925 ancora rappresentava un apice della civiltà e della cultura mondiale». Solo vent’anni dopo, «divenne uno degli abomini della civiltà mondiale». Cosa lo trasfigurò a tal punto? La crisi. Che è sempre “indotta” e trasferisce immense ricchezze nelle mani di pochi, impoverendo tutti gli altri. Dopo la Brexit e l’exploit di Trump, Paolo Barnard invita a rileggere il Thomas Mann che rievocava «la follia dell’iperinflazione tedesca», capace di tracciare «una linea diretta» verso il Terzo Reich: «In quei giorni la negoziante che senza battere un ciglio chiedeva 100 milioni di marchi per un uovo, dimostrava che nulla più al mondo l’avrebbe potuta scioccare». Fu durante la crisi, aggiunge Mann, che «i tedeschi persero la capacità di confidare in se stessi, e impararono ad aspettarsi ormai qualsiasi cosa dalla politica, dallo Stato, dal destino». Milioni di cittadini, «rapinati dei loro stipendi e risparmi, divennero le masse su cui lavorò Goebbels». Oggi ci risiamo? Deflagra «la furia sommessa di centinaia di milioni di occidentali», verso l’avvento del prossimo Hitler: «Trump, Le Pen, Hofer, Orbán, Petry o Wilders sono per adesso solo il primo tratto di quella linea».La crisi della Repubblica di Weimar, scrive Barnard nel suo blog, insegna che «quando i popoli si sentono traditi e abbandonati proprio dalle classi politiche che avrebbero dovuto proteggerli», finisce che «si gettano per esasperazione nelle mani del vendicatore, quello che poi fa l’Apocalisse». La negoziante tedesca citata da Thoman Mann oggi «rappresenta i milioni di noi», ormai rassegnati «alla morte dei redditi, delle pensioni, di ogni singolo diritto che fino a ieri sembrava scontato», consapevoli che i bambini «saranno servi delle gleba, letteralmente», e che «dei milionari non-eletti sono il loro vero governo», mentre «il politico di casa non può più neppure parlare, senza il permesso di cento cravatte blu a Bruxelles o a Manhattan». I cittadini «si lamentano, disperati»? Vengono «tranciati a metà da parole come razzista, fascista, retrogrado, nemico della modernità, ignorante bifolco» che non capisce le “riforme”. Sono centinaia di milioni, oggi, quelli ridotti come la negoziante tedesca di Thomas Mann: «Lo siamo, e ormai siamo impossibili da scioccare, non spostiamo più un gomito». Però «siamo furenti, come lo erano i tedeschi allora».Ieri come oggi, la crisi priva i cittadini di ogni «capacità di confidare in se stessi». Anche la crisi di Weimar, da cui nacque la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, fu innescata «dalla consapevole follia predatoria delle potenze, senza la minima considerazione dei costi sugli esseri umani». Nel 1919, ricorda Barnard, un giovane brillante economista della delegazione inglese al Trattato di Versailles – dove i vincitori della Prima Guerra Mondiale decisero le sanzioni e la spoliazione della Germania – rassegnò le dimissioni orripilato. Scrisse un volume storico chiamato “Le Conseguenze Economiche della Pace”, dove denunciò la follia predatoria degli Alleati, denunciò che nulla veniva fatto per l’occupazione in Europa, e avvertì che il popolo tedesco sarebbe stato schiacciato delle austerità impostegli. Predisse il peggio, e indovinò tutto. Era John Maynard Keynes, il maggior economista del ‘900. Siamo di nuovo lì: la finanza-barracuda «non ha un secondo di considerazione per i costi umani sui popoli, sulle classi medie ormai divenute straccioni, sugli anziani, sugli ammalati, sui bambini».Oggi, come allora, l’espressione “piena occupazione” è scomparsa anche dai sindacati, non solo da Washington o da Bruxelles. Entrambe le crisi sono «alimentate dalla pervicace insistenza delle potenze nel ripetere gli errori micidiali e il sadismo sociale». L’economista americano Randall Wray, sempre nel parallelo fra Weimar e oggi, scrive: «Il Trattato di Versailles fu una follia sanguinaria dei vincitori, ma ci ricorda adesso il comportamento della Germania della Merkel ai danni del Sud Europa». Pervicace insistenza nell’errore, appunto: «Guardate oggi cosa gracchiano la Ue o ancora i democratici americani dopo Brexit e Trump», sono «recidivi fino al crimine contro l’umanità». E’ un’Europa che, «invece di capire il ‘Quarto Reich’ in arrivo, fa le riunioni per punire Brexit e Trump, tutti a culo in aria di fronte al volto deforme di Angela Merkel». E Obama? Dopo aver «distrutto la vita di milioni di americani», ancora fa lezioncine contro “il nazionalismo populista”, applaudito dal solito codazzo italiano («De Benedetti, Pd, Benigni, Saviano, Severgnini, Travaglio, Vincenzo Boccia, il “Sole 24 Ore”»), mentre intanto «la furia sommessa di oceani umani cresce», avvicinando «l’Apocalisse di un nuovo Hitler». E’ un vecchio film: «Abbiamo già visto a cosa poi si abbandonano i milioni di furenti, impoveriti, esclusi, ridicolizzati e ignorati quando arriva l’uomo forte. Si abbandonano alla “politica della mannaia”, quella che li vendica, certo, ma mozza teste, diritti, ricchezza, intelligenza, compassione e civiltà senza più distinguere nulla».
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Re: La crisi dell'Europa
Corriere 26.11.16
La giovane Le Pen: «Pronti a chiedere l’uscita della Francia dall’Unione Europea»
di Alessandro Trocino
FIRENZE Marion è la giovane di casa Le Pen, nipote di Marine e vicepresidente del Front National. Bionda ed elegante, dai modi affabili e dalle idee più che decise, arriva a Firenze dopo avere incontrato Matteo Salvini, per provare a costruire quella rete della nuova destra antieuropea, che ha trovato nuova linfa con la Brexit e con la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti.
In caso di vittoria elettorale, chiederete l’uscita della Francia dall’Europa?
«Il nostro obiettivo è avviare negoziati con la Commissione europea, per ottenere uno statuto derogatorio. Vogliamo ristabilire le nostre frontiere, uscire dallo spazio Shengen, ottenere la sovranità monetaria e la supremazia dei diritti francesi su quelli europei. Se non ci riusciremo, proporremo un referendum per l’uscita della Francia dalla Ue».
Cosa pensa dei due candidati delle primarie del centrodestra, Fillon e Juppé?
«Fanno parte dello stesso regime politico. Juppé è stato ministro di Sarkozy, Fillon è stato il suo primo ministro. Hanno contribuito entrambi alla creazione dell’Europa federale. Ora si presentano come uomini che vogliono risolvere un problema che hanno creato loro stessi».
Lei avrà un ruolo nel governo, se vincerete?
«Prima vinciamo le elezioni, poi vedremo».
Cosa cambia per l’Europa la vittoria di Trump?
«La sua vittoria è una buona notizia per la Francia e per l’equilibrio del mondo. Trump stringerà l’alleanza con la Russia, uscendo dalla logica della guerra fredda, e rifiuterà la politica bellicosa e pericolosa portata avanti dalla Clinton in Iraq e in Afghanistan. Trump rifiuta anche i trattati di libero scambio, come quello tra Europa e Stati Uniti. La sua vittoria è la sconfitta di un sistema mediatico e politico che ha cercato di manipolare la volontà popolare».
Steve Bannon, stratega e consigliere di Trump, le ha chiesto di lavorare insieme.
«Sì, anche se non abbiamo avuto contatti diretti. Ma è chiaro che saremo un punto di riferimento».
Volete costruire nuovi muri in Europa?
«Non è questione di costruire muri, ma di mettere porte. La porta la puoi aprire o chiudere, quando è necessario».
Chiudere le porte è difficile, ogni giorno muoiono in mare uomini che cercano di arrivare in Europa.
«È colpa dell’Europa, che ha incoraggiato l’immigrazione e ha destabilizzato la Libia, facendo cadere Gheddafi. L’Europa va a cercare le navi, spesso avvertita dagli stessi trafficanti, e organizza i rimpatri sulle nostre coste. Dovrebbe fare invece come l’Australia, che riporta i barconi nei Paesi d’origine e non ha morti sulle sue coste. L’Europa incita a un’immigrazione clandestina che ha come conseguenza diretta la morte di centinaia di persone. Il vero approccio umanitario è quello australiano».
Gli immigrati possono essere una ricchezza per l’Europa.
«No, oggi in Francia ci sono pezzi di territorio in cui non c’è più cultura né legge francese: in Francia ci sono 100 Molenbeek. Ci sono milioni di musulmani che vogliono applicare la sharia. Siamo il Paese europeo dove si formano più jihadisti e dove domina la versione salafita dell’Islam».
Perché ha incontrato Salvini?
«Sto cercando di costruire una rete di partiti che condividano le nostre idee sull’Europa. Salvini ha molto carisma e grande talento oratorio e politico: può essere l’uomo forte per costruire una grande destra identitaria e sovranista e per preparare la nuova idea europea che nascerà sulle macerie della Ue. Anche l’Italia soffre molto la moneta nazionale, sul piano industriale soprattutto».
Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, le ricorda che è città medaglia d’oro della resistenza contro il nazifascismo. Non è esattamente un benvenuto in città.
«Ho sentito quello che ha detto. È il sintomo tipico della vecchia classe politica, che in mancanza di argomenti fa la morale agli altri. La grande differenza tra noi due è che io non penso al 1945, io guardo all’avvenire e cerco di riparare agli errori fatti nel passato dalla classe politica».
Ma a lei cosa dice la parola «fascismo»?
«A me non dice nulla. Io non ho alcun legame con quella storia. Appartengo a un partito sovranista, che difende la cultura francese. Quando vengo qui a Firenze, non penso al fascismo: semmai a Maria o Caterina De’ Medici, che erano grande regine francesi».
La giovane Le Pen: «Pronti a chiedere l’uscita della Francia dall’Unione Europea»
di Alessandro Trocino
FIRENZE Marion è la giovane di casa Le Pen, nipote di Marine e vicepresidente del Front National. Bionda ed elegante, dai modi affabili e dalle idee più che decise, arriva a Firenze dopo avere incontrato Matteo Salvini, per provare a costruire quella rete della nuova destra antieuropea, che ha trovato nuova linfa con la Brexit e con la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti.
In caso di vittoria elettorale, chiederete l’uscita della Francia dall’Europa?
«Il nostro obiettivo è avviare negoziati con la Commissione europea, per ottenere uno statuto derogatorio. Vogliamo ristabilire le nostre frontiere, uscire dallo spazio Shengen, ottenere la sovranità monetaria e la supremazia dei diritti francesi su quelli europei. Se non ci riusciremo, proporremo un referendum per l’uscita della Francia dalla Ue».
Cosa pensa dei due candidati delle primarie del centrodestra, Fillon e Juppé?
«Fanno parte dello stesso regime politico. Juppé è stato ministro di Sarkozy, Fillon è stato il suo primo ministro. Hanno contribuito entrambi alla creazione dell’Europa federale. Ora si presentano come uomini che vogliono risolvere un problema che hanno creato loro stessi».
Lei avrà un ruolo nel governo, se vincerete?
«Prima vinciamo le elezioni, poi vedremo».
Cosa cambia per l’Europa la vittoria di Trump?
«La sua vittoria è una buona notizia per la Francia e per l’equilibrio del mondo. Trump stringerà l’alleanza con la Russia, uscendo dalla logica della guerra fredda, e rifiuterà la politica bellicosa e pericolosa portata avanti dalla Clinton in Iraq e in Afghanistan. Trump rifiuta anche i trattati di libero scambio, come quello tra Europa e Stati Uniti. La sua vittoria è la sconfitta di un sistema mediatico e politico che ha cercato di manipolare la volontà popolare».
Steve Bannon, stratega e consigliere di Trump, le ha chiesto di lavorare insieme.
«Sì, anche se non abbiamo avuto contatti diretti. Ma è chiaro che saremo un punto di riferimento».
Volete costruire nuovi muri in Europa?
«Non è questione di costruire muri, ma di mettere porte. La porta la puoi aprire o chiudere, quando è necessario».
Chiudere le porte è difficile, ogni giorno muoiono in mare uomini che cercano di arrivare in Europa.
«È colpa dell’Europa, che ha incoraggiato l’immigrazione e ha destabilizzato la Libia, facendo cadere Gheddafi. L’Europa va a cercare le navi, spesso avvertita dagli stessi trafficanti, e organizza i rimpatri sulle nostre coste. Dovrebbe fare invece come l’Australia, che riporta i barconi nei Paesi d’origine e non ha morti sulle sue coste. L’Europa incita a un’immigrazione clandestina che ha come conseguenza diretta la morte di centinaia di persone. Il vero approccio umanitario è quello australiano».
Gli immigrati possono essere una ricchezza per l’Europa.
«No, oggi in Francia ci sono pezzi di territorio in cui non c’è più cultura né legge francese: in Francia ci sono 100 Molenbeek. Ci sono milioni di musulmani che vogliono applicare la sharia. Siamo il Paese europeo dove si formano più jihadisti e dove domina la versione salafita dell’Islam».
Perché ha incontrato Salvini?
«Sto cercando di costruire una rete di partiti che condividano le nostre idee sull’Europa. Salvini ha molto carisma e grande talento oratorio e politico: può essere l’uomo forte per costruire una grande destra identitaria e sovranista e per preparare la nuova idea europea che nascerà sulle macerie della Ue. Anche l’Italia soffre molto la moneta nazionale, sul piano industriale soprattutto».
Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, le ricorda che è città medaglia d’oro della resistenza contro il nazifascismo. Non è esattamente un benvenuto in città.
«Ho sentito quello che ha detto. È il sintomo tipico della vecchia classe politica, che in mancanza di argomenti fa la morale agli altri. La grande differenza tra noi due è che io non penso al 1945, io guardo all’avvenire e cerco di riparare agli errori fatti nel passato dalla classe politica».
Ma a lei cosa dice la parola «fascismo»?
«A me non dice nulla. Io non ho alcun legame con quella storia. Appartengo a un partito sovranista, che difende la cultura francese. Quando vengo qui a Firenze, non penso al fascismo: semmai a Maria o Caterina De’ Medici, che erano grande regine francesi».
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Re: La crisi dell'Europa
OVUNQUE GUARDI L'ANDAZZO DEL MONDO, LA SINISTRA E' IN GRANDE DIFFICOLTA' NEL MONDO A TRAZIONE CAPITALISTA
il manifesto 29.11.16
La confusione a sinistra
François Fillon. La ricerca dell'unità impossibile. Tensioni alla testa dello stato, tra Hollande e Valls. Già sei candidati a sinistra, in attesa del settimo, del Ps. Ma le primarie socialiste sono nella nebbia fitta
di Anna Maria Merlo
PARIGI
La destra è riuscita a fare le primarie e la sinistra è nel pantano. Un portavoce del Ps, Olivier Faure, ha parlato ieri di “suicidio collettivo”. Sulla carta, il Ps ha convocato delle primarie a gennaio, ma l’organizzazione e il nome dei candidati sono ancora nelle nebbia più fitta. Alla testa dello stato c’è ormai una lotta sorda tra François Hollande e Manuel Valls, anche se ieri sembra sia stata dichiarata una tregua tra presidente e primo ministro. Valls per il momento non si è dimesso e sembra aver rinunciato alla candidatura, ma domenica aveva sfidato Hollande in un’intervista al Journal du Dimanche, affermando che ormai il presidente non ha la possibilità di pretendere a un secondo mandato (il colpo di grazia è stato il libro di confidenze a due giornalisti). Claude Bartolone, presidente dell’Assemblée nationale, aveva invitato Hollande e Valls a presentarsi entrambi alle primarie del Ps, per chiarire e uscire dall’impasse. Il Ps è paralizzato, nell’attesa di una dichiarazione di candidatura da parte di Hollande, che esita, di fronte a un record di impopolarità. La data-limite per le candidature alle primarie del Ps è il 15 dicembre.
Daniel Cohn-Bendit ha invitato tutti i candidati della sinistra a competere in queste primarie, per avere un candidato con una vera legittimità. Ma la missione sembra impossibile e il voto, che sarà molto probabilmente limitato al Ps sempre che abbia luogo, rischia di essere un “sussurro” (per partecipazione e per il dibattito) rispetto all’operazione conclusa dalla destra, ha messo in guardia Christian Paul, socialista della “fronda”. Intanto, a sinistra ci sono già sei candidati (che saliranno a sette con il rappresentante del Ps) e tutti sono decisi a correre al primo turno della presidenziali senza passare per le primarie. C’è Jean-Luc Mélenchon, che ha abbandonato il Front de gauche ed è ormai alla testa della France Insoumise, ha ottenuto l’appoggio del Pcf (che quindi rinuncia al proprio candidato), grazie a un voto senza entusiasmo degli iscritti (posizione approvata al 53%), ma dovrà fare i conti con una non meglio precisata “campagna autonoma” dei comunisti (che pensano soprattutto alle legislative di giugno). In corsa c’è Yannick Jadot, uscito vincitore dalla mini-primaria di Europa Ecologia-I Verdi. Sabato si è dichiarata candidata la radicale di sinistra Sylvia Pinel (anche se tre radicali sono nel governo Valls). Si è auto-dichiarato candidato Emmanuel Macron, che si è dimesso da ministro dell’Economia, su posizioni liberal in economia e aperte sulle questioni di società (si dichiara “né di destra né di sinistra”, ma “progressista”). Poi ci sono i trotzkisti Nathalie Artaud per Lutte ouvrière e Philippe Poutou per l’Npa.
Ma la vittoria di Fillon, uomo della vecchia Francia che “ha una visione degli anni ‘60” (la definizione è di Macron) e propone ricette economiche attuate da Thatcher 35 anni fa, sembra aver riaperto i giochi. Nel Ps, l’ex ministro Arnaud Montebourg, candidato alle primarie socialiste, afferma che “di fronte a un candidato molto liberista, duramente liberista, ultra-liberista, è impossibile che noi abbiamo di fronte un candidato social-liberista” (pensando a Hollande e a Valls). La sinistra del Ps ha già molti pretendenti all’eventuale primaria: oltre a Montebourg, Benoît Hamon, Marie-Noëlle Lieneman e Gérard Filoche, poi è anche in corsa l’ecologista François de Rugy. In questa confusione, tra i consiglieri di Hollande c’è chi alza la voce per chiedere l’annullamento delle primarie. Suggeriscono a Hollande di presentarsi direttamente al primo turno delle presidenziali ad aprile, senza passare per le forche caudine delle primarie, che potrebbero segnare una sconfitta cocente per l’attuale presidente. Daniel Cohn-Bendit afferma che Hollande ha ormai solo la scelta “tra diverse umiliazioni”. Eppure, al di là del destino di Hollande, con Fillon uno spazio si è oggettivamente aperto per la sinistra, di fronte alla minaccia di un purga sociale storica.
il manifesto 29.11.16
La confusione a sinistra
François Fillon. La ricerca dell'unità impossibile. Tensioni alla testa dello stato, tra Hollande e Valls. Già sei candidati a sinistra, in attesa del settimo, del Ps. Ma le primarie socialiste sono nella nebbia fitta
di Anna Maria Merlo
PARIGI
La destra è riuscita a fare le primarie e la sinistra è nel pantano. Un portavoce del Ps, Olivier Faure, ha parlato ieri di “suicidio collettivo”. Sulla carta, il Ps ha convocato delle primarie a gennaio, ma l’organizzazione e il nome dei candidati sono ancora nelle nebbia più fitta. Alla testa dello stato c’è ormai una lotta sorda tra François Hollande e Manuel Valls, anche se ieri sembra sia stata dichiarata una tregua tra presidente e primo ministro. Valls per il momento non si è dimesso e sembra aver rinunciato alla candidatura, ma domenica aveva sfidato Hollande in un’intervista al Journal du Dimanche, affermando che ormai il presidente non ha la possibilità di pretendere a un secondo mandato (il colpo di grazia è stato il libro di confidenze a due giornalisti). Claude Bartolone, presidente dell’Assemblée nationale, aveva invitato Hollande e Valls a presentarsi entrambi alle primarie del Ps, per chiarire e uscire dall’impasse. Il Ps è paralizzato, nell’attesa di una dichiarazione di candidatura da parte di Hollande, che esita, di fronte a un record di impopolarità. La data-limite per le candidature alle primarie del Ps è il 15 dicembre.
Daniel Cohn-Bendit ha invitato tutti i candidati della sinistra a competere in queste primarie, per avere un candidato con una vera legittimità. Ma la missione sembra impossibile e il voto, che sarà molto probabilmente limitato al Ps sempre che abbia luogo, rischia di essere un “sussurro” (per partecipazione e per il dibattito) rispetto all’operazione conclusa dalla destra, ha messo in guardia Christian Paul, socialista della “fronda”. Intanto, a sinistra ci sono già sei candidati (che saliranno a sette con il rappresentante del Ps) e tutti sono decisi a correre al primo turno della presidenziali senza passare per le primarie. C’è Jean-Luc Mélenchon, che ha abbandonato il Front de gauche ed è ormai alla testa della France Insoumise, ha ottenuto l’appoggio del Pcf (che quindi rinuncia al proprio candidato), grazie a un voto senza entusiasmo degli iscritti (posizione approvata al 53%), ma dovrà fare i conti con una non meglio precisata “campagna autonoma” dei comunisti (che pensano soprattutto alle legislative di giugno). In corsa c’è Yannick Jadot, uscito vincitore dalla mini-primaria di Europa Ecologia-I Verdi. Sabato si è dichiarata candidata la radicale di sinistra Sylvia Pinel (anche se tre radicali sono nel governo Valls). Si è auto-dichiarato candidato Emmanuel Macron, che si è dimesso da ministro dell’Economia, su posizioni liberal in economia e aperte sulle questioni di società (si dichiara “né di destra né di sinistra”, ma “progressista”). Poi ci sono i trotzkisti Nathalie Artaud per Lutte ouvrière e Philippe Poutou per l’Npa.
Ma la vittoria di Fillon, uomo della vecchia Francia che “ha una visione degli anni ‘60” (la definizione è di Macron) e propone ricette economiche attuate da Thatcher 35 anni fa, sembra aver riaperto i giochi. Nel Ps, l’ex ministro Arnaud Montebourg, candidato alle primarie socialiste, afferma che “di fronte a un candidato molto liberista, duramente liberista, ultra-liberista, è impossibile che noi abbiamo di fronte un candidato social-liberista” (pensando a Hollande e a Valls). La sinistra del Ps ha già molti pretendenti all’eventuale primaria: oltre a Montebourg, Benoît Hamon, Marie-Noëlle Lieneman e Gérard Filoche, poi è anche in corsa l’ecologista François de Rugy. In questa confusione, tra i consiglieri di Hollande c’è chi alza la voce per chiedere l’annullamento delle primarie. Suggeriscono a Hollande di presentarsi direttamente al primo turno delle presidenziali ad aprile, senza passare per le forche caudine delle primarie, che potrebbero segnare una sconfitta cocente per l’attuale presidente. Daniel Cohn-Bendit afferma che Hollande ha ormai solo la scelta “tra diverse umiliazioni”. Eppure, al di là del destino di Hollande, con Fillon uno spazio si è oggettivamente aperto per la sinistra, di fronte alla minaccia di un purga sociale storica.
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