La crisi dell'Europa

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L’Olanda lancia una commissione d’inchiesta sull’euro


Scritto il 11/3/17 • nella Categoria: Recensioni Condividi




Nel bel mezzo di un’ondata montante di scetticismo sulla moneta unica, l’Olanda è in procinto di avviare un’inchiesta parlamentare sul suo futuro rapporto con l’euro. Secondo quanto riportato dai deputati dell’opposizione, i politici olandesi hanno votato all’unanimità per l’inchiesta, che esaminerà tutte le opzioni sull’euro, inclusa la possibilità di uscire dalla moneta unica e, in caso affermativo, con quali modalità. La decisione di commissionare l’indagine al Consiglio di Stato, organo di consulenza legale del governo olandese, riflette la crescente ondata di euro-scetticismo in Europa, dove i partiti populisti sperano di piazzarsi bene nelle elezioni di quest’anno, anche nei paesi centrali della zona euro, Francia e Germania. Con l’inchiesta si richiede al Consiglio di esaminare tutte le “opzioni politiche e istituzionali” per il futuro dell’euro, elencandone i vantaggi e gli svantaggi, senza escludere e anzi prevedendo anche l’uscita. Pieter Omtzigt, il deputato euroscettico del partito di opposizione dei Cristiano-Democratici che ha presentato la mozione parlamentare per l’indagine sull’euro, è una tra le sempre più numerose voci dei paesi creditori del nord che attaccano le politiche monetarie della Banca Centrale Europea.

L’inchiesta è stata sollecitata dalla preoccupazione per i tassi di interesse ultra-bassi che stanno danneggiando i risparmiatori olandesi, in particolare i pensionati. In una relazione dell’anno scorso al Parlamento olandese sul programma di allentamentoPieter Omtzigtquantitativo della Bce, Omtzigt ha stimato che la politica di acquisto titoli e di bassi tassi di interesse hanno causato ai fondi pensione olandesi una perdita effettiva di 100 miliardi di euro, grazie ai trasferimenti di ricchezza dalle nazioni risparmiatrici a quelle debitrici della zona euro. «Se necessario dobbiamo anche essere pronti ad andare alla Corte di Lussemburgo e citare in giudizio la Banca Centrale Europea», ha detto Omtzigt al “Telegraph”. «La relazione dovrebbe essere pronta nel giro di pochi mesi. Dovrebbe quindi portare ad un dibattito parlamentare, perché una cosa è chiara: la zona euro non è stata ancora messa a posto». La mossa potrebbe anche essere vista come un tentativo di rubare la scena dell’euroscetticismo a Geert Wilders, il candidato di estrema destra e arci-euroscettico in testa ai sondaggi, in vista delle elezioni parlamentari del mese prossimo.

Wilders, il cui Partito per la Libertà dopo le elezioni potrebbe diventare il maggior partito del Parlamento olandese, durante la sua campagna elettorale ha promesso un referendum sull’adesione all’euro – una mossa a cui si è opposto Mark Rutte, il primo ministro olandese, e gli altri partiti tradizionali. Anche se la maggior parte degli elettori olandesi attualmente sostiene che preferisce tenersi l’euro, ci sono crescenti preoccupazioni – riprese dai partiti populisti in Francia, Italia e Germania – sul fatto che la moneta unica stia causando pericolosi squilibri nell’economia europea. Nei paesi del sud, tra cui l’Italia e la Grecia, che è ancora in attesa di un accordo sulla prossima tranche dei fondi di salvataggio, l’euro è accusato di gonfiare bolle, peggiorare l’austerità e prolungare la disoccupazione. Ci si attende che Wilders guadagni molti voti, anche se non abbastanza per arrivare alla maggioranza assoluta o per guidare una coalizione, dopo che tutti i partiti tradizionali hanno escluso di formare un governo con lui. L’esito più probabile del voto del 15 marzo è quindi una nuova coalizione centrista che comprenderà alcuni partiti, come i Cristiano-Democratici di Omtzigt, che hanno espresso esplicitamente la loro opposizione all’attuale politica della Bce.

(Peter Foster, “L’Olanda lancia un’inchiesta parlamentare sull’euro”, dal “Telegraph” del 25 febbraio 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).
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Wall Street promuove Le Pen. Sondaggi: vincerà al 1° turno

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Marine Le Pen sembra ormai a un passo dall’Eliseo: secondo l’ultimo sondaggio Elabe, realizzato per la televisione francese “Bfm”, la leader del Front National potrebbe battere già al primo turno i suoi avversari, François Fillon ed Emmanuel Macron. «Ma, più che i sondaggi, a essere determinante nella partita delle presidenziali francesi è l’appoggio della finanza internazionale», scrive “Diario del Web”: «Ora a scommettere sulla vittoria di Marine Le Pen sono nientepopodimenoché le grandi banche d’affari», le prime a “fiutare il vento” del cambiamento che potrebbe scuotere l’Unione Europea dalle fondamenta. Non molto tempo fa, aggiunge il newsmagazine, tutte le banche francesi, marciando unite e compatte «si erano rifiutate energicamente di concedere prestiti al Front National, snobbando con la puzza sotto il naso l’invisa europarlamentare». E i media mainstream, a ruota, se la ridevano: «In mancanza di meglio – scrivevano – Marine ha dovuto farsi prestare 6 milioni di euro dalla “banca” di suo papà», Jean-Marie Le Pen, fondatore del Fn, che trent’anni fa, nel 1988, mise in piedi la Cotolec (che sta per “Cotisation Electorale”), una struttura finanziaria che raccoglie donazioni e presta il suo denaro al 5% di interesse.

La Cotolec, spiega “Diario del Web”, funziona come una piccola banca. Ed è il presidente in persona, papà Jean-Marie, a tenere i cordoni della borsa, scegliendo come impiegare il denaro della sua cassaforte. «Nulla di strano, dunque, che con i denari a disposizione abbia scelto di contribuire alla causa del suo partito e di sua figlia», anche se proprio da quest’ultima era stato espulso mesi or sono dal Front National per le sue intemperanze xenofobe e antisemite. Ora però tutto sta cambiando: i sondaggi iniziano a credere in Marine Le Pen come prossima inquilina dell’Eliseo. E così, la grande finanza già corre in soccorso della (possibile) vincitrice: «La grande novità che probabilmente muterà le sorti delle presidenziali francesi, infatti, riguarda l’incontro tra gli emissari di BlackRock, Ubs e Barclays e il team degli esperti economici del Front National che avrebbe avuto luogo proprio nei giorni scorsi», scrive il blog. Le grandi banche d’affari hanno allungato le loro antenne verso Marine per capire «le strategie d’investimento» del Fn in caso di vittoria. I nomi dei protagonisti non sono trapelati, ma “Bloomberg” riferisce che i banchieri sono rimasti «sorpresi dalla competenza del personale economico del Front National».

Si tratterebbe di persone che «capiscono i mercati, anche se da essi sono ideologicamente molto lontani». Non solo. Il giudizio di BlackRock, Ubs e Barclays alla fine sembra essere stato più che positivo nei confronti del team della Le Pen: «La macchina politica del partito è molto più sofisticata di quanto pensassimo. Le vedute del Fn sull’euro, anche se radicali, possono essere il riflesso della realtà, la direzione in cui l’euro deve sviluppare», riporta “Bloomberg”. A questo punto, forse, la “Frexit” è davvero più vicina, «soprattutto se la finanza internazionale e i mercati iniziano a credere seriamente che Marine Le Pen possa imporsi alle presidenziali su candidati filo-europeisti come Macron e Fillon». Dentro e fuori la Francia, aggiunge “Diario del Web”, la leader del Front National sta incrementando la sua credibilità raccogliendo voti e consenso, in particolar modo dal bacino della classe lavoratrice, rimasta orfana in tutto il continente europeo di benessere economico e sociale. Il programma elettorale di Marine, sulla carta, è rivoluzionario: fuori dall’euro, da Schengen e pure dalla Nato. In nome dell’amor di patria, e brandendo una frase di Victor Hugo: “Non abbiamo ancora finito di essere francesi”.
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Elezioni Olanda, affluenza all’82%. Exit poll – I liberali di Rutte vincono. I populisti di Wilders non sfondano


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I liberali di destra del premier sembrano avviati a vincere largamente le consultazioni sgonfiando l’incubo di un’ascesa dei populisti islamofobi e anti-Ue di Geert Wilders, fino a qualche settimana fa in testa ai sondaggi. Da registrare il balzo dei Verdi e il crollo dei Laburisti
di F. Q. | 15 marzo 2017

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Ci credeva Geert Wilders in una vittoria, anche perché in sondaggi davano i principali candidati molto vicini. Invece, stando ai primi exit pool, i liberali di destra Mark Rutte sembrano avviati a vincere largamente le elezioni in Olanda sgonfiando l’incubo di un’ascesa dei populisti islamofobi e anti-Ue, fino a qualche settimana fa in testa ai sondaggi.
L’affluenza, record, è stata dell’82%. Al risultato, che dimostra che la diga europea può tenere davanti allo tsunami del populismo nato dalla Brexit, rafforzato dall’elezione di Trump, sobillato da Putin e – nella sua versione più aggressiva – interpretato da Erdogan, si è arrivati con una campagna elettorale dominata dall’agenda di Wilders. Che solo tre mesi fa era stato condannato per incitamento all’odio per le parole pronunciate durante un discorso.

E Wilders ringrazia: “Rutte non mi ha fatto fuori”
Gli exit poll assegnano ai liberali di destra (Vvd) 31 seggi, mentre i populisti islamofobi e anti-Ue di Geert Wilders (Pvv) sono secondi con 19 seggi assieme ai democristiani (Cda) e ai liberali di sinistra D66. C’è anche stato un balzo da record per i Verdi del GroenLinks e il crollo dei laburisti della Pvda. I democristiani della cda ed i liberali-progressisti del D66 (tutti a 19), gli ecologisti arriverebbero a 16 come quinta forza, mentre il Pvda scenderebbe ad appena 9, ampiamente superato dai socialisti radicali (14). Pur perdendo 10 seggi rispetto alle elezioni del 2012 infatti, il Vvd di Rutte si aggiudica 31 dei 150 seggi in palio nella Camera Bassa degli Stati Generali d’Olanda (la denominazione ufficiale del Parlamento), l’unica a suffragio universale, mentre nel Senato siedono i rappresentanti delle assemblee provinciali. Al Pvv di Wilders vanno 19 seggi (+4 rispetto al 2012): è comunque il secondo partito, sempre secondo gli exit poll, assieme ai democristiani del Cda e ai liberali di sinistra del D66, che vantano un identico bottino di seggi.

Gli elettori “ci hanno dato ancora fiducia” esultano i responsabili della campagna elettorale del premier. E anche Wilders ringrazia: “Grazie agli elettori del Pvv! Abbiamo guadagnato seggi, il primo obiettivo è raggiunto. E Rutte non mi ha fatto fuori”. “Wilders non è stato in grado di vincere le elezioni in Olanda. Sono sollevato, ma dobbiamo – twitta il candidato cancelliere tedesco per i socialdemocratici (Spd) Martin Schulz – continuare a combattere per un’Europa aperta e libera”.


Il populista con la nonna indonesiana che vuole cancellare l’Ue
I populisti non hanno vinto, ma “comunque vada, il genio della lampada del populismo non potrà rientrare nella lanterna”, aveva avvertito il platinato leader del Pvv nazionalista davanti ai cameraman e ai fotografi di mezzo mondo, convocati per immortalare il suo voto alle 9 del mattino in una scuola della periferia occidentale dell’Aja. Stesso slogan lanciato da Nigel Farage dopo la Brexit. Il 53enne di Venlo, con nonna indonesiana che vuole cacciare “la feccia marocchina” dal paese (come detto un mese fa in apertura di campagna a Spijkenisse, cittadina satellite a ovest di Rotterdam) vive sotto scorta da oltre 10 anni. In una delle sue ultime dichiarazioni avevano preannunciato la sparizione di Euro e Ue, ma forse non è ancora arrivato il momento.

Per tentare l’assalto al governo ha presentato un programma di una sola pagina. “L’Olanda è la nostra terra”, il titolo di sapore trumpiano. Nei 12 punti: bando del Corano, chiusura delle moschee, chiusura delle frontiere, dei centri di asilo, uscita dalla Ue (quindi anche dall’euro), oltre a misure acchiappa-voti come la riduzione degli affitti e l’eliminazione degli eccessi della sanità pubblica. Ma proprio il primo mese del tycoon americano alla Casa Bianca (con cui si dice condivida finanziamenti da Israele e dalla destra ebraica americana) ha apparentemente gelato la maggioranza degli olandesi. Dato per primo partito nei sondaggi, nell’ultimo mese è stato rimontato e ampiamente superato dal Vvd del premier uscente.

L’amarezza del Labour: “Un graffio sulla nostra anima”
Ad uscire con le ossa rotte nello scontro tra il centrodestra europeista e il populismo di Wilders – che già nel 2012 aveva lanciato un sito anti immigrati – è stato comunque il Labour, il partito socialdemocratico del primo vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans e del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem che aveva fatto coalizione a due con Rutte nel governo uscente che ha risanato l’economia del paese. “Un colpo durissimo, un graffio sulla nostra anima” dice Sharon Dijksma, la leader della campagna laburista – È veramente troppo presto per dire qualcosa. Evidentemente non siamo stati capaci di convincere gli elettori con le nostre politiche sociali ed i nostri programmi”. Vincitori alternativi: i Verdi del GroenLink portati da Jesse Klaver, il trentenne ‘Trudeau d’Olanda, al record. E la sinistra premiata dagli islamici che hanno paura di essere cacciati. Il partito ecologista olandese accreditato di 16 seggi, secondo gli exit poll, avrebbe quadruplicato il suo risultato rispetto a cinque anni fa e soprattutto – con i laburisti del Pvda quasi annientati a soli 9 eletti e con i socialisti radicali dello Sp a 14 – il partito dei Verdi sarebbe così il primo partito della sinistra per la prima volta nella storia della politica ‘orange’.

Lo scontro diplomatico dell’Olanda con la Turchia ha favorito Rutte
A mettere il turbo alla rimonta del premier uscente, lo scontro con la Turchia nell’ultimo weekend di campagna. Rutte ha potuto vestire i panni del grande statista nella ferma ma misurata reazione alle furibonde accuse del presidente Recep Tayyip Erdogan che, dopo aver dato della ‘nazista’ alla Germania della Merkel, ha accusato l’Olanda di essere stata responsabile del massacro di Srebrenica (compiuto dal serbo Mladic, che aveva accerchiato i caschi blu olandesi, privi di armi pesanti). Già prima che cominciasse la fase finale della campagna elettorale, tutti i partiti principali hanno ‘sterilizzato’ Wilders, escludendo di poter fare coalizioni di governo col Pvv (che invece per i primi due anni dell’ultima legislatura aveva dato l’appoggio esterno a Rutte). Ora l’Europa tira un sospiro di sollievo. Rutte aveva definito il voto i quarti di finale della partita contro il populismo, prima della semifinale in Francia e della finale con la Germania. Il premier si riconferma candidato al terzo mandato, ma ha davanti mesi di trattative per formare una coalizione di governo
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De Benedetti: entro 5 anni l’Unione Europea sarà morta

Scritto il 16/3/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi




Per farsi un’idea dell’incertezza che aleggia sul destino dell’Unione Europea, basta leggere il “libro bianco” di Jean-Claude Juncker riguardo il futuro dell’Europa. Mercoledì questo documento del presidente della Commissione Europea è stato reso pubblico, e conteneva addirittura cinque possibili scenari per l’evoluzione dell’Ue da qui al 2025: “tirare avanti”, “nient’altro che il mercato unico”, “quelli che vogliono fare di più fanno di più”, “fare meno in maniera più efficiente” e “fare molto di più insieme”. La vaghezza e genericità del “libro bianco” è comprensibile. Mentre si avvicinano le elezioni in Olanda, Bulgaria, Francia, Germania e in Repubblica Ceca, non c’è praticamente nessun governo che abbia voglia di seguire le ambiziose iniziative di Juncker. Tuttavia, i governi si rendono conto che l’Europa sta creando rischi al mondo intero in una maniera che non si era più verificata dalla fine della guerra fredda negli anni 1989-91. Gli strateghi di politica estera a Berlino, Parigi e nelle altre capitali stanno rivedendo le loro posizioni a lungo condivise sull’inevitabilità dell’integrazione europea e la stabilità dell’alleanza Europa-Usa nell’ambito della sicurezza.

L’Europa “a più velocità”, che incoraggia alcuni paesi a integrarsi più velocemente di altri, è tornata di moda. Questa idea, attraente in special modo per alcune parti dell’Europa occidentale, ha ricevuto sostegno da Jean-Marc Ayrault e Sigmar Gabriel, i ministri degli esteri di Francia e Germania. Un’altra idea è di aumentare la collaborazione nella difesa, in modo che in questo campo l’Ue diventi per gli Stati Uniti un partner più credibile. Al di là di queste proposte relativamente prudenti, alcuni responsabili politici e analisti indipendenti stanno pensando l’impensabile. Un esempio è il report di MacroGeo, una società di consulenza presieduta da Carlo De Benedetti, un veterano della comunità imprenditoriale italiana. Il report “L’Europa al tempo di Trump e della Brexit: disintegrazione e riorganizzazione”, arriva a conclusioni coraggiose. Afferma che l’Ue nella sua forma attuale con ogni probabilità va incontro alla decomposizione, anche se dovessero vincere le elezioni di quest’anno politici pro-integrazione come Emmanuel Macron, il centrista indipendente francese, e Martin Schulz, il socialdemocratico tedesco.

«Per il ciclo elettorale 2021-22, l’Ue potrebbe entrare negli ultimi cinque anni della sua ‘reale’ esistenza», dice il report, che considera che le strutture legali formali dell’Unione con sede a Bruxelles potrebbero resistere più a lungo. Il report sostiene che, al di là di shock quali il voto britannico per l’uscita dall’Ue, i trend geopolitici di lungo termine stanno portando l’unione valutaria all’atrofia. Ai confini orientali e meridionali dell’Unione si affacciano molti problemi: l’immigrazione clandestina, Stati prossimi al fallimento, terrorismo, cambiamenti climatici e revisionismo russo. Nel frattempo, gli Stati Uniti si stanno lentamente disimpegnando dall’Europa per focalizzarsi sulla Cina e l’estremo oriente. La Germania non occuperà il posto degli Stati Uniti come potenza egemone di riferimento per l’Europa: non lascerà mai che l’eurozona diventi una “unione di trasferimenti fiscali” e, nonostante le speculazioni riguardo a un deterrente nucleare tedesco, il suo passato nel ventesimo secolo dice chiaramente che né la Germania né i suoi vicini vogliono che essa diventi la potenza militare dominante dell’Europa.

La disintegrazione dell’Ue scatenerebbe «i pericolosi demoni nazionalistici del passato europeo», come teme Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga? Gli autori del report di MacroGeo prevedono che non si avrà un’anarchica competizione tra gli Stati-nazione, bensì «l’affermazione di un nucleo centrale geoeconomico intorno alla Germania». Questo sarebbe formato dalla Germania e dai paesi che ne costituiscono la filiera industriale, cui si addice la cultura fiscale e monetaria tedesca. In maniera disarmante, gli autori suggeriscono che, «se l’Italia dovesse dividersi», l’Italia del Nord potrebbe unirsi al gruppo formato da Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e alcuni paesi scandinavi. Questa evoluzione presuppone la disgregazione dell’Eurozona a 19 paesi. I ministri delle finanze e i banchieri centrali europei ci ripetono che questo passo sarebbe devastante per le economie europee e per la stabilità finanziaria globale.

Tuttavia, questa prospettiva è in discussione, e non solo nei circoli del partito di estrema destra francese, il Front National, o nel partito anti-estabilishment italiano M5S. Mediobanca, una banca d’investimenti che una volta era l’emblema del capitalismo del nord Italia, a gennaio ha pubblicato un rapporto controverso in cui suggeriva che, in termini di debito pubblico, l’Italia non soffrirebbe particolarmente lasciando l’Eurozona. Il mese scorso il Parlamento olandese ha votato per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui pro e contro dell’appartenenza olandese all’Eurozona, una mossa che riflette la frustrazione nei confronti della politica di tassi ultra-bassi e del programma Qe della Banca Centrale Europea. Nel valutare il futuro dell’Europa, questi sviluppi vanno presi attentamente in considerazione – forse più attentamente del “libro bianco” di Juncker.

(Tony Barber, “L’Europa inizia a pensare l’impensabile, smantellare l’Eurozona”, dal “Financial Times” del 3 marzo 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).
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Re: La crisi dell'Europa

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L'Olanda frena Salvini e M5S ma il vero test è la Francia
La sfida tra populisti ed europeisti a Parigi e Berlino inciderà molto sugli equilibri della politica italiana

Adalberto Signore - Sab, 18/03/2017 - 11:26

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Quello che si è giocato mercoledì in Olanda è solo il primo dei tre set che di qui ai prossimi sei mesi vedranno confrontarsi in Europa populisti contro europeisti.

Dopo il voto di Amsterdam, infatti, i riflettori si sposteranno prima sulle presidenziali di Francia che si terranno il 23 aprile e il 7 maggio e infine sulle elezioni federali in Germania in programma il 24 settembre. Un trittico destinato ad avere conseguenze anche sulla politica di casa nostra, dove l'onda populista si è andata in questi anni ad ingrossare senza soluzione di continuità. Da un lato con i Cinque stelle, da un altro con la Lega di un Matteo Salvini che da tempo cerca di saldare un asse Oltralpe proprio con la leader del Front national Marine Le Pen.

Quel che succederà nei prossimi mesi in Europa, insomma, sarà il termometro di quel che potrebbe accadere in Italia quando, quasi certamente nei primi mesi del 2018, anche da noi si tornerà alle urne. La partita, infatti, più che essere tra destra e sinistra - o per meglio dire tra centrodestra e centrosinistra - potrebbe giocarsi proprio tra antieuropeisti da una parte e sostenitori dell'Europa dall'altra. Non è un caso che proprio ieri, all'indomani del voto olandese, ci sia stato chi ha deciso di lanciare una mobilitazione politica con lo slogan «Forza Europa». L'idea è del sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova e di Emma Bonino e l'intento dichiarato è proprio quello di opporsi alla «deriva dei neonazionalismi» e chissà che non sia un primo embrione verso un vero e proprio movimento da presentare alle prossime elezioni. È chiaro, infatti, che sarà proprio l'Ue il principale terreno di scontro della campagna elettorale. Di qui l'attenzione per quanto accade fuori dai nostri confini. Con l'Olanda che ha dato un primo segnale che va nella direzione opposta quanto accaduto prima con la Brexit e poi con l'elezione di Trump alla Casa Bianca. Il Pvv di Geert Wilders, infatti, ha sì guadagnato voti e seggi (da 15 è passato a 20 su 150), ma senza sfondare come avevano ipotizzato alcuni sondaggi. Certo, quello del premier uscente Mark Rutte - leader dei liberali del Vvd - è un successo fragile e probabilmente ci vorranno settimane prima di riuscire a formare un governo, ma il temuto sfondamento dell'ondata populista non c'è stato. Il vero appuntamento clou anche in chiave italiana, però, saranno le presidenziali francesi. Olanda e Germania, infatti, godono di una situazione economica favorevole e questo è possibile incida, mentre la Francia è più assimilabile a noi. Nonostante la frenata olandese, insomma, sarà quella la vera cartina di tornasole di come e quanto Cinque stelle e Lega potranno raccogliere il voto di protesta contro l'Europa. Con un corollario, visto che per quanto cerchi di «nazionalizzare» il Carroccio il vero e insormontabile limite di Salvini resta quello di essere percepito come un leader spendibile solo da Roma in su, mentre sotto il Tevere le sue percentuali restano da zero virgola. Detto questo, non c'è dubbio che comunque vada a finire nei prossimi mesi l'onda populista ha già nei fatti cambiato la politica. Per molti versi, infatti, la Le Pen ha già vinto. Perché - faceva notare ieri su Repubblica il politologo francese Marc Lazard - nella campagna elettorale c'è stata una forma di slittamento per cui il punto non è più sapere chi sarà il presidente più bravo, ma chi sarà il concorrente migliore contro la Le Pen al secondo turno. Che poi è per certi versi quello che sta accadendo in Italia, dove magari non alla luce del sole, ma in molti si interrogano su quale sia la migliore offerta politica per evitare che i Cinque stelle possano arrivare a Palazzo Chigi.
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Re: La crisi dell'Europa

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NON E' AVVENUTO COSI' PER CASO. QUALCUNO L'HA VOLUTO, PROGETTATO E REALIZZATO.





I cittadini greci sono più poveri
dei migranti che invadono il Paese


Giovanni Masini
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Re: La crisi dell'Europa

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Trattati di Roma, altro che compleanno! Questa Europa è da buttare


di Fabio Marcelli | 26 marzo 2017

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Questa Europa è alla frutta, anzi alla frutta marcia. L’inutile sceneggiata attuata nella Capitale nel sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, con grande dispendio di forze dell’ordine, non nasconde affatto lo stato di crisi oramai incancrenita che stanno vivendo le istituzioni europee e le politiche comuni. Questo è il risultato di un’impostazione sbagliata, adottata proprio sessant’anni fa a Roma e progressivamente peggiorata.

In primo luogo per il respiro preminentemente economicista e mercatocentrico dell’impresa. Tale difetto di costruzione, già presente nell’illusione di basare lo sviluppo dell’Europa comune su di un mercato in cui potessero circolare liberamente i fattori della produzione senza prendere in considerazione molti altri aspetti, è ulteriormente degenerato con i colpi di acceleratore al mercato comune fino all’adozione dell’euro in mancanza, che continua e si aggrava, di politiche comuni in settori fondamentali come quello fiscale e sociale. Anche l’ampliamento della base territoriale, portata gradualmente dagli originari sei agli attuali 28, ha aggravato gli squilibri esistenti, esaltando sempre di più il ruolo dominante della Germania avvantaggiata dalla valuta comune. Il governo di Berlino, con i suoi alleati del Nord Europa ha imposto politiche neoliberiste che oggi non hanno eguali. L’Europa è in prima fila nello smantellamento dello Stato sociale e nell’attacco ai diritti dei lavoratori, costretti alla precarietà.

Fin dal suo sorgere, peraltro, l’Europa aveva messo al centro della sua azione non già il principio di solidarietà, che dovrebbe caratterizzare ogni consesso umano, specie in presenza di differenze storiche e culturali notevoli come quelle tuttora esistenti al suo interno, ma bensì quello di competizione, riaffermato ad ogni piè sospinto dai Trattati e dalla normativa derivata. Che l’Europa abbia ben poco se non nulla a che fare con la solidarietà si vede del resto dal suo atteggiamento nei confronti dei migranti e richiedenti asilo, che muoiono come mosche nel Mediterraneo per colpa delle politiche di chiusura e respingimento che essa porta avanti, rifiutandosi di fare fronte alle sue responsabilità storiche.

Un altro enorme handicap dell’Europa è stata poi la sua perdurante sudditanza atlantica nei confronti degli Stati Uniti che continua anche oggi nonostante l’evidente declino della potenza imperiale. Le guerre d’aggressione in Afghanistan, Iraq, Libia, ecc. sono avvenute con la diretta partecipazione di Stati europei o comunque con la loro sostanziale complicità. Sono quindi notevoli le responsabilità europee nell’attuale stato di disordine mondiale e nella nascita e crescita del terrorismo che ha tratto origine proprio da queste guerre d’aggressione.


Basta del resto considerare i personaggi che sono oggi alla testa dell’Europa per rendersi conto della sua infima qualità. Parliamo di gente come Dijsselbloom, Juncker, Merkel, ecc. Perfino il buon Draghi, un neoliberista convinto e intransigente, che tuttavia aveva tentato la strada per certi, limitatissimi versi utile del quantitative easing, viene oggi isolato e le sue politiche stoppate da estremisti talebani della finanza come Schaeuble e la sua congrega. Non c’è quindi alcun futuro per questa Europa. Salvini, Le Pen, Farage, ecc., espressione delle muffe tossiche che si sviluppano dalla putrefazione dell’Europa, sono l’altra faccia dei personaggi appena menzionati e se ne distinguono solo per la volontà di tornare agli Stati nazionali che di per sé non risolverebbe certo i problemi, anzi rischierebbe di aggravarli.

La soluzione è nel rilancio del conflitto di classe e dei diritti dei lavoratori (segnalo l’importante convegno che i giuristi democratici organizzano a Firenze a metà maggio), nell’apertura di un dialogo euromediterraneo che capovolga le tradizionali logiche di sfruttamento coloniale attribuendo il giusto peso alle migrazioni come fattori di sviluppo e di integrazione economica e culturale (segnalo la riunione costitutiva della rete mediterranea dei giuristi democratici in programma per settembre a Napoli), la promozione del ruolo delle città, ribelli e partecipative, come polo alternativo al disfacimento europeo oggi generato dal concorso fra neoliberismo e populismo di destra, applicando anche in Europa il federalismo democratico ideato e attuato dai Kurdi nelle loro regioni. A partire dal basso va promossa la disobbedienza alle politiche neoliberiste che l’Europa vuole imporre, fino a coinvolgere in tale disobbedienza gli stessi governi nazionali, ma con scelte effettive e concrete, non la retorica dei Renzi o dei Salvini.

Questa Europa è un cadavere che cammina. Per salvare la giusta idea di una cooperazione e una solidarietà a livello continentale ci vuole una netta discontinuità e un nuovo inizio a partire dai contenuti appena indicati. La manifestazione di Eurostop, svoltasi ieri in modo pacifico nonostante il terrorismo di certi media, sembra una buona partenza. Come pure spunti interessanti sono presenti nel movimento Diem promosso da Varoufakis.

di Fabio Marcelli | 26 marzo 2017
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Re: La crisi dell'Europa

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Soldi, Soldi, Soldi, tanti soldi
Beati siano soldi
I beneamati soldi perche
Chi ha tanti soldi vive come un pascia
E a piedi caldi se ne sta
Non domandare da dove provengono

https://www.youtube.com/watch?v=G3GaBAQTGlM





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L’Ue imbroglia: ok al glifosato della Monsanto, cancerogeno

Scritto il 28/3/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi




L’Unione Europea aiuterà la Monsanto ad avvelenarci per altri 15 anni con un micidiale diserbante come il glifosato. E’ un rischio concreto, denunciato da “Sustainable Pulse”, network di scienziati e attivisti impegnati sul fronte dell’agricoltura sostenibile e contro gli Ogm, dopo la recente decisione dell’agenzia europea per le sostanze chimiche di non considerare il controverso diserbante come un probabile cancerogeno. Tutto ciò, rileva “Voci dall’Estero”, nonostante diversi studi indipendenti – esaminati anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – abbiano suggerito che si dovrebbe considerarlo tale, quantomeno in via precauzionale. «La Ue ha chiaramente calpestato la propria prassi per la sicurezza alimentare». In più, anche se «la cosa ovviamente non ci sorprende», per “Voci dall’Estero” c’è anche «il sospetto di conflitto di interessi nella commissione incaricata della valutazione», che potrebbe «spianare la strada a un rinnovo di 15 anni dell’autorizzazione».

Seguendo quanto già fatto dall’Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare – scrive “Sustainable Pulse” – anche l’Echa, l’agenzia per la chimica, «ha respinto l’evidenza scientifica che mostrava che il controverso diserbante chiamato glifosato potrebbe essere cancerogeno». Si tratta di uno dei diserbanti più diffusi al mondo, che la Iarc (l’agenzia per la ricerca sul cancro, una costola dell’Oms) aveva già classificato come “probabile” causa di tumori. Per arrivare alla sua conclusione, Bruxelles «ha rifiutato lampanti prove scientifiche raccolte in laboratorio sugli animali, ha ignorato gli avvertimenti lanciati da oltre 90 ricercatori indipendenti e si è basata su studi non pubblicati commissionati dagli stessi produttori di glifosato». La denuncia è firmata Greenpeace, la cui direttrice dell’unità europea per la politica alimentare, Franziska Achterberg, protesta: «L’agenzia si è spinta molto in là nel momento in cui ha rifiutato tutte le prove che il glifosato potrebbe causare il cancro: le ha nascoste come la polvere sotto il tappeto».

«I dati a disposizione – aggiunge la Achterberg – superano di gran lunga il limite legale necessario perché la Ue sia tenuta a bandire l’uso del glifosato, eppure l’agenzia ha preferito guardare dall’altra parte». Se pretende di rispettare le risultanze scientifiche, l’Unione Europea «non può distorcere l’evidenza dei fatti». E attenzione: «Se la Ue non opera come sarebbe tenuta a fare, le persone e l’ambiente continueranno a essere le cavie da laboratorio dell’industria chimica». Come per la valutazione dell’autorità europea per la sicurezza alimentare, anche il parere dell’agenzia per le sostanze chimiche si è basata su un dossier iniziale preparato dal Bfr, l’istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi, che però – a detta di Ong e scienziati indipendenti – contraddice l’evidenza scientifica, sottolinea “Sustainable Pulse”. E dire che l’Echa è responsabile della classificazione Ue sulla pericolosità della chimica: ogni sostanza va classificata come “presumibilmente” cancerogena quando almeno due studi indipendenti dimostrano che causa un aumento dell’incidenza del cancro in una stessa specie. La Iarc (Oms) ha provato la proliferazione di tumori in due studi sui topi sottoposti al glifosato, ma l’Ue li ha ignorati.

L’agenzia europea, aggiunge “Sustainable Pulse”, ha inoltre respinto altri indizi di una possibile cancerogenicità del glifosato negli esseri umani, nonché le prove sulla presenza, nel glifosato, di due caratteristiche associate alle sostanze cancerogene, tutte cose documentate dalla Iarc. «Secondo le leggi Ue sui pesticidi, le sostanze classificate come “presumibilmente” cancerogene non possono essere utilizzate, a meno che il rischio per l’uomo non sia “trascurabile”». Le organizzazioni ambientaliste e per la salute sollevano preoccupazioni per possibili conflitti d’interessi all’interno della commissione responsabile della valutazione del glifosato, e criticano la scelta dell’agenzia stessa di basarsi su studi non pubblicati condotti dalle stesse industrie chimiche. A febbraio, associazioni e cittadini hanno lanciato un appello alla Commissione Europea affinché proibisca l’uso del glifosato e riformi il processo Ue di approvazione dei pesticidi, stabilendo obiettivi vincolanti per la loro riduzione. Quasi mezzo milione di persone hanno già firmato la petizione.
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Re: La crisi dell'Europa

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Piovono Rane

di Alessandro Gilioli






31 mar

Il campo di gioco, la sinistra, le nazioni


Quello che sta succedendo in Francia, come spesso accade, è interessante e metaforico della contemporaneità. Cioè ci aiuta a capirla, almeno un po' (una roba lunghetta, chi ha fretta molli qui).

In Francia tra meno di un mese rischiano fortemente di essere esclusi dal ballottaggio entrambi i partiti che si sono alternati al potere in tutta la V Repubblica: socialisti e gollisti (repubblicani), insomma centrosinistra e centrodestra storici.

SI affronteranno invece, con ogni probabilità, la candidata del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, e il candidato indipendente che ha creato un anno fa un movimento liberal-liberista, Emmanuel Macron, in passato banchiere per Rothschild.

L'asse politico, la geometria politica, non è quindi più quella che contrappone destra e sinistra, almeno in senso classico. Da una parte c'è infatti una candidata nazionalista, identitaria, chiusurista e anti-internazionalista; dall'altro un candidato liberista, mercatista, mondialista, filo-global.

Insomma, due destre: una nazionalista e una internazionalista. Anche se nei programmi di entrambi, e nei loro Dna, ci sono anche elementi che secondo lo schema tradizionale appartengono alla sinistra: per Le Pen, salari minimi più alti, ribasso delle tariffe di gas ed elettricità, aumento delle pensioni minime, diritto alla pensione dopo quarant’anni di lavoro o sessant’anni di età, lotta alla finanza speculativa; per Macron no a muri e razzismi, no alla chiusura delle frontiere, pari opportunità e valorizzazione dei talenti, visione aperta al mondo.

* * *

La sinistra, come noto, nasce internazionalista. Nel secolo degli Stati nazionali al loro massimo, teorizza lo scontro non tra nazioni ma tra classi sociali. Classi traversali alle patrie.

Ciò nonostante, nel corso della seconda metà del secolo successivo tutte le conquiste della sinistra, e delle classi popolari che la sinistra allora rappresentava, sono avvenute attraverso gli stati nazionali. Cioè attraverso leggi di tutela dei ceti deboli e dei lavoratori che venivano approvate dagli Stati nazionali, e al loro interno implementate.

È così che sono nate, ad esempio, le socialdemocrazie scandinave.

Ma qualcosa di non così diverso è avvenuto altrove - dal Spd Germania al Labour inglese; e così è nato il welfare, così sono nate tutte le misure che hanno diminuito la forbice sociale in Europa. Anche in Italia, con lo Statuto dei Lavoratori e il Servizio sanitario nazionale pubblico e universale. E perfino prima del centrosinistra, con il piano casa Fanfani. Perché non serviva nemmeno sempre che le sinistre governassero: bastava la paura del comunismo, perché qualcosa venisse concesso.

A volte, non qualcosa ma molto: e così l'Europa è diventata l'area del mondo con il miglior welfare, con le le migliori misure sociali, con quella che veniva spesso chiamata "aristocrazia operaia".

* * *

Poi, a partire dagli anni '80, a poco a poco sono finiti gli Stati nazionali, o almeno le economie nazionali. I capitali hanno cominciato a viaggiare da un paese all'altro. I mercati sono diventati globali. Le aziende hanno iniziato a delocalizzare. Se lo Stato voleva tassarne gli utili per redistribuire, quelle andavano altrove.

Quindi i mercati - quelli ormai globali - sono diventati sempre più indispensabili per ogni spesa pubblica, avendo gli Stati debiti con loro. Dunque, premiando o punendo gli Stati-debitori, i mercati hanno preso a indirizzarne le scelte politiche. Uno Stato fa qualcosa di sgradito ai mercati? Con tre clic su un computer, questi fanno andare in default lo Stato in questione.

Per farla breve: quello che un secolo fa era un ideale di sinistra e popolare - l'internazionalismo, l'internazionalizzazione - si è scoperto essere diventato uno strumento per togliere diritti, benessere e welfare alle classi popolari stesse. Nessuna politica sociale poteva più essere fatta dai singoli stati nazionali. I poteri si erano spostati altrove.

Insomma, l'internazionalismo è diventato "di destra", in senso economico.

La reazione è stata quella che vediamo: il neonazionalismo. L'aspirazione dei ceti bassi e di quelli proletarizzati a tornare indietro: verso le frontiere, i muri, l'identità nazionale contro tutti gli altri, fuori. Una cosa che però è di destra di suo, da sempre: infatti si declina in Trump e Le Pen.

Si pensa - o ci si illude - che, rialzando muri, alla base della piramide sociale si possa riacquistare ciò che la globalizzazione dei mercati ha tolto.

Di qui la situazione attuale: ceti popolari che votano la destra nazionalista. Come negli Stati Uniti. Come in Francia.

Anche una parte della sinistra applica lo stesso ragionamento immediato, intuitivo: in quel campo di gioco lì - quello nazionale - vincevamo o almeno pareggiavamo, comunque qualcosa si otteneva; in questo campo di gioco qui - l'Europa, il mondo - si perde male. Meglio sarebbe quindi, secondo questa logica, tornare agli stati nazionali.

* * *

In realtà, come noto, quella in corso non è la prima globalizzazione. Gli storici concordano nell'individuare un fenomeno simile a quello attuale nel periodo tra il 1870 e il 1913: quello successivo alla scoperta e alla diffusione del telegrafo, che era l'Internet dell'Ottocento. Fu anche periodo di enormi migrazioni, dato che insieme alle merci si spostavano le persone: tra il 1820 e il 1913, si calcola che oltre sessanta milioni di persone siamo emigrate nelle Americhe. Solo nei vent’anni tra il 1880 e l’inizio del XX secolo, circa il 6 per cento della popolazione europea ha fatto rotta oltreoceano.

Poi ci fu il primo grande rinculo: la crisi del '29, la nascita dei fascismi, le due Guerre mondiali. Solo dopo, l'onda si invertì.

* * *

Oggi siamo al secondo rinculo, alla seconda reazione. Non ingiustificata, come si è visto. Ma non eterna. Come ogni rinculo, ogni Concilio di Trento, ogni Congresso di Vienna.

Le tecnologie ci portano comunque dall'altra parte: verso un mondo sempre più interconnesso, sempre più piccolo, in cui siamo sempre più vicini gli uni agli altri.

E si sa che tra struttura (la tecnologia) e sovrastruttura (la politica) sul lungo prevale la prima.

Sì, è cambiato il campo di gioco. In quello vecchio si poteva pareggiare e qualche volta anche vincere. In quello nuovo finora si è perso e basta.

Ma non è illudendoci di poter tornare al campo di gioco vecchio che si tornerà a vincere: lì, oggi, prevalgono i nazionale-fascisti. E il campo vecchio è, comunque, il campo vecchio. Che non torna indietro, se non per breve illusione. Se non per breve rinculo.

Bisogna quindi, invece, attrezzarsi per giocare e vincere nel campo nuovo.

Più faticoso eh? Certo. Ma l'unica strada possibile, realistica, e di respiro meno breve rispetto all'immediato.

L'unico modo per uscire dalla tenaglia di oggi: quella tra nazionalisti e liberisti, tra Juncker e Trump, tra Rothschild e Le Pen.

Tra due destre, insomma.
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Re: La crisi dell'Europa

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Misds, peggio di euro e Ttip: se passa, si piange davvero

Scritto il 30/3/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi




Ricordate il mio motto su Twitter? “La news che ti stravolge la vita è quella che scivola dietro l’ombra della news che tutti pensano che gli stravolgerà la vita”. Please welcome Misds. Paolo Barnard ve lo dice da anni. “Loro” non mollano mai, mai. Lavorano 24/24 e 7/7 coi migliori cervelli del mondo, e avevano capito da un pezzo che gli artigli dell’Eurozona si erano di molto consumati. Le mega corporations di tutti i settori – dalla finanza, all’alimentazione, ai servizi, alla Information Technology – si sono dette “The best days of the Euro-feasting are over. Must find a new way to fuck these States up again”, tradotto: i giorni migliori del banchetto-Euro sono finiti. Dobbiamo trovare un altro modo per fottere ’sti Stati, ancora. Il Ttip è per ora naufragato. L’uomo con le scarpe da 5.000 dollari a Wall Street, a Chicago, o a Francoforte ha per caso sollevato un sopracciglio? No. Lui lo sa benissimo che ciò che oggi i popoli rigettano ‘up-front’, gli rientra sempre dalla porta di servizio.

Ricordate la Costituzione della Ue? Rigettata nel 2005 da francesi e olandesi, rientra dalla porta di servizio nel 2007 col nome di Trattato di Lisbona. Ricordate l’infame Gats? Era il trattato per la privatizzazione di ogni servizio vitale del cittadino, dalla sanità fino all’anagrafe e all’acqua pubblica. Sepolto dai disumani sforzi di poche Ong internazionali, e di pochi media, è tornato ancor peggio col nome Tisa, oggi in vista di ratificazione. Nel Ttip la cosa in assoluto più micidiale era la clausola che permetteva alle multinazionali di trascinare interi Stati in tribunale se questi obiettavano per l’Interesse Pubblico alle loro condotte commerciali. Questa clausola si chiamava Isds (Investor-State-Dispute-Settlement, cioè Risoluzione di Controversia fra Investitore e Stato). Neppure l’infame Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) era mai arrivata a tanto. Al Wto solo uno Stato poteva trascinare in corte un altro Stato se riteneva che il secondo gli impedisse di far business. Io lo denunciai a Report (Rai3) nel 2000, sono 17 anni fa… La carne ormonata Usa tentava d’infettare l’Europa, ci fu una battaglia al Wto fra Washington e Roma, Londra, Parigi, Berlino ecc.

Nel Ttip la cosa era mille volte più micidiale con l’Isds. Coll’Isds del Ttip la multinazionale Usa delle carni avvelenate poteva direttamente far causa a Roma, Londra, Parigi, Berlino ecc per costringerli a cedere. Cioè, migliaia di multinazionali potevano costringere i singoli Stati a processi infiniti e costosi come una finanziaria nazionale, tutti contro l’interesse dei cittadini che quegli Stati ancora timidamente proteggono. Vi rendete conto cosa significa? Può il governo di Roma permettersi 40 avvocati internazionali a 3.000 dollari al giorno per avvocato per, mettiamo, 250 cause di altrettante multinazionali per 10 anni? Sono 10.000 avvocati a 3.000 dollari al giorno per almeno 10 anni in totale. Fate i conti. E poi se Roma perde, i risarcimenti alle multinazionali arrivano alle migliaia di miliardi di dollari. Fate i conti. Può permetterselo oggi, quando il governo fatica a trovare gli spiccioli per gli ospedali? E poi anche peggio. Perché con il sistema Isds i processi fra la multinazionale X e lo Stato Y sarebbero stati celebrati in tribunali off-shore, quasi tutti a Londra o New York, non a casa nostra.

Ok, Ttip bocciato, ma quest’infamia della disputa multinazionali contro Stati interi sta rientrando dalla porta di servizio. Non mollano mai, mai! Please, welcome Misds. Oggi abbiamo una bella cosmesi: la Commissione Ue di Jean-Claude Juncker ci riporta la sopraccitata infamia del Pubblico Interesse con un altro nome. Sono stati costretti a questa cosmesi dopo che 3,5 milioni di europei firmarono contro il Ttip affossandolo. I bastardi della Commissione di Bruxelles hanno riformulato il trucco, l’hanno prima fatto rientrare in un trattato minore fra Canada e Ue chiamato Ceta, ma ora per il piacere degli Usa ce lo ripresentano così: Misds è la stessa identica porcata che dormiva in pancia al Ttip e che ho descritto sopra, cioè l’Isds, ma con davanti la parolina Multilaterale (la M). Be’, semplifico: ora viene chiesto allo Stato X di firmare un accordo con lo Stato Y dove entrambi accettano la porcata Isds, mentre prima il Ttip applicava la porcata Isds in massa a tutti gli Stati della Ue senza consultarli. Ohhh che miglioramento! Voi pensate che i parlamentari di Roma, tutti preoccupati dalla battaglia Pd-M5S sui vitalizi, capiranno cosa la “sacra Ue” ci chiede di firmare fra Roma e Stato X, Y, o Z?

Ma peggio: la parola Multilaterale suggerisce che magari Roma abbia gli stessi diritti di far causa alle multinazionali. Macché. La proposta della Commissione lascia tutto come nell’Isds del bocciato Ttip. Saranno solo le mega corporation a poter trascinare in tribunali off-shore i singoli governi. Inoltre, ovvio no?, credete che le Ong o i sindacati possano far causa alle multinazionali se queste inquinano, causano malattie a migliaia di cittadini o fottono l’occupazione in intere Regioni? Ma va’… Zero. Cosa significa tribunali off-shore? Nella proposta della Commissione significa tribunali che giudicheranno la disputa multinazionale-Stato e che sono composti da giuristi internazionali di provata esperienza nel settore… investimenti. Ma dai? Questi sono al 100% gente come Giuliano Amato, che dal settore pubblico è finito a prendere parcelle milionarie dalla Deutsche Bank, poi è tornato al pubblico. Immaginate l’imparzialità dei giudici del Misds, giuristi che hanno militato anni al soldo della Volkswagen, della Monsanto, della Apple, della McDonald’s, della Unilever, della Dupont, della Thyssen, di Jp Morgan ecc., dove hanno preso milioni, poi tornano all’arbitrariato internazionale nel Misds. Auguri.

Non so se avete capito che razza di mostruosità, da far impallidire ogni porcata che denunciammo sull’Eurozona e Bruxelles, è questo Misds. Ci sono là fuori già 75.000, settantacinque mila, mega corporations che non aspettano altro che la ratificazione del “nuovo” Misds per devastare come mai nella storia il potere di un governo di legiferare nell’Interesse Pubblico. Già oggi, dopo 40 anni di neoliberismo, neomercantilismo, di economicidio Ue, e di tutte le sinistre a baciare le pile del Vero Potere, le leggi per l’Interesse Pubblico sono ridotte a una carcassa di pollo. I bastardi ci divoreranno anche quella col Misds. E sarà sangue come mai prima nella storia (fra 10 anni mi scriverete “Barnard sei un grande! Tu l’avevi detto dieci anni fa…”).

(Paolo Barnard, “Misds, scordate l’Eurozona: se passa questo si piange davvero”, dal blog di Barnard del 24 marzo 2017).
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