Dove va l'America?

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UncleTom
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Re: Dove va l'America?

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IL SOGNO DI HITLER

https://www.youtube.com/watch?v=p2VBS3NHg6w


IL SOGNO DEI GLOBALISTI


LIBRE news


Globalisti privatizzatori, questa catastrofe è il loro piano
Scritto il 16/11/16 • nella Categoria: idee Condividi



Cos’è il globalismo, e perché esiste?

E’ ormai noto da decenni che la spinta alla globalizzazione è un preciso piano coltivato da un’élite di finanzieri internazionali, banchieri centrali, leader politici e think-tanks esclusivi.

«Spesso nelle loro pubblicazioni ammettono apertamente il loro obiettivo di globalizzazione totale, forse nella convinzione che le persone semplici e non istruite in ogni caso non le leggeranno mai», scrive Brandon Smith su “Zero Hedge”.


Carroll Quigley, mentore di Bill Clinton, viene spesso citato per le sue ammissioni: «I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo di ampia portata, niente di meno che creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l’economia del mondo intero».


Un sistema che «doveva essere controllato in maniera feudale dalle banche centrali del mondo, che avrebbero agito di concerto, con accordi segreti».


Il vertice del sistema «doveva essere la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, in Svizzera, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che sono esse stesse imprese private».


Ciascuna banca centrale, continua Quigley, cerca di dominare il governo del proprio paese «grazie alla capacità di controllare i prestiti del Tesoro, di manipolare gli scambi con l’estero, di influire sull’attività economica del paese e influenzare i politici disposti a collaborare, ricompensandoli poi economicamente nel mondo degli affari».


Si pensi alle classiche “porte girevoli” tra politica e grandi banche d’affari. «Le persone che stanno dietro all’obiettivo di imporre la globalizzazione – scrive Smith in un post ripreso da “Voci dall’Estero” – sono legate da una particolare ideologia, quasi un culto religioso, in cui immaginano un ordine mondiale come viene descritto nella “Repubblica” di Platone.


Credono di essere stati “prescelti” – dal fato, dal destino o dalla genetica – per dominarci tutti come dei re-filosofi.


Pensano di essere quanto di più intelligente e capace l’umanità abbia da offrire e di poter creare dal nulla, con poteri semi-divini, il caos e l’ordine, e così poter plasmare la società a loro piacimento».


Questa mentalità appare evidente nel sistema globale: «La gestione delle banche centrali non è altro che un meccanismo per intrappolare le nazioni in debiti, svalutazioni valutarie e, in ultima analisi, schiavitù, attraverso l’estorsione economica diffusa».


Obiettivo ultimo delle banche centrali, «scatenare delle crisi finanziarie di portata storica, che possono poi essere usate dalle élite come leva per promuovere la completa centralizzazione globale come unica soluzione possibile».


Questo processo di destabilizzazione delle economie e delle società, continua Smith, non viene neppure controllato dai presidenti delle varie banche centrali: in realtà è pilotato da istituzioni globali ancor più centralizzate come il Fondo Monetario Internazionale e la stessa Bank of International Settlements, come spiegato in interessanti articoli come “Ruling The World Of Money”, pubblicato da “Harpers Magazine”.


Se ne deduce che la campagna per un “nuovo ordine mondiale” non è esattamente un progetto umanitario: «Innumerevoli persone odieranno il nuovo ordine mondiale, e moriranno protestando contro di esso».


L’élite mette in conto «almeno una generazione di malcontenti, molti dei quali saranno persone buone e di valore», stando alle parole dello scrittore britannico Herbert George Welles, laburista e profeta del “Nuovo ordine mondiale” (il primo a coniare l’espressione, che titola una sua opera del 1940).


«In breve, la “casa dell’ordine mondiale” dovrà essere costruita dal basso verso l’alto anziché dall’alto verso il basso.


Sembrerà una grande “rumorosa, esplosiva confusione”, per usare la famosa descrizione della realtà di William James, ma alla fine un lento assedio della sovranità nazionale, che la eroda pezzo per pezzo, risulterà più efficace del vecchio sistema dell’assalto frontale», scrive nel 1974 Richard Gardner, membro della Commissione Trilaterale, su “Issue of Foreign Affairs”. Precisa un altro campione dell’élite globalista, Henry Kissinger, al “World Action Council” del 1994: «Il Nuovo Ordine Mondiale non può realizzarsi senza la partecipazione degli Stati Uniti, visto che siamo il suo membro più importante.


Certo, ci sarà un Nuovo Ordine Mondiale, e imporrà agli Stati Uniti di cambiare le proprie percezioni».


Mentre alcuni considerano la globalizzazione una “evoluzione naturale” del libero mercato o l’inevitabile sbocco del progresso economico, «la verità è che la spiegazione più semplice (alla luce delle evidenze disponibili) è che la globalizzazione è una guerra aperta condotta contro l’ideale dei popoli sovrani e delle nazioni», scrive Brandon Smith.


«E’ una guerriglia, o una guerra di quarta generazione, intrapresa da un piccolo gruppo di élite contro tutti gli altri».


Un elemento significativo di questa guerra, aggiunge, riguarda la demolizione dei confini delle nazioni, degli Stati e persino di città e villaggi, come delimitazioni di comunità solidali e identitarie: «Non ci piace essere costretti ad associarci a persone o a gruppi che non hanno i nostri stessi valori».


Le culture «innalzano i confini perché, francamente, i popoli hanno il diritto di controllare coloro che desiderano aderire alla comunità e condividerne gli intenti», rifiutando «altri gruppi di persone e di ideologie che per noi risultano distruttive».


Curiosamente, invece, i globalisti «sosterranno che, rifiutandoci di associarci con coloro che potrebbero distruggere i nostri valori, siamo noi che violiamo i loro diritti. Vedete come funziona?».


I globalisti «sfruttano la parola “isolazionismo” per infangare i sostenitori della sovranità agli occhi della pubblica opinione», e invece «non bisogna vergognarsi dell’isolamento quando principi quali la libertà di parola e di espressione o il diritto all’autodifesa vengono messi in discussione».


Inoltre, «non c’è nulla di sbagliato nell’isolare un modello economico prospero da altri modelli insoddisfacenti», anche perché, al contrario, «imporre a un’economia di mercato libero decentralizzato di adottare un’amministrazione feudale attraverso un governo e una banca centralizzati finirà per distruggere il modello».


Così come «importare milioni di persone con differenti valori per rinvigorire una nazione» non è altro che «una ricetta per il disastro».


In un mondo senza barriere, continua Smith, si potrà solo eliminare una cultura per sostituirla con un’altra: «Questo è quello che vogliono ottenere i globalisti.


E’ lo scopo vero dietro le politiche delle “frontiere aperte” e della globalizzazione – annichilire il confronto delle idee, così che l’umanità finisca col pensare di non avere altra opzione all’infuori della religione delle élite».


Lo scopo ultimo dei globalisti «non è di controllare i governi», che sono solo uno strumento, bensì «ottenere un’influenza psicologica totale», onde conquistare definitivamente «il consenso delle masse».


Le élite sostengono che la loro idea di una singola cultura mondiale è il pilastro fondamentale dell’umanità, e che non c’è più alcun bisogno di confini perché nessun principio è più importante di questo.


«Fino a quando i confini, come concetto, continuano a esistere, ci può sempre essere la possibilità di separare ideali diversi che competono con la filosofia globalizzatrice: questo non è accettabile per le élite».


Oggi, con l’affermarsi dei movimenti anti-globalisti, la tesi portata avanti dal mainstream è che i “populisti” (conservatori) rappresentano una classe spregevole e ignorante, sono elementi pericolosi che minacciano “la pace e la prosperità” provenienti dalle sapienti mani globaliste.


Ancora una volta, Carrol Quigley predice questa propaganda con decenni di anticipo, quando discute la necessità di “rimanere all’interno del sistema” per cambiarlo, anziché combattere contro di esso, e parla della «classe medio-bassa» definendola «spina dorsale del fascismo del futuro».


E spiega: «I membri del partito nazista in Germania venivano per lo più da questa classe», alla quale associa «i movimenti di centro-destra» degli Stati Uniti.


I globalisti, continua Smith, hanno avuto mano libera sulla maggior parte dei governi mondiali per almeno un secolo, se non di più.


«A seguito della loro influenza, abbiamo avuto due guerre mondiali, la Grande Depressione, la Grande Recessione che non è ancora finita, troppi conflitti regionali e genocidi perché possano essere contati, e la sistematica oppressione dei liberi imprenditori, degli inventori e delle idee, al punto che soffriamo ormai di stagnazione sociale e finanziaria».


Curioso: «I globalisti sono rimasti al potere a lungo, ma la colpa delle numerose crisi avvenute negli ultimi 100 anni viene data all’esistenza dei confini».


I campioni della libertà «vengono definiti inqualificabili populisti e fascisti», mentre i globalisti si sottraggono a ogni accusa.


«Non esiste uno straccio di prova che confermi l’idea che la globalizzazione, l’interdipendenza e la centralizzazione funzionino davvero», insiste Smith.


Per capirlo, «basta esaminare l’incubo economico e migratorio presente nell’Ue».


Quindi, i globalisti «sosterranno che il mondo non è abbastanza centralizzato», cioè diranno che «ci vuole più globalizzazione, non meno, per risolvere i problemi del mondo».


Nel frattempo, «i principi della sovranità devono essere demonizzati storicamente».


Intollerabile, infatti, la stessa esistenza di diverse culture: «Per le generazioni future deve essere psicologicamente associata al male».


Vogliono un mondo in cui «il principio di sovranità sia considerato così aberrante, così razzista, così violento e insidioso che chiunque si vergognerebbe di averlo sostenuto».


E’ una vera «prigione mentale», ed è «il luogo dove i globalisti vogliono portarci».


Ribellarsi? Per Smith, è possibile solo col volontariato, costruendo «una spinta verso la decentralizzazione, la localizzazione, l’indipendenza e la vera produzione».



Meglio i confini, se lasciano l’individuo «libero di partecipare a qualsiasi gruppo sociale che desidera o che crede migliore per lui», nell’ambito di una società «non costretta ad associazioni forzate».




Ma Smith non è ottimista: «Questo sforzo richiederebbe enormi sacrifici e una battaglia che probabilmente durerebbe per una generazione».


L’unica sicurezza è nera: «Posso solo mostrare che il mondo dominato dai globalisti in cui viviamo oggi è chiaramente destinato alla catastrofe.



Potremo discutere su cosa fare dopo solo quando avremo tolto la testa dalla ghigliottina».
UncleTom
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AL CONFINE DELL'IMPERO




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Galloni: élite sconfitta, ma non c’è ancora un Piano-B

Scritto il 17/11/16 • nella Categoria: idee Condividi


«Non si tratta semplicemente di un’ondata popular-populistica che ha riguardato tutte le tornate elettorali e i referendum in Eurasia e Americhe, ma di un vero e proprio sganciamento dei cittadini dai diktat dei padroni finanziari».


L’economista keynesiano Nino Galloni, già fiero avversario della capitolazione dell’Italia di fronte all’imposizione catastrofica dell’euro gestita dall’oligarchia finanziaria che manovra Bruxelles, saluta con sollievo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti.


La legge come una ribellione di massa contro il dominio di un’élite pericolosa, bellicista, irresponsabile, colpevole della finanziarizzazione dell’economia e dell’imposizione di una “globalizzazione a mano armata” che impoverisce il tessuto socio-economico dell’Occidente.


Gli elettori americani hanno respinto il piano.



«Questo è molto positivo, ma vi corrisponde un aspetto molto preoccupante», avverte Galloni: «Il programma alternativo non è chiaro o, meglio, non c’è.


Ci sono generiche richieste riguardanti il lavoro, la centralità dei valori umani, il ripristino della sovranità politica e monetaria, la giustizia sociale, l’etica».


Manca, ovunque, una chiara traduzione politica. Una piattaforma democratica.


«Non si sa veramente cosa farà Trump, cosa proporrà il M5S, se la Brexit andrà avanti, se Renzi abbandona definitivamente un rigore insostenibile per costringere l’Europa in ginocchio, ovvero questa Europa, a cedere», ovviamente «con tutte le conseguenze di scenario geopolitiche del caso», scrive Galloni su “Scenari Economici” all’indomani del voto statunitense che ha tramortito mezzo mondo.



Ma attenzione: «Sarebbe ingenuo credere che la grande finanza registri sconfitte e si ritiri in buon ordine».



Al contrario, «è pronta e agguerrita per riorganizzarsi a sfruttare qualsiasi cambiamento, soprattutto se quest’ultimo sarà generico e generativo di ulteriore confusione».



La grande finanza, insiste Galloni, «cresce nel conflitto che essa stessa genera e nella confusione che deriva dalla consapevolezza della necessità di un cambiamento senza un piano preciso e realizzabile.




Per questo – aggiunge l’economista – la priorità è il progetto, il programma, il piano, non le divisioni settarie».




Già allievo e poi collaboratore del professor Federico Caffè, eminente economista neo-keynesiamo, Galloni si batte da anni contro le politiche di rigore, dopo aver tempestivamente denunciato la mano dei poteri forti dietro al commissariamento dell’Italia affidato a Mario Monti per tramite di Giorgio Napolitano.




In realtà, accusa Galloni, l’Italia fu volutamente sabotata già negli anni ‘80, con la perdita di sovranità finanziaria imposta dallo storico divorzio tra Tesoro e Bankitalia, operato da Andreatta e Ciampi.



«Si sono create le premesse per la deindustrializzazione del nostro paese, che è alla radice della crisi di oggi», ha spiegato Galloni, riassumendo: «La Francia di Mitterrand impose l’euro sperando di frenare la Germania, che accettò la moneta a una condizione: smantellare la concorrenza industriale italiana».




Seguirono Maastricht, il rigore imposto dall’Eurozona, la super-tassazione, i diktat della Bce puntualmente sottoscritti dal centrosinistra.




Ora, con Renzi alle corde e Trump alla Casa Bianca, siamo al giro di boa: «Dopo il referendum del 4 dicembre, dove dovrebbe vincere il No», per Galloni «occorrerà riunire le forze democratiche attorno al programma di un nuovo modello economico e sociale sostenibile, responsabile, capace di ridurre le ineguaglianze».




Quello che manca, sostiene l’economista progressista, è infatti proprio un Piano-B convincente, una svolta – necessariamente sovranista – che ripristini il controllo democratico sulle grandi scelte, in un’epoca che oggi rivela l’imminenza di svolte epocali nella gestione del consenso, con la crisi dei tradizionali riferimenti dell’élite – dalla Clinton a Renzi – ma senza ancora un piano diverso, roosveltiano e keynesiano, per invertire la rotta – economia per il popolo, non contro – in modo il più possibile indolore.
UncleTom
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Trump ha una pistola alla tempia, soccomberà anche lui?
Scritto il 17/11/16 • nella Categoria: idee Condividi


«Qualunque cosa farà Trump sarà sempre un decimo dei danni che avrebbe potuto fare la Clinton», ma il problema ormai è un altro: riuscirà a resistere alle micidiali pressioni cui è già sottoposto dal super-potere che aveva puntato su Hillary?



Il neoeletto deve vedersela con il complesso militare-industriale, i neocon, la Cia, il Pentagono: gente che ha liquidato i Kennedy, che ha messo al guinzaglio Obama, che riportò all’ordine persino Bush, lui pure – all’inizio – isolazionalista quanto Trump.



Lo scrisse un neocon di razza come Michael Ledeen: «Quando Bush fu eletto, nel 2000, pensava all’America; poi venne l’11 Settembre e da quel momento capì che doveva continuare a occuparsi del mondo intero».



Ledeen lo dice chiaramente, facendo capire che furono loro a fargli cambiare idea.




«Oggi non serve neppure più eliminare fisicamente un presidente», spiega Massimo Mazzucco: «In genere bastano gli avvertimenti».





Come quello, inequivocabile, che un altro neocon come John Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu, ha appena rivolto a Trump: il neopresidente, secondo Bolton, dovrà stare in guardia «contro il terrorismo internazionale e anche il terrorismo interno».





Nuovo 11 Settembre in arrivo?





O basta la semplice minaccia?




«Vedremo quanto Trump saprà resistere a questi “avvertimenti” nemmeno troppo velati», dichiara il regista Massimo Mazzucco, autore di importanti documentari sul maxi-attentato del 2001 che ha cambiato la storia del pianeta, proiettando le guerre americane in ogni continente.



Intervenendo a “Border Nights”, trasmissione web-radio condotta da Fabio Frabetti, Mazzucco sostiene che l’elevata vocazione “criminale” di Hillary Clinton rivela la vera natura dei poteri che l’hanno sostenuta, gli stessi che oggi già assediano Trump.



La vera colpa della Clinton, agli occhi degli elettori che alla fine si sono rassegnati a votare Trump?


«Non solo ha usato il server di casa anziché quello del ministero degli esteri, ma ha anche cancellato 30.000 email per sottrarle all’Fbi, salvo poi andare in televisione a dire, mentendo, di aver messo tutte le email a disposizione delle indagini».


Da quelle email, hackerate da Wikileaks, emergono retroscena imbarazzanti: milioni di dollari incamerati dalla Fondazione Clinton in cambio di favori a paesi arabi filo-Isis, concessi da Hillary quando era Segretario di Stato, e in più lo scandalo di Bengasi, con l’uccisione dell’ambasciatore americano, cioè dell’uomo che avrebbe potuto provare il traffico di armi che dalla Libia venivano fatte affluire in Siria, sotto copertura Usa, per rovesciare Assad.



Bene per noi europei, se ha vinto Trump: in teoria, avremo meno tensioni e meno guerre.

A favore del neoeletto depongono alcuni aspetti rilevanti: «E’ l’unico presidente americano, almeno negli ultimi 50 anni, ad aver vinto una campagna elettorale solamente con i suoi soldi», sottolinea Mazzucco.


«Ha speso un centesimo, credo, di quello che ha speso la Clinton, e quindi ha vinto meritatamente, per quello che ha detto».


Da qui in poi, però, è possibile che accada di tutto: «Temo che Trump sia talmente inesperto da circordarsi di gente dell’establishment».


Sta già accadendo: come capo di gabinetto, posizione fondamentale nel governo americano, Trump ha scelto Reince Priebus, cioè il segretario nazionale del partito repubblicano, «lo stesso partito repubblicano che ha cercato in tutti i modi di far fuori Trump e che adesso cerca di controllarlo attraverso la scelta del suo capo di gabinetto»
.



Altra scelta fondamentale, «passata inosservata ma che si dimosterà molto significativa nel corso del tempo», è il vicepresidente che «gli hanno messo di fianco», Mike Pence: «Non è affatto un governatorino di campagna come sembra, tranquillo e tradizionalista».


Al contrario: «E’ un forsennato, feroce, fetente neocon della prima ora».





Mike Pence, continua Mazzucco, è l’uomo che nel 2001, subito dopo l’11 Settembre, si occupò di inondare i media con la propaganda del caso-antrace, appena due mesi dopo l’attentato alle Torri.




Con “lettere all’antrace” venivano minacciati diversi senatori, «stranamente tutti democratici, e stranamente tutti quelli che chiedevano di fare una commissione senatoriale sull’11 Settembre, che poi infatti non si fece».


Fu proprio Pence ad alimentare la teoria che quell’antrace venisse da Saddam Hussein, «perché lui era mandato avanti da neocon come Cheney e Rumsfeld, che avevano bisogno di una scusa per portare la guerra in Iraq».




E quando l’Fbi, «in uno strano gesto di onestà», dichiarò che l’antrace non veniva dall’Iraq ma era “scappato” da un laboratorio Usa, lo stesso Pence scrisse una lettera aprerta al ministro giustizia di allora, John Ashcroft, dicendo: “Lo sappiamo tutti che l’antrace è di Saddam”.




«Questo – dice Mazzucco – dimostra che Mike Pence non è affatto un tranquillo governatore di campagna, è un mastino da guerra dei neocon.



E sono convinto che l’abbiamo messo accanto a Trump proprio per cercare di condizionare la sua politica estera».


Donald Trump è davvero isolazionista, «ha capito benissimo che il mondo sta in piedi fin che c’è un equilibrio e ognuno si fa gli affari suoi: Russia, Cina e Stati Uniti.


Non si può continuare a andare a invadere dappertutto».



Ma se Trump si rivelasse “troppo” isolazionista, cioè non-guerrafondaio, «Mike Pence cercherà sicuramente di condizionare la sua politica estera verso una strategia più aggressiva».




Mazzucco è convinto che per Trump sarà durissima: «Se si dimostra sordo nel continuare le strategie imperialistiche in Medio Oriente, o gli sucede qualcosa (e diventa presidente Mike Pence), o comunque in qualche modo riusciranno a convincerlo.



Un po’ come convinsero Bush nel 2000, che in campagna elettorale – prima dell’11 Settembre – diceva le stesse cose di Trump: smettere di fare “nation building”, cioè conquistare paesi».



Oggi, a preoccupare il Deep State sono i rapporti con Putin: la distensione in programma con Mosca è nelle corde di Trump, a partire dalla Siria: la priorità «non è più abbattere Assad, come voleva Obama, ma abbattere l’Isis, in collaborazione con Putin».



Glielo lasceranno fare?



Quasi a rassicurare una parte di quei poteri-ombra, Trump lascia capire che – in cambio – abbandonerà i palestinesi al loro destino: ha dichiarato che Gerusalemme sarà proprietà esclusiva di Israele e che gli insediamenti nei Territori Occupati non sono un ostacolo per la pace in Medio Oriente.



Un’evidente concessione tattica alla lobby israeliana, che è uno dei poteri schierati con Hillary.



Trump sta provando a destreggiarsi, ben sapendo che «difficilmente i veri poteri Usa si rassegneranno a perdere l’egemonia completa sul mondo».




Se così fosse, c’è già Bolton a ricordargli che dovrà guardarsi anche dal “terrorismo interno”.



La questione è della massima serietà e pericolosità, insiste Mazzucco: «Anche Obama, appena eletto, pensava davvero di potersi ritirare dall’Afghanistan».



Forse non sapeva ancora che «le decisioni non le prende il presidente».



Ogni mattina, alla Casa Bianca, riceve il briefing del capo dell’Fbi, che lo informa di quello che succede all’interno del paese, e quello del capo della Cia, che gli racconta quello che succede nel resto del mondo.



«Quindi è chi controlla quei briefing che, in realtà, fa fare le scelte al presidente».



«Se vai da Obama e gli dici: guarda che qui, a meno di mettere 30.000 soldati in più, ci portano via tutto, gli oleodotti, le basi che li controllano e anche le coltivazioni di oppio da cui dipende il traffico mondiale di eroina, che avviene sotto il controllo statunitense, è chiaro che ti trovi un Obama che, dopo aver vinto il Premio Nobel, manda 30.000 soldati in più in Afghanistan a combattere».


Ma, appunto, «dipende da quello che gli raccontano i veri poteri», cioè il complesso militare-industriale, il Pentagono, la Cia: «Sono loro che cercheranno di condizionare anche Trump».



Aggiunge Mazzucco: «Io al posto di Obama avrei preteso le prove di quanto mi veniva detto, ma è anche vero che le prove si fabbricano in fretta: è facile condizionare un presidente».



Non ci riuscirono solo in un caso: quello di Kennedy.




Fu «l’ultimo, vero presidente della storia americana».




E cercò di smantellare la Cia, «proprio perché aveva capito che era diventato un centro di potere molto più forte della presidenza».



Kennedy aveva già avviato lo smantellamento dell’intelligence: «Ha iniziato licenziando il capo della Cia, Allen Dulles, per la storia della Baia dei Porci», lo sgangherato piano per rovesciare Fidel Castro con il disastroso tentativo di invasione di Cuba, affidato a mercenari.


Come sappiamo, però, Kennedy «non ha fatto in tempo a finire il lavoro: è stato fatto fuori da un’alleanza tra la Cia e la mafia», ovvero: «La Cia l’ha deciso e la mafia ha fatto l’esecuzione».



Curiosamente, aggiunge Mazzucco, nel ruolo più importante della Commissione Warren, incaricata delle indagini ufficiali, il nuovo presidente Lyndon Johnson «ha messo proprio Allen Dulles, cioè l’ex direttore della Cia licenziato da Kennedy».



A giudicare chi è fosse stato a uccidere Kennedy misero proprio la principale vittima politica di Kennedy, il “pezzo da novanta” che Jfk era riuscito a far fuori durante la sua presidenza.



«I due Kennedy sapevano che sarebbero morti, ma decisero di andare fino in fondo».




Due casi più unici che rari: «Non credo ci siano state altre persone così testarde, di fronte agli “avvisi” ricevuti».




Bush abbandonò il suo isolazionismo, Obama il suo pacifismo.





Di che stoffa è fatto Donald Trump lo vedremo solo adesso.


«Visti i precedenti, c’è da temere davvero un attentato “false flag”, un grande “avvertimento” al neopresidente che vorrebbe archiviare la guerra».



Ottimismo? In una battuta: forse si può davvero “tifare” per Trump, «se non altro perché non gli hanno ancora dato il Nobel per la Pace».
UncleTom
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‘’STAR WARS’’ ALLA CASA BIANCA


http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 136153.htm

20 NOV 2016 11:52
1. ‘’STAR WARS’’ ALLA CASA BIANCA! TRUMP COME DART FENER! L'ELOGIO DELL'OSCURITÀ!
2. STEVE BANNON, LO STRATEGA DI THE DONALD: “L'OSCURITÀ È UN BENE. CHENEY. DART FENER. SATANA. QUESTO È IL POTERE. AIUTA QUANDO LORO (I LIBERAL E I MEDIA, NDR) SI SBAGLIANO, QUANDO LORO SONO CIECHI E NON VEDONO CHI SIAMO E QUELLO CHE STIAMO FACENDO”

2. “NON SONO UN NAZIONALISTA BIANCO. SONO UN NAZIONALISTA ECONOMICO. LA GLOBALIZZAZIONE HA SVENTRATO LA CLASSE OPERAIA USA E CREATO IL CETO MEDIO ASIATICO. ORA DOBBIAMO IMPEDIRE CHE GLI AMERICANI RESTINO FOTTUTI. SE RIUSCIREMO, OTTERREMO IL 60 PER CENTO DEI BIANCHI E DI NERI E LATINOS. RESTEREMO AL GOVERNO 50 ANNI”
3. ECCO PERCHÉ HILLARY CLINTON HA PERSO: “I DEMOCRATICI HANNO PARLATO SOLO CON "I DONATORI", I LORO FINANZIATORI. PERSONE CHE HANNO SOCIETÀ CHE FATTURANO NOVE MILIARDI DI DOLLARI MA DANNO LAVORO SOLO A NOVE PERSONE. HANNO PERSO DI VISTA LA REALTÀ. IL NOSTRO È INVECE UN MOVIMENTO POPULISTA DOVE GIRA TUTTO INTORNO AL LAVORO”
UncleTom
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Re: Dove va l'America?

Messaggio da UncleTom »

UncleTom ha scritto: ‘’STAR WARS’’ ALLA CASA BIANCA


http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 136153.htm

20 NOV 2016 11:52
1. ‘’STAR WARS’’ ALLA CASA BIANCA! TRUMP COME DART FENER! L'ELOGIO DELL'OSCURITÀ!
2. STEVE BANNON, LO STRATEGA DI THE DONALD: “L'OSCURITÀ È UN BENE. CHENEY. DART FENER. SATANA. QUESTO È IL POTERE. AIUTA QUANDO LORO (I LIBERAL E I MEDIA, NDR) SI SBAGLIANO, QUANDO LORO SONO CIECHI E NON VEDONO CHI SIAMO E QUELLO CHE STIAMO FACENDO”

2. “NON SONO UN NAZIONALISTA BIANCO. SONO UN NAZIONALISTA ECONOMICO. LA GLOBALIZZAZIONE HA SVENTRATO LA CLASSE OPERAIA USA E CREATO IL CETO MEDIO ASIATICO. ORA DOBBIAMO IMPEDIRE CHE GLI AMERICANI RESTINO FOTTUTI. SE RIUSCIREMO, OTTERREMO IL 60 PER CENTO DEI BIANCHI E DI NERI E LATINOS. RESTEREMO AL GOVERNO 50 ANNI”
3. ECCO PERCHÉ HILLARY CLINTON HA PERSO: “I DEMOCRATICI HANNO PARLATO SOLO CON "I DONATORI", I LORO FINANZIATORI. PERSONE CHE HANNO SOCIETÀ CHE FATTURANO NOVE MILIARDI DI DOLLARI MA DANNO LAVORO SOLO A NOVE PERSONE. HANNO PERSO DI VISTA LA REALTÀ. IL NOSTRO È INVECE UN MOVIMENTO POPULISTA DOVE GIRA TUTTO INTORNO AL LAVORO”
Q uando a fine estate incontrai nel suo ufficio alla Trump Tower Steve Bannon, allora neo-nominato stratega della campagna di The Donald, mi parlò del successo sorprendente che il suo candidato avrebbe avuto fra le donne, i latinos e gli afroamericani, oltre che tra i lavoratori bianchi.

Il 15 novembre, all' indomani della sua promozione a chief strategist, consigliere strategico alla Casa Bianca, sono tornato a trovarlo. Mi ha accolto con un «Te lo avevo detto».


E pensare che il muro di protezione dei liberal verso Trump si basava sul fatto che il candidato repubblicano era troppo disorganizzato e privo delle sfumature necessarie a gestire una corsa elettorale.

Opinione confermata quando a capo della campagna in agosto venne nominato proprio lui, il direttore dello strano e oltraggioso Breitbart.

Quel Bannon che oggi è diventato la persona più potente del nuovo staff alla Casa Bianca.

Il buco più nero in cui i democratici potessero cadere.

«L' oscurità è un bene», dice lo stratega: «Dick Cheney. Dart Fener. Satana.


Questo è il potere.

Aiuta quando loro (credo che per "loro" intendesse i liberal e i media, ndr) si sbagliano, quando loro sono ciechi e non vedono chi siamo e quello che stiamo facendo».


Lui, d' altronde, è l' uomo delle idee.

Se il trumpismo dovrà rappresentare qualcosa di intellettualmente e storicamente coerente, sarà compito suo dargli un volto.

Ma per i liberal è un personaggio poco rassicurante e difficilmente comprensibile.

Nato in una famiglia operaia, dopo il liceo si è arruolato in marina, si è diplomato al Virginia Tech, ha frequentato l' Harvard Business School, ha lavorato per Goldman Sachs, è diventato imprenditore a Hollywood e infine ha trovato un suo ruolo nel mondo delle grandi cospirazioni conservatrici di destra a capo del colosso mediatico Breitbart News Network.


Ciò che sembra essergli rimasto delle sue radici operaie e democratiche è un'irreparabile acredine di classe.

Che lo spinge a pensare che il partito democratico ha tradito la classe operaia.

«La forza di Bill Clinton - dice - stava nel sfruttare le persone senza istruzione.

È con loro che si vincono le elezioni».


Allo stesso modo anche il partito repubblicano ha tradito l' elettorato operaio negli anni di Reagan.

Insomma i lavoratori, sono stati traditi dall' establishment che lui definisce «la classe dei donatori».

È questa la base nel malinteso che ha portato i liberal a credere che la retorica di Donald Trump lo avrebbe condotto alla sconfitta invece che alla presidenza.

E che porta Bannon a respingere l' etichetta di razzista a lui affibbiata: «Non sono un nazionalista bianco.

Sono un nazionalista. Un nazionalista economico.

La globalizzazione ha sventrato la classe operaia americana e creato il ceto medio asiatico.

Ora dobbiamo impedire che gli americani restino fottuti.

Se riusciremo, otterremo il 60 per cento del sostegno dei bianchi e il 40 per cento di quello di neri e latinos. Resteremo al governo 50 anni».


Ecco perché Hillary ha perso: «I democratici hanno parlato solo con "i donatori", i loro finanziatori.


Persone che hanno società che fatturano nove miliardi di dollari ma danno lavoro solo a nove persone.

Hanno perso di vista la realtà.



Il nostro è invece un movimento populista dove gira tutto intorno al lavoro.

Io premo per un piano infrastrutture da mille miliardi di dollari.

Sarà elettrizzante come gli anni Trenta, più grande della rivoluzione di Reagan dove conservatori e populisti, saranno uniti in un movimento nazionalista economico».


È dal fallimento dell' establishment che viene l' ascesa di Bannon.

«La bolla dei media è solo il simbolo ultimo di quello che non va in questo Paese» continua.

«Sono una cricca di persone che parla tra loro e non ha nessuna fottuta idea di quel che accade.

Un circolo chiuso dal quale Hillary Clinton ha attinto informazioni e fiducia. Permettendoci di fare breccia».


Il suo trionfo, d' altronde, non è solo sull' establishment liberal, ma anche su quello conservatore, rappresentato, nel mondo dei media, da Fox News e dal suo proprietario Murdoch.

«Hanno frainteso le cose anche peggio degli altri», dice Bannon.

«Rupert non ha mai capito Trump, lo considera un radica- le. Io no».

Una convinzione che gli ha dato forza quando è subentrato a Paul Manafort nella direzione di una campagna elettorale che tutti già consideravano perdente.

La sua intuizione è stata decisiva: più la campagna elettorale pareva in caduta libera più quello poteva essere il binario giusto.

Tanto più Hillary disertava i comizi per corteggiare i suoi finanziatori, tanto più Trump arringava folle sempre più vaste, 35-40 mila persone alla volta.


«Qualcosa che gli riesce d' istinto», spiega Bannon.

«È diretto, non usa il gergo della politica, comunica in modo viscerale.

Nessun democratico ha ascoltato i suoi discorsi con attenzione e quindi nessuno ha capito che il suo messaggio economico era potente».

Per questo quando tutti gli uomini di Trump pensavano che solo un miracolo potesse salvarlo, Bannon continuava a ripetere che «Hillary non ce l' avrebbe fatta».

Convinzione che ora lo porta a essere una delle due teste pensanti della Casa Bianca: insieme a Reince Priebus, nuovo capo dello staff, incaricato di far arrivare i treni in orario, mentre lui, chief strategist, avrà l' incarico di delineare la visione, la narrativa e il piano d' azione del Presidente.


Un potere complicato che dovrà fare i conti con le ambizioni e le stranezze di Trump, un presidente che non ha mai ricoperto incarichi elettivi, l' agenda di una famiglia influente e le manovre di un partito dove molti lo hanno osteggiato.

Una corte complessa dove Bannon dovrà giocare d' astuzia per realizzare il suo piano di rilancio del lavoro da mille miliardi di dollari. Non a caso di sé dice: «Sono Cromwell alla corte dei Tudor».
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Trump, l’uomo della provvidenza

Società
di Ruggero Piperno | 20 novembre 2016
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Ruggero Piperno
Psichiatra e psicoterapeuta

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Il lungo periodo di dipendenza dalle figure genitoriali prima di raggiungere l’autonomia rende gli esseri umani particolarmente sensibili all’idea di una magica entità, la provvidenza, in grado di svolgere una funzione di protezione e indirizzo sulla loro vita. “Al pane ci ha pensato la provvidenza” dice Renzo nei Promessi sposi mentre Pio IX, all’indomani della firma dei patti lateranensi, chiama Mussolini “uomo della provvidenza”, intendendo, probabilmente, un uomo mandato dalla provvidenza.

La mia ipotesi è che anche Trump sia stato visto come “uomo della provvidenza” e che la sua elezione non sia stato il risultato di una scelta ponderata dell’insieme dei singoli elettori ma l’espressione di un io di massa che non segue la logica ma l’irrazionale e che per questo ha larghi margini d’imprevedibilità.



Le caratteristiche della personalità di Trump testimoniano la gravità del malessere di quei popoli egemoni nello scacchiere mondiale che vedono i propri confini e le proprie abitudini minacciate dall’interferenza dei paria del mondo. Viviamo in un’epoca di grandi sperequazioni all’interno dei singoli Stati e ancor di più fra uno Stato o un continente e l’altro. Ci eravamo illusi di poter ignorare questa estrema, eccessiva e ingiusta diversità legata, per la maggior parte, alla casualità del luogo in cui si nasce, mentre ora siamo impauriti e destabilizzati a vedere una massa migratoria che, in modo confuso ma ineluttabile, lotta per la vita o per una vita migliore a costo molto spesso della stessa vita.

Questi movimenti ubiquitari verso il mondo occidentale suscitano arcaiche reazioni di difesa. L’ossessione dei muri, più simbolica che efficace ne è un esempio, ma ben più temibile mi sembra la spinta da un “io individuale”, riflessivo, differenziato e consapevole verso un “io di massa”, essenzialmente emozionale, acritico e sorretto da un pensiero scarsamente organizzato.

In una massa siamo fratelli fin quando partecipiamo alla scelta comune, ma guai a pensare in proprio o solo a mostrare qualche piccolo segno di perplessità: ecco che l’amico fraterno si trasforma automaticamente in nemico e in delatore, nella difesa a oltranza della causa collettiva.

La forza seduttiva del senso di aggregazione fa sì che i membri di una massa rinuncino alla propria individualità, affidando a un capo il compito di trasformare il senso di frustrazione e solitudine in sogni di gloria e di riscatto. Vi è una sorta di tecnica retorica che il capo deve seguire: dipingere a fosche tinte, esagerare, essere ridondante, creare miti e capri espiatori. La brutalità del capo infonde alla massa, per specularità, un tranquillizzante sentimento di potenza invincibile. E’ la logica del branco, delle bande di adolescenti, delle guerre di religione, delle appartenenze integraliste.

Non è pertanto quello che l’uomo della provvidenza dice di voler fare che affascina la massa, non sono i programmi, spesso confusi o disattesi, non è la lucidità del suo ragionamento, ma il modo aggressivo di comunicare, la “luce” che emana, magicamente salvifica, complementare ai bisogni condivisi di un particolare gruppo di aggregazione, la sua capacità di porsi come modello identificativo verso il quale tendere.

Uomini e donne della provvidenza e bisogni delle masse si incontrano in continuazione. Alcuni uomini e donne coraggiose hanno avuto la forza e la capacità di interpretare il loro ruolo senza cedere alle lusinghe delle spinte regressive della massa, più numerosi coloro che hanno trovato la loro forza in un tragico nichilismo distruttivo.
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Trump, inizia l’era della contropolitica
di Furio Colombo | 20 novembre 2016
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Il voto americano rappresenta solo il clamoroso fatto nuovo della politica, o anche l’abbandono in massa della politica di milioni di elettori, con l’espediente del voto assurdo e offensivo invece della rispettosa astensione? Come spiegare altrimenti il rapporto evidente fra il crescere del favore per Trump e l’annuncio sempre più in chiaro di un vasto e meticoloso progetto di distruzione della convivenza democratica, del rispetto delle persone, della tolleranza civile, descritti con precisione dai discorsi elettorali di un candidato che è sembrato buffo fin quando è divenuto tragico?

Risponderò che, con queste elezioni, milioni di americani hanno fatto un passo fuori dalla politica, un passo per allontanarsi da ciò che non capiscono, di cui non hanno fiducia, e che considerano inutile per la loro vita. Ovvero hanno deciso in massa di uscire dal gioco. Il senso di quel voto non è l’attesa di Trump salvatore. Ma il sapere che la vittoria di Trump avrebbe significato “tabula rasa” (cito uno dei titoli che il New York Times ha dedicato a queste elezioni), e dunque tagliato i ponti col prima. In altre parole, molti non hanno giudicato, hanno abbandonato, non con l’astensione ma con un voto deliberatamente provocatorio e distruttivo. Che cosa può avere motivato un sentimento così estremo? Tento risposte muovendomi a disagio tra i fatti. Un fatto è il peggioramento della vita persino dove (negli Usa) sembra verificarsi uno straordinario miglioramento (lavoro, salari, salute, famiglia, scuole, diritti civili). Il vero peggioramento infatti è la mancanza di sicurezza. Sicurezza, in questo contesto, non è la porta blindata e non è la polizia efficiente e immediata, che anzi in questo Paese tende a sparare subito. Sicurezza è che non ti venga tolto quasi subito ciò che ti è stato dato, dopo lunghi contrasti e lotte politiche. Ma viviamo in un’epoca in cui, con due parole e un tratto di penna, può scomparire la riforma sanitaria che era costata otto anni difficili e accuse gravissime al presidente che se ne sta andando. Adesso chi ha sostenuto e amato Obama comincia a percepirlo come una figura di passaggio. Dopo di lui smonteranno in poco tempo il suo lavoro e lo faranno sembrare ridicolo. Torna e cresce l’ultimatum della ricchezza che intende preservare i propri diritti e comprimere sempre di più la vita di chi produce soltanto lavoro (mi rendo conto del senso della frase, che è insieme assurda e realistica).

Sta ricominciando (in America e nel mondo industrializzato) la routine fondata su tre pilastri: il costo del lavoro è sempre troppo alto. La potenza di un Paese deve esprimersi in numeri e armi e va esercitata. Il graduale abbandono di diritti umani e civili che sembravano garantiti per sempre, ma non sono compatibili con alleanze, difese e costi che la ricchezza ha già dichiarato insostenibili, dai tempi di Margareth Thatcher e di Ronald Reagan. Il nuovo mondo, che propone se stesso come aderente alla realtà e perciò non discutibile, genera un crescente rigetto dei poveri, locali o immigrati.

Chi non ha amato Obama, ha reagito soprattutto se povero, giudicando inaccettabile il punto di arrivo: non solo ha perso casa, lavoro, controllo sulla famiglia e futuro, ma è governato da un nero, che era sempre stato l’ultimo della fila. Quel nero, adesso bisogna rimetterlo sotto. A questa scena ingrata si aggiunge la perdita di potenza. L’America subisce oltraggi e non li ripaga, anzi conferma l’impegno di non far guerre. In un momento come questo si presenta un distruttore privo di scrupoli che promette finalmente “tabula rasa”. Qui, a questo punto sconnesso e illogico del giudizio politico, si è formata l’ossessione della contro-politica: via tutti, lasciando le chiavi al peggiore, affinché realizzi la vendetta e sfoghi il rancore di coloro che si sono sentiti comunque abbandonati.

Trump, nella sua strana e apparentemente grottesca (e invece ben calcolata) campagna elettorale, ha dato i segnali giusti. Ha puntato a ciò che negli Usa non si era mai fatto: attaccare e svilire, prima delle persone, le istituzioni. La strana e misteriosa dichiarazione del Federal Bureau of Investigation su probabili “responsabilità criminali” di uno dei due candidati (Hillary Clinton) subito prima delle elezioni, e la ritrattazione quasi immediata delle stesse accuse, da parte della stessa fonte, portano un clamoroso discredito a chiunque sia parte del gioco, con una implicita esortazione all’abbandono della vita pubblica. Fa testo la prima dichiarazione della Clinton dopo le più strane e illeggibili elezioni della storia americana: “Se potessi, non uscirei più di casa”. Così hanno deciso di fare molti dei milioni di americani che hanno votato Trump per chiudere con la politica: se la vedano loro, io non voglio avere responsabilità. Purtroppo è la scelta sbagliata. Le decisioni di Trump ricadranno su tutti loro e sul mondo. Ma la contro-politica comincia così, immaginando di potersi auto-escludere.

di Furio Colombo | 20 novembre 2016
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LIBRE news

Pieczenik, il boia di Moro, gola profonda sull’11 Settembre
Scritto il 24/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi


Basta attentati “false flag”, basta manipolazioni come l’11 Settembre. A dirlo è nientemeno che Steve Pieczenik, uno che se ne intende: «Pieczenik è un esponente dello “Stato profondo”, l’uomo che al tempo del rapimento Moro fu mandato in Italia dal Dipartimento di Stato per assicurarsi che Moro non tornasse a casa», scrive Maurizio Blondet. «A modo suo un servitore dello Stato, e di quegli apparati nazionali che i neocon hanno sbattuto fuori l’11 Settembre, prendendo a forza il comando della politica estera Usa nella “lotta al terrorismo islamico”, per il bene di Israele». E quindi, se oggi proclama “Mai più 11 Settembre”, «sta avvertendo: sappiamo che siete stati voi, possiamo riaprire l’inchiesta». In un video, nel quale si rallegra della vittoria di Trump, che attribuisce alla mobilitazione dei «16 servizi di intelligence», Pieczenik elenca “ciò che il popolo americano non vuole più”: «Non più false flag, non più 11 Settembre, non più Sandy Hook, sparatorie di Orlando o altri imbrogli, propaganda e stronzate! Quel che vogliamo oggi è la verità». Ciò significa che l’enorme rimescolamento di poteri causato dallo tsunami-Trump potrebbe scoperchiare tante verità sepolte?Sandy Hook è il massacro in una scuola elementare nel Connecticut, il 14 dicembre 2012, dove un folle ha ucciso 27 persone, bambini e insegnanti. A Orlando, la strage nella discoteca gay “Pulse”, giugno 2016, fu attribuita a un musulmano. Due casi denunciati sui blog come “false flag”, operazioni di auto-terrorismo. «Oggi Pieczenik, allusivamente, conferma: sappiamo che siete stati voi». Ma chi sono i “voi”? «Li vediamo affrettarsi ad infiltrare anche l’amministrazione Trump», scrive Blondet. C’è chi si precipita, infatti, a scrivere «articoli adulatori sul generale Michael Flynn», il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, «che tutti danno come suggeritore di Trump per il Medio Oriente e la pacificazione con Mosca». Quando era capo della Dia, l’intelligence militare, cioè fino al 2014, Flynn «ha raccontato come ha sabotato – insieme al capo degli stati maggiori di allora, ammiraglio Dempsey – il piano di Obama di armare i jihadisti in Siria per abbattere Assad». Flynn e Dempsey non eseguirono gli ordini di Obama, «collaborando sotto sotto coi russi». E adesso, improvvisamente, il potente mainstream – fino a ieri schierato con Obama e Hillary – presenta il generale Flynn come un eroe nazionale.Lo stesso Flynn ha appena scritto un libro, “Field of Fight”, che ha come sottotitolo “come possiamo vincere la guerra contro l’Islam radicale e i suoi alleati”, dove racconta gli “insabbiamenti e falsificazioni” di Obama a favore dell’Isis e di Al-Qaeda. Attenzione: il libro l’ha scritto con Michael Ledeen, vecchia conoscenza – purtroppo – della politica italiana, come Pieczenik. Temibile neocon, esponente dell’ultra-destra americana vicina alla lobby israeliana, Ledeen «è ricomparso in Italia a fianco di Marco Carrai, l’“intimo amico” di Renzi». Per Blondet, Carrai è «un evidente agente israeliano, a cui Renzi ha affidato l’incarico di suo consulente al Dis (l’organismo di coordinamento dei servizi segreti), il che equivale a consegnare la nostra intelligence al Mossad». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori) indica proprio Ledeen come il grande manovratore occulto della “sovragestione” della politica italiana, dal caso Moro alla P2: «Sponsorizzò prima Craxi e poi Di Pietro, ora Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio».Oggi Ledeen sembra di nuovo in piena corsa, tra i neocon che sgomitano per condizionare la politica di Trump, attraverso la collaborazione con Michael Flynn. «Apparentemente, il generale Flynn non potrebbe aver niente da spartire con Ledeen, di cui non ignora certo le parti che ha giocato l’11 Settembre», scrive Blondet. «Il punto di contatto sembra essere nella volontà – ferocemente ebraica – di far sì che il presidente stracci il trattato sul nucleare con l’Iran». Da almeno dieci anni, aggiunge Blondet, gli israeliani «tentano di indurre Washington a bombardare per loro l’Iran, specie le sue centrali atomiche». Trump li asseconderà? Altre ombre si addensano su Rudolph Giuliani: la sua presenza nello staff presidenziale «sembra assicurare che non sarà aperta un’inchiesta sull’11 Settembre e i suoi veri mandanti». Giuliani, a quel tempo sindaco di New York, «fu pesantemente partecipe al piano della distruzione delle Twin Towers», sostiene Blondet. Per contro, nel team c’è anche Steve Bannon, il direttore di “Breitbart.com” (18 milioni di lettori: un’audience che il “New York Times” può solo sognarsi). Bannon è «un antisistema proclamato e quindi bollato ad altissima voce dai media come “antisemita”, oltre che anti-islamico e anti-gay». Bannon, quindi, «può rassicurare sul coraggio di Trump di non piegarsi alla nota lobby», confermando «la pulsione “rivoluzionaria” che l’ha portato alla vittoria elettorale».Squarci di verità, tra i retroscena “imperiali” degli ultimi 15 anni? Sul “Fatto Quotidiano”, Giulietto Chiesa mette le mani avanti: «Una delle fonti che io considero più attendibili, Paul Craig Roberts, sul suo blog ha commentato con molta prudenza queste fonti, limitandosi a dire che, in caso fossero reali le intenzioni di Trump di riaprire l’inchiesta sull’11 Settembre, difficilmente resterebbe vivo fino al momento del suo insediamento». Non ci sono solo Bannon e il generale Flynn, nella cerchia di Trump, ma anche John Bolton, «superfalco neocon ed ex rappresentante all’Onu», e Mike Pompeo, che sarà alla testa della Cia («uno che ha comunicato al mondo, via Twitter, la sua impazienza di cancellare il negoziato con l’Iran»). Tutto questo, scrive Chiesa, «fa pensare che l’11 Settembre resterà nei cassetti delle rivelazioni future ancora per qualche tempo». Il che, però, «non significa che tutto sia immobile». Impossibile sottovalutare le esternazioni di Steve Pieczenik: «Parole che non possono essere ignorate per molte ragioni». Pieczenik è stato «un fedele e abile servitore dello Stato Imperiale per molti anni e su scenari assolutamente decisivi per la politica statunitense: è stato al servizio di diversi presidenti, come agente dei servizi segreti, come diplomatico, come influencer di alto profilo».Basterebbe ricordare che Pieczenik «venne inviato da Washington in Italia per “assistere” l’allora ministro degl’interni Francesco Cossiga, poi divenuto presidente della Repubblica, nel non facile compito di gestire il rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro». In qualche intervista, anni fa, Pieczenik «non fece mistero del suo compito di allora: liquidare definitivamente Aldo Moro». Non solo: «Alcune allusioni che egli stesso fece filtrare condussero molti, tra cui il sottoscritto, a ritenere che fosse proprio lui uno dei manovratori delle Brigate Rosse, dei servizi italiani “deviati”, e dei depistaggi che impedirono agli inquirenti italiani di giungere al carcere segreto dove Moro era rinchiuso prima che fosse ucciso». Adesso è in pensione, fuori servizio, ma fino a un certo punto: «In piena campagna elettorale americana se ne uscì parlando come se fosse parte del “contro-colpo di Stato” dell’Fbi contro (perdonate la reiterazione) il “colpo di Stato” della Clinton». È indubbio che Pieczenik ha accesso a fonti di prima mano. «E se oggi dice – e promette – “non più false flag”, “non più 11 Settembre”, “non più finte uccisioni di Osama bin Laden” si ha ragione di ritenere che nei meandri della lotta politica feroce che dilania l’establishment americano, questa questione si sta muovendo».Certo, resta da capire perché parla ora: lo fa «con il contagocce, ma parla, allude». Succede a molti di questi alti esecutori, di parlare quando vanno in pensione, di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. «Magari si rendono conto, in prossimità della fine, delle mostruosità che hanno contribuito a compiere», scrive Chiesa. «Oppure vogliono vendicarsi per i torti subiti da chi stava sopra di loro e li ha usati, magari senza neppure premiarli per il lavoro svolto». O ancora, semplicemente, «vogliono rendersi utili e rimediare, per quanto possibile, in ritardo, alle loro malefatte: in cerca, almeno, del Purgatorio». In ogni caso, «ben vengano le rivelazioni, anche postume». Se non altro, tutto questo «potrebbe venire utile anche a coloro che, qui da noi, si sono messi, in tutti questi anni, al servizio della menzogna e hanno cercato, in tutti i modi, di attaccare, ridicolizzare, emarginare, insultare coloro che la verità la videro, o la intuirono, o comunque la cercarono». Sembrano dunque aprirsi spiragli che lasciano intravedere meglio l’interno della “casa americana”, che appare «molto diversa da come ce l’hanno dipinta». Così, «quando si spalancherà la porta, saranno in molti a doversi nascondere», primi fra tutti i media mainstream, solerti custodi di verità rimaste sotto chiave: se fossero state denunciate per tempo – Watergate insegna – molti orrori non sarebbero neppure andati in scena, il Deep State non sarebbe arrivato a tanto.
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Repubblica 25.11.16
Se Donald non ama la Cia
di Vittorio Zucconi


COME il manovratore del tram al quale è vietato parlare, così il nuovo conduttore del tram chiamato America preferisce non essere disturbato dalle informazioni delle proprie spie.
Soltanto due volte, da quando ne ha acquisito il diritto come “President Elect” l’8 novembre, Donald Trump ha ascoltato il briefing quotidiano sullo stato del mondo che la Cia prepara.
A differenza di Jimmy Carter, secchione ex ufficiale di Marina che esigeva pile di documenti, di Richard Nixon, che voleva sapere tutto ma nella sua paranoia voleva i briefing sigillati e «solo per i suoi occhi» o di Bill Clinton che attaccava bottoni interminabili allo sventurato direttore della Cia spiegandogli, lui, come funzionava il mondo, Trump è notoriamente allergico allo studio in generale. Preferisce affidarsi al proprio intuito di “Improvvisatore in Capo”. In questo è vicino al presidente al quale sembra volersi sempre più ispirare, a quel Ronald Reagan che, davanti alla minacciosa catasta di classificatori rovesciati ogni mattina sulla sua scrivania dalla National Intelligence, chiese ai prolissi, diligenti analisti della Cia di ridurre tutto a una sola pagina. E di riassumerla a voce. O Kennedy, che dopo il tragico bidone della Baia dei Porci, rifiutò di dare udienza alla Cia, fino alla Crisi dei Missili. Ma Kennedy era un pessimista, Reagan un ottimista. Come è Trump, che preferisce non sapere, per non agitare il sogno della nuova grandezza americana, indisturbata da quel mondo là fuori, così irritante.
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il manifesto 25.11.16
Con Trump un tacchino avvelenato
Stati uniti. L’enorme fisiologico conflitto di interessi di un presidente eletto con investimenti e affari in ogni comparto dell’economia nazionale ed internazionale, investimenti in numerosi paesi amici ed antagonisti, è semplicemente sminuito dall’interessato mentre gli esperti sfogliano freneticamente i codici legali in cui sembrano effettivamente non risultare norme precise in merito - oltre all’informale codice deontologico che ha indotto ogni predecessore a disfarsi di investimenti sconvenienti sull’uscio della casa bianca. Ma se le istituzioni dipendono da un etica volontaria avranno un brusco risveglio con un presidente specializzato nell’infrangere ogni protocollo
di Luca Celada


Nella settimana del Thanksgiving sono emanati segnali sempre più inquietanti dall’ultimo piano di Trump Tower dove il presidente in pectore prepara il suo gabinetto alla maniera di un torvo reality. Mentre Trump continua a twittare un flusso di messaggi al popolo, alternatamente petulanti e minacciosi, una parata di pretendenti cortigiani compie il pellegrinaggio alla sua corte di 5th avenue (o al suo club di golf in New Jersey o nella sua reggia kitsch in Florida) fra i flash dei fotografi. Il caro leader concede interviste patinate e rilascia editti via messaggi video agli Americani: sull’abrogazione dei trattati, la fine delle norme ambientali, le restrizioni all’immigrazione. La stampa «menzognera» invece, come promesso durante la campagna, è tenuta lontana, salvo venir convocata, come l’altro giorno gli anchor e direttori di tutti i network, per un auto da fe in cui il nuovo comandante in capo li ha apostrofati per nome e cognome per essere stati bugiardi e faziosi e presumbilmente notificati di una musica che sta per cambiare di molto.
Bisogna fare affidamento alle indiscrezioni che tutti gli esponenti della celebrata libera stampa americana sono stati tenuti – ed hanno subito sottoscritto – il totale riserbo in merito. Pochi giorni dopo il presidente-celebrity ha visitato egli stesso la redazione dell’odiato New York Times rilasciando dichiarazioni a tutto campo in versione di «amabile antagonista» che ha di nuovo lasciato interdetta la stampa. La facilità con cui Trump manipola i media lascia supporre il peggio anche per le altre istituzioni di una democrazia non vaccinata contro la sfacciataggine dell’anomalia trumpiana.
L’enorme fisiologico conflitto di interessi di un presidente eletto con investimenti e affari in ogni comparto dell’economia nazionale ed internazionale, investimenti in numerosi paesi amici ed antagonisti, è semplicemente sminuito dall’interessato mentre gli esperti sfogliano freneticamente i codici legali in cui sembrano effettivamente non risultare norme precise in merito – oltre all’informale codice deontologico che ha indotto ogni predecessore a disfarsi di investimenti sconvenienti sull’uscio della casa bianca. Ma se le istituzioni dipendono da un etica volontaria avranno un brusco risveglio con un presidente specializzato nell’infrangere ogni protocollo.
Trump avanza imperterrito, minacciando giornalisti «nemici» di revoca degli accrediti, invitando gli Inglesi a mandargli l’amico Farage come ambasciatore a Washington e procedendo con la «splendida» opera delle nomine. Nei nomi fin qui annunciati si delinea la sconfitta dell’ala istituzionale del partito che, accodatosi al carro del vincitore, sembra aver mal calcolato le probabilità di poterlo pilotare dagli scranni del congresso. È risultato più che chiaro dall’elevazione di Steve Bannon a consigliere strategico a cui sono seguiti una schiera di giacobini trumpisti in posizioni chiave dell’esecutivo. Alla giustizia Jeff Sessions dell’Alabama, un reazionario del sud che qualche anno fa era stato squalificato da una nomina a giudice federale a causa di certe esternazioni sulla superiorità della razza bianca. Alla Cia è andato Mike Pompeo del Kansas che considera il Medio Oriente il fronte incandescente di una guerra di religione. Alla sicurezze nazionale il generale Mike Flynn, altro falco anti islamico e teorico del disgelo con Putin. All’istruzione Betsy De Voss una integralista evangelica del Michigan che delle scuole pubbliche apprezza soprattutto la libertà di preferirgli quelle private.
L’unica figura lievemente moderata finora è la governatrice del South Carolina, Nikki Haley, mandata a fare l’ambasciatrice all’Onu dove non farà danni.
Procede intanto il lento spoglio per determinare il saldo definitivo di queste singolari elezioni. Il vincitore del collegio elettorale si colloca ormai oltre 2 milioni di voti dietro l’avversaria nel voto popolare. Trump è presidente in virtù della specifica distribuzione geografica di qualche decina di migliaia di preferenze in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania. Una manciata di province hanno sancito la sua resistibile ascesa e la sterzata reazionaria che prevedibilmente annullerà decenni di progressi sociali e ripristinerà nella definizione di Bannon «il destino originario del capitalismo americano».
Quest’ultimo trionfo avverrà a scapito dell’ambiente e sulla pelle degli elettori working class cui Trump ha fatto la vana promessa di ripristinare un economia irrimediabilmente scomparsa.
Ma ne faranno le spese tutti gli americani la cui nazione è stata usurpata da una banda di estremisti nazional-populisti che nel giro di pochi giorni hanno già normalizzato comizi suprematisti e filo nazisti e intemperanze quotidiane contro stranieri, immigrati, minoranze e «dissidenti» per le quali nel giorno del ringraziamento la maggioranza dei cittadini, quella che ha votata contro Trump, ha trovato ben poco per cui rendere grazie.
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