La crisi dell'Europa
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Re: La crisi dell'Europa
VOTA NO…………………VOTA NO…………………VOTA NO
Come ha scritto don Ciotti, chi ha voluto questa “nuova” Costituzione vede «la democrazia come un ostacolo», e il bene comune come «una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi».
Come ha scritto don Ciotti, chi ha voluto questa “nuova” Costituzione vede «la democrazia come un ostacolo», e il bene comune come «una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi».
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Re: La crisi dell'Europa
LIBRE news
Lo Spiegel: ormai a rischio-povertà 118 milioni di europei
Scritto il 02/12/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Mentre gran parte della stampa nazionale fa di tutto per gonfiare in maniera propagandistica qualsiasi dato possa far gridare alla “ripresa”, il quotidiano tedesco “Der Spiegel” commenta uno sconcertante studio sul crescente rischio di povertà in Europa.
Secondo la ricerca del “Social Justice Index”, la crescita degli impieghi a basso salario è alla base di questa inquietante statistica.
Lo segnala “Voci dall’Estero”, che evidenzia il servizio dello “Spiegel”: la mappa del pericolo investe con particolare rilievo i paesi del Sud Europa, cioè quelli più colpiti dalle politiche di rigore imposte dall’Eurozona a guida tedesca.
Parlano i numeri, dimostrando che la “svalutazione interna”, indispensabile per “reggere” l’euro, sta falcidiando – come ampiamente previsto – il sistema socio-produttivo, costretto ai tagli per poter sostenere la concorrenza, non potendo più ricorrere a nessuna forma di investimento pubblico.
La novità, semmai, sta nelle dimensioni del disastro: a rischio-povertà, secondo lo studio, sarebbero ormai 118 milioni di cittadini europei, su cui si è abbattuta la mannaia dell’austerity imposta dalla moneta unica “privatizzata”.
«È in costante crescita il numero di cittadini europei che, nonostante abbiano un impiego a tempo pieno, sono a rischio povertà», precisa lo “Spiegel”.
Sono le conclusioni del recente studio del “Social Justice Index 2016”, finanziato dalla Fondazione Bertelsmann.
Il peggioramento sta galoppando: lo scorso anno questa percentuale è salita al 7,8%, mentre tre anni fa era al 7,2 per cento.
«Ciò significa che milioni di persone nell’Ue sono sottoposte a un reale rischio di povertà, pur potendo contare su un’occupazione a tempo pieno».
Anche se alcuni paesi dell’Uunione Europea stanno mostrando una lenta ripresa rispetto alle conseguenze della crisi economica e finanziaria, «lo stesso non si può dire dell’impatto che i mutamenti del mercato del lavoro hanno avuto sulla vita delle persone».
Anche perché la decantata “ripresa” è sempre ferma a decimali irrisori, del tutto irrilevanti rispetto ai numeri veri dell’economia: secondo l’Istat, l’Italia ha perso 73 miliardi in soli tre anni, grazie all’effetto del governo Monti.
In fumo oltre 650.000 posti di lavoro, a causa del fallimento di oltre 15.000 aziende (dati Ocse).
Una catastrofe, impossibile da recuperare con le “ripresine”.
E il peggio è che, ormai, è a rischio anche chi un lavoro ce l’ha: lo stipendio è troppo magro.
Così stanno crollando gli standard del benessere medio in Europa.
Sulla base di 35 criteri, i ricercatori di “Social Justice Index” analizzano ogni anno sei aree di studio, tra cui povertà, istruzione, occupazione, salute e giustizia intergenerazionale.
«Secondo il documento – scrive lo “Spiegel” – un cittadino europeo su quattro è alle soglie della povertà o a rischio di una qualche forma di esclusione sociale: in totale si parla di oltre 118 milioni di persone.
Per i ricercatori le ragioni vanno ricercate in particolare nella crescita dei settori a basso salario».
L’aumento dei cosiddetti “lavoratori poveri”, ovvero delle persone con un’occupazione ma a rischio di povertà, preoccupa moltissimo gli autori della ricerca.
«Una crescente percentuale di persone alle quali non basta un lavoro per vivere è qualcosa che mina l’intera legittimità del nostro ordine economico e sociale», afferma il presidente della Fondazione Bertelsmann, Aart De Geus.
E’ il corollario della crisi sistemica indotta dalla perdita di sovranità finanziaria: meno investimenti uguale meno lavoro e meno redditi, meno Pil, più tassazione ma minori entrate, e quindi più debito pubblico.
Una spirale perfetta, dalla quale – alle attuale condizioni, coi bilanci gestiti da Bruxelles e dalla Bce – non è possibile uscire.
Non è solo la povertà a essere identificata come una delle problematiche fondamentali: nella stessa Germania, secondo gli autori della ricerca, pesa anche «la scarsa permeabilità sociale prodotta dal sistema educativo».
Il numero di persone «occupate a tempo pieno ma sulla soglia della povertà» è aumentato dal 5,1% del 2009 al 7,1% del 2015.
«Questo pone la Germania al settimo posto in Europa, nonostante la Repubblica Federale sia la più grande potenza economica del vecchio continente».
Il primo posto è occupato dalla Svezia (che non ha l’euro) mentre il fanalino di coda resta la Grecia, massacrata proprio dalla politica di rigore imposta da Berlino.
In particolare, aggiunge lo “Spiegel”, nell’Europa meridionale sono i giovani a rischiare di essere lasciati indietro: in tutta l’Unione Europea, «il 27% dei minori (sotto i 18 anni) sono a rischio di povertà o esclusione sociale».
Uno scenario ormai drammatico: «In Grecia, Italia, Spagna e Portogallo addirittura un bambino su tre è a rischio di povertà».
Lo Spiegel: ormai a rischio-povertà 118 milioni di europei
Scritto il 02/12/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Mentre gran parte della stampa nazionale fa di tutto per gonfiare in maniera propagandistica qualsiasi dato possa far gridare alla “ripresa”, il quotidiano tedesco “Der Spiegel” commenta uno sconcertante studio sul crescente rischio di povertà in Europa.
Secondo la ricerca del “Social Justice Index”, la crescita degli impieghi a basso salario è alla base di questa inquietante statistica.
Lo segnala “Voci dall’Estero”, che evidenzia il servizio dello “Spiegel”: la mappa del pericolo investe con particolare rilievo i paesi del Sud Europa, cioè quelli più colpiti dalle politiche di rigore imposte dall’Eurozona a guida tedesca.
Parlano i numeri, dimostrando che la “svalutazione interna”, indispensabile per “reggere” l’euro, sta falcidiando – come ampiamente previsto – il sistema socio-produttivo, costretto ai tagli per poter sostenere la concorrenza, non potendo più ricorrere a nessuna forma di investimento pubblico.
La novità, semmai, sta nelle dimensioni del disastro: a rischio-povertà, secondo lo studio, sarebbero ormai 118 milioni di cittadini europei, su cui si è abbattuta la mannaia dell’austerity imposta dalla moneta unica “privatizzata”.
«È in costante crescita il numero di cittadini europei che, nonostante abbiano un impiego a tempo pieno, sono a rischio povertà», precisa lo “Spiegel”.
Sono le conclusioni del recente studio del “Social Justice Index 2016”, finanziato dalla Fondazione Bertelsmann.
Il peggioramento sta galoppando: lo scorso anno questa percentuale è salita al 7,8%, mentre tre anni fa era al 7,2 per cento.
«Ciò significa che milioni di persone nell’Ue sono sottoposte a un reale rischio di povertà, pur potendo contare su un’occupazione a tempo pieno».
Anche se alcuni paesi dell’Uunione Europea stanno mostrando una lenta ripresa rispetto alle conseguenze della crisi economica e finanziaria, «lo stesso non si può dire dell’impatto che i mutamenti del mercato del lavoro hanno avuto sulla vita delle persone».
Anche perché la decantata “ripresa” è sempre ferma a decimali irrisori, del tutto irrilevanti rispetto ai numeri veri dell’economia: secondo l’Istat, l’Italia ha perso 73 miliardi in soli tre anni, grazie all’effetto del governo Monti.
In fumo oltre 650.000 posti di lavoro, a causa del fallimento di oltre 15.000 aziende (dati Ocse).
Una catastrofe, impossibile da recuperare con le “ripresine”.
E il peggio è che, ormai, è a rischio anche chi un lavoro ce l’ha: lo stipendio è troppo magro.
Così stanno crollando gli standard del benessere medio in Europa.
Sulla base di 35 criteri, i ricercatori di “Social Justice Index” analizzano ogni anno sei aree di studio, tra cui povertà, istruzione, occupazione, salute e giustizia intergenerazionale.
«Secondo il documento – scrive lo “Spiegel” – un cittadino europeo su quattro è alle soglie della povertà o a rischio di una qualche forma di esclusione sociale: in totale si parla di oltre 118 milioni di persone.
Per i ricercatori le ragioni vanno ricercate in particolare nella crescita dei settori a basso salario».
L’aumento dei cosiddetti “lavoratori poveri”, ovvero delle persone con un’occupazione ma a rischio di povertà, preoccupa moltissimo gli autori della ricerca.
«Una crescente percentuale di persone alle quali non basta un lavoro per vivere è qualcosa che mina l’intera legittimità del nostro ordine economico e sociale», afferma il presidente della Fondazione Bertelsmann, Aart De Geus.
E’ il corollario della crisi sistemica indotta dalla perdita di sovranità finanziaria: meno investimenti uguale meno lavoro e meno redditi, meno Pil, più tassazione ma minori entrate, e quindi più debito pubblico.
Una spirale perfetta, dalla quale – alle attuale condizioni, coi bilanci gestiti da Bruxelles e dalla Bce – non è possibile uscire.
Non è solo la povertà a essere identificata come una delle problematiche fondamentali: nella stessa Germania, secondo gli autori della ricerca, pesa anche «la scarsa permeabilità sociale prodotta dal sistema educativo».
Il numero di persone «occupate a tempo pieno ma sulla soglia della povertà» è aumentato dal 5,1% del 2009 al 7,1% del 2015.
«Questo pone la Germania al settimo posto in Europa, nonostante la Repubblica Federale sia la più grande potenza economica del vecchio continente».
Il primo posto è occupato dalla Svezia (che non ha l’euro) mentre il fanalino di coda resta la Grecia, massacrata proprio dalla politica di rigore imposta da Berlino.
In particolare, aggiunge lo “Spiegel”, nell’Europa meridionale sono i giovani a rischiare di essere lasciati indietro: in tutta l’Unione Europea, «il 27% dei minori (sotto i 18 anni) sono a rischio di povertà o esclusione sociale».
Uno scenario ormai drammatico: «In Grecia, Italia, Spagna e Portogallo addirittura un bambino su tre è a rischio di povertà».
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Re: La crisi dell'Europa
Il brutto è che non sta bene neanche chi ha un impiego tradizionale, a meno che non ha una posizione dirigenziale.
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Re: La crisi dell'Europa
NON DIMENTICHIAMO CHE DOMANI UN ALTRO EVENTO DI RILIEVO
SCUOTERA’ L’EUROPA.
Elezioni Austria, primo banco di prova per l’ultradestra europea. Testa a testa tra il populista Hofer e il verde Van der Bellen
Zona Euro
Con i venti del populismo xenofobo che spirano da est, ma anche dal cuore del Vecchio Continente, tutti gli occhi della politica europea saranno puntati sul risultato austriaco. Se l’esito del maggio scorso venisse confermato, il Paese rimarrebbe attaccato al treno dell’Ue. Un suo ribaltamento, invece, aprirebbe due possibili scenari: il primo trionfo dell’ultranazionalismo di destra, con le elezioni in Francia, Germania e Olanda alle porte, e la possibilità di un referendum austriaco sull’uscita dall’Europa, l’Oexit
di Gianni Rosini | 3 dicembre 2016
Più informazioni su: Austria, Brexit, Destra, Donald Trump, Elezioni, Europa, Immigrazione, Ultradestra, Verdi, Xenofobia
Vienna sarà il primo esame di maturità per la destra ultranazionalista in Europa occidentale. Dopo l’annullamento di maggio per irregolarità formali e il rinvio del 2 ottobre scorso per un difetto nelle buste contenenti le schede per corrispondenza, il 4 dicembre l’Austria eleggerà il suo prossimo Capo di Stato. All’ultimo ballottaggio, il candidato dei Verdi, Alexander Van der Bellen, era riuscito a vincere con un distacco di solo 31 mila voti. Dall’altra parte, ad affrontarlo, l’ultranazionalista, anti-establishment ed euroscettico Norbert Hofer (nella foto), candidato del Partito della Libertà austriaco (Fpö). Con i venti del populismo xenofobo che spirano da est, soprattutto da Ungheria e Polonia con i governi targati Fidesz e Diritto e Giustizia, ma anche dal cuore del Vecchio Continente, come in Germania con Alternative für Deutschland e in Francia con il Front National, tutti gli occhi della politica europea saranno puntati sul risultato austriaco. Se l’esito del maggio scorso venisse confermato, il Paese rimarrebbe attaccato al treno dell’Ue. Un suo ribaltamento, invece, aprirebbe due nuovi possibili scenari: il primo trionfo dell’ultranazionalismo di destra, con le elezioni in Francia, Germania e Olanda alle porte, e la possibilità di un referendum austriaco sull’uscita dall’Europa, l’Oexit.
Il populista che arringa il proletariato e il professore che piace agli intellettuali
I sondaggi lo ripetono da mesi e i candidati lo sanno bene: vincerà chi da maggio sarà riuscito a tenersi stretto o a conquistare quei 31 mila voti che fanno la differenza tra l’Hofburg e la sconfitta. È anche per questo motivo che entrambi, in questi sette mesi, hanno cercato di racimolare consensi pescando anche tra i simpatizzanti dell’avversario.
Da una parte c’è Norbert Hofer, 45 anni, candidato del Fpö. Il suo diretto rivale dice che una sua vittoria porterebbe a una “trumpizzazione” dell’Austria. In effetti, come il neoeletto Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, Hofer è riuscito ad arrivare a un passo dalla presidenza partendo come outsider. Il suo stesso partito riponeva in lui poche speranze. Come Trump, si propone come il nemico delle élite politiche e dell’establishment nazionale ed europeo. E come lui porta avanti una politica anti-immigrazione e anti-Islam al grido di “Prima gli austriaci”, sostenendo che gli arrivi e gli sbarchi avvenuti in Europa negli ultimi anni hanno aperto le porte a criminali, potenziali stupratori e terroristi. L’Islam, ha dichiarato, “non fa parte della cultura dell’Austria”. Questi messaggi forti, però, vengono lanciati con la faccia rassicurante e la calma che contraddistinguono ormai i partiti ultranazionalisti occidentali, ormai ripuliti dall’iconografia estremista e dagli slogan violenti gridati a squarciagola. A fianco degli ideali cari all’ultradestra nazionalista, Hofer inserisce un euroscetticismo tipico dei movimenti populisti riemersi velocemente nel Vecchio Continente. Sulla possibilità di una Brexit in salsa austriaca ha fatto qualche passo indietro rispetto al passato, proprio con l’obiettivo di attirare il voto degli indecisi più moderati. Ma in una recente intervista alla Bbc ha spiegato le ragioni di un possibile referendum consultivo sull’uscita dell’Austria dall’Unione Europea. L’Europa è importante per l’Austria, ha detto, ma “serve un’Europa migliore”. Se, dopo la Brexit, Bruxelles opterà per un accentramento del potere, togliendone così agli Stati nazionali, allora un voto sulla Oexit è possibile.
Dall’altra parte della barricata c’è Alexander “Sascha” Van der Bellen, 72 anni, professore ed economista figlio di profughi benestanti fuggiti dalla Russia dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Un passato, quello dell’esponente dei Verdi e della sua famiglia, che lo allontana dalle posizioni del proprio avversario sul blocco agli immigrati. Una politica, quella delle porte aperte ai migranti, che paga il clima di insofferenza verso i profughi che ha colpito anche l’Austria, paese da 8,5 milioni di abitanti che ha registrato 100 mila arrivi nel solo 2015. Appoggiato da intellettuali, accademici e dall’ala europeista del Paese, Van der Bellen ha manifestato agli elettori la propria preoccupazione riguardo alla possibilità di una vittoria di Hofer. Un pericolo, a suo dire, per il futuro dell’Austria e la sua presenza nell’Unione Europea. Deve però fare i conti con un proletariato, soprattutto quello che vive nelle aree rurali del Paese, sfiduciato e che ha manifestato maggiori simpatie per il candidato nazionalista. Per questo ha strizzato l’occhio ai cattolici, appoggiando la presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche, e alle popolazioni delle province, dove ha partecipato a diverse feste popolari.
Austria, primo banco di prova per la destra nazionalista europea
Con gli Stati Uniti che hanno eletto uno dei candidati più populisti della loro storia, una Brexit che non fa più così paura come alla vigilia del referendum britannico e i gruppi xenofobi in ascesa in gran parte del continente, l’elezione del membro del Fpö potrebbe rappresentare il primo vero punto di rottura tra il passato dei partiti tradizionali e una nuova era in cui emergono vittoriosi i movimenti populisti e ultranazionalisti. Si tratterebbe della prima presidenza di questo tipo in Europa occidentale che aprirebbe a due nuovi scenari possibili. Primo, l’elezione di un presidente ultranazionalista potrebbe creare un effetto domino in vista delle elezioni del 2017 in Francia, dove Marine Le Pen sembra essere ancora in vantaggio nei sondaggi rispetto alla sinistra e al candidato repubblicano François Fillon, in Olanda, dove tra i principali candidati alla vittoria c’è l’euroscettico Geert Wilders, e in Germania, dove Angela Merkel dovrà guardarsi le spalle dall’ascesa di Frauke Petry e del suo partito di estrema destra Alternative für Deutschland. Secondo, la vittoria di Hofer potrebbe aprire alla Oexit. Il candidato di destra, anche per esigenze elettorali, ha ammorbidito la sua posizione sul referendum per uscire dall’Unione Europea, ma non lo ha mai escluso del tutto. Se l’Europa dovesse continuare con la sua politica accentratrice, Hofer spingerà gli austriaci alle urne.
Twitter: @GianniRosini
===============================================================
COINCIDENZE????????
Se vince HOFER sarà il primo presidente dell'ultradestra in Europa.
Ma non solo.
Un altro austriaco è diventato famoso nel secolo scorso.
Per una strana combinazione i cognomi iniziano tutti per H.
e terminano per er
H itl er
H of er.
AUGURI A TUTTI NOI............
SCUOTERA’ L’EUROPA.
Elezioni Austria, primo banco di prova per l’ultradestra europea. Testa a testa tra il populista Hofer e il verde Van der Bellen
Zona Euro
Con i venti del populismo xenofobo che spirano da est, ma anche dal cuore del Vecchio Continente, tutti gli occhi della politica europea saranno puntati sul risultato austriaco. Se l’esito del maggio scorso venisse confermato, il Paese rimarrebbe attaccato al treno dell’Ue. Un suo ribaltamento, invece, aprirebbe due possibili scenari: il primo trionfo dell’ultranazionalismo di destra, con le elezioni in Francia, Germania e Olanda alle porte, e la possibilità di un referendum austriaco sull’uscita dall’Europa, l’Oexit
di Gianni Rosini | 3 dicembre 2016
Più informazioni su: Austria, Brexit, Destra, Donald Trump, Elezioni, Europa, Immigrazione, Ultradestra, Verdi, Xenofobia
Vienna sarà il primo esame di maturità per la destra ultranazionalista in Europa occidentale. Dopo l’annullamento di maggio per irregolarità formali e il rinvio del 2 ottobre scorso per un difetto nelle buste contenenti le schede per corrispondenza, il 4 dicembre l’Austria eleggerà il suo prossimo Capo di Stato. All’ultimo ballottaggio, il candidato dei Verdi, Alexander Van der Bellen, era riuscito a vincere con un distacco di solo 31 mila voti. Dall’altra parte, ad affrontarlo, l’ultranazionalista, anti-establishment ed euroscettico Norbert Hofer (nella foto), candidato del Partito della Libertà austriaco (Fpö). Con i venti del populismo xenofobo che spirano da est, soprattutto da Ungheria e Polonia con i governi targati Fidesz e Diritto e Giustizia, ma anche dal cuore del Vecchio Continente, come in Germania con Alternative für Deutschland e in Francia con il Front National, tutti gli occhi della politica europea saranno puntati sul risultato austriaco. Se l’esito del maggio scorso venisse confermato, il Paese rimarrebbe attaccato al treno dell’Ue. Un suo ribaltamento, invece, aprirebbe due nuovi possibili scenari: il primo trionfo dell’ultranazionalismo di destra, con le elezioni in Francia, Germania e Olanda alle porte, e la possibilità di un referendum austriaco sull’uscita dall’Europa, l’Oexit.
Il populista che arringa il proletariato e il professore che piace agli intellettuali
I sondaggi lo ripetono da mesi e i candidati lo sanno bene: vincerà chi da maggio sarà riuscito a tenersi stretto o a conquistare quei 31 mila voti che fanno la differenza tra l’Hofburg e la sconfitta. È anche per questo motivo che entrambi, in questi sette mesi, hanno cercato di racimolare consensi pescando anche tra i simpatizzanti dell’avversario.
Da una parte c’è Norbert Hofer, 45 anni, candidato del Fpö. Il suo diretto rivale dice che una sua vittoria porterebbe a una “trumpizzazione” dell’Austria. In effetti, come il neoeletto Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, Hofer è riuscito ad arrivare a un passo dalla presidenza partendo come outsider. Il suo stesso partito riponeva in lui poche speranze. Come Trump, si propone come il nemico delle élite politiche e dell’establishment nazionale ed europeo. E come lui porta avanti una politica anti-immigrazione e anti-Islam al grido di “Prima gli austriaci”, sostenendo che gli arrivi e gli sbarchi avvenuti in Europa negli ultimi anni hanno aperto le porte a criminali, potenziali stupratori e terroristi. L’Islam, ha dichiarato, “non fa parte della cultura dell’Austria”. Questi messaggi forti, però, vengono lanciati con la faccia rassicurante e la calma che contraddistinguono ormai i partiti ultranazionalisti occidentali, ormai ripuliti dall’iconografia estremista e dagli slogan violenti gridati a squarciagola. A fianco degli ideali cari all’ultradestra nazionalista, Hofer inserisce un euroscetticismo tipico dei movimenti populisti riemersi velocemente nel Vecchio Continente. Sulla possibilità di una Brexit in salsa austriaca ha fatto qualche passo indietro rispetto al passato, proprio con l’obiettivo di attirare il voto degli indecisi più moderati. Ma in una recente intervista alla Bbc ha spiegato le ragioni di un possibile referendum consultivo sull’uscita dell’Austria dall’Unione Europea. L’Europa è importante per l’Austria, ha detto, ma “serve un’Europa migliore”. Se, dopo la Brexit, Bruxelles opterà per un accentramento del potere, togliendone così agli Stati nazionali, allora un voto sulla Oexit è possibile.
Dall’altra parte della barricata c’è Alexander “Sascha” Van der Bellen, 72 anni, professore ed economista figlio di profughi benestanti fuggiti dalla Russia dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Un passato, quello dell’esponente dei Verdi e della sua famiglia, che lo allontana dalle posizioni del proprio avversario sul blocco agli immigrati. Una politica, quella delle porte aperte ai migranti, che paga il clima di insofferenza verso i profughi che ha colpito anche l’Austria, paese da 8,5 milioni di abitanti che ha registrato 100 mila arrivi nel solo 2015. Appoggiato da intellettuali, accademici e dall’ala europeista del Paese, Van der Bellen ha manifestato agli elettori la propria preoccupazione riguardo alla possibilità di una vittoria di Hofer. Un pericolo, a suo dire, per il futuro dell’Austria e la sua presenza nell’Unione Europea. Deve però fare i conti con un proletariato, soprattutto quello che vive nelle aree rurali del Paese, sfiduciato e che ha manifestato maggiori simpatie per il candidato nazionalista. Per questo ha strizzato l’occhio ai cattolici, appoggiando la presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche, e alle popolazioni delle province, dove ha partecipato a diverse feste popolari.
Austria, primo banco di prova per la destra nazionalista europea
Con gli Stati Uniti che hanno eletto uno dei candidati più populisti della loro storia, una Brexit che non fa più così paura come alla vigilia del referendum britannico e i gruppi xenofobi in ascesa in gran parte del continente, l’elezione del membro del Fpö potrebbe rappresentare il primo vero punto di rottura tra il passato dei partiti tradizionali e una nuova era in cui emergono vittoriosi i movimenti populisti e ultranazionalisti. Si tratterebbe della prima presidenza di questo tipo in Europa occidentale che aprirebbe a due nuovi scenari possibili. Primo, l’elezione di un presidente ultranazionalista potrebbe creare un effetto domino in vista delle elezioni del 2017 in Francia, dove Marine Le Pen sembra essere ancora in vantaggio nei sondaggi rispetto alla sinistra e al candidato repubblicano François Fillon, in Olanda, dove tra i principali candidati alla vittoria c’è l’euroscettico Geert Wilders, e in Germania, dove Angela Merkel dovrà guardarsi le spalle dall’ascesa di Frauke Petry e del suo partito di estrema destra Alternative für Deutschland. Secondo, la vittoria di Hofer potrebbe aprire alla Oexit. Il candidato di destra, anche per esigenze elettorali, ha ammorbidito la sua posizione sul referendum per uscire dall’Unione Europea, ma non lo ha mai escluso del tutto. Se l’Europa dovesse continuare con la sua politica accentratrice, Hofer spingerà gli austriaci alle urne.
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Ma non solo.
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Re: La crisi dell'Europa
Deve senz'altro esserci lo zampino di David Copperfield.
AMBARABA', CI CI, COCO', E LA SINISTRA NON C'E' PIU'
Politica
In Europa la sinistra è sparita: ormai è destra contro estrema destra
Nel 2017 si vota in Germania e in Francia dove ad essere favorite sono le formazioni della destra tradizionale. Che devono difendersi solo dai partiti anti-sistema. Mentre i movimenti progressisti sono ridotti a terza forza
di Gigi Riva
14 dicembre 2016
Magari fuori tempo massimo, ma in Europa la politica “tradizionale” si è rimessa in moto con febbrile fervore, spia del bisogno di immettere nel mercato un’offerta politica che possa risultare nuova. Lo fa per costrizione, nel timore di essere spazzata via da movimenti anti-sistema che, per il principio dei vasi comunicanti, credono di aver tratto altra spinta dall’esito del referendum italiano. Se gli sforzi saranno sufficienti per scongiurare un disastro nel consenso, se riusciranno o meno a non dare l’impressione che stanno cambiando tutto perché nulla cambi, giudicheranno i cittadini. In un 2017 che porta appuntamenti elettorali cruciali, soprattutto in due Paesi che sono il cardine del Continente, Francia e Germania.
Parigi va al voto per le presidenziali tra aprile e maggio; a seguire, le legislative. Tempi ancora lunghissimi, in politica. Eppure è già successo molto. A cominciare dall’inedito di un presidente in carica, François Hollande, talmente screditato (al 7,5 per cento di popolarità) da rinunciare persino alle primarie del suo partito, il socialista, nel timore di un’umiliazione da antologia. Incarna, Hollande, il fallimento rotondo e persino oltre i propri demeriti, di una sinistra non solo lontana dal proprio elettorato tradizionale sui temi economici (da tempo preferisce il protezionismo identitario del Front National di Marine Le Pen) ma a cui vengono imputate clamorose mancanze sul tema altrettanto fatale della sicurezza. In questo senso non per caso, e per paradosso, la postura dopo gli attentati di Parigi e Nizza ha segnato contemporaneamente il suo apice e il suo abisso: ottimo il decoro istituzionale, pessima la prevenzione del terrorismo.
Il suo abbandono dell’agone ha scatenato, per spirito di sopravvivenza dell’élite socialista, gli appetiti di outsider desiderosi di occupare il vuoto e speranzosi di aver nello zaino il bastone da maresciallo per scongiurare almeno il peggio: cioè un ballottaggio per l’Eliseo tra destra ed estrema destra. Successe già nel 2002 e fu un’assoluta sorpresa, ricapitasse 15 anni dopo sarebbe la conferma di una sinistra diventata residuale.
Il giovane ambizioso Emmanuel Macron, 39 anni da compiere il 21 dicembre, ex ministro dell’Economia e per la verità da anni nemmeno iscritto al partito, è stato il primo a smarcarsi per tentare l’avventura solitaria col movimento “En Marche!”. L’impresa che si è prefisso non è mai riuscita a nessuno in Francia: far trionfare il centro in un Paese tradizionalmente bipolare, mai uscito dall’alternanza destra-sinistra.
Quanto si propone anche, seppur protetto eventualmente dall’apparato socialista, l’ex primo ministro Manuel Valls, 54 anni, fresco di dimissioni per giocarsi l’avventura delle primarie il 22 e 29 gennaio prossimi. Ha il problema, non secondario, di far dimenticare se stesso, ossia le sue responsabilità in quanto massimo rappresentante di un esecutivo screditato e abbandonato soprattutto dai giovani a causa della “Loi travail”, sorta di Jobs Act alla Renzi in salsa parigina. I suoi primi discorsi da aspirante dell’Eliseo si segnalano per moderazione e per toni concilianti non proprio in linea col carattere fumantino. Avrà come avversario principale il coetaneo Arnaud Montebourg, già portavoce della sfortunata campagna di Ségolène Royal nel 2007 e già ministro dell’economia, iscritto tra i “frondeur”, l’ala sinistra socialista critica del binomio ormai scisso Hollande-Valls, oltre a una miriade di minori che testimoniano la confusione di un partito dilaniato. E incalzato dalla sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, 65 anni, il tribuno avviato a una gloriosa sconfitta essendo accreditato del 12 per cento.
Chiunque vinca, l’operazione cosmetica della sinistra rischia di essere meno efficace di quella di una destra che ha osato l’inosabile, in un Paese affezionato al welfare almeno quanto l’Italia. Alle primarie di intensa e clamorosa partecipazione (più di 4 milioni) il popolo dei Républicains ha bruciato il vecchio campione e cavallo di ritorno Nicolas Sarkozy, il superfavorito e rassicurante Alain Juppé, per affidarsi al terzo incomodo François Fillon, non un principiante, 62 anni, ex primo ministro di Sarko, thatcheriano ortodosso (una bestemmia, a Parigi), amico personale di Vladimir Putin, non scandalizzato dall’elezione di Donald Trump, favorevole a un’intesa Stati Uniti-Russia, magari con lui a fare da garante. Soprattutto cattolico estremo con venature vandeane, capace di lisciare il pelo a quella Francia profonda e campagnola, in modo non dissimile da Marine Le Pen. Dalle posizioni della quale, in tema di immigrazione e identità, non è poi così distante.
Marine, appunto. L’ombra della quale incombe e permea ogni scelta. Uno spauracchio che sarà depotenziato solo con la solita alleanza spuria di tutti contro di lei al ballottaggio per l’Eliseo. Per quel che valgono, ormai, le previsioni sono: Fillon presidente. E conseguente riduzione delle protezioni dei più deboli. Perché il suo desiderio di massacrare lo Stato sociale si scontrerà con la necessità di governare senza esacerbare il conflitto sociale.
La Francia sarà l’appuntamento attorno a cui ruota il resto. E influenzerà le consultazioni d’autunno in Germania. Dove i correttivi per scongiurare l’ascesa dei populisti di “Alternative für Deutschland”, dati in doppia cifra, sono già in atto. I tedeschi non lasciano nulla al caso. L’apertura delle frontiere ai profughi siriani dell’anno scorso da parte di Angela Merkel è costata a lei stessa e al suo governo un calo di consensi, non drastico ma significativo. E allora il suo partito, la Cdu, è corsa al riparo, riconfermandola certo nella scalata alla cancelleria (e sarebbe la quarta volta) però vincolandola a una revisione delle politiche di accoglienza che hanno gonfiato le vele dei gruppi estremisti persino nel Paese delle strepitose performance in economia, però scosso da alcuni attentati di matrice islamista. I socialdemocratici non hanno ancora scelto.
Le dimissioni dalla presidenza del Parlamento europeo di Martin Schulz, noto in Italia per lo scontro con Silvio Berlusconi che gli diede del kapò, sono l’indizio della sua volontà di impegnarsi in patria per ridare linfa alla Spd e tentare un’alternativa all’inossidabile Angela. Previsioni: come già nella legislatura in atto, Cdu e Spd saranno costretti ad andare a braccetto in un’altra edizione della “grosse koalition”, conseguenza del meccanismo elettorale proporzionale. E stavolta anche baluardo di difesa contro le formazioni antisistema.
Se questi pronostici sono esatti, in Germania e in Francia scatterebbe, seppur con modalità e numeri diversi, una “conventio ad excludendum” per tenere i populisti fuori dalle stanze del potere. E i partiti tradizionali si giocherebbero un’ulteriore chance per dimostrare che la loro è reale volontà di cambiamento, non solo tattica per l’autoconservazione. Una chance, forse l’ultima. Se falliscono, l’onda che spazza l’occidente, li travolgerà.
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AMBARABA', CI CI, COCO', E LA SINISTRA NON C'E' PIU'
Politica
In Europa la sinistra è sparita: ormai è destra contro estrema destra
Nel 2017 si vota in Germania e in Francia dove ad essere favorite sono le formazioni della destra tradizionale. Che devono difendersi solo dai partiti anti-sistema. Mentre i movimenti progressisti sono ridotti a terza forza
di Gigi Riva
14 dicembre 2016
Magari fuori tempo massimo, ma in Europa la politica “tradizionale” si è rimessa in moto con febbrile fervore, spia del bisogno di immettere nel mercato un’offerta politica che possa risultare nuova. Lo fa per costrizione, nel timore di essere spazzata via da movimenti anti-sistema che, per il principio dei vasi comunicanti, credono di aver tratto altra spinta dall’esito del referendum italiano. Se gli sforzi saranno sufficienti per scongiurare un disastro nel consenso, se riusciranno o meno a non dare l’impressione che stanno cambiando tutto perché nulla cambi, giudicheranno i cittadini. In un 2017 che porta appuntamenti elettorali cruciali, soprattutto in due Paesi che sono il cardine del Continente, Francia e Germania.
Parigi va al voto per le presidenziali tra aprile e maggio; a seguire, le legislative. Tempi ancora lunghissimi, in politica. Eppure è già successo molto. A cominciare dall’inedito di un presidente in carica, François Hollande, talmente screditato (al 7,5 per cento di popolarità) da rinunciare persino alle primarie del suo partito, il socialista, nel timore di un’umiliazione da antologia. Incarna, Hollande, il fallimento rotondo e persino oltre i propri demeriti, di una sinistra non solo lontana dal proprio elettorato tradizionale sui temi economici (da tempo preferisce il protezionismo identitario del Front National di Marine Le Pen) ma a cui vengono imputate clamorose mancanze sul tema altrettanto fatale della sicurezza. In questo senso non per caso, e per paradosso, la postura dopo gli attentati di Parigi e Nizza ha segnato contemporaneamente il suo apice e il suo abisso: ottimo il decoro istituzionale, pessima la prevenzione del terrorismo.
Il suo abbandono dell’agone ha scatenato, per spirito di sopravvivenza dell’élite socialista, gli appetiti di outsider desiderosi di occupare il vuoto e speranzosi di aver nello zaino il bastone da maresciallo per scongiurare almeno il peggio: cioè un ballottaggio per l’Eliseo tra destra ed estrema destra. Successe già nel 2002 e fu un’assoluta sorpresa, ricapitasse 15 anni dopo sarebbe la conferma di una sinistra diventata residuale.
Il giovane ambizioso Emmanuel Macron, 39 anni da compiere il 21 dicembre, ex ministro dell’Economia e per la verità da anni nemmeno iscritto al partito, è stato il primo a smarcarsi per tentare l’avventura solitaria col movimento “En Marche!”. L’impresa che si è prefisso non è mai riuscita a nessuno in Francia: far trionfare il centro in un Paese tradizionalmente bipolare, mai uscito dall’alternanza destra-sinistra.
Quanto si propone anche, seppur protetto eventualmente dall’apparato socialista, l’ex primo ministro Manuel Valls, 54 anni, fresco di dimissioni per giocarsi l’avventura delle primarie il 22 e 29 gennaio prossimi. Ha il problema, non secondario, di far dimenticare se stesso, ossia le sue responsabilità in quanto massimo rappresentante di un esecutivo screditato e abbandonato soprattutto dai giovani a causa della “Loi travail”, sorta di Jobs Act alla Renzi in salsa parigina. I suoi primi discorsi da aspirante dell’Eliseo si segnalano per moderazione e per toni concilianti non proprio in linea col carattere fumantino. Avrà come avversario principale il coetaneo Arnaud Montebourg, già portavoce della sfortunata campagna di Ségolène Royal nel 2007 e già ministro dell’economia, iscritto tra i “frondeur”, l’ala sinistra socialista critica del binomio ormai scisso Hollande-Valls, oltre a una miriade di minori che testimoniano la confusione di un partito dilaniato. E incalzato dalla sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, 65 anni, il tribuno avviato a una gloriosa sconfitta essendo accreditato del 12 per cento.
Chiunque vinca, l’operazione cosmetica della sinistra rischia di essere meno efficace di quella di una destra che ha osato l’inosabile, in un Paese affezionato al welfare almeno quanto l’Italia. Alle primarie di intensa e clamorosa partecipazione (più di 4 milioni) il popolo dei Républicains ha bruciato il vecchio campione e cavallo di ritorno Nicolas Sarkozy, il superfavorito e rassicurante Alain Juppé, per affidarsi al terzo incomodo François Fillon, non un principiante, 62 anni, ex primo ministro di Sarko, thatcheriano ortodosso (una bestemmia, a Parigi), amico personale di Vladimir Putin, non scandalizzato dall’elezione di Donald Trump, favorevole a un’intesa Stati Uniti-Russia, magari con lui a fare da garante. Soprattutto cattolico estremo con venature vandeane, capace di lisciare il pelo a quella Francia profonda e campagnola, in modo non dissimile da Marine Le Pen. Dalle posizioni della quale, in tema di immigrazione e identità, non è poi così distante.
Marine, appunto. L’ombra della quale incombe e permea ogni scelta. Uno spauracchio che sarà depotenziato solo con la solita alleanza spuria di tutti contro di lei al ballottaggio per l’Eliseo. Per quel che valgono, ormai, le previsioni sono: Fillon presidente. E conseguente riduzione delle protezioni dei più deboli. Perché il suo desiderio di massacrare lo Stato sociale si scontrerà con la necessità di governare senza esacerbare il conflitto sociale.
La Francia sarà l’appuntamento attorno a cui ruota il resto. E influenzerà le consultazioni d’autunno in Germania. Dove i correttivi per scongiurare l’ascesa dei populisti di “Alternative für Deutschland”, dati in doppia cifra, sono già in atto. I tedeschi non lasciano nulla al caso. L’apertura delle frontiere ai profughi siriani dell’anno scorso da parte di Angela Merkel è costata a lei stessa e al suo governo un calo di consensi, non drastico ma significativo. E allora il suo partito, la Cdu, è corsa al riparo, riconfermandola certo nella scalata alla cancelleria (e sarebbe la quarta volta) però vincolandola a una revisione delle politiche di accoglienza che hanno gonfiato le vele dei gruppi estremisti persino nel Paese delle strepitose performance in economia, però scosso da alcuni attentati di matrice islamista. I socialdemocratici non hanno ancora scelto.
Le dimissioni dalla presidenza del Parlamento europeo di Martin Schulz, noto in Italia per lo scontro con Silvio Berlusconi che gli diede del kapò, sono l’indizio della sua volontà di impegnarsi in patria per ridare linfa alla Spd e tentare un’alternativa all’inossidabile Angela. Previsioni: come già nella legislatura in atto, Cdu e Spd saranno costretti ad andare a braccetto in un’altra edizione della “grosse koalition”, conseguenza del meccanismo elettorale proporzionale. E stavolta anche baluardo di difesa contro le formazioni antisistema.
Se questi pronostici sono esatti, in Germania e in Francia scatterebbe, seppur con modalità e numeri diversi, una “conventio ad excludendum” per tenere i populisti fuori dalle stanze del potere. E i partiti tradizionali si giocherebbero un’ulteriore chance per dimostrare che la loro è reale volontà di cambiamento, non solo tattica per l’autoconservazione. Una chance, forse l’ultima. Se falliscono, l’onda che spazza l’occidente, li travolgerà.
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Re: La crisi dell'Europa
ALLACCIATE LE CINTURE DI SICUREZZA.
PRIMA DI LEGGERE QUESTO ARTICOLO, SEDETEVI SU DI UNA SEDIA.
MA ASSICURATEVI CHE LE GAMBE DELLA SEDIA SIANO SOLIDE
Prodi: “L’Europa ormai non conta più niente
L’Ue non esiste, gli Stati hanno ripreso il potere”
L’ex presidente della Commissione europea e fondatore dell’euro: “L’idea di un’Italia sola è terribile
La Germania? Forte, ma la leadership è un’altra cosa. E le sanzioni alla Russia hanno rafforzato Putin”
Zonaeuro
“L’Europa non conta più nulla”. A dirlo in un’intervista esclusiva a San Martino Rtv è stato l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. “La Commissione”, ha detto, “che rappresenta l’aspetto collegiale dell’Europa unita, non esiste più, perché gli stati hanno ripreso il potere non capendo che la Storia avrebbe fatto il suo cammino”. Il colloquio andrà in onda questa sera, ma l’emittente ha deciso di trasmetterne un’anticipazione. “Nel mondo globalizzato di oggi l’idea di un’Italia sola è una cosa terribile”, ha aggiunto
di F. Q.
^^^^^^^
IlFattoQuotidiano.it / Zonaeuro
Ue, Prodi: “L’Europa non conta più nulla. L’idea di un’Italia sola è una cosa terribile”
Zonaeuro
L'ex presidente del Consiglio in un'intervista esclusiva a San Marino Rtv (in onda il 15 dicembre alle 20.40) ha parlato di falle e debolezze del sistema comunitario. Uno dei padri della moneta unica ha attaccato la Germania: "Leadership è rendersi conto dei problemi degli altri". E sulla Russia ha aggiunto: "Le sanzioni hanno rafforzato Putin"
di F. Q. | 15 dicembre 2016
commenti ()
“L’Europa non conta più nulla”. A dirlo in un’intervista esclusiva all’emittente San Martino Rtv è stato Romano Prodi, uno dei padri dell’Euro e tra i difensori più strenui dell’Unione europea. Secondo l’ex presidente del Consiglio il progetto comunitario è fallito per colpa dei singoli stati. “La Commissione”, ha detto, “che rappresenta l’aspetto collegiale dell’Europa unita, non esiste più, perché gli stati hanno ripreso il potere non capendo che la Storia avrebbe fatto il suo cammino”. Nell’intervista che andrà in onda questa sera alle 20.40, Prodi ha anche espresso le sue preoccupazioni sull’eventuale isolamento dell’Italia: “Il nostro Paese”, ha detto, “ha la necessità di recuperare la sua identità, e una coesione con l’Europa. Nel mondo globalizzato di oggi l’idea di un’Italia sola è una cosa terribile”. Il professore ha anche attaccato la Germania, evidenziando le responsabilità di chi vuole guidare l’Ue: “La Germania, per i suoi meriti, è il Paese più forte d’Europa però la leadership è un’altra cosa, è rendersi conto dei problemi degli altri, dei problemi collettivi e questo i tedeschi non lo sanno fare”.
Prodi ha quindi ripercorso un anno di politica internazionale soffermandosi sugli scenari possibili per il nuovo anno. Secondo Prodi: “Siamo in un mondo multipolare e le sanzioni hanno rafforzato Putin perché si è colpita ‘Madre Russia’. Putin è cambiato radicalmente con la guerra in Iraq”. Per quanto riguarda invece i rapporti tra Italia e Cina ha commentato: “La Cina ci rimette in gioco, con la possibilità di rilanciare il Mediterraneo come centro dei commerci. Stanno spostandosi dall’esportazione ai consumi, si deve fare in fretta con la Cina, stanno diventando un impero. La Cina è qualitativamente diversa dagli Stati Uniti, che sono pieni di risorse all’interno: il Paese asiatico ha il 20 per cento della popolazione mondiale e il 7% delle terre coltivate, ha bisogno di comprare energia, materie prime e cibo”.
di F. Q. | 15 dicembre 2016
PRIMA DI LEGGERE QUESTO ARTICOLO, SEDETEVI SU DI UNA SEDIA.
MA ASSICURATEVI CHE LE GAMBE DELLA SEDIA SIANO SOLIDE
Prodi: “L’Europa ormai non conta più niente
L’Ue non esiste, gli Stati hanno ripreso il potere”
L’ex presidente della Commissione europea e fondatore dell’euro: “L’idea di un’Italia sola è terribile
La Germania? Forte, ma la leadership è un’altra cosa. E le sanzioni alla Russia hanno rafforzato Putin”
Zonaeuro
“L’Europa non conta più nulla”. A dirlo in un’intervista esclusiva a San Martino Rtv è stato l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. “La Commissione”, ha detto, “che rappresenta l’aspetto collegiale dell’Europa unita, non esiste più, perché gli stati hanno ripreso il potere non capendo che la Storia avrebbe fatto il suo cammino”. Il colloquio andrà in onda questa sera, ma l’emittente ha deciso di trasmetterne un’anticipazione. “Nel mondo globalizzato di oggi l’idea di un’Italia sola è una cosa terribile”, ha aggiunto
di F. Q.
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Ue, Prodi: “L’Europa non conta più nulla. L’idea di un’Italia sola è una cosa terribile”
Zonaeuro
L'ex presidente del Consiglio in un'intervista esclusiva a San Marino Rtv (in onda il 15 dicembre alle 20.40) ha parlato di falle e debolezze del sistema comunitario. Uno dei padri della moneta unica ha attaccato la Germania: "Leadership è rendersi conto dei problemi degli altri". E sulla Russia ha aggiunto: "Le sanzioni hanno rafforzato Putin"
di F. Q. | 15 dicembre 2016
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“L’Europa non conta più nulla”. A dirlo in un’intervista esclusiva all’emittente San Martino Rtv è stato Romano Prodi, uno dei padri dell’Euro e tra i difensori più strenui dell’Unione europea. Secondo l’ex presidente del Consiglio il progetto comunitario è fallito per colpa dei singoli stati. “La Commissione”, ha detto, “che rappresenta l’aspetto collegiale dell’Europa unita, non esiste più, perché gli stati hanno ripreso il potere non capendo che la Storia avrebbe fatto il suo cammino”. Nell’intervista che andrà in onda questa sera alle 20.40, Prodi ha anche espresso le sue preoccupazioni sull’eventuale isolamento dell’Italia: “Il nostro Paese”, ha detto, “ha la necessità di recuperare la sua identità, e una coesione con l’Europa. Nel mondo globalizzato di oggi l’idea di un’Italia sola è una cosa terribile”. Il professore ha anche attaccato la Germania, evidenziando le responsabilità di chi vuole guidare l’Ue: “La Germania, per i suoi meriti, è il Paese più forte d’Europa però la leadership è un’altra cosa, è rendersi conto dei problemi degli altri, dei problemi collettivi e questo i tedeschi non lo sanno fare”.
Prodi ha quindi ripercorso un anno di politica internazionale soffermandosi sugli scenari possibili per il nuovo anno. Secondo Prodi: “Siamo in un mondo multipolare e le sanzioni hanno rafforzato Putin perché si è colpita ‘Madre Russia’. Putin è cambiato radicalmente con la guerra in Iraq”. Per quanto riguarda invece i rapporti tra Italia e Cina ha commentato: “La Cina ci rimette in gioco, con la possibilità di rilanciare il Mediterraneo come centro dei commerci. Stanno spostandosi dall’esportazione ai consumi, si deve fare in fretta con la Cina, stanno diventando un impero. La Cina è qualitativamente diversa dagli Stati Uniti, che sono pieni di risorse all’interno: il Paese asiatico ha il 20 per cento della popolazione mondiale e il 7% delle terre coltivate, ha bisogno di comprare energia, materie prime e cibo”.
di F. Q. | 15 dicembre 2016
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Re: La crisi dell'Europa
LIBRE news
Avevamo Olof Palme, poi sull’Europa hanno spento la luce
Scritto il 23/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Nessuno sceglie, nessuno parla, nessuno denuncia. Nessuno decide: come se non fosse tempo di determinazioni importanti. Ciascuno, nel frattempo, gioca la sua partita, nelle retrovie, lontanissimo dal match decisivo. Gentiloni, Renzi, Grillo e tutti gli altri. Capitani e comparse, chi è di scena? Di chi è il turno? Beppe Sala? Virginia Raggi? I padri nobili del referendum che doveva salvare l’Italia o affossarla? Dopo esser riuscito solo in parte a esaudire i desideri del grande potere, fingendo di risollevare le sorti del paese, il piazzista Renzi prova a stilare il calendario del suo glorioso ritorno – ma senza smettere di scherzare, senza nemmeno provare a mettersi dalla parte giusta, quella degli italiani stritolati dalla morsa dell’oligarchia che ha affidato l’Europa (e l’Italia in paticolare) alle amorevoli cure della Bce e dalla Commissione Europea. Al governo non ci sono politici: c’è il Fiscal Compact, c’è il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione da Mario Monti con il voto bipartisan di Berlusconi e del silente Bersani, l’uomo secondo cui, misteriosamente, il Pd sarebbe qualcosa di diverso dal supremo potere cui obbedisce la nomenklatura di Bruxelles che taglia sovranità e democrazia, rottama e privatizza gli Stati, riduce i cittadini a sudditi.
Gli italiani votano No al referendum, e prontamente viene sistemato a Palazzo Chigi l’ectoplasma del governo appena battuto, inutilmente bocciato dagli elettori. Nel frattempo un calendario provvidenziale scatena le tempestive bufere giudiziarie che scuotono le due città più importanti, dirompenti e chiassose, quasi come gli attentati dinamitardi che insanguinano la tenebrosa Turchia di Erdogan, sponsor Nato dell’Isis, o le bombe russe e siriane cadute su Aleppo, dove giornali e televisioni scoprono che una guerra devastante si è trasformata in un martirio di popolazioni, ma si guardano bene dal ricordare al pubblico chi l’ha iniziata, quella guerra, chi l’ha finanziata e armata, chi – dalla Casa Bianca – l’ha protetta con la menzogna quotidiana, con l’intelligence e i missili, con la disinformazione più cieca. L’Italia (governo) ha tifato per Hillary e Obama, ha fatto la òla per il Ttip, ha approvato le sanzioni alla Russia, ha belato ininterrottamente a Bruxelles, ha lasciato che la Germania macellasse la Grecia. E alla fine ha provato persino a recitare il copione della diversità, invocando – ma solo per finta, per scherzo – un allenamento dell’austerity, cioè della norma fisiologica adottata dal regime Ue per depotenziare l’Europa, riducendola a comparsa internazionale, nel momento in cui – caduto il Muro di Berlino – poteva finalmente giocare la protagonista.
Il peccato originale? Fu commesso trent’anni fa, il 1° marzo 1986, con l’assassinio di Olof Palme in Svezia. Lo scrive Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Nella sua ricostruzione, Palme fu ucciso da un complotto rimasto oscuro, del quale però alcune tracce – anche scritte – portano a un certo Licio Gelli e al suo “principale”, il politologo americano Michael Ledeen, ancora in circolazione e più che mai influente, anche nel retrobottega del governo Renzi. Olof Palme, leader socialdemocratico, era il padre del moderno welfare europeo, il massimo profeta della filosofia politica dell’interesse pubblico, la promozione del benessere diffuso, l’estensione dei diritti, la democrazia avanzata in cui si coniugano libertà e socialismo, lavoro e dignità, pari opportunità per tutti. Era il prototipo, Olof Palme, di un’Europa diversa: un’Europa amica, autorevole, giusta. Un’Europa che non abbiamo mai visto, che mai avrebbe sprofondato gli Stati nella catastrofe della crisi, lasciandoli in balìa di incursoni e predoni, con mano libera nei palazzi del potere locale grazie a una piccola casta di governatori asserviti, di vassalli obbedienti, di mediocri traditori travestiti da algidi burocrati o, all’occorrenza, da sulfurei masanielli dal roboante eloquio (ma dall’innocuo agire). L’infima Italia del 2016, il paese dove nessuno propone vere vie d’uscita, sembra la fotografia perfetta di questa Europa pericolosamente in avaria.
Avevamo Olof Palme, poi sull’Europa hanno spento la luce
Scritto il 23/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Nessuno sceglie, nessuno parla, nessuno denuncia. Nessuno decide: come se non fosse tempo di determinazioni importanti. Ciascuno, nel frattempo, gioca la sua partita, nelle retrovie, lontanissimo dal match decisivo. Gentiloni, Renzi, Grillo e tutti gli altri. Capitani e comparse, chi è di scena? Di chi è il turno? Beppe Sala? Virginia Raggi? I padri nobili del referendum che doveva salvare l’Italia o affossarla? Dopo esser riuscito solo in parte a esaudire i desideri del grande potere, fingendo di risollevare le sorti del paese, il piazzista Renzi prova a stilare il calendario del suo glorioso ritorno – ma senza smettere di scherzare, senza nemmeno provare a mettersi dalla parte giusta, quella degli italiani stritolati dalla morsa dell’oligarchia che ha affidato l’Europa (e l’Italia in paticolare) alle amorevoli cure della Bce e dalla Commissione Europea. Al governo non ci sono politici: c’è il Fiscal Compact, c’è il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione da Mario Monti con il voto bipartisan di Berlusconi e del silente Bersani, l’uomo secondo cui, misteriosamente, il Pd sarebbe qualcosa di diverso dal supremo potere cui obbedisce la nomenklatura di Bruxelles che taglia sovranità e democrazia, rottama e privatizza gli Stati, riduce i cittadini a sudditi.
Gli italiani votano No al referendum, e prontamente viene sistemato a Palazzo Chigi l’ectoplasma del governo appena battuto, inutilmente bocciato dagli elettori. Nel frattempo un calendario provvidenziale scatena le tempestive bufere giudiziarie che scuotono le due città più importanti, dirompenti e chiassose, quasi come gli attentati dinamitardi che insanguinano la tenebrosa Turchia di Erdogan, sponsor Nato dell’Isis, o le bombe russe e siriane cadute su Aleppo, dove giornali e televisioni scoprono che una guerra devastante si è trasformata in un martirio di popolazioni, ma si guardano bene dal ricordare al pubblico chi l’ha iniziata, quella guerra, chi l’ha finanziata e armata, chi – dalla Casa Bianca – l’ha protetta con la menzogna quotidiana, con l’intelligence e i missili, con la disinformazione più cieca. L’Italia (governo) ha tifato per Hillary e Obama, ha fatto la òla per il Ttip, ha approvato le sanzioni alla Russia, ha belato ininterrottamente a Bruxelles, ha lasciato che la Germania macellasse la Grecia. E alla fine ha provato persino a recitare il copione della diversità, invocando – ma solo per finta, per scherzo – un allenamento dell’austerity, cioè della norma fisiologica adottata dal regime Ue per depotenziare l’Europa, riducendola a comparsa internazionale, nel momento in cui – caduto il Muro di Berlino – poteva finalmente giocare la protagonista.
Il peccato originale? Fu commesso trent’anni fa, il 1° marzo 1986, con l’assassinio di Olof Palme in Svezia. Lo scrive Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Nella sua ricostruzione, Palme fu ucciso da un complotto rimasto oscuro, del quale però alcune tracce – anche scritte – portano a un certo Licio Gelli e al suo “principale”, il politologo americano Michael Ledeen, ancora in circolazione e più che mai influente, anche nel retrobottega del governo Renzi. Olof Palme, leader socialdemocratico, era il padre del moderno welfare europeo, il massimo profeta della filosofia politica dell’interesse pubblico, la promozione del benessere diffuso, l’estensione dei diritti, la democrazia avanzata in cui si coniugano libertà e socialismo, lavoro e dignità, pari opportunità per tutti. Era il prototipo, Olof Palme, di un’Europa diversa: un’Europa amica, autorevole, giusta. Un’Europa che non abbiamo mai visto, che mai avrebbe sprofondato gli Stati nella catastrofe della crisi, lasciandoli in balìa di incursoni e predoni, con mano libera nei palazzi del potere locale grazie a una piccola casta di governatori asserviti, di vassalli obbedienti, di mediocri traditori travestiti da algidi burocrati o, all’occorrenza, da sulfurei masanielli dal roboante eloquio (ma dall’innocuo agire). L’infima Italia del 2016, il paese dove nessuno propone vere vie d’uscita, sembra la fotografia perfetta di questa Europa pericolosamente in avaria.
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Re: La crisi dell'Europa
ANALISI
Europa a destra, Francia Nera
Fabbriche chiuse. Giovani senza futuro. Così i socialisti hanno tradito le promesse. Aprendo le porte a Marine Le Pen
DI FEDERICA BIANCHI
22 dicembre 2016
http://espresso.repubblica.it/plus/arti ... eview=true
Europa a destra, Francia Nera
Fabbriche chiuse. Giovani senza futuro. Così i socialisti hanno tradito le promesse. Aprendo le porte a Marine Le Pen
DI FEDERICA BIANCHI
22 dicembre 2016
http://espresso.repubblica.it/plus/arti ... eview=true
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Re: La crisi dell'Europa
Da La Stampa del 5 gennaio 2017.
Schulz: troppi egoismi
I governi pensano
solo agli interessi nazionali
L’ex presidente tedesco dell’Europarlamento
“Ma noi chiediamoci perché la gente è infuriata
DANIEL BRÖSSLER - THOMAS KIRCHNER BERLINO
Da qualche settimana, Martin Schulz è tornato in patria. Lo storico leader socialista europeo, diventato presidente del Parlamento europeo, ha ora nel mirino un posto al Bundestag nelle prossime elezioni. E dalla sua posizione di osservatore privilegiato di vicende e umori europei, commenta lo stato dell’Unione.
A Bruxelles si è formata una cerchia molto sicura della Ue, che si è allontanata dai cittadini?
«Può essere. Forse mi protegge il fatto che vivo ancora qui, a Würselen, in un quartiere di lavoratori, dove sono stato sindaco per 11 anni. Prendere in considerazione soltanto Bruxelles può portare a pensare che la vita lì sia la realtà della gente in Europa».
C’è una tendenza alla ri-nazionalizzazione. C’è una contro-tendenza a Bruxelles?
«Nel Parlamento europeo girano un paio di sognatori, ma ci sono fondamentalmente tre gruppi: quello di chi guida un discorso accademico su “più Europa”, quello di chi fa un discorso brutalmente distruttivo, in mezzo, c’è la maggioranza dei politici realisti».
Il progetto europeo è in pericolo. Cosa è andato storto?
«La generazione Kohl-Mitterrand andava a Bruxelles con questa convinzione: un’Europa forte è nell’interesse del nostro Paese. La generazione Orbán dice: dobbiamo difendere gli interessi del nostro Paese dall’Europa. Negli anni, gli Stati nazionali hanno trasferito sempre più poteri a Bruxelles, ma la maggior parte dei governi non ha spiegato questo processo ai cittadini. I governi danno l’impressione di decidere ancora tutto loro. Gli stessi che votano a Bruxelles, una volta tornati nei loro Paesi, si comportano come se fossero stati costretti da un’entità anonima. Questo è mortale».
Sono stati compiuti passi falsi?
«È una domanda teorica. Viviamo con questi trattati. Possiamo disfarli senza grandi danni collaterali? Io chiedo da anni di restituire competenze agli Stati. Ma quello che rimarrà sul piano europeo deve comunque poter essere attuato dalla Ue. Per farlo, deve avere gli strumenti adatti. Per esempio, nella politica commerciale si vede che cosa comporta l’assenza di precise competenze. Vale lo stesso per la politica estera, o per le politiche di stabilizzazione dell’euro».
L’euro è stato un errore?
«È una moneta stabile. Sono le differenze economiche nella zona Euro che minacciano la valuta. Nonostante ciò, si parla di eliminare la moneta europea e non si parla delle disparità. Come disse Kohl: non si arriva all’Unione valutaria senza l’Unione politica».
L’unione politica non ci sarà. Ci si dovrebbe separare dall’euro?
«Vogliamo ritornare alle valute nazionali, come chiede Frau Le Pen? Oppure cerchiamo di porre rimedio al deficit dell’Unione politica? Ogni persona responsabile sa che i danni collaterali, nel caso di una reintroduzione delle valute nazionali, sarebbero sproporzionatamente più grandi».
Il malessere è grande soprattutto a Est. Che errori sono stati fatti nell’allargamento dell’Unione?
«Proviamo a immaginare la Polonia e i Paesi Baltici non nell’Unione, in considerazione dell’attuale politica della Russia. Adesso ci sarebbe insicurezza sul Continente e paura di conflitti bellici. È stato storicamente corretto allargare l’Unione anche a questi Paesi. Anche l’introduzione dell’euro è stata giusta. Sono sicuramente stati fatti errori, ma non si può fermare il flusso della Storia».
Marine Le Pen diventa presidente?
«Non credo che abbia chance. Dobbiamo piuttosto chiederci chi vota il Front National e perché lo fa. Da dove viene questa rabbia. In molti casi, sono anche persone benestanti, che hanno paura di un futuro incerto. Questa paura non si toglie semplicemente copiando parole e slogan irresponsabili».
Come allora?
«La costanza di Alexander Van der Bellen in Austria è un buon esempio. Ha ripetuto che cosa sarebbe successo se avesse vinto Norbert Hofer. Ha spinto su un messaggio positivo, tra l’altro pro-europeo».
* Traduzione di Sandra Riccio
Schulz: troppi egoismi
I governi pensano
solo agli interessi nazionali
L’ex presidente tedesco dell’Europarlamento
“Ma noi chiediamoci perché la gente è infuriata
DANIEL BRÖSSLER - THOMAS KIRCHNER BERLINO
Da qualche settimana, Martin Schulz è tornato in patria. Lo storico leader socialista europeo, diventato presidente del Parlamento europeo, ha ora nel mirino un posto al Bundestag nelle prossime elezioni. E dalla sua posizione di osservatore privilegiato di vicende e umori europei, commenta lo stato dell’Unione.
A Bruxelles si è formata una cerchia molto sicura della Ue, che si è allontanata dai cittadini?
«Può essere. Forse mi protegge il fatto che vivo ancora qui, a Würselen, in un quartiere di lavoratori, dove sono stato sindaco per 11 anni. Prendere in considerazione soltanto Bruxelles può portare a pensare che la vita lì sia la realtà della gente in Europa».
C’è una tendenza alla ri-nazionalizzazione. C’è una contro-tendenza a Bruxelles?
«Nel Parlamento europeo girano un paio di sognatori, ma ci sono fondamentalmente tre gruppi: quello di chi guida un discorso accademico su “più Europa”, quello di chi fa un discorso brutalmente distruttivo, in mezzo, c’è la maggioranza dei politici realisti».
Il progetto europeo è in pericolo. Cosa è andato storto?
«La generazione Kohl-Mitterrand andava a Bruxelles con questa convinzione: un’Europa forte è nell’interesse del nostro Paese. La generazione Orbán dice: dobbiamo difendere gli interessi del nostro Paese dall’Europa. Negli anni, gli Stati nazionali hanno trasferito sempre più poteri a Bruxelles, ma la maggior parte dei governi non ha spiegato questo processo ai cittadini. I governi danno l’impressione di decidere ancora tutto loro. Gli stessi che votano a Bruxelles, una volta tornati nei loro Paesi, si comportano come se fossero stati costretti da un’entità anonima. Questo è mortale».
Sono stati compiuti passi falsi?
«È una domanda teorica. Viviamo con questi trattati. Possiamo disfarli senza grandi danni collaterali? Io chiedo da anni di restituire competenze agli Stati. Ma quello che rimarrà sul piano europeo deve comunque poter essere attuato dalla Ue. Per farlo, deve avere gli strumenti adatti. Per esempio, nella politica commerciale si vede che cosa comporta l’assenza di precise competenze. Vale lo stesso per la politica estera, o per le politiche di stabilizzazione dell’euro».
L’euro è stato un errore?
«È una moneta stabile. Sono le differenze economiche nella zona Euro che minacciano la valuta. Nonostante ciò, si parla di eliminare la moneta europea e non si parla delle disparità. Come disse Kohl: non si arriva all’Unione valutaria senza l’Unione politica».
L’unione politica non ci sarà. Ci si dovrebbe separare dall’euro?
«Vogliamo ritornare alle valute nazionali, come chiede Frau Le Pen? Oppure cerchiamo di porre rimedio al deficit dell’Unione politica? Ogni persona responsabile sa che i danni collaterali, nel caso di una reintroduzione delle valute nazionali, sarebbero sproporzionatamente più grandi».
Il malessere è grande soprattutto a Est. Che errori sono stati fatti nell’allargamento dell’Unione?
«Proviamo a immaginare la Polonia e i Paesi Baltici non nell’Unione, in considerazione dell’attuale politica della Russia. Adesso ci sarebbe insicurezza sul Continente e paura di conflitti bellici. È stato storicamente corretto allargare l’Unione anche a questi Paesi. Anche l’introduzione dell’euro è stata giusta. Sono sicuramente stati fatti errori, ma non si può fermare il flusso della Storia».
Marine Le Pen diventa presidente?
«Non credo che abbia chance. Dobbiamo piuttosto chiederci chi vota il Front National e perché lo fa. Da dove viene questa rabbia. In molti casi, sono anche persone benestanti, che hanno paura di un futuro incerto. Questa paura non si toglie semplicemente copiando parole e slogan irresponsabili».
Come allora?
«La costanza di Alexander Van der Bellen in Austria è un buon esempio. Ha ripetuto che cosa sarebbe successo se avesse vinto Norbert Hofer. Ha spinto su un messaggio positivo, tra l’altro pro-europeo».
* Traduzione di Sandra Riccio
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Re: La crisi dell'Europa
Cacciari: la Ue ha fallito
Non ha saputo garantire
un nuovo equilibrio
Il filosofo critica la mancanza di leadership
“Non c’è un governo etico della globalizzazione
FRANCESCA PACI ROMA
Immigrazione, diseguaglianze economiche, dilaganti rigurgiti populisti. Per il filosofo ed ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, il presente può essere compreso solo alla luce del nuovo disordine globale. E anche così, un ordine alternativo capace di riequilibrare il futuro non è affatto garantito.
Sebbene le associazioni umanitarie ripetano che, al netto dell’aumento degli sbarchi ,non ci sono invasioni in corso, le paure si moltiplicano, alimentate anche da casi come Cona.
L’immigrazione catalizza tutte le crisi dell’uomo europeo?
«É ridicolo giudicare in termini quantitativi questo fenomeno, che per l’Europa, da sempre terra d’emigrazione, è una novità assoluta sul piano sociale, politico, economico e dunque, dal punto di vista della psicologia delle masse, è già di per sé inquietante. Ma soprattutto, si deve interpretare l’immigrazione come uno degli aspetti della crisi epocale in corso. La Storia procede per discontinuità. E noi, dalla fine degli Anni 80, stiamo attraversando un periodo cosiddetto “assiale”, che separa l’ordine anche simbolico della Guerra fredda dal disordine globale. L’immigrazione non è un fenomeno a sé, siamo in un cambio di epoca per il quale serve un nuovo equilibrio di alleanze politiche, l’ordine precedente è saltato. Il progetto europeo avrebbe potuto assicurare quell’equilibrio, ma per ora è fallito».
Tra le manifestazioni di questo periodo “assiale” ci sono anche la crisi economica prolungata, gli oltre 3 milioni di italiani a rischio di povertà, l’impellenza di introdurre un reddito d’inclusione?
«Le radici delle diseguaglianze economiche affondano più lontano, risalgono agli Anni 70, al crollo delle politiche socialdemocratiche di welfare, alla crisi fiscale dello Stato, alla Thatcher, a Reagan, alla speculazione finanziaria, alla vittoria di una concezione del mondo da cui ci avevano messo in guardia i Krugman, ma rispetto alla quale nessuno è riuscito a porre un freno, né Blair, né Clinton, né le tante anime belle convinte del potenziale salvifico della “open society”, dell’Onu, del regno della libertà, che avrebbe dovuto d’incanto soppiantare la Guerra fredda. Da quel momento in poi, le diseguaglianze sono andate accentuandosi sempre di più, ma pare che lo si scopra solo ora».
È l’epilogo del brand globalizzazione?
«Assolutamente no, la globalizzazione non è mai stata più in salute di oggi: impera. A essere in crisi sono i suoi effetti, è fallito il governo politico ed etico della globalizzazione, sono mancati i vincoli».
Il villaggio globale sarà sgretolato da nuovi confini, muri, tentazioni tribali?
«Tutte queste sono reazioni psicologiche comprensibili, ma infantili. È normale che le persone abbiano paura: va tenuto conto di loro, dei fan dei muri o dell’ignoranza popolare, ma come si fa con un bambino che teme il buio. Perché
poi bisognerebbe spiegare che la globalizzazione è inarrestabile, e il passato non tornerà. Chi lo fa oggi? Fallito l’ordine della Guerra fredda, chi sono i nuovi soggetti politici? Non gli Stati Uniti, come ha provato Obama. La Russia? Ne dubito. La Cina? Spero di no. Urgono strategie sul destino del mondo globale».
Altrimenti? Crede possibile una guerra?
«Se si accentuano le ragioni di contraddizione e le diseguaglianze, se in assenza di un nuovo ordine crescono i conflitti tra le potenze, può scoppiare una terza guerra mondiale anche se nessuno la vuole».
Che tipo di risposta vede nei nuovi populismi, politicamente trasversali ?
«Una risposta infantile. Capisco chi ha paura, ma disprezzo profondamente chi cavalca questa paura».
Dove ha sbagliato l’Europa?
«Si sperava che potesse mantenere le politiche sociali e affermare un modello di democrazia non formale. Non ha avuto leadership adeguate al compito. Sono stati commessi errori in buona fede, dettati dall’impazienza: penso all’ingenuità di credere che alla moneta unica sarebbero seguite una politica sociale e fiscale unica. Ma ci sono stati anche molti errori pessimi, come seguire gli Stati Uniti nella scellerata politica estera degli anni di Bush o il post primavere arabe».
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Non ha saputo garantire
un nuovo equilibrio
Il filosofo critica la mancanza di leadership
“Non c’è un governo etico della globalizzazione
FRANCESCA PACI ROMA
Immigrazione, diseguaglianze economiche, dilaganti rigurgiti populisti. Per il filosofo ed ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, il presente può essere compreso solo alla luce del nuovo disordine globale. E anche così, un ordine alternativo capace di riequilibrare il futuro non è affatto garantito.
Sebbene le associazioni umanitarie ripetano che, al netto dell’aumento degli sbarchi ,non ci sono invasioni in corso, le paure si moltiplicano, alimentate anche da casi come Cona.
L’immigrazione catalizza tutte le crisi dell’uomo europeo?
«É ridicolo giudicare in termini quantitativi questo fenomeno, che per l’Europa, da sempre terra d’emigrazione, è una novità assoluta sul piano sociale, politico, economico e dunque, dal punto di vista della psicologia delle masse, è già di per sé inquietante. Ma soprattutto, si deve interpretare l’immigrazione come uno degli aspetti della crisi epocale in corso. La Storia procede per discontinuità. E noi, dalla fine degli Anni 80, stiamo attraversando un periodo cosiddetto “assiale”, che separa l’ordine anche simbolico della Guerra fredda dal disordine globale. L’immigrazione non è un fenomeno a sé, siamo in un cambio di epoca per il quale serve un nuovo equilibrio di alleanze politiche, l’ordine precedente è saltato. Il progetto europeo avrebbe potuto assicurare quell’equilibrio, ma per ora è fallito».
Tra le manifestazioni di questo periodo “assiale” ci sono anche la crisi economica prolungata, gli oltre 3 milioni di italiani a rischio di povertà, l’impellenza di introdurre un reddito d’inclusione?
«Le radici delle diseguaglianze economiche affondano più lontano, risalgono agli Anni 70, al crollo delle politiche socialdemocratiche di welfare, alla crisi fiscale dello Stato, alla Thatcher, a Reagan, alla speculazione finanziaria, alla vittoria di una concezione del mondo da cui ci avevano messo in guardia i Krugman, ma rispetto alla quale nessuno è riuscito a porre un freno, né Blair, né Clinton, né le tante anime belle convinte del potenziale salvifico della “open society”, dell’Onu, del regno della libertà, che avrebbe dovuto d’incanto soppiantare la Guerra fredda. Da quel momento in poi, le diseguaglianze sono andate accentuandosi sempre di più, ma pare che lo si scopra solo ora».
È l’epilogo del brand globalizzazione?
«Assolutamente no, la globalizzazione non è mai stata più in salute di oggi: impera. A essere in crisi sono i suoi effetti, è fallito il governo politico ed etico della globalizzazione, sono mancati i vincoli».
Il villaggio globale sarà sgretolato da nuovi confini, muri, tentazioni tribali?
«Tutte queste sono reazioni psicologiche comprensibili, ma infantili. È normale che le persone abbiano paura: va tenuto conto di loro, dei fan dei muri o dell’ignoranza popolare, ma come si fa con un bambino che teme il buio. Perché
poi bisognerebbe spiegare che la globalizzazione è inarrestabile, e il passato non tornerà. Chi lo fa oggi? Fallito l’ordine della Guerra fredda, chi sono i nuovi soggetti politici? Non gli Stati Uniti, come ha provato Obama. La Russia? Ne dubito. La Cina? Spero di no. Urgono strategie sul destino del mondo globale».
Altrimenti? Crede possibile una guerra?
«Se si accentuano le ragioni di contraddizione e le diseguaglianze, se in assenza di un nuovo ordine crescono i conflitti tra le potenze, può scoppiare una terza guerra mondiale anche se nessuno la vuole».
Che tipo di risposta vede nei nuovi populismi, politicamente trasversali ?
«Una risposta infantile. Capisco chi ha paura, ma disprezzo profondamente chi cavalca questa paura».
Dove ha sbagliato l’Europa?
«Si sperava che potesse mantenere le politiche sociali e affermare un modello di democrazia non formale. Non ha avuto leadership adeguate al compito. Sono stati commessi errori in buona fede, dettati dall’impazienza: penso all’ingenuità di credere che alla moneta unica sarebbero seguite una politica sociale e fiscale unica. Ma ci sono stati anche molti errori pessimi, come seguire gli Stati Uniti nella scellerata politica estera degli anni di Bush o il post primavere arabe».
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