VERSO QUALE FUTURO?
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
Analisi
Una crisi da Prima Repubblica
Governo istituzionale, della non sfiducia, della settimana bianca: rispetto a quarant'anni fa non è cambiato molto. In cinque giorni siamo passati dalla nettezza del Sì e del No alle mille sfumature delle formule old style. Quando le consultazioni duravano settimane e il dimissionario era pronto a fare il bis
di Marco Damilano
08 dicembre 2016
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«L'incarico a Moro», titolava "La Repubblica" il 14 gennaio 1976, anno 1 numero 1 del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. L'editoriale di quel giorno si intitolava: «È vuoto il palazzo del potere». E la vignetta di Giorgio Forattini, nella pagina 6 dei commenti, mostrava Aldo Moro nelle porte girevoli: presidente del Consiglio uscente e rientrante, pronto a essere incaricato di nuovo.
A parte l'abitudine di chiamare oggi le porte in inglese (slinding doors), non è cambiato molto da quarant'anni fa. La crisi si avvia e si avvita secondo i riti e le abitudini della Prima Repubblica. Di quando le consultazioni duravano settimane, il premier si chiamava presidente del Consiglio, il dimissionario era pronto a fare il bis.
«Sentito il Consiglio dei ministri (Forlani dice parole toccanti per me), vado al Quirinale a dar le dimissioni», scriveva Giulio Andreotti sul suo diario il 16 gennaio 1978. «Inizia subito la autorevole passerella televisiva nel Palazzo che vide eleggere Papi e morire il primo re d'Italia. Leone mi ha detto: "Ci vedremo per la reincarnazione"». Cadeva, in quell'occasione, il governo della non-sfiducia, un monocolore (tutti i ministri democristiani) retto dall'astensione degli altri partiti, Pci compreso. A inventare la formula era stato Luigi Cappugi, collaboratore di Andreotti a Palazzo Chigi. E il Divo Giulio ricordò che nella sua infinita prudenza Alcide De Gasperi al prete che durante le nozze gli chiedeva se volesse prendere per sposa la sua Francesca rispose: «Non dico di no».
In cinque giorni siamo passati dalla nettezza del Sì e del No, due caselle forzate, troppo strette per contenere la rabbia e la speranza della società italiana, alle mille sfumature delle formule old style: governo di responsabilità, governo di tutti, governo istituzionale, reincarico, parlamentarizzazione della crisi, Renzi bis. Giuliano Ferrara ha ricordato sul "Foglio" che nel 1987 pur di sloggiare Bettino Craxi da Palazzo Chigi e non fargli guidare le elezioni anticipate la Dc arrivò a sfiduciare un governo composto dai suoi ministri, il Fanfani VI. Tra i più convinti di quel passaggio c'era il deputato palermitano Sergio Mattarella.
Oggi tocca a lui, il presidente della Repubblica, sbloccare la crisi. Tornata alle porte girevoli di quarant'anni fa. Renzi annuncia l'addio e gli scatoloni, ma potrebbe fare il bis e forse vuole restare in carica con il suo governo. L'addio di oggi, il ciao, è un investimento sul futuro, la scommessa che gli altri non ce la faranno. I partiti del no, M5S e Lega, si dicono indisponibili a sostenere un nuovo governo, ma proprio l'esigenza di andare in tempi rapidi al voto anticipato potrebbe spingerli a cambiare idea: votare la fiducia, o almeno astenersi, su un nuovo governo elettorale, con Renzi lontano da Palazzo Chigi e dalle leve del potere. Uno scenario che potrebbe interessare anche Silvio Berlusconi.
Il remake della Prima Repubblica raggiungerebbe il punto più alto con il ritorno di sua maestà la legge proporzionale: ognuno per sé e poi dopo il voto si vede. Ogni voto si conterà e si peserà nel grande Cda della politica. Torneranno di moda le coalizioni: ne ha parlato di sfuggita Renzi alla direzione del Pd quando ha accennato alla cosa di sinistra che vorrebbe mettere in piedi Giuliano Pisapia. E forse, allora, torneranno di moda le direzioni di partito segrete, non più in streaming, le cene di corrente riservate, il manuale Cencelli per le nomine governative. O forse alcune di queste cose non sono mai passate di moda.
Governo istituzionale: sarebbe guidato dal presidente del Senato Pietro Grasso, nella Prima Repubblica non c'è mai stato, i dc diffidavano dei governi del presidente, li consideravano l'anticamera di un ingresso del Partito comunista nell'area di governo, oggi avrebbe l'obiettivo di coinvolgere M5S.
Governo tecnico: sarebbe guidato da Pier Carlo Padoan, il modello è il governo di Lamberto Dini, ministro uscente del governo Berlusconi. Non andò molto bene, Dini fece il ribaltone e il suo governo fu sostenuto dalle ex opposizioni Pds-Ppi contro Forza Italia.
Governo politico: la definizione è bizzarra, dato che ogni governo è politico, ma significa che la guida spetta a un esponente del partito più grande, anche se non il leader. Presieduto dunque da un renziano di stretta osservanza (Paolo Gentiloni più di Graziano Delrio), così come nella Prima Repubblica i capi dc spedivano a Palazzo Chigi nei momenti più caldi un nome politicamente debole, senza truppe sue: Emilio Colombo nel 1970, Giovanni Goria nel 1987. Il bis: lo fanno i big, i pesi massimi, per rimpastare la squadra e rafforzarsi, almeno in apparenza: Andreotti, Moro, De Gasperi, Fanfani...
Governo balneare: di breve durata, per svelenire il clima (si diceva: decantare), l'esperto era Giovanni Leone che ne fece due, nel 1963 e nel 1968. Oggi sarebbe il governo della settimana bianca.
Infine, c'è l'addio del leader: c'è un solo un precedente, nel 1959, quando il toscano Fanfani lasciò in un colpo solo presidenza del Consiglio, segreteria della Dc e ministero degli Esteri. E sparì dalla circolazione. Volatilizzato, scomparso, inaccessibile anche ai richiami del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Quando ritornò in pubblico ostentava distacco dai complotti dei suoi amici di partito, la Dc, si fece fotografare a passeggio con la moglie al Gianicolo. In realtà aspettava il momento giusto per tornare. Ma andò male: il partito lo mise in minoranza e perse tutto. Una lezione che Renzi farebbe bene a studiare, oggi che ha passato la giornata a Pontassieve in ritiro, come il generale De Gaulle in attesa di essere richiamato: diventerà la sua Colombey-les-Deux-Églises, Rignano sur Arne?
© Riproduzione riservata 08 dicembre 2016
Una crisi da Prima Repubblica
Governo istituzionale, della non sfiducia, della settimana bianca: rispetto a quarant'anni fa non è cambiato molto. In cinque giorni siamo passati dalla nettezza del Sì e del No alle mille sfumature delle formule old style. Quando le consultazioni duravano settimane e il dimissionario era pronto a fare il bis
di Marco Damilano
08 dicembre 2016
«L'incarico a Moro», titolava "La Repubblica" il 14 gennaio 1976, anno 1 numero 1 del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. L'editoriale di quel giorno si intitolava: «È vuoto il palazzo del potere». E la vignetta di Giorgio Forattini, nella pagina 6 dei commenti, mostrava Aldo Moro nelle porte girevoli: presidente del Consiglio uscente e rientrante, pronto a essere incaricato di nuovo.
A parte l'abitudine di chiamare oggi le porte in inglese (slinding doors), non è cambiato molto da quarant'anni fa. La crisi si avvia e si avvita secondo i riti e le abitudini della Prima Repubblica. Di quando le consultazioni duravano settimane, il premier si chiamava presidente del Consiglio, il dimissionario era pronto a fare il bis.
«Sentito il Consiglio dei ministri (Forlani dice parole toccanti per me), vado al Quirinale a dar le dimissioni», scriveva Giulio Andreotti sul suo diario il 16 gennaio 1978. «Inizia subito la autorevole passerella televisiva nel Palazzo che vide eleggere Papi e morire il primo re d'Italia. Leone mi ha detto: "Ci vedremo per la reincarnazione"». Cadeva, in quell'occasione, il governo della non-sfiducia, un monocolore (tutti i ministri democristiani) retto dall'astensione degli altri partiti, Pci compreso. A inventare la formula era stato Luigi Cappugi, collaboratore di Andreotti a Palazzo Chigi. E il Divo Giulio ricordò che nella sua infinita prudenza Alcide De Gasperi al prete che durante le nozze gli chiedeva se volesse prendere per sposa la sua Francesca rispose: «Non dico di no».
In cinque giorni siamo passati dalla nettezza del Sì e del No, due caselle forzate, troppo strette per contenere la rabbia e la speranza della società italiana, alle mille sfumature delle formule old style: governo di responsabilità, governo di tutti, governo istituzionale, reincarico, parlamentarizzazione della crisi, Renzi bis. Giuliano Ferrara ha ricordato sul "Foglio" che nel 1987 pur di sloggiare Bettino Craxi da Palazzo Chigi e non fargli guidare le elezioni anticipate la Dc arrivò a sfiduciare un governo composto dai suoi ministri, il Fanfani VI. Tra i più convinti di quel passaggio c'era il deputato palermitano Sergio Mattarella.
Oggi tocca a lui, il presidente della Repubblica, sbloccare la crisi. Tornata alle porte girevoli di quarant'anni fa. Renzi annuncia l'addio e gli scatoloni, ma potrebbe fare il bis e forse vuole restare in carica con il suo governo. L'addio di oggi, il ciao, è un investimento sul futuro, la scommessa che gli altri non ce la faranno. I partiti del no, M5S e Lega, si dicono indisponibili a sostenere un nuovo governo, ma proprio l'esigenza di andare in tempi rapidi al voto anticipato potrebbe spingerli a cambiare idea: votare la fiducia, o almeno astenersi, su un nuovo governo elettorale, con Renzi lontano da Palazzo Chigi e dalle leve del potere. Uno scenario che potrebbe interessare anche Silvio Berlusconi.
Il remake della Prima Repubblica raggiungerebbe il punto più alto con il ritorno di sua maestà la legge proporzionale: ognuno per sé e poi dopo il voto si vede. Ogni voto si conterà e si peserà nel grande Cda della politica. Torneranno di moda le coalizioni: ne ha parlato di sfuggita Renzi alla direzione del Pd quando ha accennato alla cosa di sinistra che vorrebbe mettere in piedi Giuliano Pisapia. E forse, allora, torneranno di moda le direzioni di partito segrete, non più in streaming, le cene di corrente riservate, il manuale Cencelli per le nomine governative. O forse alcune di queste cose non sono mai passate di moda.
Governo istituzionale: sarebbe guidato dal presidente del Senato Pietro Grasso, nella Prima Repubblica non c'è mai stato, i dc diffidavano dei governi del presidente, li consideravano l'anticamera di un ingresso del Partito comunista nell'area di governo, oggi avrebbe l'obiettivo di coinvolgere M5S.
Governo tecnico: sarebbe guidato da Pier Carlo Padoan, il modello è il governo di Lamberto Dini, ministro uscente del governo Berlusconi. Non andò molto bene, Dini fece il ribaltone e il suo governo fu sostenuto dalle ex opposizioni Pds-Ppi contro Forza Italia.
Governo politico: la definizione è bizzarra, dato che ogni governo è politico, ma significa che la guida spetta a un esponente del partito più grande, anche se non il leader. Presieduto dunque da un renziano di stretta osservanza (Paolo Gentiloni più di Graziano Delrio), così come nella Prima Repubblica i capi dc spedivano a Palazzo Chigi nei momenti più caldi un nome politicamente debole, senza truppe sue: Emilio Colombo nel 1970, Giovanni Goria nel 1987. Il bis: lo fanno i big, i pesi massimi, per rimpastare la squadra e rafforzarsi, almeno in apparenza: Andreotti, Moro, De Gasperi, Fanfani...
Governo balneare: di breve durata, per svelenire il clima (si diceva: decantare), l'esperto era Giovanni Leone che ne fece due, nel 1963 e nel 1968. Oggi sarebbe il governo della settimana bianca.
Infine, c'è l'addio del leader: c'è un solo un precedente, nel 1959, quando il toscano Fanfani lasciò in un colpo solo presidenza del Consiglio, segreteria della Dc e ministero degli Esteri. E sparì dalla circolazione. Volatilizzato, scomparso, inaccessibile anche ai richiami del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Quando ritornò in pubblico ostentava distacco dai complotti dei suoi amici di partito, la Dc, si fece fotografare a passeggio con la moglie al Gianicolo. In realtà aspettava il momento giusto per tornare. Ma andò male: il partito lo mise in minoranza e perse tutto. Una lezione che Renzi farebbe bene a studiare, oggi che ha passato la giornata a Pontassieve in ritiro, come il generale De Gaulle in attesa di essere richiamato: diventerà la sua Colombey-les-Deux-Églises, Rignano sur Arne?
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
Da F.Q.
ZANDA: “BIS DI RENZI O GOVERNO FINO AL 2018”
Non avevano il coraggio di chiamarlo Democrazia Cristiana 2.0, e allora l'hanno chiamato Partito Democratico.
Governo Fino al 2018 per non far perdere la pensione a 608 parlamentari.
Ma gli italiani se ne ricorderanno, perché domenica scorsa hanno dimostrato di averne piene le scatole.
ZANDA: “BIS DI RENZI O GOVERNO FINO AL 2018”
Non avevano il coraggio di chiamarlo Democrazia Cristiana 2.0, e allora l'hanno chiamato Partito Democratico.
Governo Fino al 2018 per non far perdere la pensione a 608 parlamentari.
Ma gli italiani se ne ricorderanno, perché domenica scorsa hanno dimostrato di averne piene le scatole.
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
Renzi si scopre disarmato:
non controlla più i giochi
Tre ipotesi sul tavolo, ma il premier non può più impedire governi sgraditi. Gentiloni, Grasso e Franceschini in pole
di Fabrizio De Feo
8 minuti fa
Renzi si scopre disarmato
Praticamente in mutande
^^^^^^^^^
non controlla più i giochi
Tre ipotesi sul tavolo, ma il premier non può più impedire governi sgraditi. Gentiloni, Grasso e Franceschini in pole
di Fabrizio De Feo
8 minuti fa
Renzi si scopre disarmato
Praticamente in mutande
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
RITI ROMANI
Renzi teme di essere tritato dal frullatore di Palazzo
La liturgia dell'establishment che molla i premier si ripete: ecco perché Matteo adesso vuole restare
Augusto Minzolini - Ven, 09/12/2016 - 15:21
commenta
A Franco Carraro, già patron del Coni e gran conoscitore del Palazzo, bisogna dare retta, quando, reduce da una missione esplorativa nelle stanze che contano, riporta il contenuto del primo colloquio tra il capo dello Stato e il premier dimissionario.
«Mattarella - racconta - ha messo Renzi di fronte a due opzioni: o mi dai tu il nome di una persona di tua fiducia per fare il governo con l'attuale maggioranza; o io scelgo la strada del governo del Presidente, mando una persona alle Camere e voglio vedere chi del Pd gli voterà contro».
In sintesi: il primo confronto con il presidente è stato una mezza doccia fredda per Matteo Renzi, animato da una gran voglia di revanche elettorale. E lo stesso Carraro, che pure è sempre stato un estimatore del premier mostra un pizzico di delusione: «Renzi dovrebbe stare fermo un giro. In fondo nel pugilato dilettantesco se subisci un ko non puoi tornare sul ring prima di tre mesi per non farti male».
Appunto, le regole del Palazzo in questi casi prevedono una fermata ai box. Ma Renzi ha capito che la «sosta», soprattutto per lui, può essere fatale. Motivo per cui nel secondo colloquio si è presentato da Mattarella con una contromossa che rispetto ai tanti «me ne vado», «lascio la politica» detti un'ora dopo la sconfitta referendaria, rappresenta una tripla giravolta. Ha avanzato la proposta di un governo di responsabilità nazionale appoggiato da tutte le forze politiche, cioè un'ipotesi che non sta né in cielo, né in terra per Grillo, Berlusconi, Salvini e la Meloni. Il tipico specchietto per le allodole che nei riti della politica deve accompagnare la proposta vera, cioè un governo con la maggioranza attuale, che vada alle urne appena approvata la nuova legge elettorale. Un esecutivo che nei ragionamenti di Renzi al Quirinale dovrebbe essere guidato da un nome prima di tutti gli altri, il suo. Solo che per ridurre la figuraccia dell'«addio» trasformato in 24 ore in un «arrivederci», il premier vorrebbe quasi essere pregato, cioè non essere reincaricato ma continuare per l'ordinaria amministrazione (Mattarella ha già risposto picche) o, ma è ancora dubbioso, essere rinviato alle Camere dal capo dello Stato, con il profilo dell'unico governo per il momento possibile. Naturalmente tutti hanno mangiato la foglia, dentro e fuori il Pd: Renzi vuole restare ma non sa come fare. «Ma non aveva dato la parola, che si sarebbe dimesso», è il sarcasmo di Roberto Speranza, della minoranza Pd. «Quello pensa ancora a se stesso, è sicuro», ha sentenziato Massimo Mucchetti. E mentre Renato Brunetta ha cominciato a lanciare anatemi ogni ora contro la permanenza di Renzi a Palazzo Chigi, Quagliarello ha cominciato a vedere il lato buono per l'opposizione di una simile operazione: «Se rimane al governo nel giro di due mesi c'è la scissione nel Pd».
Ma perché il rottamatore, il segretario del Pd che ha cavalcato i miti dell'anti-casta, che ha sempre detto di preferire i tornei alla play station con i figli alle riunioni di consiglio dei ministri, sta immaginando (sempre che ci riesca) di incollarsi alla poltrona? Semplice: Renzi comincia ad aver paura di quell'establishment che ti loda e ti imbroda fino a quando sei vincente, ma che, in caso di sconfitta, ti tritura un minuto dopo. La sua è una vera tragedia che, per citare la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giovambattista Vico, richiama le esperienze di Silvio Berlusconi. In fondo le liturgie con cui l'establishment ti ingoia sono sempre le stesse. Le proposte di Mattarella (cioè il governo guidato da un uomo di fiducia del premier uscente o il governo del presidente) già sono state adottate con successo in passato per detronizzare il Cav. Scalfaro, ad esempio, chiese a Berlusconi un nome di fiducia come successore quando, per il ribaltone della Lega, andò in crisi il suo primo governo. Il Cav fece il nome di Lamberto Dini, che lo tradì un minuto dopo: doveva durare pochi mesi, ma l'uomo di fiducia (si fa per dire) ci prese gusto e andò avanti per quasi un anno e mezzo. Certo Renzi potrebbe fare i nomi di Delrio o di Gentiloni. Più difficilmente Franceschini, troppo autonomo, esperto nell'arte del cambio di cavallo e con uno spiccato istinto di sopravvivenza. Ma vatti a fidare! «Di Palazzo Chigi - è la battuta ironica del premier dimissionario - ci si innamora». L'altra opzione, quella del «governo del presidente», l'ha utilizzata, invece, Giorgio Napolitano per far fuori il Cav: mise in campo Mario Monti che guidò il governo fino alla fine della legislatura. In questo caso, seguendo lo stesso schema, Mattarella potrebbe mettere in pista Grasso o Padoan. Ma i risultati potrebbero essere gli stessi di quelli del governo Monti: in quel caso nel giro di un anno il M5S passò dall'8 al 25%.
E già, Matteo Renzi è entrato nel frullatore del Palazzo. Un meccanismo spietato, che ha un unico obiettivo: piegare il premier intemperante, fuori dagli schemi, alle sue regole. Un sistema spietato che non si esaurisce nel quadrilatero Quirinale-Camera-Senato-Palazzo Chigi. La prima botta al premier questa volta, infatti, è arrivata dalla Consulta che ha fatto sapere che il giudizio sull'Italicum arriverà il 24 gennaio: la sentenza doveva essere pronta per ottobre, è stata rinviata all'indomani del referendum e, adesso, non arriverà prima di due mesi. Un paradosso se si pensa che la legge pretenderebbe che il nostro Paese sia messo sempre nelle condizioni di poter votare. Se si tiene conto della situazione, infatti, sembra che la Consulta sia sulla luna: in termini teorici l'Italicum c'è, ma è sub judice della Consulta, per cui se si usa c'è il rischio di eleggere un Parlamento che poi potrebbe essere definito incostituzionale come l'attuale. Insomma, quel ritardo ha fatto saltare la strategia di Renzi delle «elezioni subito». Una mossa che ha mandato fuori dai gangheri i renziani: «Sono cose che succedono solo in Italia», è esploso il senatore Stefano Esposito. Ma è la liturgia spietata del Palazzo. «La verità - confida il sottosegretario Luciano Pizzetti, regista dell'esame parlamentare della contestatissima riforma - è che lì hanno seguito il suggerimento di qualcuno». È inutile chiedere il nome del suggeritore agli esponenti del Pd. Più facile tirarlo fuori dai verdiniani, che hanno meno cautele. «I nomi sono due - ironizza il senatore Enrico Piccinelli - e li sanno tutti: Mattarella e Napolitano. Il primo è stato uno di loro, il secondo li ha eletti».
Gira che ti rigira il presidente emerito viene sempre tirato in ballo. Potrebbe essere definito il notaio dell'establishment, il gran Maestro delle liturgie istituzionali, mosso da una sorta di coazione a ripetere nel far fuori premier inclini alle elezioni anticipate. Ieri è salito sul Colle e si è trovato perfettamente d'accordo con l'attuale presidente. Se Mattarella non vuole le urne per il ruolo che ricopre, Napolitano le rifugge di natura, le schifa, per lui il suffragio universale è un difetto della democrazia: la scelta propugnata da Renzi - ha annunciato con la consueta solennità - sarebbe un errore. E di conseguenza si è mosso per mettere in moto l'altro meccanismo con cui l'establishment detronizza i premier che aspirano al «redde rationem»: dividere la maggioranza che li sostiene, come si dice nel gergo delle stanze del Potere, «per farli ragionare». Per continuare con i paragoni col Cav, Napolitano ha una lunga esperienza nel settore: provocò il divorzio tra Berlusconi e Fini nel 2010, promettendo a quest'ultimo la presidenza del Consiglio. Così, mentre Mattarella ha esercitato la «moral suasion» verso gli ex-democristiani come Franceschini, Napolitano ha utilizzato tutto l'ascendente che ha con gli ex-ds: per ora il principale pesce caduto nella rete è il ministro della Giustizia, Orlando. Ma la pesca sarà sicuramente ricca perché l'esca è efficace: in Parlamento nessuno vuole lasciare prematuramente il seggio. Del resto i gruppi parlamentari del Pd sono nati con le stigmate di Bersani, ma sono diventati di colpo renziani quando il segretario del Pd, dopo aver fatto fuori Enrico Letta, per entrare a Palazzo Chigi gli ha promesso un governo di legislatura. Per cui gli avversari di Renzi hanno buon gioco ad usare contro il premier le armi di cui sono stati vittime. E il cambio di vento è sotto gli occhi di tutti. «Tutti chilli che stanno a prora vann'a poppa», osserva sarcastico il bersaniano Miguel Gotor, parafrasando un vecchio proverbio napoletano. Una realtà che neppure il renziano Tonini si nasconde: «Quando il gatto è ferito, i topi ballano». Avviene non solo nel Pd ma anche nelle periferie della maggioranza. Nella direzione del partito di Alfano, nessuno ha seguito il ministro dell'Interno nell'idea di elezioni anticipate a febbraio: è come se lui avesse detto andiamo a Milano e gli altri avessero preso la strada per Napoli. «Quello si è accordato con Renzi - è la battuta velenosa di Formigoni - per entrare nelle liste del Pd e vuole che noi ci immoliamo». Più o meno la stessa aria si respira dalle parti di Ala. Sulla legge di bilancio il senatore Vincenzo D'Anna ha votato platealmente contro il governo sotto gli occhi di Verdini. «Si sta formando un nuovo gruppo - racconta Piccinelli - che mette insieme pezzi di verdiniani, di Ncd, di Udc per far capire allo stupidotto che non siamo carne da dare ai cani».
Lo «stupidotto» è Renzi che vuole andare alla guerra facendo finta di non sapere che metà dei suoi soldati sono mercenari. Truppe messe insieme con le lusinghe di Lotti e che ora sono sottoposte alle lusinga più semplice: durare. È il meccanismo con cui il Palazzo ha già triturato in passato il Cav e altri. Per cui alla fine a Renzi non rimarrà che restare al suo posto garantendo quella legislatura che voleva interrompere, rinunciando all'immagine del «rottamatore» per guadagnarsi un posto fisso nella nomenklatura. L'alternativa è lasciare la poltrona ad un altro, che farà più o meno la stessa cosa e, magari, complotterà per togliergli anche quella di segretario: già gira l'abbinata Franceschini premier, Orlando segretario del Pd. È la dura legge del Palazzo
Renzi teme di essere tritato dal frullatore di Palazzo
La liturgia dell'establishment che molla i premier si ripete: ecco perché Matteo adesso vuole restare
Augusto Minzolini - Ven, 09/12/2016 - 15:21
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A Franco Carraro, già patron del Coni e gran conoscitore del Palazzo, bisogna dare retta, quando, reduce da una missione esplorativa nelle stanze che contano, riporta il contenuto del primo colloquio tra il capo dello Stato e il premier dimissionario.
«Mattarella - racconta - ha messo Renzi di fronte a due opzioni: o mi dai tu il nome di una persona di tua fiducia per fare il governo con l'attuale maggioranza; o io scelgo la strada del governo del Presidente, mando una persona alle Camere e voglio vedere chi del Pd gli voterà contro».
In sintesi: il primo confronto con il presidente è stato una mezza doccia fredda per Matteo Renzi, animato da una gran voglia di revanche elettorale. E lo stesso Carraro, che pure è sempre stato un estimatore del premier mostra un pizzico di delusione: «Renzi dovrebbe stare fermo un giro. In fondo nel pugilato dilettantesco se subisci un ko non puoi tornare sul ring prima di tre mesi per non farti male».
Appunto, le regole del Palazzo in questi casi prevedono una fermata ai box. Ma Renzi ha capito che la «sosta», soprattutto per lui, può essere fatale. Motivo per cui nel secondo colloquio si è presentato da Mattarella con una contromossa che rispetto ai tanti «me ne vado», «lascio la politica» detti un'ora dopo la sconfitta referendaria, rappresenta una tripla giravolta. Ha avanzato la proposta di un governo di responsabilità nazionale appoggiato da tutte le forze politiche, cioè un'ipotesi che non sta né in cielo, né in terra per Grillo, Berlusconi, Salvini e la Meloni. Il tipico specchietto per le allodole che nei riti della politica deve accompagnare la proposta vera, cioè un governo con la maggioranza attuale, che vada alle urne appena approvata la nuova legge elettorale. Un esecutivo che nei ragionamenti di Renzi al Quirinale dovrebbe essere guidato da un nome prima di tutti gli altri, il suo. Solo che per ridurre la figuraccia dell'«addio» trasformato in 24 ore in un «arrivederci», il premier vorrebbe quasi essere pregato, cioè non essere reincaricato ma continuare per l'ordinaria amministrazione (Mattarella ha già risposto picche) o, ma è ancora dubbioso, essere rinviato alle Camere dal capo dello Stato, con il profilo dell'unico governo per il momento possibile. Naturalmente tutti hanno mangiato la foglia, dentro e fuori il Pd: Renzi vuole restare ma non sa come fare. «Ma non aveva dato la parola, che si sarebbe dimesso», è il sarcasmo di Roberto Speranza, della minoranza Pd. «Quello pensa ancora a se stesso, è sicuro», ha sentenziato Massimo Mucchetti. E mentre Renato Brunetta ha cominciato a lanciare anatemi ogni ora contro la permanenza di Renzi a Palazzo Chigi, Quagliarello ha cominciato a vedere il lato buono per l'opposizione di una simile operazione: «Se rimane al governo nel giro di due mesi c'è la scissione nel Pd».
Ma perché il rottamatore, il segretario del Pd che ha cavalcato i miti dell'anti-casta, che ha sempre detto di preferire i tornei alla play station con i figli alle riunioni di consiglio dei ministri, sta immaginando (sempre che ci riesca) di incollarsi alla poltrona? Semplice: Renzi comincia ad aver paura di quell'establishment che ti loda e ti imbroda fino a quando sei vincente, ma che, in caso di sconfitta, ti tritura un minuto dopo. La sua è una vera tragedia che, per citare la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giovambattista Vico, richiama le esperienze di Silvio Berlusconi. In fondo le liturgie con cui l'establishment ti ingoia sono sempre le stesse. Le proposte di Mattarella (cioè il governo guidato da un uomo di fiducia del premier uscente o il governo del presidente) già sono state adottate con successo in passato per detronizzare il Cav. Scalfaro, ad esempio, chiese a Berlusconi un nome di fiducia come successore quando, per il ribaltone della Lega, andò in crisi il suo primo governo. Il Cav fece il nome di Lamberto Dini, che lo tradì un minuto dopo: doveva durare pochi mesi, ma l'uomo di fiducia (si fa per dire) ci prese gusto e andò avanti per quasi un anno e mezzo. Certo Renzi potrebbe fare i nomi di Delrio o di Gentiloni. Più difficilmente Franceschini, troppo autonomo, esperto nell'arte del cambio di cavallo e con uno spiccato istinto di sopravvivenza. Ma vatti a fidare! «Di Palazzo Chigi - è la battuta ironica del premier dimissionario - ci si innamora». L'altra opzione, quella del «governo del presidente», l'ha utilizzata, invece, Giorgio Napolitano per far fuori il Cav: mise in campo Mario Monti che guidò il governo fino alla fine della legislatura. In questo caso, seguendo lo stesso schema, Mattarella potrebbe mettere in pista Grasso o Padoan. Ma i risultati potrebbero essere gli stessi di quelli del governo Monti: in quel caso nel giro di un anno il M5S passò dall'8 al 25%.
E già, Matteo Renzi è entrato nel frullatore del Palazzo. Un meccanismo spietato, che ha un unico obiettivo: piegare il premier intemperante, fuori dagli schemi, alle sue regole. Un sistema spietato che non si esaurisce nel quadrilatero Quirinale-Camera-Senato-Palazzo Chigi. La prima botta al premier questa volta, infatti, è arrivata dalla Consulta che ha fatto sapere che il giudizio sull'Italicum arriverà il 24 gennaio: la sentenza doveva essere pronta per ottobre, è stata rinviata all'indomani del referendum e, adesso, non arriverà prima di due mesi. Un paradosso se si pensa che la legge pretenderebbe che il nostro Paese sia messo sempre nelle condizioni di poter votare. Se si tiene conto della situazione, infatti, sembra che la Consulta sia sulla luna: in termini teorici l'Italicum c'è, ma è sub judice della Consulta, per cui se si usa c'è il rischio di eleggere un Parlamento che poi potrebbe essere definito incostituzionale come l'attuale. Insomma, quel ritardo ha fatto saltare la strategia di Renzi delle «elezioni subito». Una mossa che ha mandato fuori dai gangheri i renziani: «Sono cose che succedono solo in Italia», è esploso il senatore Stefano Esposito. Ma è la liturgia spietata del Palazzo. «La verità - confida il sottosegretario Luciano Pizzetti, regista dell'esame parlamentare della contestatissima riforma - è che lì hanno seguito il suggerimento di qualcuno». È inutile chiedere il nome del suggeritore agli esponenti del Pd. Più facile tirarlo fuori dai verdiniani, che hanno meno cautele. «I nomi sono due - ironizza il senatore Enrico Piccinelli - e li sanno tutti: Mattarella e Napolitano. Il primo è stato uno di loro, il secondo li ha eletti».
Gira che ti rigira il presidente emerito viene sempre tirato in ballo. Potrebbe essere definito il notaio dell'establishment, il gran Maestro delle liturgie istituzionali, mosso da una sorta di coazione a ripetere nel far fuori premier inclini alle elezioni anticipate. Ieri è salito sul Colle e si è trovato perfettamente d'accordo con l'attuale presidente. Se Mattarella non vuole le urne per il ruolo che ricopre, Napolitano le rifugge di natura, le schifa, per lui il suffragio universale è un difetto della democrazia: la scelta propugnata da Renzi - ha annunciato con la consueta solennità - sarebbe un errore. E di conseguenza si è mosso per mettere in moto l'altro meccanismo con cui l'establishment detronizza i premier che aspirano al «redde rationem»: dividere la maggioranza che li sostiene, come si dice nel gergo delle stanze del Potere, «per farli ragionare». Per continuare con i paragoni col Cav, Napolitano ha una lunga esperienza nel settore: provocò il divorzio tra Berlusconi e Fini nel 2010, promettendo a quest'ultimo la presidenza del Consiglio. Così, mentre Mattarella ha esercitato la «moral suasion» verso gli ex-democristiani come Franceschini, Napolitano ha utilizzato tutto l'ascendente che ha con gli ex-ds: per ora il principale pesce caduto nella rete è il ministro della Giustizia, Orlando. Ma la pesca sarà sicuramente ricca perché l'esca è efficace: in Parlamento nessuno vuole lasciare prematuramente il seggio. Del resto i gruppi parlamentari del Pd sono nati con le stigmate di Bersani, ma sono diventati di colpo renziani quando il segretario del Pd, dopo aver fatto fuori Enrico Letta, per entrare a Palazzo Chigi gli ha promesso un governo di legislatura. Per cui gli avversari di Renzi hanno buon gioco ad usare contro il premier le armi di cui sono stati vittime. E il cambio di vento è sotto gli occhi di tutti. «Tutti chilli che stanno a prora vann'a poppa», osserva sarcastico il bersaniano Miguel Gotor, parafrasando un vecchio proverbio napoletano. Una realtà che neppure il renziano Tonini si nasconde: «Quando il gatto è ferito, i topi ballano». Avviene non solo nel Pd ma anche nelle periferie della maggioranza. Nella direzione del partito di Alfano, nessuno ha seguito il ministro dell'Interno nell'idea di elezioni anticipate a febbraio: è come se lui avesse detto andiamo a Milano e gli altri avessero preso la strada per Napoli. «Quello si è accordato con Renzi - è la battuta velenosa di Formigoni - per entrare nelle liste del Pd e vuole che noi ci immoliamo». Più o meno la stessa aria si respira dalle parti di Ala. Sulla legge di bilancio il senatore Vincenzo D'Anna ha votato platealmente contro il governo sotto gli occhi di Verdini. «Si sta formando un nuovo gruppo - racconta Piccinelli - che mette insieme pezzi di verdiniani, di Ncd, di Udc per far capire allo stupidotto che non siamo carne da dare ai cani».
Lo «stupidotto» è Renzi che vuole andare alla guerra facendo finta di non sapere che metà dei suoi soldati sono mercenari. Truppe messe insieme con le lusinghe di Lotti e che ora sono sottoposte alle lusinga più semplice: durare. È il meccanismo con cui il Palazzo ha già triturato in passato il Cav e altri. Per cui alla fine a Renzi non rimarrà che restare al suo posto garantendo quella legislatura che voleva interrompere, rinunciando all'immagine del «rottamatore» per guadagnarsi un posto fisso nella nomenklatura. L'alternativa è lasciare la poltrona ad un altro, che farà più o meno la stessa cosa e, magari, complotterà per togliergli anche quella di segretario: già gira l'abbinata Franceschini premier, Orlando segretario del Pd. È la dura legge del Palazzo
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
LIBRE news
Smascherato il Bomba, l’Italia crederà al prossimo Renzi?
Scritto il 05/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Ha perso Renzi, questo è certo.
E’ importante? Forse: Renzi è stato smascherato, si era venduto come salvatore della patria.
Uno strano salvatore: sbrigativo, facilone, e pure attaccabrighe.
Come se i nemici dell’Italia fossero ragazzotti, anche loro, da sfidare al bar.
Ma gli elettori hanno scoperto il gioco: non c’erano altri ragazzotti in circolazione, a parte quello auto-insediatosi a Palazzo Chigi.
In giro c’erano, e ci sono, solo squali.
E che squali: Juncker, la Merkel, Draghi, la Bundesbank, BlackRock e compagnia privatizzante.
Hanno fiutato l’imbroglio, gli elettori: il fiorentino dalla parola svelta (e mai mantenuta) serviva, sottobanco, proprio loro, i grandi poteri che da sempre “coltivano” l’Italia, in modo che il Belpaese non potesse rappresentare un pericolo per i supremi interessi in gioco.
Era peggiore di altri, Renzi? Sicuramente più sfrontato.
Ma lo schema è sempre uguale: allevare una classe dirigente docile, corrotta e quindi ricattabile, oppure finto-ribelle (che è lo stesso, se non peggio).
Poi nel frattempo le cose vanno male? C’è crisi, si capisce: bisogna soffrire.
E magari fustigare gli antichi vizi italici, la pigrizia, l’opportunismo.
O, ancora: additare nemici immaginari, evitando di inquadrare quelli veri, che non abitano nemmeno lontano da casa.
Sono regole di guerra: senza collaborazionisti, l’esercito invasore è
nei guai.
Ma chi li vota, i collaborazionisti?
Sono bravi, i tribuni della plebe, a fare in modo che il popolo invaso prenda lucciole per lanterne: madornale, il 40% rimediato dal Pd renziano alle europee 2014, appena un anno e mezzo fa.
Un mandato troppo grande, evidentemente, per il piccolo fiorentino, l’uomo del bar specializzato nel gioco su più tavoli.
Ti può andar bene una volta, ma non sempre: alla lunga, diventi antipatico.
Bel problema: per te, ma soprattutto per i tuoi capi, già al lavoro per trovare una soluzione di ripiego che risulti indolore, per i loro sovrani interessi.
A caldo, dovranno sicuramente punire la plebe insubordinata: colpirne uno per educarne cento, come scrive Paolo Barnard sul “Daily Express” di Londra, perché guai se gli italiani la passano completamente liscia dopo aver detronizzato l’amico di Angela e Hillary, di Obama e del Ttip – guai, perché gli inglesi post-Brexit potrebbero pensare di uscire indenni anche loro dalla morsa dei neo-feudatari, e a maggior ragione i francesi si sentirebbero incoraggiati, nel 2017, a licenziare i collaborazionisti di casa, eleggendo all’Eliseo una outsider come la signora Le Pen a cui nessuno, a Bruxelles e Berlino, ha finora potuto dare ordini.
Si mette male? I signori dello spread picchieranno sodo? Fino a che punto, è da vedersi: vista la situazione – con i media mainstream che non controllano più l’opinione pubblica – quanto conviene, ai dominus, trasformare l’Italia in una specie di Grecia?
La storia insegna che i sommi manovratori prediligono di gran lunga l’illusionismo, un po’ come fu per lo stesso Renzi, il super-rinnovatore che ha semplicemente tagliato i diritti del lavoro, come richiesto dalla cupola di Bruxelles, in ossequio al piano di svalutazione interna (salari, pensioni, welfare) imposto dalla moneta unica.
Per introdurlo, l’euro, in Italia è stato necessario lo tsunami di Mani Pulite, che ha tolto di mezzo personaggi come Craxi e Andreotti, che mai avrebbero calato le brache a Maastricht.
Gli italiani, allora, gridarono alla liberazione, alla rivoluzione.
Oggi, la crisi ha colpito in modo devastante: i giovani del 2016 non sono quelli degli anni ‘90, che un futuro a casa ce l’avevano.
Il bisogno di riscostruzione è percepito in modo lancinante, come conferma lo stesso consenso accordato fino a ieri persino a Renzi, che infatti ha perso solo quando ha voluto spaccare il paese in due.
Comunque vada, dicono molti osservatori, sarà dura.
Molte favole sono state archiviate come frottole.
Ma una narrazione veritiera per ora si fa strada solo in negativo, a suon di No.
Smascherato il Bomba, l’Italia crederà al prossimo Renzi?
Scritto il 05/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Ha perso Renzi, questo è certo.
E’ importante? Forse: Renzi è stato smascherato, si era venduto come salvatore della patria.
Uno strano salvatore: sbrigativo, facilone, e pure attaccabrighe.
Come se i nemici dell’Italia fossero ragazzotti, anche loro, da sfidare al bar.
Ma gli elettori hanno scoperto il gioco: non c’erano altri ragazzotti in circolazione, a parte quello auto-insediatosi a Palazzo Chigi.
In giro c’erano, e ci sono, solo squali.
E che squali: Juncker, la Merkel, Draghi, la Bundesbank, BlackRock e compagnia privatizzante.
Hanno fiutato l’imbroglio, gli elettori: il fiorentino dalla parola svelta (e mai mantenuta) serviva, sottobanco, proprio loro, i grandi poteri che da sempre “coltivano” l’Italia, in modo che il Belpaese non potesse rappresentare un pericolo per i supremi interessi in gioco.
Era peggiore di altri, Renzi? Sicuramente più sfrontato.
Ma lo schema è sempre uguale: allevare una classe dirigente docile, corrotta e quindi ricattabile, oppure finto-ribelle (che è lo stesso, se non peggio).
Poi nel frattempo le cose vanno male? C’è crisi, si capisce: bisogna soffrire.
E magari fustigare gli antichi vizi italici, la pigrizia, l’opportunismo.
O, ancora: additare nemici immaginari, evitando di inquadrare quelli veri, che non abitano nemmeno lontano da casa.
Sono regole di guerra: senza collaborazionisti, l’esercito invasore è
nei guai.
Ma chi li vota, i collaborazionisti?
Sono bravi, i tribuni della plebe, a fare in modo che il popolo invaso prenda lucciole per lanterne: madornale, il 40% rimediato dal Pd renziano alle europee 2014, appena un anno e mezzo fa.
Un mandato troppo grande, evidentemente, per il piccolo fiorentino, l’uomo del bar specializzato nel gioco su più tavoli.
Ti può andar bene una volta, ma non sempre: alla lunga, diventi antipatico.
Bel problema: per te, ma soprattutto per i tuoi capi, già al lavoro per trovare una soluzione di ripiego che risulti indolore, per i loro sovrani interessi.
A caldo, dovranno sicuramente punire la plebe insubordinata: colpirne uno per educarne cento, come scrive Paolo Barnard sul “Daily Express” di Londra, perché guai se gli italiani la passano completamente liscia dopo aver detronizzato l’amico di Angela e Hillary, di Obama e del Ttip – guai, perché gli inglesi post-Brexit potrebbero pensare di uscire indenni anche loro dalla morsa dei neo-feudatari, e a maggior ragione i francesi si sentirebbero incoraggiati, nel 2017, a licenziare i collaborazionisti di casa, eleggendo all’Eliseo una outsider come la signora Le Pen a cui nessuno, a Bruxelles e Berlino, ha finora potuto dare ordini.
Si mette male? I signori dello spread picchieranno sodo? Fino a che punto, è da vedersi: vista la situazione – con i media mainstream che non controllano più l’opinione pubblica – quanto conviene, ai dominus, trasformare l’Italia in una specie di Grecia?
La storia insegna che i sommi manovratori prediligono di gran lunga l’illusionismo, un po’ come fu per lo stesso Renzi, il super-rinnovatore che ha semplicemente tagliato i diritti del lavoro, come richiesto dalla cupola di Bruxelles, in ossequio al piano di svalutazione interna (salari, pensioni, welfare) imposto dalla moneta unica.
Per introdurlo, l’euro, in Italia è stato necessario lo tsunami di Mani Pulite, che ha tolto di mezzo personaggi come Craxi e Andreotti, che mai avrebbero calato le brache a Maastricht.
Gli italiani, allora, gridarono alla liberazione, alla rivoluzione.
Oggi, la crisi ha colpito in modo devastante: i giovani del 2016 non sono quelli degli anni ‘90, che un futuro a casa ce l’avevano.
Il bisogno di riscostruzione è percepito in modo lancinante, come conferma lo stesso consenso accordato fino a ieri persino a Renzi, che infatti ha perso solo quando ha voluto spaccare il paese in due.
Comunque vada, dicono molti osservatori, sarà dura.
Molte favole sono state archiviate come frottole.
Ma una narrazione veritiera per ora si fa strada solo in negativo, a suon di No.
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
Referendum Costituzionale
Post referendum costituzionale, la nuova frattura sociale
di Emanuele Ferragina | 8 dicembre 2016
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Emanuele Ferragina
Lecturer (Universita' di Oxford) e Direttore Editoriale di Chitroppochiniente.it.
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L’esito del referendum costituzionale certifica una profonda frattura sociale.
Da un lato, una parte minoritaria di paese con lavoro stabile (o una buona pensione) e piuttosto avanti con l’età, convinta (a torto o a ragione) di avere un futuro abbastanza solido davanti nonostante il declino continuo del paese.
Dall’altra, una ormai maggioritaria, più povera, precaria, disoccupata e giovane – che ha palesato nel NO tutta la propria frustrazione.
Una parte d’Italia che un paio di anni fa avevo definito “La Maggioranza invisibile“.
Una maggioranza divisa da appartenenze politiche diverse e alla quale non sarà facile offrire un progetto alternativo di paese.
Una maggioranza con la quale tuttavia la politica mainstream deve fare i conti.
Come illustrato da un’analisi dell’Istituto Cattaneo basata su Bologna, i democratici hanno ricevuto maggiori consensi nelle zone più ricche e tra le fasce d’età più alte, perdendo (ancora) voti nelle periferie, tra le fasce di reddito più basse, tra i giovani e nel meridione.
Niente di nuovo sotto il sole.
Si tratta di una dinamica simile a quella delle elezioni politiche del 2013 e le amministrative di giugno.
D’altronde, perché un giovane calabrese o un romano di Corviale dovrebbe votare per un governo che ha reso ancora più precario il mercato del lavoro?
E perché un disoccupato di Catanzaro dovrebbe votare per un partito che, pur avendo la maggioranza in parlamento, non ha voluto creare un programma strutturale come il reddito minimo garantito?
La frattura sociale amplificata da molti anni di crisi e dalle politiche di austerità ha trovato modo di sfogarsi col referendum.
Il Movimento 5 Stelle continua a raccogliere ampi consensi da questa parte d’Italia, ma il suo percorso d’istituzionalizzazione e le sue ambiguità lasciano ampi dubbi sulla sua reale spinta innovatrice.
Il tempo ci dirà quale sarà il suo ruolo nel proporre una visione alternativa a quella del Pd — architrave di un sistema sociale e politico sempre più instabile.
Per creare una nuova forza progressista, non servono grandi interviste sui quotidiani nazionali da parte di personaggi in cerca d’autore (mi riferisco all’intervista di Pisapia pubblicata su Repubblica), o progetti nati morti in partenza come quello di Sinistra italiana, ma ripartire dal senso comune della maggioranza invisibile.
Da quel buon senso che sviluppa chi ogni giorno deve lottare per garantirsi un reddito e dare un’esistenza dignitosa ai propri figli.
E’ necessario riavvicinare il cittadino alle istituzioni e dargli la centralità che merita tenendo presente che la società civile non è fatta solo da Farinetti e Carrai – rappresentanti degli interessi di una piccola (ma potente) minoranza.
La società civile è anche giovane, disoccupata, cassaintegrata, precaria, povera, frustrata, delusa e arrabbiata.
E’ forse questo il messaggio più potente del No al referendum, quello che la classe politica nella sua interezza dovrebbe portare a casa, prima di mettere cappelli e recitare orpelli sul voto di quasi 19,5 milioni di cittadini.
Nota per i viandanti: molti analisti hanno paragonato il voto sul referendum a quello su Brexit e Trump.
Se è vero che queste tre consultazioni rappresentano un voto anti establishment, è errato affermare che le vittorie provengono dallo stesso bacino elettorale.
E’ stato un voto generazionale che nel Regno Unito e negli Usa ha unito gli anziani impauriti, mentre in Italia è stato l’81 per cento dei giovani a bocciare la riforma. Dati su cui riflettere.
Post referendum costituzionale, la nuova frattura sociale
di Emanuele Ferragina | 8 dicembre 2016
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Emanuele Ferragina
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L’esito del referendum costituzionale certifica una profonda frattura sociale.
Da un lato, una parte minoritaria di paese con lavoro stabile (o una buona pensione) e piuttosto avanti con l’età, convinta (a torto o a ragione) di avere un futuro abbastanza solido davanti nonostante il declino continuo del paese.
Dall’altra, una ormai maggioritaria, più povera, precaria, disoccupata e giovane – che ha palesato nel NO tutta la propria frustrazione.
Una parte d’Italia che un paio di anni fa avevo definito “La Maggioranza invisibile“.
Una maggioranza divisa da appartenenze politiche diverse e alla quale non sarà facile offrire un progetto alternativo di paese.
Una maggioranza con la quale tuttavia la politica mainstream deve fare i conti.
Come illustrato da un’analisi dell’Istituto Cattaneo basata su Bologna, i democratici hanno ricevuto maggiori consensi nelle zone più ricche e tra le fasce d’età più alte, perdendo (ancora) voti nelle periferie, tra le fasce di reddito più basse, tra i giovani e nel meridione.
Niente di nuovo sotto il sole.
Si tratta di una dinamica simile a quella delle elezioni politiche del 2013 e le amministrative di giugno.
D’altronde, perché un giovane calabrese o un romano di Corviale dovrebbe votare per un governo che ha reso ancora più precario il mercato del lavoro?
E perché un disoccupato di Catanzaro dovrebbe votare per un partito che, pur avendo la maggioranza in parlamento, non ha voluto creare un programma strutturale come il reddito minimo garantito?
La frattura sociale amplificata da molti anni di crisi e dalle politiche di austerità ha trovato modo di sfogarsi col referendum.
Il Movimento 5 Stelle continua a raccogliere ampi consensi da questa parte d’Italia, ma il suo percorso d’istituzionalizzazione e le sue ambiguità lasciano ampi dubbi sulla sua reale spinta innovatrice.
Il tempo ci dirà quale sarà il suo ruolo nel proporre una visione alternativa a quella del Pd — architrave di un sistema sociale e politico sempre più instabile.
Per creare una nuova forza progressista, non servono grandi interviste sui quotidiani nazionali da parte di personaggi in cerca d’autore (mi riferisco all’intervista di Pisapia pubblicata su Repubblica), o progetti nati morti in partenza come quello di Sinistra italiana, ma ripartire dal senso comune della maggioranza invisibile.
Da quel buon senso che sviluppa chi ogni giorno deve lottare per garantirsi un reddito e dare un’esistenza dignitosa ai propri figli.
E’ necessario riavvicinare il cittadino alle istituzioni e dargli la centralità che merita tenendo presente che la società civile non è fatta solo da Farinetti e Carrai – rappresentanti degli interessi di una piccola (ma potente) minoranza.
La società civile è anche giovane, disoccupata, cassaintegrata, precaria, povera, frustrata, delusa e arrabbiata.
E’ forse questo il messaggio più potente del No al referendum, quello che la classe politica nella sua interezza dovrebbe portare a casa, prima di mettere cappelli e recitare orpelli sul voto di quasi 19,5 milioni di cittadini.
Nota per i viandanti: molti analisti hanno paragonato il voto sul referendum a quello su Brexit e Trump.
Se è vero che queste tre consultazioni rappresentano un voto anti establishment, è errato affermare che le vittorie provengono dallo stesso bacino elettorale.
E’ stato un voto generazionale che nel Regno Unito e negli Usa ha unito gli anziani impauriti, mentre in Italia è stato l’81 per cento dei giovani a bocciare la riforma. Dati su cui riflettere.
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
......LASCIATE OGNI SPERANZA O VOI CHE ENTRATE........
CON LA PRESENZA DI QUESTE VECCHIE CARIATIDI DEI TEMPI DEI DINOSAURI, CHE SI SONO MANGIATI L'ITALIA FACENDOTI IL BUNGA-BUNGA CON IL SORRISETTO SULLE LABBRA, QUESTO DISGRAZIATO PAESE NON PUO' CHE SPROFONDARE SEMPRE PIU' VERSO IL BASSO
Consultazioni, ecco la soluzione dell’eterno Buttiglione. “Sopravvissuto pure a Renzi? Bisogna giocare dove ti mette il Signore”
di Alberto Sofia | 9 dicembre 2016
Il Nazareno è già fallito, le riforme “condivise” più volte naufragate, così come i governi di larghe intese. Eppure Rocco Buttiglione, uno che di crisi di governo ne ha già vissute tante, insiste, dopo le dimissioni di Matteo Renzi da Palazzo Chigi: “Ci vuole una grande coalizione tra la sinistra moderata e i gruppi che fanno riferimento al Ppe: per questo facciamo appello a Silvio Berlusconi“, invoca l’esponente Udc al termine delle consultazioni al Quirinale. Ancora lui, il leader 80enne di Forza Italia, oltre vent’anni dopo la sua “discesa in campo”. Nessun problema per Buttiglione, convinto che l’ex premier possa ancora dare il suo contributo: “Non bisogna demonizzare né lui, né Renzi. Il leader di FI ha avuto una lunga storia politica, ha fatto del bene e anche del male. Certo, non sempre si può giocare da centravanti, chi è più vecchio magari ha qualcosa di diverso da dare”, rivendica. Buttiglione, al contrario, è ancora al suo posto, mai “rottamato”: “Io sopravvissuto pure a Renzi? Bisogna giocare dove ti mette il signore”
di Alberto Sofia | 9 dicembre 2016
VIDEO:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12 ... ttiglione-
CON LA PRESENZA DI QUESTE VECCHIE CARIATIDI DEI TEMPI DEI DINOSAURI, CHE SI SONO MANGIATI L'ITALIA FACENDOTI IL BUNGA-BUNGA CON IL SORRISETTO SULLE LABBRA, QUESTO DISGRAZIATO PAESE NON PUO' CHE SPROFONDARE SEMPRE PIU' VERSO IL BASSO
Consultazioni, ecco la soluzione dell’eterno Buttiglione. “Sopravvissuto pure a Renzi? Bisogna giocare dove ti mette il Signore”
di Alberto Sofia | 9 dicembre 2016
Il Nazareno è già fallito, le riforme “condivise” più volte naufragate, così come i governi di larghe intese. Eppure Rocco Buttiglione, uno che di crisi di governo ne ha già vissute tante, insiste, dopo le dimissioni di Matteo Renzi da Palazzo Chigi: “Ci vuole una grande coalizione tra la sinistra moderata e i gruppi che fanno riferimento al Ppe: per questo facciamo appello a Silvio Berlusconi“, invoca l’esponente Udc al termine delle consultazioni al Quirinale. Ancora lui, il leader 80enne di Forza Italia, oltre vent’anni dopo la sua “discesa in campo”. Nessun problema per Buttiglione, convinto che l’ex premier possa ancora dare il suo contributo: “Non bisogna demonizzare né lui, né Renzi. Il leader di FI ha avuto una lunga storia politica, ha fatto del bene e anche del male. Certo, non sempre si può giocare da centravanti, chi è più vecchio magari ha qualcosa di diverso da dare”, rivendica. Buttiglione, al contrario, è ancora al suo posto, mai “rottamato”: “Io sopravvissuto pure a Renzi? Bisogna giocare dove ti mette il signore”
di Alberto Sofia | 9 dicembre 2016
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
I NODI STANNO VENENDO TUTTI AL PETTINE
DIMENTICHI DELLA GRAVITA' DELLA SITUAZIONE, I SOLITI FOMENTATORI DA STRADA, SOFFIANO SUL FUOCO.
IN QUESTO MODO L'ASCENSORE SCENDE AL PIANO TERRA.
Prima le scuse, poi il resto
Sono passati tre anni dall'infamia contro Berlusconi. E ora questa gente chiede a Forza Italia di scendere a patti
di Alessandro Sallusti
27 minuti fa
^^^^^^^^^^^^^
Prima le scuse, poi il resto
Sono passati tre anni, senza che nulla sia stato fatto per riparare l'infamia contro Berlusconi.
Alessandro Sallusti - Ven, 09/12/2016 - 17:50
commenta
La vita è una ruota che gira e che riserva sempre sorprese. Nel novembre 2013 il Pd organizzò la cacciata con infamia di Silvio Berlusconi dal Senato della Repubblica, all'indomani della discussa e anomala condanna definitiva per evasione fiscale.
Ricordate? La regia fu di Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica, l'assistente alla regia Piero Grasso, allora come ora fazioso presidente del Senato, i killer i senatori del Pd che alzarono la mano al momento del voto. Il commento fu affidato a Matteo Renzi, in quel periodo sindaco di Firenze e scalatore del Pd: «Berlusconi? Game over», furono le sue parole pronunciate davanti a Bruno Vespa nello studio di Porta a porta. Per riuscire nell'intento fu fatta carne di porco dei diritti, delle leggi, dei regolamenti e della prassi. Berlusconi fu infatti cacciato applicando in modo retroattivo una legge, la Severino, e con voto palese invece che segreto in modo da evitare sorprese.
Sono passati tre anni, senza che nulla sia stato fatto per riparare quell'infamia, e oggi Napolitano, Grasso, il Pd e Renzi, nel frattempo diventato premier, chiedono a Berlusconi di entrare con il suo partito al governo per salvare la Patria e soprattutto il loro fondoschiena compromesso e dolorante dopo la nottataccia del risultato referendario. Lasciamo per un attimo da parte il piano politico, già di per sé imbarazzante, e stiamo su quello della dignità umana, merce rara dalle parti del potere. Se ho capito bene il Pd e Renzi chiedono a un uomo al quale hanno tolto con l'inganno i diritti politici di diventare socio politico. Il fatto che mentano, che sia una sceneggiata tattica, è un dettaglio. Il solo proporlo dovrebbe comportare contemporanee scuse e conseguente riabilitazione. Accompagnando il tutto da una richiesta ai giudici del tribunale europeo, dove giace volutamente dimenticato il ricorso di Berlusconi, di fare presto e bene.
È la seconda volta, la prima fu il patto del Nazareno, che Renzi prova a usare Berlusconi con grande spregiudicatezza e per fini personali senza affrontare il cuore della questione, cioè il tarlo di un grande leader politico ingiustamente privato dei suoi diritti e delle sue libertà. L'uomo è fatto così: sfrutta, inganna, scappa. In una parola è inaffidabile sul piano umano, del rispetto dei principi ancora prima che incapace su quello politico. Davvero crediamo che si possano fare patti con gente di questa risma?
DIMENTICHI DELLA GRAVITA' DELLA SITUAZIONE, I SOLITI FOMENTATORI DA STRADA, SOFFIANO SUL FUOCO.
IN QUESTO MODO L'ASCENSORE SCENDE AL PIANO TERRA.
Prima le scuse, poi il resto
Sono passati tre anni dall'infamia contro Berlusconi. E ora questa gente chiede a Forza Italia di scendere a patti
di Alessandro Sallusti
27 minuti fa
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Prima le scuse, poi il resto
Sono passati tre anni, senza che nulla sia stato fatto per riparare l'infamia contro Berlusconi.
Alessandro Sallusti - Ven, 09/12/2016 - 17:50
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La vita è una ruota che gira e che riserva sempre sorprese. Nel novembre 2013 il Pd organizzò la cacciata con infamia di Silvio Berlusconi dal Senato della Repubblica, all'indomani della discussa e anomala condanna definitiva per evasione fiscale.
Ricordate? La regia fu di Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica, l'assistente alla regia Piero Grasso, allora come ora fazioso presidente del Senato, i killer i senatori del Pd che alzarono la mano al momento del voto. Il commento fu affidato a Matteo Renzi, in quel periodo sindaco di Firenze e scalatore del Pd: «Berlusconi? Game over», furono le sue parole pronunciate davanti a Bruno Vespa nello studio di Porta a porta. Per riuscire nell'intento fu fatta carne di porco dei diritti, delle leggi, dei regolamenti e della prassi. Berlusconi fu infatti cacciato applicando in modo retroattivo una legge, la Severino, e con voto palese invece che segreto in modo da evitare sorprese.
Sono passati tre anni, senza che nulla sia stato fatto per riparare quell'infamia, e oggi Napolitano, Grasso, il Pd e Renzi, nel frattempo diventato premier, chiedono a Berlusconi di entrare con il suo partito al governo per salvare la Patria e soprattutto il loro fondoschiena compromesso e dolorante dopo la nottataccia del risultato referendario. Lasciamo per un attimo da parte il piano politico, già di per sé imbarazzante, e stiamo su quello della dignità umana, merce rara dalle parti del potere. Se ho capito bene il Pd e Renzi chiedono a un uomo al quale hanno tolto con l'inganno i diritti politici di diventare socio politico. Il fatto che mentano, che sia una sceneggiata tattica, è un dettaglio. Il solo proporlo dovrebbe comportare contemporanee scuse e conseguente riabilitazione. Accompagnando il tutto da una richiesta ai giudici del tribunale europeo, dove giace volutamente dimenticato il ricorso di Berlusconi, di fare presto e bene.
È la seconda volta, la prima fu il patto del Nazareno, che Renzi prova a usare Berlusconi con grande spregiudicatezza e per fini personali senza affrontare il cuore della questione, cioè il tarlo di un grande leader politico ingiustamente privato dei suoi diritti e delle sue libertà. L'uomo è fatto così: sfrutta, inganna, scappa. In una parola è inaffidabile sul piano umano, del rispetto dei principi ancora prima che incapace su quello politico. Davvero crediamo che si possano fare patti con gente di questa risma?
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
ALL’INTERNO DI UN’AUTOBOTTE DELLA BIRAGHI SPURGHI.
Scrive nell'articolo precedente Alessandro Sallusti:
.........cioè il tarlo di un grande leader politico ingiustamente privato dei suoi diritti e delle sue libertà
Dagospia, in chiusura, pubblica la foto del grande leader politico:
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cron ... 137387.htm
Scrive nell'articolo precedente Alessandro Sallusti:
.........cioè il tarlo di un grande leader politico ingiustamente privato dei suoi diritti e delle sue libertà
Dagospia, in chiusura, pubblica la foto del grande leader politico:
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cron ... 137387.htm
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Re: VERSO QUALE FUTURO?
UN MOMENTO DIFFICILE ALL'INTERNO DELL'AUTOBOTTE DELLA BIRAGHI SPURGHI SPA.
SE ANCHE GALLONI SBROCCA
Galloni: referendum inutile, se il padrone resta Bruxelles
Scritto il 10/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Il lato oscuro di una grande vittoria? Questo: «Molti di quelli che hanno fatto votare No e cadere Renzi sono responsabili del disastro nel quale si trovano le istituzioni e la società italiane. Quindi: usciremo dagli inganni e dagli errori di un trentacinquennio da incubo o dovremo comunque continuare a sottostare ai diktat esterni?». Se lo domanda l’economista keynesiano Nino Galloni,.............
SE ANCHE GALLONI SBROCCA
Galloni: referendum inutile, se il padrone resta Bruxelles
Scritto il 10/12/16 • nella Categoria: idee Condividi
Il lato oscuro di una grande vittoria? Questo: «Molti di quelli che hanno fatto votare No e cadere Renzi sono responsabili del disastro nel quale si trovano le istituzioni e la società italiane. Quindi: usciremo dagli inganni e dagli errori di un trentacinquennio da incubo o dovremo comunque continuare a sottostare ai diktat esterni?». Se lo domanda l’economista keynesiano Nino Galloni,.............
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