Dove va l'America?
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Re: Dove va l'America?
Da un trafiletto del Corriere della Sera di oggi.
Il peggior esordio dal 1981
E la popolarità scende al 37%
Cala il livello di gradimento verso
il presidente degli Stati Uniti
Donald Trump stando ad un
nuovo sondaggio Gallup in base al
quale soltanto il 37% degli interpellati
dice di approvare il lavoro svolto da
Trump mentre il 58% disapprova. Lo
studio sembra così confermare una
tendenza già registrata da un
rilevamento diffuso da Fox News e
condotto all’inizio del mese che
mostrava una riduzione del 5% per il
livello di approvazione sull’operato
del presidente rispetto al mese
precedente, con il 43% a favore
dell’operato di Trump e il 51%
contrario, mentre nello stesso studio
condotto a febbraio il 48% diceva di
approvare il suo lavoro e il 47%.
È il dato più basso segnato da un
presidente degli Stati Uniti 60 giorni
dopo l’insediamento se guardiamo gli
ultimi cinque leader della Casa Bianca
dal 1981 in poi. Il presidente Ronald
Reagan aveva il 60%, George H. W.
Bush il 56%, Bill Clinton il 53%,
George W. Bush il 58%, mentre Barack
Obama batte tutti con il 63%.
Il peggior esordio dal 1981
E la popolarità scende al 37%
Cala il livello di gradimento verso
il presidente degli Stati Uniti
Donald Trump stando ad un
nuovo sondaggio Gallup in base al
quale soltanto il 37% degli interpellati
dice di approvare il lavoro svolto da
Trump mentre il 58% disapprova. Lo
studio sembra così confermare una
tendenza già registrata da un
rilevamento diffuso da Fox News e
condotto all’inizio del mese che
mostrava una riduzione del 5% per il
livello di approvazione sull’operato
del presidente rispetto al mese
precedente, con il 43% a favore
dell’operato di Trump e il 51%
contrario, mentre nello stesso studio
condotto a febbraio il 48% diceva di
approvare il suo lavoro e il 47%.
È il dato più basso segnato da un
presidente degli Stati Uniti 60 giorni
dopo l’insediamento se guardiamo gli
ultimi cinque leader della Casa Bianca
dal 1981 in poi. Il presidente Ronald
Reagan aveva il 60%, George H. W.
Bush il 56%, Bill Clinton il 53%,
George W. Bush il 58%, mentre Barack
Obama batte tutti con il 63%.
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Re: Dove va l'America?
21 marzo 2017
Da Moro a Trump
La caccia al cinghiale è ufficialmente iniziata. Ieri il capo dell’Fbi James Comey ha dichiarato che è stata aperta un’inchiesta riguardante eventuali influenze russe sulle presidenziali Usa in accordo con lo staff elettorale di Trump. Una dichiarazione resa in una sede ufficiale, ovvero la commissione intelligence del Congresso, istituita anch’essa per indagare in tale direzione.
A rafforzare le affermazioni di Comey, la presenza accanto a lui del capo della Nsa (national security agency), Mike Rogers, che ha implicitamente spalleggiato il collega e ha confermato che la denuncia di Trump circa un’asserito spionaggio di Obama nei suoi confronti durante la campagna elettorale è infondata.
Le indiscrezioni sui legami tra esponenti russi e gli uomini dell’inquilino della Casa Bianca hanno già fatto vittime illustri: da Paul Manafort, che si è dovuto allontanare da Trump, a Michael Fliynn, anche lui costretto a rinunciare alla carica di consigliere per la sicurezza nazionale. Come anche l’attuale segretario alla Giustizia, Jeff Cadmessus, che ha dovuto rinunciare a partecipare all’inchiesta sul russia-gate.
La caccia è iniziata appunto: gli uomini dell’apparato cercheranno in tutti i modi di stringere in una morsa gli uomini del presidente, mentre questi verranno costretti alla gogna della commissione d’inchiesta, dove ogni loro parola e ogni loro silenzio gli sarà ritorto contro.
Ma il cinghialone è lui, Donald Trump, che un imprevisto ha portato sulla poltrona più importante degli Stati Uniti, nonostante tanta parte dell’apparato statunitense (politico, mediatico, di intelligence e militare) abbia provato a fermarlo in ogni modo.
Hanno provato a screditare la sua figura, ridotta a una sordida macchietta xenofoba (lui ci ha messo del suo, certo, ma la sua avversaria, Hillary Clinton, non è certo santa Teresa d’Avila).
In più, al solito, hanno agitato lo spettro della catastrofe economica in caso di una sua affermazione; usuali fiumi di inchiostro sono stati versati per descrivere tale nefasta eventualità, che è stata puntualmente smentita: con Trump l’economia degli Stati Uniti ha ripreso a respirare e sperare.
Non ci sono riusciti a fermarlo allora, ci provano oggi con tutti i mezzi a loro disposizione. Federico Rampini sulla Repubblica di oggi spiega che è ancora presto per immaginare l’inizio di una procedura di impeachment, stante che i repubblicani sarebbero costretti a sostenere il loro presidente anche obtorto collo. E però alcuni repubblicani «hanno interesse a indebolirlo: finalmente smetterebbe di dettare la sua agenda. E sarebbe una rivincita dell’establishement».
In realtà Rampini la fa un po’ facile. Quello che è in ballo, come dimostra il tema della contesa, non è tanto l’agenda di Trump, ma se egli sarà libero di fare passi in direzione di un attutimento delle tensioni con Mosca o sarà costretto suo malgrado a convertirsi alla religione anti-russa, sposando i suoi dogmi che vedono in Mosca il male assoluto.
Ad oggi il presidente non ha dato seguito a quanto promesso in campagna elettorale, ovvero avviare una nuova stagione di collaborazione con Putin in chiave anti-terrorismo. Il fuoco di sbarramento del russia-gate glielo ha impedito.
Ma, allo stesso tempo, Trump ha evitato di lanciare strali contro Mosca, cosa alla quale si era dovuto piegare anche Obama, nonostante anche lui avesse iniziato la sua avventura presidenziale all’insegna del disimpegno militare americano nel mondo in una prospettiva di collaborazione multipolare.
Nonostante tutto Trump non ha ancora ceduto. Da qui l’accanimento nei suoi confronti. D’altronde dal ’78 ad oggi la politica del mondo per tanta parte ruota attorno a un unico perno: se la Russia debba essere accettata nel consesso internazionale come un partner degno di credito o se debba essere considerata un avversario da abbattere.
Nel ’78 la prospettiva di un appeasement con Mosca, ideata da Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Franco Rodano e Aldo Moro (e assecondata nei modi e nelle forme possibili a un papa, da Paolo VI), finì con l’assassinio di Moro, schiacciato dalla morsa della Guerra Fredda che accomunava il complesso militare industriale russo a quello americano.
Una svolta che portò, nell’89, al crollo della Russia, in realtà iniziato proprio nel ’78. Un crollo inarrestabile nonostante la breve parabola gorbacioviana, il quale aveva immaginato di poter attuare la prospettiva italiana rovesciandola, ovvero facendola iniziare dal centro piuttosto che dalla periferia.
Da allora tale prospettiva ha perso di attualità, dal momento che la Russia è stata per lungo tempo relegata ai margini della geopolitica internazionale. Ma Putin ha riportato la Russia alla ribalta e oggi si ripropone il vecchio dilemma che ha lacerato a suo tempo l’Occidente: se cioè considerarla come un partner o avversarla. In fondo la storia tende spesso a ripetersi. Trump ha vinto le elezioni americane sull’onda della prima prospettiva.
Non possiamo paragonare Trump a Moro o ai politici che hanno partecipato della sua visione, ovviamente. Sarebbe paragone scellerato data la consistenza delle figure politiche in questione e il cambiamento epocale da allora avvenuto, nella geopolitica e in altro.
E però la prospettiva che egli incarna rispetto all’approccio con Mosca è assimilabile a quella che allora incarnava Moro (partendo da destra e non da sinistra), E in Occidente trova le stesse, feroci, forze ostative.
Da Moro a Trump
La caccia al cinghiale è ufficialmente iniziata. Ieri il capo dell’Fbi James Comey ha dichiarato che è stata aperta un’inchiesta riguardante eventuali influenze russe sulle presidenziali Usa in accordo con lo staff elettorale di Trump. Una dichiarazione resa in una sede ufficiale, ovvero la commissione intelligence del Congresso, istituita anch’essa per indagare in tale direzione.
A rafforzare le affermazioni di Comey, la presenza accanto a lui del capo della Nsa (national security agency), Mike Rogers, che ha implicitamente spalleggiato il collega e ha confermato che la denuncia di Trump circa un’asserito spionaggio di Obama nei suoi confronti durante la campagna elettorale è infondata.
Le indiscrezioni sui legami tra esponenti russi e gli uomini dell’inquilino della Casa Bianca hanno già fatto vittime illustri: da Paul Manafort, che si è dovuto allontanare da Trump, a Michael Fliynn, anche lui costretto a rinunciare alla carica di consigliere per la sicurezza nazionale. Come anche l’attuale segretario alla Giustizia, Jeff Cadmessus, che ha dovuto rinunciare a partecipare all’inchiesta sul russia-gate.
La caccia è iniziata appunto: gli uomini dell’apparato cercheranno in tutti i modi di stringere in una morsa gli uomini del presidente, mentre questi verranno costretti alla gogna della commissione d’inchiesta, dove ogni loro parola e ogni loro silenzio gli sarà ritorto contro.
Ma il cinghialone è lui, Donald Trump, che un imprevisto ha portato sulla poltrona più importante degli Stati Uniti, nonostante tanta parte dell’apparato statunitense (politico, mediatico, di intelligence e militare) abbia provato a fermarlo in ogni modo.
Hanno provato a screditare la sua figura, ridotta a una sordida macchietta xenofoba (lui ci ha messo del suo, certo, ma la sua avversaria, Hillary Clinton, non è certo santa Teresa d’Avila).
In più, al solito, hanno agitato lo spettro della catastrofe economica in caso di una sua affermazione; usuali fiumi di inchiostro sono stati versati per descrivere tale nefasta eventualità, che è stata puntualmente smentita: con Trump l’economia degli Stati Uniti ha ripreso a respirare e sperare.
Non ci sono riusciti a fermarlo allora, ci provano oggi con tutti i mezzi a loro disposizione. Federico Rampini sulla Repubblica di oggi spiega che è ancora presto per immaginare l’inizio di una procedura di impeachment, stante che i repubblicani sarebbero costretti a sostenere il loro presidente anche obtorto collo. E però alcuni repubblicani «hanno interesse a indebolirlo: finalmente smetterebbe di dettare la sua agenda. E sarebbe una rivincita dell’establishement».
In realtà Rampini la fa un po’ facile. Quello che è in ballo, come dimostra il tema della contesa, non è tanto l’agenda di Trump, ma se egli sarà libero di fare passi in direzione di un attutimento delle tensioni con Mosca o sarà costretto suo malgrado a convertirsi alla religione anti-russa, sposando i suoi dogmi che vedono in Mosca il male assoluto.
Ad oggi il presidente non ha dato seguito a quanto promesso in campagna elettorale, ovvero avviare una nuova stagione di collaborazione con Putin in chiave anti-terrorismo. Il fuoco di sbarramento del russia-gate glielo ha impedito.
Ma, allo stesso tempo, Trump ha evitato di lanciare strali contro Mosca, cosa alla quale si era dovuto piegare anche Obama, nonostante anche lui avesse iniziato la sua avventura presidenziale all’insegna del disimpegno militare americano nel mondo in una prospettiva di collaborazione multipolare.
Nonostante tutto Trump non ha ancora ceduto. Da qui l’accanimento nei suoi confronti. D’altronde dal ’78 ad oggi la politica del mondo per tanta parte ruota attorno a un unico perno: se la Russia debba essere accettata nel consesso internazionale come un partner degno di credito o se debba essere considerata un avversario da abbattere.
Nel ’78 la prospettiva di un appeasement con Mosca, ideata da Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Franco Rodano e Aldo Moro (e assecondata nei modi e nelle forme possibili a un papa, da Paolo VI), finì con l’assassinio di Moro, schiacciato dalla morsa della Guerra Fredda che accomunava il complesso militare industriale russo a quello americano.
Una svolta che portò, nell’89, al crollo della Russia, in realtà iniziato proprio nel ’78. Un crollo inarrestabile nonostante la breve parabola gorbacioviana, il quale aveva immaginato di poter attuare la prospettiva italiana rovesciandola, ovvero facendola iniziare dal centro piuttosto che dalla periferia.
Da allora tale prospettiva ha perso di attualità, dal momento che la Russia è stata per lungo tempo relegata ai margini della geopolitica internazionale. Ma Putin ha riportato la Russia alla ribalta e oggi si ripropone il vecchio dilemma che ha lacerato a suo tempo l’Occidente: se cioè considerarla come un partner o avversarla. In fondo la storia tende spesso a ripetersi. Trump ha vinto le elezioni americane sull’onda della prima prospettiva.
Non possiamo paragonare Trump a Moro o ai politici che hanno partecipato della sua visione, ovviamente. Sarebbe paragone scellerato data la consistenza delle figure politiche in questione e il cambiamento epocale da allora avvenuto, nella geopolitica e in altro.
E però la prospettiva che egli incarna rispetto all’approccio con Mosca è assimilabile a quella che allora incarnava Moro (partendo da destra e non da sinistra), E in Occidente trova le stesse, feroci, forze ostative.
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Re: Dove va l'America?
Tecno
Electronic ban, vietare pc e tablet sugli aerei fa felici solo i mascalzoni
di Umberto Rapetto | 22 marzo 2017
commenti (64)
211
Più informazioni su: Donald Trump, Tablet, Terrorismo
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Umberto Rapetto
Giornalista, scrittore e docente universitario
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La paura fa certamente 90, ma la sicurezza non è una lotteria. Il recente provvedimento di messa al bando dei computer portatili e tablet ha lasciato sorpresi non solo i comuni mortali ma un po’ tutti gli esperti del settore e anche quelli che – pur di guadagnarsi uno spazio sui giornali, un’intervista radiofonica o un’apparizione televisiva – non disdegnano il ruolo di cassa armonica del facile allarmismo.
La sorpresa, per gli appassionati di estrazioni a sorte, fa 72 e chi mai dovesse fare ambo è pregato di ricordarsi del sottoscritto, almeno a titolo di riconoscente simpatia.
Chi spera in un terno punterebbe anche sul 16 che – secondo la smorfia napoletana – corrisponderebbe non solo al fondoschiena ma anche alla stupidaggine. Mi fermo qui. Ne ho dette anch’io a sufficienza, ma mi è servito per sdrammatizzare un divieto che rischia solo di creare confusione, recare disagi, innescare altre mille problematiche, senza portare a sostanziali benefici per la serenità del trasporto aereo.
Senza dubbio un dispositivo elettronico che supera certe dimensioni può ospitare sostanze esplosive e un esame superficiale potrebbe far confondere la circuiteria per la relativa attivazione con la normale componentistica hardware di qualunque oggetto informatico. Proprio per questo motivo – in maniera molto empirica – i più solerti addetti ai controlli nelle aerostazioni chiedono ai passeggeri di avviare il pc o il palmare così da verificarne la funzionalità e quindi l’effettiva corrispondenza di tale attrezzo con quel che sembra esteriormente. La soluzione pratica sembra efficace fino a quando non si comincia a pensare che proprio quell’operazione potrebbe scongiurare un’esplosione a bordo ma far scattare immediatamente una deflagrazione che vedrebbe comunque coinvolte le persone nelle immediate vicinanze. La fantasia è destinata a galoppare, specie quella dei criminali, e si rischia di sprofondare in un vortice ansiogeno. Restiamo alla norma a stelle e strisce.
L’individuazione dei Paesi di provenienza e delle linee aeree che operano negli scali più a rischio, non tiene conto delle possibili triangolazioni delle rotte. Il passeggero malintenzionato può rinunciare al volo diretto e prevedere un itinerario che – magari con una sosta di qualche giorno a metà viaggio – gli regali una sorta di “verginità” con la ripartenza da un aeroporto non incluso nella black list angloamericana.
Qualcuno dice che la scelta di collocare in stiva determinate apparecchiature un tempo portate in cabina è suggerita da una maggiore robustezza della porzione “cargo” degli aerei di linea rispetto la parte della carlinga che ospita i passeggeri. La miniaturizzazione delle cariche esplosive e la possibilità di attivarle a distanza potrebbe indurre al veto di portare al seguito qualunque congegno in grado di trasmettere impulsi radio. Anche un banale telecomando della serranda del garage o le chiavi di una moderna automobile si troverebbero rapidamente nell’elenco degli oggetti proibiti (dove già svettano i “micidiali” tagliaunghie e altre potenziali armi da taglio).
La International Civil Aviation Organization e le statunitensi Federal Aviation Administration e Safety Board e National Transportation Safety Board sono al lavoro per fare chiarezza in proposito. L’introduzione della novità normativa trova radice in segnalazioni dell’intelligence che hanno rispolverato anche “marchi vintage” del terrorismo come quello ormai desueto di al-Qaeda da tempo surclassato dall’Isis.
La corsa alle giustificazioni è partita in fretta.
C’è perfino chi ha rammentato che la temibile organizzazione Boko Haram ha previsto l’impiego di computer portatili farciti di esplosivo da lasciare incustoditi nelle università nigeriane per mietere vittime tra chi li rinvenga. Ma è una “vecchia storia”, simile a quella delle “mine farfalla” Pfm-1 raccontata da Vauro Senesi nel suo spettacolo ancora oggi al Teatro Vittoria oppure a quelle delle atroci tecniche di guerra che abbiamo conosciuto in Vietnam con gli ordigni piazzati all’interno di innocenti giocattoli.
La questione odierna è diversa.
Non è una restrizione a risolvere il problema. I controlli devono essere fatti in maniera più seria e severa, ricorrendo alle tecnologie più sofisticate e ad ogni altro strumento preventivo. L’intelligence deve fare il suo mestiere, magari arruolando o assumendo specialisti invece dei soliti raccomandati, degli immancabili parenti, dei consueti amici, così da intercettare progetti e piani e da anticipare propositi randomici di lupi solitari.
Escludere dal bagaglio a mano pc e tablet farà solo la gioia dei mascalzoni che da anni si insinuano nelle realtà che trasportano e smistano le valigie, saggiandone e alleggerendone il contenuto.
@Umberto_Rapetto
Electronic ban, vietare pc e tablet sugli aerei fa felici solo i mascalzoni
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La paura fa certamente 90, ma la sicurezza non è una lotteria. Il recente provvedimento di messa al bando dei computer portatili e tablet ha lasciato sorpresi non solo i comuni mortali ma un po’ tutti gli esperti del settore e anche quelli che – pur di guadagnarsi uno spazio sui giornali, un’intervista radiofonica o un’apparizione televisiva – non disdegnano il ruolo di cassa armonica del facile allarmismo.
La sorpresa, per gli appassionati di estrazioni a sorte, fa 72 e chi mai dovesse fare ambo è pregato di ricordarsi del sottoscritto, almeno a titolo di riconoscente simpatia.
Chi spera in un terno punterebbe anche sul 16 che – secondo la smorfia napoletana – corrisponderebbe non solo al fondoschiena ma anche alla stupidaggine. Mi fermo qui. Ne ho dette anch’io a sufficienza, ma mi è servito per sdrammatizzare un divieto che rischia solo di creare confusione, recare disagi, innescare altre mille problematiche, senza portare a sostanziali benefici per la serenità del trasporto aereo.
Senza dubbio un dispositivo elettronico che supera certe dimensioni può ospitare sostanze esplosive e un esame superficiale potrebbe far confondere la circuiteria per la relativa attivazione con la normale componentistica hardware di qualunque oggetto informatico. Proprio per questo motivo – in maniera molto empirica – i più solerti addetti ai controlli nelle aerostazioni chiedono ai passeggeri di avviare il pc o il palmare così da verificarne la funzionalità e quindi l’effettiva corrispondenza di tale attrezzo con quel che sembra esteriormente. La soluzione pratica sembra efficace fino a quando non si comincia a pensare che proprio quell’operazione potrebbe scongiurare un’esplosione a bordo ma far scattare immediatamente una deflagrazione che vedrebbe comunque coinvolte le persone nelle immediate vicinanze. La fantasia è destinata a galoppare, specie quella dei criminali, e si rischia di sprofondare in un vortice ansiogeno. Restiamo alla norma a stelle e strisce.
L’individuazione dei Paesi di provenienza e delle linee aeree che operano negli scali più a rischio, non tiene conto delle possibili triangolazioni delle rotte. Il passeggero malintenzionato può rinunciare al volo diretto e prevedere un itinerario che – magari con una sosta di qualche giorno a metà viaggio – gli regali una sorta di “verginità” con la ripartenza da un aeroporto non incluso nella black list angloamericana.
Qualcuno dice che la scelta di collocare in stiva determinate apparecchiature un tempo portate in cabina è suggerita da una maggiore robustezza della porzione “cargo” degli aerei di linea rispetto la parte della carlinga che ospita i passeggeri. La miniaturizzazione delle cariche esplosive e la possibilità di attivarle a distanza potrebbe indurre al veto di portare al seguito qualunque congegno in grado di trasmettere impulsi radio. Anche un banale telecomando della serranda del garage o le chiavi di una moderna automobile si troverebbero rapidamente nell’elenco degli oggetti proibiti (dove già svettano i “micidiali” tagliaunghie e altre potenziali armi da taglio).
La International Civil Aviation Organization e le statunitensi Federal Aviation Administration e Safety Board e National Transportation Safety Board sono al lavoro per fare chiarezza in proposito. L’introduzione della novità normativa trova radice in segnalazioni dell’intelligence che hanno rispolverato anche “marchi vintage” del terrorismo come quello ormai desueto di al-Qaeda da tempo surclassato dall’Isis.
La corsa alle giustificazioni è partita in fretta.
C’è perfino chi ha rammentato che la temibile organizzazione Boko Haram ha previsto l’impiego di computer portatili farciti di esplosivo da lasciare incustoditi nelle università nigeriane per mietere vittime tra chi li rinvenga. Ma è una “vecchia storia”, simile a quella delle “mine farfalla” Pfm-1 raccontata da Vauro Senesi nel suo spettacolo ancora oggi al Teatro Vittoria oppure a quelle delle atroci tecniche di guerra che abbiamo conosciuto in Vietnam con gli ordigni piazzati all’interno di innocenti giocattoli.
La questione odierna è diversa.
Non è una restrizione a risolvere il problema. I controlli devono essere fatti in maniera più seria e severa, ricorrendo alle tecnologie più sofisticate e ad ogni altro strumento preventivo. L’intelligence deve fare il suo mestiere, magari arruolando o assumendo specialisti invece dei soliti raccomandati, degli immancabili parenti, dei consueti amici, così da intercettare progetti e piani e da anticipare propositi randomici di lupi solitari.
Escludere dal bagaglio a mano pc e tablet farà solo la gioia dei mascalzoni che da anni si insinuano nelle realtà che trasportano e smistano le valigie, saggiandone e alleggerendone il contenuto.
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Re: Dove va l'America?
DOPO LA NOTIZIA DI CICCIO KIM CHE SI ALZA ALLA MATTINA SPARANDO MISSILI, OGGI LA CILIEGINA SULLA TORTA MADE IN USA.
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Incubo Fema: fronteggiare 6 milioni di ’superstiti’. Da cosa?
Scritto il 23/3/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Campi di detenzione e soccorso, scorte di sopravvivenza, decine di migliaia di soldati addestrati alla guerra domestica, antisommossa.
E poi enormi concentrazioni di mezzi blindati, caricati su treni.
E persino bare multiple, per milioni di persone, dislocate negli Usa.
Voci che sul web si riconcorrono da anni e si vanno infittendo, come segnala Gabriele Lombardo, che su “Seven Network” parla della Fema, la Federal Emergency Management Agency, e della «mega emergenza, tra campi, bare, scorte, mezzi e altre stanezze», attorno al presunto iper-attivismo della protezione civile americana.
Fonti?
Esclusivamente «in rete, tra siti governativi, di protesta contro i campi, e notizie che arrivano da tutti i fronti (compresi video che ci mostrano queste zone con riprese aeree)».
Fantasie? Incubi?
Nel romanzo “La strada”, Cormac McCarthy mette in scena gli ultimi superstiti di un’umanità livida e pericolosa, devastata da una catastrofe apocalittica.
Qualcuno si sta preparando a qualcosa di simile?
«Ormai – scrive Lombardo – sono anni che sentiamo parlare di campi di concentramento e detenzione, dell’acquisto di bare a sei posti, di intere aree di cimiteri, di razioni liofilizzate a milioni, mezzi speciali.
Ma di cosa stiamo parlando, realmente?».
La domanda: «Cosa c’è in moto, e a cosa servono tutti questi preparativi ed accantonamenti di materiale?
A cosa servono tutti questi campi e l’approvvigionamento di scorte alimentari e di beni di prima necessità, soccorso, sopravvivenza e via discorrendo?».
“Seven Network” individua tre tipologie di “campi” sul territorio Usa: «Il primo tipo, in effetti, come dicono le voci complottistiche, sembra un campo di prigionia classico, il secondo sembra un campo di protezione e il terzo sembra addirittura un agglomerato urbano indipendente».
Nel campo di primo tipo, «già visto nei “lager”e “gulag” rispettivamente tedeschi e sovietici», l’area è delimitata da cerchi concentrici di filo spinato militare, invalicabile.
Nella seconda tipologia, invece, «non ci sono le sporgenze con il filo spinato dal lato interno, cosa che dimostra che è chi sta dentro a dover essere protetto da chi invece sta fuori dal campo».
L’ospite, protetto con torrette e postazioni per mitragliatrici, «non viene considerato un possibile fuggitivo-prigioniero o una minaccia».
Nel terzo tipo di campi Fema, poi, non ci sono nemmeno recinzioni vere e proprie. Al suo interno, anziché baracche in legno come nei precedenti, si trovano mezzi bianchi, camper e roulotte, oppure case prefabbricate antivento, anche’esse bianche, dotate di ogni comfort e circondate da canali idrici e aree coltivabili.
«Negli ultimi due tipi di campi di cui abbiamo parlato, è presente una struttura centrale fortificata che sembra essere costruita per la difesa urbana estrema, e soprattutto nel caso dei campi di protezione (i terzi descritti), la fortificazione interna sembra poter ospitare per giorni molti civili e militari, dove check-point con tanto di ingressi con sbarre rotanti automatizzate e cemento armato ovunque, impediscono l’ingresso a chi non ha permessi per entrare».
Per Lombardo, sembra di osservare «un tipico punto di controllo e smistamento persone delle aree a rischio terrorismo, guerra urbana e rivolte armate, come quelli già visti nello Stato d’Israele o dopo le guerre di Afghanistan e Iraq».
Deduzione: «È probabile che i tre tipi di campi abbiano tre scopi differenti», come se il governo avesse «preparato vari tipi di piani di emergenza per tipi differenti di situazione».
I documenti di emergenza della protezione civile statunitense contemplano «terremoti devastanti, eruzioni vulcaniche cataclismatiche, attacchi terroristici nucleari, epidemie incontrollabili, pandemie globali, guerra chimica e batteriologica, impatto di una grande meteora, multi-impatto meteoritico, mega-tsunami, black-out totale prolungato, militarizzazione del sistema con legge marziale, impiego dell’esercito per disarmo forzato dei civili, e tanto altro ancora».
In effetti, aggiunge “Seven Network”, è possibile che in ogni zona degli Stati americani sotto un unico comando abbiano creato strutture differenti sul territorio per diverse situazioni verificabili, «e questo spiegherebbe in buona parte anche l’incredibile dislocamento e concentramento in punti precisi di mezzi militari, di mezzi da escavazione, di gruppi elettrogeni, potabilizzatori di acqua, e molti altri veicoli».
Non va dimenticato che negli Usa ci sono altissimi rischi di cataclisma: uragani, inondazioni e tifoni.
Dunque, «alcune procedure del Fema, così come alcuni assembramenti di mezzi, potrebbero essere giustificate».
A inquietare, ovviamente, sono i numeri: perché tante bare?
«Alcune fonti», sempre su web, «parlano di 500.000 bare da 6 posti ciascuno, ovvero contenitori per tre milioni di corpi», mentre «altre fonti» (non precisate) parlano addirittura di 6 milioni di bare “multiple”, cioè riservate a 36 milioni di corpi.
Le classiche “fake news”?
Un risvolto non verificabile, né confermato da nessuna fonte ufficiale, riguarda le voci del “sequestro”, da parte dell’esercito, di intere aree cimiteriali.
Più precise invece le informazioni sulle bare, in materiale plastico, prodotte dall’azienda Polyguard & Co che si occupa specificatamente di bare “sicure”, asettiche ed ermetiche, al riparo da infiltrazioni di qualsiasi genere.
«Un’altra stranezza assurda – aggiunge Lombardo – è l’acquisto da parte di alcuni Stati americani di ghigliottine automatiche; risulta infatti, da documenti, che alcuni Stati ne hanno comprate per un totale di 200 unità, e questo apre scenari sconcertanti ed enigmatici».
Altra “stranezza”, «l’acquisto di migliaia di mezzi antisommossa, e l’addestramento da parte del governo Usa di oltre 30.0000 soldati in guerra urbana».
Tra le priorità dell’addestramento ci sarebbero «l’irruzione in casa, il blocco di persone in fuga, il disarmo con uso della forza dei civili, l’abbattimento di persone che minacciano i militari o altri civili con armi, le irruzioni elicotteristiche su circuito urbano e in mezzo al traffico autostradale, il trasporto e la scorta di gruppi di civili con mezzi blindati e treni speciali, l’uso di munizioni ad ogiva forata».
“Seven Network” riferisce di esercitazioni a Houston e Los Angeles, dove «gli elicotteri hanno terrorizzato le persone bloccate in autostrada durante un’esercitazione sparando munizioni a salve», nei primi mesi del 2013.
«In questi episodi, si simulava un’incursione sopra i civili incolonnati e bloccati in autostrada».
Altre esercitazioni si sarebbero svolte «in città degli Stati del Sud», dove i militari in assetto antiterrorismo «irrompevano in abitazioni civili per snidare uomini armati che facevano resistenza».
Poi c’è la grande concentrazione di mezzi, cresciuta a dismisura sotto la presidenza Obama: «Le testimonianze di persone che hanno parlato attraverso i media o principalmente divulgato informazioni in rete attraverso foto e video, hanno largamente dimostrato la presenza di mezzi militari antisommossa non solo statunitensi ma anche di altre nazioni in molte città americane, di mezzi militari da difesa e combattimento schierati nel deserto del Nevada e in quello della California, di intere caserme e aree adiacenti a quelle metropolitane».
Si parla di «quantità incredibili di pale meccaniche, gruppi elettrogeni, camion da trasporto materiali, ruspe, potabilizzatori d’acqua, mezzi per il monitoraggio dell’inquinamento, per le telecomunicazioni satellitari e tanti altri tipi di velivoli strani ed inconsueti».
Quanto all’accumulo di provviste, si stima possa servire a milioni di persone, con anche «kit medici, acqua potabile, coperte termiche, cibo in scatola», il tutto destinato a “superstiti”.
Secondo Lombardo, «i campi Fema possono ospitare 42-48 milioni di persone, le bare e le sepolture della stessa agenzia ne possono ospitare 6-36 milioni a seconda del reale numero, le scorte di sopravvivenza sono calcolate per 6 milioni di superstiti, quelle di cibo se consideriamo i 10 giorni di razionamento a persona (tre pasti giornalieri ciascuno come specificato proprio dall’ente governativo) abbiamo pasti per più di 6 milioni di superstiti».
Lombardo considera “gonfiato” il numero di persone ospitabili nei campi: «Considerando la quantità di campi presenti negli Stati Uniti e la loro grandezza, e non per ultimo il numero approssimativo di strutture al loro interno, possiamo certamente scendere a circa 6 milioni di persone».
E quindi: 6 milioni di superstiti, reclusi-ospiti-protetti, da sfamare e da seppellire? «Sarà solo una teoria strampalata oppure è una concreta possibilità?».
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Incubo Fema: fronteggiare 6 milioni di ’superstiti’. Da cosa?
Scritto il 23/3/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Campi di detenzione e soccorso, scorte di sopravvivenza, decine di migliaia di soldati addestrati alla guerra domestica, antisommossa.
E poi enormi concentrazioni di mezzi blindati, caricati su treni.
E persino bare multiple, per milioni di persone, dislocate negli Usa.
Voci che sul web si riconcorrono da anni e si vanno infittendo, come segnala Gabriele Lombardo, che su “Seven Network” parla della Fema, la Federal Emergency Management Agency, e della «mega emergenza, tra campi, bare, scorte, mezzi e altre stanezze», attorno al presunto iper-attivismo della protezione civile americana.
Fonti?
Esclusivamente «in rete, tra siti governativi, di protesta contro i campi, e notizie che arrivano da tutti i fronti (compresi video che ci mostrano queste zone con riprese aeree)».
Fantasie? Incubi?
Nel romanzo “La strada”, Cormac McCarthy mette in scena gli ultimi superstiti di un’umanità livida e pericolosa, devastata da una catastrofe apocalittica.
Qualcuno si sta preparando a qualcosa di simile?
«Ormai – scrive Lombardo – sono anni che sentiamo parlare di campi di concentramento e detenzione, dell’acquisto di bare a sei posti, di intere aree di cimiteri, di razioni liofilizzate a milioni, mezzi speciali.
Ma di cosa stiamo parlando, realmente?».
La domanda: «Cosa c’è in moto, e a cosa servono tutti questi preparativi ed accantonamenti di materiale?
A cosa servono tutti questi campi e l’approvvigionamento di scorte alimentari e di beni di prima necessità, soccorso, sopravvivenza e via discorrendo?».
“Seven Network” individua tre tipologie di “campi” sul territorio Usa: «Il primo tipo, in effetti, come dicono le voci complottistiche, sembra un campo di prigionia classico, il secondo sembra un campo di protezione e il terzo sembra addirittura un agglomerato urbano indipendente».
Nel campo di primo tipo, «già visto nei “lager”e “gulag” rispettivamente tedeschi e sovietici», l’area è delimitata da cerchi concentrici di filo spinato militare, invalicabile.
Nella seconda tipologia, invece, «non ci sono le sporgenze con il filo spinato dal lato interno, cosa che dimostra che è chi sta dentro a dover essere protetto da chi invece sta fuori dal campo».
L’ospite, protetto con torrette e postazioni per mitragliatrici, «non viene considerato un possibile fuggitivo-prigioniero o una minaccia».
Nel terzo tipo di campi Fema, poi, non ci sono nemmeno recinzioni vere e proprie. Al suo interno, anziché baracche in legno come nei precedenti, si trovano mezzi bianchi, camper e roulotte, oppure case prefabbricate antivento, anche’esse bianche, dotate di ogni comfort e circondate da canali idrici e aree coltivabili.
«Negli ultimi due tipi di campi di cui abbiamo parlato, è presente una struttura centrale fortificata che sembra essere costruita per la difesa urbana estrema, e soprattutto nel caso dei campi di protezione (i terzi descritti), la fortificazione interna sembra poter ospitare per giorni molti civili e militari, dove check-point con tanto di ingressi con sbarre rotanti automatizzate e cemento armato ovunque, impediscono l’ingresso a chi non ha permessi per entrare».
Per Lombardo, sembra di osservare «un tipico punto di controllo e smistamento persone delle aree a rischio terrorismo, guerra urbana e rivolte armate, come quelli già visti nello Stato d’Israele o dopo le guerre di Afghanistan e Iraq».
Deduzione: «È probabile che i tre tipi di campi abbiano tre scopi differenti», come se il governo avesse «preparato vari tipi di piani di emergenza per tipi differenti di situazione».
I documenti di emergenza della protezione civile statunitense contemplano «terremoti devastanti, eruzioni vulcaniche cataclismatiche, attacchi terroristici nucleari, epidemie incontrollabili, pandemie globali, guerra chimica e batteriologica, impatto di una grande meteora, multi-impatto meteoritico, mega-tsunami, black-out totale prolungato, militarizzazione del sistema con legge marziale, impiego dell’esercito per disarmo forzato dei civili, e tanto altro ancora».
In effetti, aggiunge “Seven Network”, è possibile che in ogni zona degli Stati americani sotto un unico comando abbiano creato strutture differenti sul territorio per diverse situazioni verificabili, «e questo spiegherebbe in buona parte anche l’incredibile dislocamento e concentramento in punti precisi di mezzi militari, di mezzi da escavazione, di gruppi elettrogeni, potabilizzatori di acqua, e molti altri veicoli».
Non va dimenticato che negli Usa ci sono altissimi rischi di cataclisma: uragani, inondazioni e tifoni.
Dunque, «alcune procedure del Fema, così come alcuni assembramenti di mezzi, potrebbero essere giustificate».
A inquietare, ovviamente, sono i numeri: perché tante bare?
«Alcune fonti», sempre su web, «parlano di 500.000 bare da 6 posti ciascuno, ovvero contenitori per tre milioni di corpi», mentre «altre fonti» (non precisate) parlano addirittura di 6 milioni di bare “multiple”, cioè riservate a 36 milioni di corpi.
Le classiche “fake news”?
Un risvolto non verificabile, né confermato da nessuna fonte ufficiale, riguarda le voci del “sequestro”, da parte dell’esercito, di intere aree cimiteriali.
Più precise invece le informazioni sulle bare, in materiale plastico, prodotte dall’azienda Polyguard & Co che si occupa specificatamente di bare “sicure”, asettiche ed ermetiche, al riparo da infiltrazioni di qualsiasi genere.
«Un’altra stranezza assurda – aggiunge Lombardo – è l’acquisto da parte di alcuni Stati americani di ghigliottine automatiche; risulta infatti, da documenti, che alcuni Stati ne hanno comprate per un totale di 200 unità, e questo apre scenari sconcertanti ed enigmatici».
Altra “stranezza”, «l’acquisto di migliaia di mezzi antisommossa, e l’addestramento da parte del governo Usa di oltre 30.0000 soldati in guerra urbana».
Tra le priorità dell’addestramento ci sarebbero «l’irruzione in casa, il blocco di persone in fuga, il disarmo con uso della forza dei civili, l’abbattimento di persone che minacciano i militari o altri civili con armi, le irruzioni elicotteristiche su circuito urbano e in mezzo al traffico autostradale, il trasporto e la scorta di gruppi di civili con mezzi blindati e treni speciali, l’uso di munizioni ad ogiva forata».
“Seven Network” riferisce di esercitazioni a Houston e Los Angeles, dove «gli elicotteri hanno terrorizzato le persone bloccate in autostrada durante un’esercitazione sparando munizioni a salve», nei primi mesi del 2013.
«In questi episodi, si simulava un’incursione sopra i civili incolonnati e bloccati in autostrada».
Altre esercitazioni si sarebbero svolte «in città degli Stati del Sud», dove i militari in assetto antiterrorismo «irrompevano in abitazioni civili per snidare uomini armati che facevano resistenza».
Poi c’è la grande concentrazione di mezzi, cresciuta a dismisura sotto la presidenza Obama: «Le testimonianze di persone che hanno parlato attraverso i media o principalmente divulgato informazioni in rete attraverso foto e video, hanno largamente dimostrato la presenza di mezzi militari antisommossa non solo statunitensi ma anche di altre nazioni in molte città americane, di mezzi militari da difesa e combattimento schierati nel deserto del Nevada e in quello della California, di intere caserme e aree adiacenti a quelle metropolitane».
Si parla di «quantità incredibili di pale meccaniche, gruppi elettrogeni, camion da trasporto materiali, ruspe, potabilizzatori d’acqua, mezzi per il monitoraggio dell’inquinamento, per le telecomunicazioni satellitari e tanti altri tipi di velivoli strani ed inconsueti».
Quanto all’accumulo di provviste, si stima possa servire a milioni di persone, con anche «kit medici, acqua potabile, coperte termiche, cibo in scatola», il tutto destinato a “superstiti”.
Secondo Lombardo, «i campi Fema possono ospitare 42-48 milioni di persone, le bare e le sepolture della stessa agenzia ne possono ospitare 6-36 milioni a seconda del reale numero, le scorte di sopravvivenza sono calcolate per 6 milioni di superstiti, quelle di cibo se consideriamo i 10 giorni di razionamento a persona (tre pasti giornalieri ciascuno come specificato proprio dall’ente governativo) abbiamo pasti per più di 6 milioni di superstiti».
Lombardo considera “gonfiato” il numero di persone ospitabili nei campi: «Considerando la quantità di campi presenti negli Stati Uniti e la loro grandezza, e non per ultimo il numero approssimativo di strutture al loro interno, possiamo certamente scendere a circa 6 milioni di persone».
E quindi: 6 milioni di superstiti, reclusi-ospiti-protetti, da sfamare e da seppellire? «Sarà solo una teoria strampalata oppure è una concreta possibilità?».
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Re: Dove va l'America?
Dèja vu
Trump infatti è talmente impegnato a portare avanti la battaglia per proteggere le bugie che lui stesso si inventa quotidianamente, che senza volerlo sta minando alle fondamenta il ruolo ultracentennale che ha avuto fino ad oggi la stampa di regime: quello di stabilire che cosa fosse “la verità”.
Noi per vent’anni abbiamo avuto Silvio Berlusconi, poi è arrivato il suo allievo Pinocchio Mussoloni che ha superato il maestro.
Ed ancora oggi continuano indisturbati a raccontare balle su balle.
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Media bugiardi: Trump fa un regalo al mondo, senza volerlo
Scritto il 24/3/17 • nella Categoria: idee Condividi
Molti si aspettavano che il presidente Trump avrebbe rivelato al mondo la verità sull’11 Settembre. Molti si aspettavano che il presidente Trump avrebbe ristabilito un equilibrio geopolitico mondiale, togliendo alla Russia l’odiosa caratterizzazione di “Stato canaglia”. Molti si aspettavano (e tuttora sperano) che il presidente Trump riveli al mondo la verità sulla correlazione tra vaccini e autismo. Mentre probabilmente nessuna di queste speranze si avvererà fino in fondo, c’è il rischio che Donald Trump porti a termine, senza nemmeno volerlo, la completa demolizione della credibilità dei media mainstream. Trump infatti è talmente impegnato a portare avanti la battaglia per proteggere le bugie che lui stesso si inventa quotidianamente, che senza volerlo sta minando alle fondamenta il ruolo ultracentennale che ha avuto fino ad oggi la stampa di regime: quello di stabilire che cosa fosse “la verità”. Ecco alcuni esempi di come opera Trump. Quando si è inventato che «la questione del global warming è una invenzione dei cinesi per danneggiare la nostra economia», i giornalisti gli hanno chiesto di portare qualche prova di questa sua affermazione, ma Trump ha preferito mandarli al diavolo dicendo che «i giornaslisti non hanno la minima idea di come giri il mondo».
Quando Trump si è inventato che la Clinton ha vinto il voto popolare «solo perché 3 milioni di elettori illegali hanno votato per lei», la stampa gli ha chiesto di dimostrare le basi di questa sua affermazione. Ma lui, invece di portare le prove di quello che sosteneva, ha attaccato la stampa dicendo che sono «le persone più disoneste che esistano sul pianeta». Quando Trump si è inventato che Obama ha fatto mettere sotto controllo i telefoni della Trump Tower durante le elezioni, i giornalisti gli hanno chiesto di portare le prove per queste sue affermazioni. Ma lui, invece di portare le prove di quello che sosteneva, ha preferito attaccare giornalisti, definendoli dei «miserabili bugiardi, nemici del popolo americano». Avanti di questo passo, è chiaro che la capacità della stampa mainstream di chiedere conto a chiunque di ciò che afferma si stanno affievolendo rapidamente. Se non riescono a far ammettere ad un presidente che ha detto una falsità plateale sotto gli occhi di tutti, come potranno mai riuscire a farlo in situazioni molto più ambigue e fumose di quelle – clamorose – che hanno visto Trump come protagonista?
Negli anni ‘70 infatti, la percentuale di americani che considerava il mainstream media come “fonte affidabile di notizie” era intorno al 70%. Nel 2015, questa percentuale era calata al 40% circa. E nell’autunno del 2016, dopo che Trump aveva iniziato i suoi attacchi sistematici contro la “stampa bugiarda”, tale percentuale era scesa ancora, fino al 32%. E da un sondaggio effettuato dall’Emerson College in febbraio, è risultato che il 49% degli elettori americani ritiene oggi Trump “più veritiero” dei news media, contro il solo 39% che ha invece l’opinione contraria. La cosa paradossale è che, nel momento stesso in cui la stampa viene etichettata come “bugiarda”, la stampa stessa non ha più nessuna possibilità di dimostrare che ciò non è vero. E di certo non l’aiuta l’enorme camera di risonanza costituita oggi dai social media, che tendono sistematicamente a confondere e rendere ancora più fumose certe situazioni già poco chiare. Insomma, il bugiardo che ha deciso di difendere le proprie invenzioni dando del bugiardo agli altri, sta per fare un regalo enorme al mondo intero, senza volerlo: quello di togliere alla stampa mainstream – i veri bugiardi di professione – la autorevolezza e la credibilità di cui fino ad oggi ha goduto. Le conseguenze, da questo punto in poi, possono stare solo nell’immaginazione di chiunque.
(Massimo Mazzucco, “Trump sta facendo un enorme regalo al mondo, senza volerlo”, da “Luogo Comune” del 12 marzo 2017).
Trump infatti è talmente impegnato a portare avanti la battaglia per proteggere le bugie che lui stesso si inventa quotidianamente, che senza volerlo sta minando alle fondamenta il ruolo ultracentennale che ha avuto fino ad oggi la stampa di regime: quello di stabilire che cosa fosse “la verità”.
Noi per vent’anni abbiamo avuto Silvio Berlusconi, poi è arrivato il suo allievo Pinocchio Mussoloni che ha superato il maestro.
Ed ancora oggi continuano indisturbati a raccontare balle su balle.
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Media bugiardi: Trump fa un regalo al mondo, senza volerlo
Scritto il 24/3/17 • nella Categoria: idee Condividi
Molti si aspettavano che il presidente Trump avrebbe rivelato al mondo la verità sull’11 Settembre. Molti si aspettavano che il presidente Trump avrebbe ristabilito un equilibrio geopolitico mondiale, togliendo alla Russia l’odiosa caratterizzazione di “Stato canaglia”. Molti si aspettavano (e tuttora sperano) che il presidente Trump riveli al mondo la verità sulla correlazione tra vaccini e autismo. Mentre probabilmente nessuna di queste speranze si avvererà fino in fondo, c’è il rischio che Donald Trump porti a termine, senza nemmeno volerlo, la completa demolizione della credibilità dei media mainstream. Trump infatti è talmente impegnato a portare avanti la battaglia per proteggere le bugie che lui stesso si inventa quotidianamente, che senza volerlo sta minando alle fondamenta il ruolo ultracentennale che ha avuto fino ad oggi la stampa di regime: quello di stabilire che cosa fosse “la verità”. Ecco alcuni esempi di come opera Trump. Quando si è inventato che «la questione del global warming è una invenzione dei cinesi per danneggiare la nostra economia», i giornalisti gli hanno chiesto di portare qualche prova di questa sua affermazione, ma Trump ha preferito mandarli al diavolo dicendo che «i giornaslisti non hanno la minima idea di come giri il mondo».
Quando Trump si è inventato che la Clinton ha vinto il voto popolare «solo perché 3 milioni di elettori illegali hanno votato per lei», la stampa gli ha chiesto di dimostrare le basi di questa sua affermazione. Ma lui, invece di portare le prove di quello che sosteneva, ha attaccato la stampa dicendo che sono «le persone più disoneste che esistano sul pianeta». Quando Trump si è inventato che Obama ha fatto mettere sotto controllo i telefoni della Trump Tower durante le elezioni, i giornalisti gli hanno chiesto di portare le prove per queste sue affermazioni. Ma lui, invece di portare le prove di quello che sosteneva, ha preferito attaccare giornalisti, definendoli dei «miserabili bugiardi, nemici del popolo americano». Avanti di questo passo, è chiaro che la capacità della stampa mainstream di chiedere conto a chiunque di ciò che afferma si stanno affievolendo rapidamente. Se non riescono a far ammettere ad un presidente che ha detto una falsità plateale sotto gli occhi di tutti, come potranno mai riuscire a farlo in situazioni molto più ambigue e fumose di quelle – clamorose – che hanno visto Trump come protagonista?
Negli anni ‘70 infatti, la percentuale di americani che considerava il mainstream media come “fonte affidabile di notizie” era intorno al 70%. Nel 2015, questa percentuale era calata al 40% circa. E nell’autunno del 2016, dopo che Trump aveva iniziato i suoi attacchi sistematici contro la “stampa bugiarda”, tale percentuale era scesa ancora, fino al 32%. E da un sondaggio effettuato dall’Emerson College in febbraio, è risultato che il 49% degli elettori americani ritiene oggi Trump “più veritiero” dei news media, contro il solo 39% che ha invece l’opinione contraria. La cosa paradossale è che, nel momento stesso in cui la stampa viene etichettata come “bugiarda”, la stampa stessa non ha più nessuna possibilità di dimostrare che ciò non è vero. E di certo non l’aiuta l’enorme camera di risonanza costituita oggi dai social media, che tendono sistematicamente a confondere e rendere ancora più fumose certe situazioni già poco chiare. Insomma, il bugiardo che ha deciso di difendere le proprie invenzioni dando del bugiardo agli altri, sta per fare un regalo enorme al mondo intero, senza volerlo: quello di togliere alla stampa mainstream – i veri bugiardi di professione – la autorevolezza e la credibilità di cui fino ad oggi ha goduto. Le conseguenze, da questo punto in poi, possono stare solo nell’immaginazione di chiunque.
(Massimo Mazzucco, “Trump sta facendo un enorme regalo al mondo, senza volerlo”, da “Luogo Comune” del 12 marzo 2017).
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Re: Dove va l'America?
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Usa, Trump come Alessandro Magno? Non scherziamo!
di Roberto Marchesi | 25 marzo 2017
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I media di mezzo mondo, tramite giornalisti più attenti alla cronaca che alle analisi, hanno già cominciato, fin dal primo giorno di Donald Trump alla Casa Bianca, a descrivere come dovuti e credibili, nel rispetto delle promesse fatte in campagna elettorale, gli estemporanei e stravaganti ordini esecutivi che il presidente Trump ha immediatamente emesso per avviare il suo quadriennio di comandante in capo della prima potenza economica e militare del mondo.
E’ davvero incomprensibile come persino alcuni importanti professionisti dell’informazione e delle istituzioni si siano lasciati conquistare dalle facili promesse di un soggetto come Trump, che politico non è (e tantomeno politologo!), e nemmeno può essere Trump considerato un economista, salvo forse per quanto compete ai suoi interessi privati.
A uno che si appresta a guidare per almeno quattro anni la corazzata economica globale si dovrebbero richiedere almeno ampie doti di conoscenza e “mestiere” nella difficile arte della politica. La capacità, cioè, di vedere in anticipo quello che un qualunque rappresentante eletto dal popolo non vede o non sa gestire, e cioè l’arte di mediare i diversi interessi che si accavallano sul suo cammino di comandante in capo.
Non solo gli interessi evidenti quindi, quelli che emergono subito nello scontro tra mediatori, ma anche quelli sommersi, che tengono conto cioè degli interessi della nazione nel suo intero (immediato e futuro) e degli elettori (visti come popolo nel suo insieme, non come partito di provenienza).
Per muoversi con proprietà e saggezza è necessario quindi che il gran capo provvisorio di una grande democrazia (come quella americana) sappia vedere e seguire la “stella polare” che ogni statista veramente illuminato vede e segue scrupolosamente. La stella polare è l’insieme delle conoscenze, esperienze e capacità personali che un grande “navigatore” riesce a tenere insieme con capacità e intelligenza, per mantenere la rotta e l’equilibrio necessario non solo a condurre in qualche modo la nave alla meta ma anche a completare l’insieme degli obbiettivi che si erano prefissati.
Obama ci è riuscito? No, e nemmeno ci era riuscito Cristoforo Colombo, pur facendo una scoperta che ha cambiato la storia del mondo. Ma è normale, nessuno ci è mai riuscito perché la perfezione non è negli uomini. La Stella Polare infatti non è veramente raggiungibile, è solo il punto fermo che illumina la via ai naviganti.
E’ possibile vedere in Trump il requisito del buon navigante? Assolutamente NO.
In lui si possono trovare solo, tra gli elementi di successo di un grande capo, l’ardimento e la determinazione del grande condottiero. Lui non ha né le grandi capacità strategiche e normative di un Napoleone e nemmeno le grandi doti di comando e di crescita espansiva, mai sconfinate nella totale dittatura, di un Giulio Cesare. Somiglia di più, se vogliamo, ad Alessandro Magno.
La grande arte di Trump, in fondo, è solo quella di inventare illusioni per un popolo stanco delle promesse dei mediocri politici di professione. Ma per gli italiani è un’esperienza già passata, prima con Berlusconi e poi con Renzi. D’altronde lui non ha nemmeno bisogno di costruire un impero, dato che lo ha già trovato e scalato dal suo interno.
Ovvio quindi che non manterrà le sue promesse, salvo quelle che a lui sembreranno non costare niente.
Ma questa politica rivolta solo a cementare i propri interessi personali, invece che coltivare quelli della nazione (come è già successo negli ultimi vent’anni all’Italia), può produrre solo conflittualità e un sicuro declino sul piano dell’influenza globale.
E’ già successo alla superpotenza imperiale di Roma, quando arrivarono al vertice del potere imperatori inetti e ambiziosi che resero impossibile il controllo della supremazia globale, e alla “meteora” Macedone (Alessandro Magno) il cui implacabile imperio cadde in disgrazia subito dopo la sua morte. Accadrà inevitabilmente anche alla superpotenza America, e il degrado potrebbe essere già cominciato lo scorso mese di novembre con l’elezione di Trump.
Speriamo solo che il nuovo, storicamente banale, decisionista maximo, non usi, come il macedone, la spada per spezzare il nodo gordiano dei problemi insolubili, perché la moderna spada (una tremenda potenza atomica), di cui lui non è però unico gestore nel mondo, potrebbe determinare non solo la fine dell’impero americano, ma disastri inimmaginabili per il globo intero.
di Roberto Marchesi | 25 marzo 2017
Usa, Trump come Alessandro Magno? Non scherziamo!
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E’ davvero incomprensibile come persino alcuni importanti professionisti dell’informazione e delle istituzioni si siano lasciati conquistare dalle facili promesse di un soggetto come Trump, che politico non è (e tantomeno politologo!), e nemmeno può essere Trump considerato un economista, salvo forse per quanto compete ai suoi interessi privati.
A uno che si appresta a guidare per almeno quattro anni la corazzata economica globale si dovrebbero richiedere almeno ampie doti di conoscenza e “mestiere” nella difficile arte della politica. La capacità, cioè, di vedere in anticipo quello che un qualunque rappresentante eletto dal popolo non vede o non sa gestire, e cioè l’arte di mediare i diversi interessi che si accavallano sul suo cammino di comandante in capo.
Non solo gli interessi evidenti quindi, quelli che emergono subito nello scontro tra mediatori, ma anche quelli sommersi, che tengono conto cioè degli interessi della nazione nel suo intero (immediato e futuro) e degli elettori (visti come popolo nel suo insieme, non come partito di provenienza).
Per muoversi con proprietà e saggezza è necessario quindi che il gran capo provvisorio di una grande democrazia (come quella americana) sappia vedere e seguire la “stella polare” che ogni statista veramente illuminato vede e segue scrupolosamente. La stella polare è l’insieme delle conoscenze, esperienze e capacità personali che un grande “navigatore” riesce a tenere insieme con capacità e intelligenza, per mantenere la rotta e l’equilibrio necessario non solo a condurre in qualche modo la nave alla meta ma anche a completare l’insieme degli obbiettivi che si erano prefissati.
Obama ci è riuscito? No, e nemmeno ci era riuscito Cristoforo Colombo, pur facendo una scoperta che ha cambiato la storia del mondo. Ma è normale, nessuno ci è mai riuscito perché la perfezione non è negli uomini. La Stella Polare infatti non è veramente raggiungibile, è solo il punto fermo che illumina la via ai naviganti.
E’ possibile vedere in Trump il requisito del buon navigante? Assolutamente NO.
In lui si possono trovare solo, tra gli elementi di successo di un grande capo, l’ardimento e la determinazione del grande condottiero. Lui non ha né le grandi capacità strategiche e normative di un Napoleone e nemmeno le grandi doti di comando e di crescita espansiva, mai sconfinate nella totale dittatura, di un Giulio Cesare. Somiglia di più, se vogliamo, ad Alessandro Magno.
La grande arte di Trump, in fondo, è solo quella di inventare illusioni per un popolo stanco delle promesse dei mediocri politici di professione. Ma per gli italiani è un’esperienza già passata, prima con Berlusconi e poi con Renzi. D’altronde lui non ha nemmeno bisogno di costruire un impero, dato che lo ha già trovato e scalato dal suo interno.
Ovvio quindi che non manterrà le sue promesse, salvo quelle che a lui sembreranno non costare niente.
Ma questa politica rivolta solo a cementare i propri interessi personali, invece che coltivare quelli della nazione (come è già successo negli ultimi vent’anni all’Italia), può produrre solo conflittualità e un sicuro declino sul piano dell’influenza globale.
E’ già successo alla superpotenza imperiale di Roma, quando arrivarono al vertice del potere imperatori inetti e ambiziosi che resero impossibile il controllo della supremazia globale, e alla “meteora” Macedone (Alessandro Magno) il cui implacabile imperio cadde in disgrazia subito dopo la sua morte. Accadrà inevitabilmente anche alla superpotenza America, e il degrado potrebbe essere già cominciato lo scorso mese di novembre con l’elezione di Trump.
Speriamo solo che il nuovo, storicamente banale, decisionista maximo, non usi, come il macedone, la spada per spezzare il nodo gordiano dei problemi insolubili, perché la moderna spada (una tremenda potenza atomica), di cui lui non è però unico gestore nel mondo, potrebbe determinare non solo la fine dell’impero americano, ma disastri inimmaginabili per il globo intero.
di Roberto Marchesi | 25 marzo 2017
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Re: Dove va l'America?
Dall’Espresso del 26 marzo 2017.
Psyco TRUMP
Arrogante, rabbioso,
infantile. Uno di quei
potenti che vorrebbe
avere il mondo intero
sotto il collo
di IAN BURUMA
Negli anni Trenta, nazioni diverse dettero origine a fascisti diversi.
Hitler fu ossessionato dalla razza.
Mussolini dalla gloria imperiale di Roma, e il Generale Franco fu un militare cattolico reazionario.
Anche i demagoghi di oggi hanno stili diversi a seconda delle nazionalità.
Donald Trump assomiglia un po’ a Silvio Berlusconi: entrambi si sono arricchiti nel settore immobiliare.
Entrambi si sono sentiti perseguitati dalla stampa libera e dal sistema giudiziario indipendente.
Entrambi hanno avuto lo stesso modo volgare di relazionarsi alle donne.
Berlusconi, però, ha sempre mantenuto lo stile mellifluo del cantante italiano da nave da crociera, mentre Trump è più americano.
Appartiene a quella tipologia di intrallazzatori – un po’ lestofanti e un po’ finanziatori dello show business, un po’ predicatori evangelici e un po’ uomini di affari e malaffari – che compare di frequente nella storia americana.
CONTINUA
Psyco TRUMP
Arrogante, rabbioso,
infantile. Uno di quei
potenti che vorrebbe
avere il mondo intero
sotto il collo
di IAN BURUMA
Negli anni Trenta, nazioni diverse dettero origine a fascisti diversi.
Hitler fu ossessionato dalla razza.
Mussolini dalla gloria imperiale di Roma, e il Generale Franco fu un militare cattolico reazionario.
Anche i demagoghi di oggi hanno stili diversi a seconda delle nazionalità.
Donald Trump assomiglia un po’ a Silvio Berlusconi: entrambi si sono arricchiti nel settore immobiliare.
Entrambi si sono sentiti perseguitati dalla stampa libera e dal sistema giudiziario indipendente.
Entrambi hanno avuto lo stesso modo volgare di relazionarsi alle donne.
Berlusconi, però, ha sempre mantenuto lo stile mellifluo del cantante italiano da nave da crociera, mentre Trump è più americano.
Appartiene a quella tipologia di intrallazzatori – un po’ lestofanti e un po’ finanziatori dello show business, un po’ predicatori evangelici e un po’ uomini di affari e malaffari – che compare di frequente nella storia americana.
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Re: Dove va l'America?
IN UN PRECEDENTE ARTICOLO SUL TEMA, MARCELLO FOA AVEVA SCRITTO CHE QUESTO ERA IL SOGNO DI HITLER, E DI STALIN. LO HANNO REALIZZATO I"DEMOCRATICISSIMI" USA.
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Liberamente schiavi: spiati e felici di tenerci lo smartphone
Scritto il 04/4/17 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Tutti ricorderanno il clamore mediatico che costrinse, due anni fa, il governo americano a varare delle misure di controllo sulla cosiddetta “bulk data collection”. Era tuttavia chiaro, come paventavo in un precedente articolo, che le agenzie avrebbero trovato facilmente il modo di aggirare l’ostacolo e di continuare indisturbati a spiare tutto lo spiabile. È di ieri, infatti, la notizia di oltre 8.700 documenti della Cia messi in circolazione da parte di Wikileaks. Nonostante Snowden sia in esilio in Russia e Assange confinato in una stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, Wikileaks – pur con tutti i distinguo e i dubbi che lecitamente si possono avere su questa organizzazione – prosegue la sua opera di disvelamento della hybris dei poteri forti. Tali documenti aprono uno scenario terrificante sull’evoluzione dei sistemi di spionaggio informatico che le élite portano avanti da decenni – e questa è la cosa che più colpisce – nella sostanziale indifferenza dei popoli. Ci infuriamo se qualcuno ascolta una nostra telefonata o se un familiare legge un nostro messaggio su WhatsApp – magari a fin di bene – ma tolleriamo distrattamente se poteri disumani controllano – e questi certamente non a fin di bene – ogni nostro sussurro mentre sediamo davanti alla televisione o usiamo il nostro smartphone.
Come le rane non ci accorgiamo che l’acqua diventa sempre più calda, ma quando vorremo saltar fuori dalla pentola sarà troppo tardi… I quasi 9.000 files – 8.761 per la precisione – di Vault-7, così si chiama questo leak, sono, a detta di Wikileaks, solo la prima parte di un più ampio programma di rivelazioni che si riferiscono al periodo 2013-2016, e aprono uno scenario terrificante sul controllo globale da parte delle super-agenzie militari. Non solo controllo totale dei nostri smartphone ma monitoraggio delle nostre parole e attività tramite i nostri apparecchi televisivi, senza parlare del progetto di controllare persino le autovetture che utilizziamo per spostarci. Quello che emerge da questi leaks è non solo lo stato di avanzamento tecnologico che consente un controllo pressoché totale sulla vita della gente, ma anche la più assoluta indifferenza, da parte delle agenzie, nei confronti delle leggi che dovrebbero tutelare la privacy di ogni cittadino. Ma forse il concetto di privacy vale solo per i membri dell’élite, per gli altri vale invece il totem della “sicurezza nazionale”…
Vault-7 ci rivela altresì che la sede centrale del Grande Fratello di Langley, in Virginia, ha una succursale – totalmente illegale secondo il diritto internazionale – presso il consolato Usa di Francoforte, che ficca il naso negli affari di Europa, Medio Oriente e Africa. Ma non è tutto. Dai documenti risulta anche che software di hackeraggio come SwampMonkey o Shamoon – che consente di rubare i dati e anche di distruggere completamente l’hardware – permettono di controllare totalmente i nostri apparati elettronici, Pc, iPhone o Android. Last but not least, dai leaks emerge, infine, che alcuni di questi sistemi di controllo sarebbero stati sottratti alla Cia e potrebbero essere nelle mani di altre organizzazioni o altre nazioni. La Cia, interpellata, ha risposto – indovinate – con il solito No comment.
Pensate dunque a questo scenario – per ostacolare il quale Wikileaks ha deciso di rivelare i files – di ordinaria follia: sono seduto sul divano a guardare il telegiornale – ma l’apparecchio Tv potrebbe essere anche apparentemente spento – e pronuncio parole di critica verso il governo, magari parole che, attraverso i programmi di ricerca automatica di keywords, mi identificano come un “terrorista”. Continuo poi a dire o scrivere qualcosa di negativo sul governo o la polizia tramite il mio smartphone – che a mia insaputa è del tutto nelle mani degli spioni – e poi salgo in macchina per andare al lavoro o ad un appuntamento. Tramite la geolocalizzazione, che tutti attiviamo allegramente sul nostro iPhone per trovare la pizzeria più vicina, o attraverso un controllo remoto attivato a mia insaputa sulla mia automobile, quest’ultima non risponde più ai comandi e io finisco fuori strada schiantandomi da qualche parte.Fantascienza? No, realtà già pienamente possibile.
Il tutto giustificato dall’esigenza di combattere quel terrorismo che è stato creato ad arte per giustificare a sua volta il controllo globale. “A me non interessa essere spiato, tanto non ho niente da nascondere”. “Meglio essere spiato e tranquillo che rischiare un attentato”. “La sicurezza prima di tutto”. Chi la pensa così – e non sono pochi – sta collaborando al progetto di una umanità totalmente asservita ai poteri oscuri delle élite dominanti che, tramite la tecnologia e la realtà virtuale, da anni perseguono instancabilmente questo obiettivo. Far sì che l’uomo scelga liberamente la sua schiavitù. Il che deve portare, a mio avviso, a due conclusioni: prima di tutto che siamo corresponsabili di quanto ci accade e, in secondo luogo, che forse dobbiamo iniziare a ridimensionare la nostra dipendenza dal mondo della realtà virtuale per dedicare più tempo ed energie al mondo reale, quello che ci collega ai nostri simili in vincoli di sentimento e di libera azione.
(Piero Cammerinesi, “Liberamente schiavi”, da “Coscienze in Rete” del 9 marzo 2017).
LIBRE news
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Liberamente schiavi: spiati e felici di tenerci lo smartphone
Scritto il 04/4/17 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Tutti ricorderanno il clamore mediatico che costrinse, due anni fa, il governo americano a varare delle misure di controllo sulla cosiddetta “bulk data collection”. Era tuttavia chiaro, come paventavo in un precedente articolo, che le agenzie avrebbero trovato facilmente il modo di aggirare l’ostacolo e di continuare indisturbati a spiare tutto lo spiabile. È di ieri, infatti, la notizia di oltre 8.700 documenti della Cia messi in circolazione da parte di Wikileaks. Nonostante Snowden sia in esilio in Russia e Assange confinato in una stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, Wikileaks – pur con tutti i distinguo e i dubbi che lecitamente si possono avere su questa organizzazione – prosegue la sua opera di disvelamento della hybris dei poteri forti. Tali documenti aprono uno scenario terrificante sull’evoluzione dei sistemi di spionaggio informatico che le élite portano avanti da decenni – e questa è la cosa che più colpisce – nella sostanziale indifferenza dei popoli. Ci infuriamo se qualcuno ascolta una nostra telefonata o se un familiare legge un nostro messaggio su WhatsApp – magari a fin di bene – ma tolleriamo distrattamente se poteri disumani controllano – e questi certamente non a fin di bene – ogni nostro sussurro mentre sediamo davanti alla televisione o usiamo il nostro smartphone.
Come le rane non ci accorgiamo che l’acqua diventa sempre più calda, ma quando vorremo saltar fuori dalla pentola sarà troppo tardi… I quasi 9.000 files – 8.761 per la precisione – di Vault-7, così si chiama questo leak, sono, a detta di Wikileaks, solo la prima parte di un più ampio programma di rivelazioni che si riferiscono al periodo 2013-2016, e aprono uno scenario terrificante sul controllo globale da parte delle super-agenzie militari. Non solo controllo totale dei nostri smartphone ma monitoraggio delle nostre parole e attività tramite i nostri apparecchi televisivi, senza parlare del progetto di controllare persino le autovetture che utilizziamo per spostarci. Quello che emerge da questi leaks è non solo lo stato di avanzamento tecnologico che consente un controllo pressoché totale sulla vita della gente, ma anche la più assoluta indifferenza, da parte delle agenzie, nei confronti delle leggi che dovrebbero tutelare la privacy di ogni cittadino. Ma forse il concetto di privacy vale solo per i membri dell’élite, per gli altri vale invece il totem della “sicurezza nazionale”…
Vault-7 ci rivela altresì che la sede centrale del Grande Fratello di Langley, in Virginia, ha una succursale – totalmente illegale secondo il diritto internazionale – presso il consolato Usa di Francoforte, che ficca il naso negli affari di Europa, Medio Oriente e Africa. Ma non è tutto. Dai documenti risulta anche che software di hackeraggio come SwampMonkey o Shamoon – che consente di rubare i dati e anche di distruggere completamente l’hardware – permettono di controllare totalmente i nostri apparati elettronici, Pc, iPhone o Android. Last but not least, dai leaks emerge, infine, che alcuni di questi sistemi di controllo sarebbero stati sottratti alla Cia e potrebbero essere nelle mani di altre organizzazioni o altre nazioni. La Cia, interpellata, ha risposto – indovinate – con il solito No comment.
Pensate dunque a questo scenario – per ostacolare il quale Wikileaks ha deciso di rivelare i files – di ordinaria follia: sono seduto sul divano a guardare il telegiornale – ma l’apparecchio Tv potrebbe essere anche apparentemente spento – e pronuncio parole di critica verso il governo, magari parole che, attraverso i programmi di ricerca automatica di keywords, mi identificano come un “terrorista”. Continuo poi a dire o scrivere qualcosa di negativo sul governo o la polizia tramite il mio smartphone – che a mia insaputa è del tutto nelle mani degli spioni – e poi salgo in macchina per andare al lavoro o ad un appuntamento. Tramite la geolocalizzazione, che tutti attiviamo allegramente sul nostro iPhone per trovare la pizzeria più vicina, o attraverso un controllo remoto attivato a mia insaputa sulla mia automobile, quest’ultima non risponde più ai comandi e io finisco fuori strada schiantandomi da qualche parte.Fantascienza? No, realtà già pienamente possibile.
Il tutto giustificato dall’esigenza di combattere quel terrorismo che è stato creato ad arte per giustificare a sua volta il controllo globale. “A me non interessa essere spiato, tanto non ho niente da nascondere”. “Meglio essere spiato e tranquillo che rischiare un attentato”. “La sicurezza prima di tutto”. Chi la pensa così – e non sono pochi – sta collaborando al progetto di una umanità totalmente asservita ai poteri oscuri delle élite dominanti che, tramite la tecnologia e la realtà virtuale, da anni perseguono instancabilmente questo obiettivo. Far sì che l’uomo scelga liberamente la sua schiavitù. Il che deve portare, a mio avviso, a due conclusioni: prima di tutto che siamo corresponsabili di quanto ci accade e, in secondo luogo, che forse dobbiamo iniziare a ridimensionare la nostra dipendenza dal mondo della realtà virtuale per dedicare più tempo ed energie al mondo reale, quello che ci collega ai nostri simili in vincoli di sentimento e di libera azione.
(Piero Cammerinesi, “Liberamente schiavi”, da “Coscienze in Rete” del 9 marzo 2017).
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Re: Dove va l'America?
IL PUNTO DI VISTA DI:
LETTERA 43
Trump, Bannon fuori dal Nsc: la lotta per il potere alla Casa Bianca
1/50
Lettera 43
Andrea Prada Bianchi19 ore fa
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Chi comanda alla Casa Bianca? La risposta più ovvia sarebbe Donald Trump, ma la questione non è così semplice. Come succede in ogni amministrazione, le scelte prese dal vertice sono il risultato di un processo decisionale che comprende moltissimi soggetti, dal semplice analista agli uomini più vicini al leader. È normale che questa catena di comando non sia perfettamente nitida, ma con la 45esima presidenza Usa si è raggiunto un livello di caos senza precedenti.
BANNON FATTO FUORI DAL NSC. Mercoledì 5 aprile 2017 Steve Bannon è stato rimosso dal Consiglio per la sicurezza nazionale. La decisione è arrivata dopo le critiche sul ruolo assegnato al controverso stratega, da molti considerato l'eminenza grigia di Trump. La decisione è arrivata a sorpresa, anche se dalla nomina del generale McMaster a consigliere per la sicurezza nazionale si era intuito che la sua poltrona potesse essere in bilico.
POLITICA ESTERA INCOERENTE. Fin dall'insediamento del tycoon, all'interno della Casa Bianca si sono creati diversi nuclei di potere in contrasto tra loro. Una confusione che si è immediatamente rispecchiata nell'incoerenza dell'amministrazione su moltissime questioni, in primo luogo di politica estera.
La rivalità tra i principali consiglieri e ministri ha reso difficile per chiunque capire esattamente chi detta la linea e chi prende le decisioni. Uno scontro per il potere che si manifesta in tutta evidenza con la fuoriuscita di indiscrezioni, leak, notizie e smentite continue. La guerra in corso è di fondamentale importanza: le decisioni della più potente nazione del mondo (anche data l'alta influenzabilità del presidente) verranno prese dalla corrente interna alla Casa Bianca che prevarrà sulle altre.
DESTINATO A SEGUIRE FLYNN? Bannon, architetto della campagna elettorale del magnate, era stato messo nel National security council a gennaio e ora rischia di perdere parte della sua influenza. Il nuovo National security adviser aveva infatti sostituito Michael Flynn, dimessosi per lo scandalo della “Russian connection”, danneggiando così la cerchia di Bannon. Lo scontro si inserisce in un complesso contesto, in cui si possono tuttavia identificare tre grandi centri di potere concorrenti.
Lo zoccolo duro istituzionale: McMaster, Mattis e Tillerson
La cerchia “istituzionale” all'interno dell'amministrazione. La nomina di McMaster va a rafforzare questo per gli ultimi sei anni.
RUOLO DECISIVOgruppo, che fin dall'insediamento ha dovuto farsi in quattro per cercare di “normalizzare” lo status degli Usa agli occhi degli alleati (e dei nemici). Ancor più di Rex Tillerson (in quanto capo della diplomazia teoricamente più adatto), a farsi portabandiera della continuità delle tradizionali politiche americane è stato il segretario alla Difesa James Mattis. In viaggio in Europa e in Medio Oriente, il capo del Pentagono ha messo il punto su alcune questioni chiave su cui stavano cadendo molte certezze: in particolare, la riconferma del ruolo dell'America nella Nato e la volontà di contenere le ambizioni espansive di Mosca. Su entrambi i fronti, il nucleo guidato da Bannon ha opinioni opposte.
NOMINA CHIAVE. La nomina di McMaster da parte di Trump mostra che al momento è proprio questa cerchia a emergere. Il generale si è da sempre detto timoroso delle mire del Cremlino, e difficilmente permetterebbe grosse concessioni all'aggressività di Putin. Così come è probabile che cercherà di evitare qualsiasi manovra sotterranea atta a spingere il presidente verso un riavvicinamento incondizionato con Mosca.
© Fornito da Lettera 43 Herbert Mc Master
L'anima rivoluzionaria: Bannon e Kushner
I due consiglieri più ascoltati da Trump, grandi strateghi della campagna elettorale, rappresentano la vera anima “rivoluzionaria” dell'amministrazione, quella che ha promesso agli americani i grandi cambiamenti e che ora vuole realizzarli. Bannon è accusato dagli oppositori di Trump di nazionalismo, suprematismo, razzismo e nativismo. Jared Kushner, marito di Ivanka Trump (la figlia prediletta), è salito molto velocemente nelle grazie del tycoon ed è stato criticato per la sua posizione ambigua. Ufficialmente il suo ruolo è quello di senior advisor del presidente, ma ha funzioni e mansioni secondo tanti molto superiori al suo incarico.
ORGANISMI PARALLELI. A quanto riporta la rivista Foreign Policy, gli ambasciatori delle potenze straniere che si mettono in contatto con la Casa Bianca vengono reindirizzati a Kushner, e non allo staff del Nsc. La coppia è al comando di un nuovo organismo non ufficiale denominato Sig (Strategic initiative group), diventato secondo molti un “National security council ombra” che sviluppa in autonomia linee guide di politica estera e strategie a lungo termine. La distanza più grande con la prima corrente riguarda l'approccio verso Mosca, con cui Bannon e Kushner vorrebbero un riavvicinamento e un disgelo, anche a costo di concedere spazi di influenza al Cremlino.
Gli uomini dei repubblicani: Priebus, Spicer e Pence
Il capo dello Staff Reince Priebus, oltre a cercare di bilanciare tra le varie correnti (come il suo ruolo richiede), rappresenta anche un nucleo di potere a parte. A lui si possono accostare il portavoce di Trump Sean Spicer, chiamato per il ruolo dallo stesso Priebus, e il vice presidente Mike Pence, voluto come contrappeso all'interno dell'amministrazione dal Gop. Questa corrente rappresenta gli interessi nella Casa Bianca del partito repubblicano, il cui Comitato nazionale è stato diretto dallo stesso Priebus . Il capo dello Staff ha un ruolo fondamentale all'interno del processo decisionale dell'amministrazione (è lui a stabilire cosa va sulla scrivania del presidente) e maggiore è il caos all'interno della Casa Bianca, più il suo ruolo diventa rilevante. Per ora sembra che i contrasti maggiori siano arrivati con il nucleo di Bannon, temuto dai repubblicani per il suo carattere e le sue idee dirompenti. Per cercare di contenere l'ascendente della "eminenza grigia" su Trump, Priebus ha portato con sé un folto gruppo di assistenti dal Comitato nazionale repubblicano. Tutti, a quanto trapela, hanno un incarico in comune: controllare cosa passa sotto gli occhi del Commander in chief.
LETTERA 43
Trump, Bannon fuori dal Nsc: la lotta per il potere alla Casa Bianca
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Andrea Prada Bianchi19 ore fa
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Chi comanda alla Casa Bianca? La risposta più ovvia sarebbe Donald Trump, ma la questione non è così semplice. Come succede in ogni amministrazione, le scelte prese dal vertice sono il risultato di un processo decisionale che comprende moltissimi soggetti, dal semplice analista agli uomini più vicini al leader. È normale che questa catena di comando non sia perfettamente nitida, ma con la 45esima presidenza Usa si è raggiunto un livello di caos senza precedenti.
BANNON FATTO FUORI DAL NSC. Mercoledì 5 aprile 2017 Steve Bannon è stato rimosso dal Consiglio per la sicurezza nazionale. La decisione è arrivata dopo le critiche sul ruolo assegnato al controverso stratega, da molti considerato l'eminenza grigia di Trump. La decisione è arrivata a sorpresa, anche se dalla nomina del generale McMaster a consigliere per la sicurezza nazionale si era intuito che la sua poltrona potesse essere in bilico.
POLITICA ESTERA INCOERENTE. Fin dall'insediamento del tycoon, all'interno della Casa Bianca si sono creati diversi nuclei di potere in contrasto tra loro. Una confusione che si è immediatamente rispecchiata nell'incoerenza dell'amministrazione su moltissime questioni, in primo luogo di politica estera.
La rivalità tra i principali consiglieri e ministri ha reso difficile per chiunque capire esattamente chi detta la linea e chi prende le decisioni. Uno scontro per il potere che si manifesta in tutta evidenza con la fuoriuscita di indiscrezioni, leak, notizie e smentite continue. La guerra in corso è di fondamentale importanza: le decisioni della più potente nazione del mondo (anche data l'alta influenzabilità del presidente) verranno prese dalla corrente interna alla Casa Bianca che prevarrà sulle altre.
DESTINATO A SEGUIRE FLYNN? Bannon, architetto della campagna elettorale del magnate, era stato messo nel National security council a gennaio e ora rischia di perdere parte della sua influenza. Il nuovo National security adviser aveva infatti sostituito Michael Flynn, dimessosi per lo scandalo della “Russian connection”, danneggiando così la cerchia di Bannon. Lo scontro si inserisce in un complesso contesto, in cui si possono tuttavia identificare tre grandi centri di potere concorrenti.
Lo zoccolo duro istituzionale: McMaster, Mattis e Tillerson
La cerchia “istituzionale” all'interno dell'amministrazione. La nomina di McMaster va a rafforzare questo per gli ultimi sei anni.
RUOLO DECISIVOgruppo, che fin dall'insediamento ha dovuto farsi in quattro per cercare di “normalizzare” lo status degli Usa agli occhi degli alleati (e dei nemici). Ancor più di Rex Tillerson (in quanto capo della diplomazia teoricamente più adatto), a farsi portabandiera della continuità delle tradizionali politiche americane è stato il segretario alla Difesa James Mattis. In viaggio in Europa e in Medio Oriente, il capo del Pentagono ha messo il punto su alcune questioni chiave su cui stavano cadendo molte certezze: in particolare, la riconferma del ruolo dell'America nella Nato e la volontà di contenere le ambizioni espansive di Mosca. Su entrambi i fronti, il nucleo guidato da Bannon ha opinioni opposte.
NOMINA CHIAVE. La nomina di McMaster da parte di Trump mostra che al momento è proprio questa cerchia a emergere. Il generale si è da sempre detto timoroso delle mire del Cremlino, e difficilmente permetterebbe grosse concessioni all'aggressività di Putin. Così come è probabile che cercherà di evitare qualsiasi manovra sotterranea atta a spingere il presidente verso un riavvicinamento incondizionato con Mosca.
© Fornito da Lettera 43 Herbert Mc Master
L'anima rivoluzionaria: Bannon e Kushner
I due consiglieri più ascoltati da Trump, grandi strateghi della campagna elettorale, rappresentano la vera anima “rivoluzionaria” dell'amministrazione, quella che ha promesso agli americani i grandi cambiamenti e che ora vuole realizzarli. Bannon è accusato dagli oppositori di Trump di nazionalismo, suprematismo, razzismo e nativismo. Jared Kushner, marito di Ivanka Trump (la figlia prediletta), è salito molto velocemente nelle grazie del tycoon ed è stato criticato per la sua posizione ambigua. Ufficialmente il suo ruolo è quello di senior advisor del presidente, ma ha funzioni e mansioni secondo tanti molto superiori al suo incarico.
ORGANISMI PARALLELI. A quanto riporta la rivista Foreign Policy, gli ambasciatori delle potenze straniere che si mettono in contatto con la Casa Bianca vengono reindirizzati a Kushner, e non allo staff del Nsc. La coppia è al comando di un nuovo organismo non ufficiale denominato Sig (Strategic initiative group), diventato secondo molti un “National security council ombra” che sviluppa in autonomia linee guide di politica estera e strategie a lungo termine. La distanza più grande con la prima corrente riguarda l'approccio verso Mosca, con cui Bannon e Kushner vorrebbero un riavvicinamento e un disgelo, anche a costo di concedere spazi di influenza al Cremlino.
Gli uomini dei repubblicani: Priebus, Spicer e Pence
Il capo dello Staff Reince Priebus, oltre a cercare di bilanciare tra le varie correnti (come il suo ruolo richiede), rappresenta anche un nucleo di potere a parte. A lui si possono accostare il portavoce di Trump Sean Spicer, chiamato per il ruolo dallo stesso Priebus, e il vice presidente Mike Pence, voluto come contrappeso all'interno dell'amministrazione dal Gop. Questa corrente rappresenta gli interessi nella Casa Bianca del partito repubblicano, il cui Comitato nazionale è stato diretto dallo stesso Priebus . Il capo dello Staff ha un ruolo fondamentale all'interno del processo decisionale dell'amministrazione (è lui a stabilire cosa va sulla scrivania del presidente) e maggiore è il caos all'interno della Casa Bianca, più il suo ruolo diventa rilevante. Per ora sembra che i contrasti maggiori siano arrivati con il nucleo di Bannon, temuto dai repubblicani per il suo carattere e le sue idee dirompenti. Per cercare di contenere l'ascendente della "eminenza grigia" su Trump, Priebus ha portato con sé un folto gruppo di assistenti dal Comitato nazionale repubblicano. Tutti, a quanto trapela, hanno un incarico in comune: controllare cosa passa sotto gli occhi del Commander in chief.
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Re: Dove va l'America?
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Trump, cioè il caos: nemmeno Wall Street sa cosa voglia
Scritto il 07/4/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Sui media alternativi più rispettabili, come “Alternet”, esperti come Ian Frel descrivono Trump come «un disastro tossico multiforme, la cui presenza alla Casa Bianca è un danno alla psiche collettiva degli Stati Uniti d’America». Trump non gode di molte altre simpatie sui media, obiettivamente. Ok, questi sono i media, e lo sappiamo che mai ci si deve affidare a loro, anche se alternativi e rispettabili. Per capire cosa significa Donald Trump alla Casa Bianca l’unica via è leggere cosa dicono i Signori dei soldi, i Signori dei miliardi che girano per il mondo. Ecco cosa dicono di Donald Trump i Signori del Vero Potere (e coincide coi media di cui sopra, ops!): «Noi di Goldman Sachs e i nostri clienti, ci chiediamo cosa significa questo fenomeno Trump, cioè la sua retorica opposta alla realtà, e a cosa questo ci porta. Quello che stiamo cercando di capire è, attraverso la nebbia delle sue affermazioni, o ‘sparate’, cosa sia ottenibile o meno», afferma Michaeal Pease, capo di Gs Government Affairs. «Il problema per gli investitori europei e americani è capire cosa diavolo aspettarsi da Trump, visto che Trump non ha ancora dato segnali di nessun tipo».
Jp Morgan aggiunge in una nota agli investitori: «Ci aspettavamo un programma di de-regolamentazione, di riforma delle tasse, di ampliamento della spesa pubblica, ma poi Trump se n’è uscito con bordate contro gli scambi internazionali, contro l’immigrazione, e questo ha preoccupato gli investitori, e i mercati non hanno preso ’ste cose non molto bene. Crediamo che per la crescita degli americani tutto questo non sia proprio meraviglioso. I mercati non hanno preso bene la sua retorica sull’immigrazione, no, proprio no». Goldman Sachs aggiunge, per bocca di Alec Philips, capo del dipartimento analisi dell’economia Usa, che «l’amministrazione Trump è persa nelle nebbie, non ha ancora confermato neppure la metà dei suoi funzionari, sono lentissimi, lasciano gli investitori nell’incertezza, e questo a Goldman Sachs significa un colloquio estremamente difficile coi nostri clienti». Allora, non vi annoio con tutti i dettagli che vengono da Gs o da Jpm, ma ciò che va capito del presidente del mondo – perché presidente del mondo lo è da 60 anni l’uomo che siede alla Casa Bianca – è che nel caso di Trump siamo in presenza del… caos.
Trump è riuscito nell’impresa di alienare non solo i democratici, cosa scontata, ma anche le frange più estreme dell’estremissimo Partito Repubblicano, come il Tea-Party, cioè l’ultra-destra della destre Usa. Le sue promesse sui tagli alle tasse delle aziende sono giudicate da quelli che contano, cioè Goldman Sachs e Jp Morgan, come al meglio “fumose”; ha fallito, come sapete, nella riforma della sanità; non è amato per nulla neppure dal cuore del suo partito, cioè i repubblicani; e, come detto, neppure dagli estremisti di quel partito, ancora non ha fatto nulla che sia degno di nota o d’infamia! Il fatto è che Trump voleva ripudiare qualsiasi cosa avesse fatto quel (criminale sociale e internazionale di…) Obama, ma senza metterci gli stessi fondi. E questo lo ha affondato nel ridicolo. Goldman Sachs ci dice anche che tutta la fanfara sulla deregolamentazione promessa da Trump è solo… fanfara, perché ancora non ha piazzato nessuno che si rispetti a fare quel lavoro. E sui tagli alle tasse? Il consenso degli esperti di Goldman Sachs, Jp Morgan, e di Citi, è che Trump non ha la più pallida idea di come procedere. E allora?
Allora auguri. Trump è il caos, anche nei giudizi del Vero Potere. Il politically correct delle sinistre (sinistre per modo di dire) americane ha solo nutrito la disperazione dei populismi in Usa mentre nutriva l’1% degli americani a suon di miliardi, e ora abbiamo questo caos chiamato Trump. In Europa il Pd italiano, i socialisti francesi e i laburisti inglesi, cioè le sinistre falsarie e pro-finanza a tutto gas, ci consegneranno la stessa minestra, cioè i nostri locali Trump, siano essi chiamati Le Pen o Salvini. Ok, inutile dire, scrivere, o agitarsi. Accadrà, prima, o poi. Lo sappiamo bene: gli Usa sono il nostro modello comandato sempre 20 o 30 anni prima (io vi avevo avvisati).
(Paolo Barnard, “Il Trump dei media, il Trump dei padroni del mondo, e noi fessi”, dal blog di Barnard del 1° aprile 2014).
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Trump, cioè il caos: nemmeno Wall Street sa cosa voglia
Scritto il 07/4/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Sui media alternativi più rispettabili, come “Alternet”, esperti come Ian Frel descrivono Trump come «un disastro tossico multiforme, la cui presenza alla Casa Bianca è un danno alla psiche collettiva degli Stati Uniti d’America». Trump non gode di molte altre simpatie sui media, obiettivamente. Ok, questi sono i media, e lo sappiamo che mai ci si deve affidare a loro, anche se alternativi e rispettabili. Per capire cosa significa Donald Trump alla Casa Bianca l’unica via è leggere cosa dicono i Signori dei soldi, i Signori dei miliardi che girano per il mondo. Ecco cosa dicono di Donald Trump i Signori del Vero Potere (e coincide coi media di cui sopra, ops!): «Noi di Goldman Sachs e i nostri clienti, ci chiediamo cosa significa questo fenomeno Trump, cioè la sua retorica opposta alla realtà, e a cosa questo ci porta. Quello che stiamo cercando di capire è, attraverso la nebbia delle sue affermazioni, o ‘sparate’, cosa sia ottenibile o meno», afferma Michaeal Pease, capo di Gs Government Affairs. «Il problema per gli investitori europei e americani è capire cosa diavolo aspettarsi da Trump, visto che Trump non ha ancora dato segnali di nessun tipo».
Jp Morgan aggiunge in una nota agli investitori: «Ci aspettavamo un programma di de-regolamentazione, di riforma delle tasse, di ampliamento della spesa pubblica, ma poi Trump se n’è uscito con bordate contro gli scambi internazionali, contro l’immigrazione, e questo ha preoccupato gli investitori, e i mercati non hanno preso ’ste cose non molto bene. Crediamo che per la crescita degli americani tutto questo non sia proprio meraviglioso. I mercati non hanno preso bene la sua retorica sull’immigrazione, no, proprio no». Goldman Sachs aggiunge, per bocca di Alec Philips, capo del dipartimento analisi dell’economia Usa, che «l’amministrazione Trump è persa nelle nebbie, non ha ancora confermato neppure la metà dei suoi funzionari, sono lentissimi, lasciano gli investitori nell’incertezza, e questo a Goldman Sachs significa un colloquio estremamente difficile coi nostri clienti». Allora, non vi annoio con tutti i dettagli che vengono da Gs o da Jpm, ma ciò che va capito del presidente del mondo – perché presidente del mondo lo è da 60 anni l’uomo che siede alla Casa Bianca – è che nel caso di Trump siamo in presenza del… caos.
Trump è riuscito nell’impresa di alienare non solo i democratici, cosa scontata, ma anche le frange più estreme dell’estremissimo Partito Repubblicano, come il Tea-Party, cioè l’ultra-destra della destre Usa. Le sue promesse sui tagli alle tasse delle aziende sono giudicate da quelli che contano, cioè Goldman Sachs e Jp Morgan, come al meglio “fumose”; ha fallito, come sapete, nella riforma della sanità; non è amato per nulla neppure dal cuore del suo partito, cioè i repubblicani; e, come detto, neppure dagli estremisti di quel partito, ancora non ha fatto nulla che sia degno di nota o d’infamia! Il fatto è che Trump voleva ripudiare qualsiasi cosa avesse fatto quel (criminale sociale e internazionale di…) Obama, ma senza metterci gli stessi fondi. E questo lo ha affondato nel ridicolo. Goldman Sachs ci dice anche che tutta la fanfara sulla deregolamentazione promessa da Trump è solo… fanfara, perché ancora non ha piazzato nessuno che si rispetti a fare quel lavoro. E sui tagli alle tasse? Il consenso degli esperti di Goldman Sachs, Jp Morgan, e di Citi, è che Trump non ha la più pallida idea di come procedere. E allora?
Allora auguri. Trump è il caos, anche nei giudizi del Vero Potere. Il politically correct delle sinistre (sinistre per modo di dire) americane ha solo nutrito la disperazione dei populismi in Usa mentre nutriva l’1% degli americani a suon di miliardi, e ora abbiamo questo caos chiamato Trump. In Europa il Pd italiano, i socialisti francesi e i laburisti inglesi, cioè le sinistre falsarie e pro-finanza a tutto gas, ci consegneranno la stessa minestra, cioè i nostri locali Trump, siano essi chiamati Le Pen o Salvini. Ok, inutile dire, scrivere, o agitarsi. Accadrà, prima, o poi. Lo sappiamo bene: gli Usa sono il nostro modello comandato sempre 20 o 30 anni prima (io vi avevo avvisati).
(Paolo Barnard, “Il Trump dei media, il Trump dei padroni del mondo, e noi fessi”, dal blog di Barnard del 1° aprile 2014).
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